La grammatica “erede” della logica

Introduzione

Nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein non v’è alcuna forma di fenomenismo, la sussistenza del mondo coincide con le modalità di accesso a esso: la dicibilità non possiede chiaroscuri, non esiste una relazione cognitiva che si instauri fra i fatti e il linguaggio, poiché il linguaggio stesso è il reale come viene visto; per questo i limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo.1 Mentre la condizione per la quale con il linguaggio vengono espressi significati non può essere detta, non è riconducibile a un fatto: il linguaggio non esprime la propria espressività; quest’ultimo aspetto caratterizza un’effettiva interpretazione del Mistico, come quella canonica di Russell.2 Infine, l’indagine sulle possibilità linguistiche non ha un valore esclusivamente intellettuale, ma etico, spirituale; il chiarimento di problematiche è un’attività che deve essere svolta con “coraggio”, altrimenti diviene un mero esercizio intellettuale;3 ciò caratterizza la specificità della teoria del Mistico.

Nel periodo successivo al Tractatus, i nodi filosofici, spesso, rimangono i medesimi: la filosofia di Wittgenstein non si articola come un sistema. Tuttavia, vi sono delle idee portanti che egli non ha mai abbandonato, ad esempio la concezione per la quale noi abbiamo un linguaggio che coincide con il nostro mondo, con la nostra vita,4 e che non può esprimere se stesso; o la constatazione che non sempre si ha un rapporto “sereno” con le parole, utilizzando espressioni scorrette. La filosofia, non stupisce, con gli assunti sopradetti, consiste nel riportare il linguaggio al corretto utilizzo, nell’eliminazione delle false credenze, chiarificando i pensieri stessi. Riportiamo ora alcuni passaggi a prova di quanto sostenuto: «Qual è il tuo scopo in filosofia? – Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola»;5 ovvero, «Diffidare della grammatica è il primo requisito per filosofare».6 La filosofia consiste in una chiarificazione dei problemi, che non si autogenerano, ma vengono creati dal modo scorretto di impiegare il linguaggio; compito della filosofia è sciogliere tali nodi. «La filosofia è il tentativo di sbarazzarsi di un particolare tipo di enigma. Questo enigma “filosofico” è proprio dell’intelletto e non dell’istinto. Gli enigmi filosofici sono estranei alla nostra vita quotidiana. Essi sono enigmi del linguaggio».7 «Il linguaggio può essere paragonato ai comandi di una macchina. Questi ultimi hanno la medesima molteplicità dei movimenti che la macchina è in grado di effettuare. Non potete innestare quattro velocità in un ingranaggio a tre velocità. Tentare di farlo equivarrebbe a dire nonsensi nel linguaggio».8

In questo elaborato mostreremo che oltre alla concezione panlinguistica, nel periodo successivo al Tractatus, sono presenti riflessioni, in merito a ciò che il Filosofo designava come logica, che potremmo definire «impalcature grammaticali», che presiedono il linguaggio e la significazione; ovvero la logica, che nell’Opera di Wittgenstein ha avuto un ruolo eminente, si è mutata in grammatica. Col termine logica si intende sia l’insieme delle pratiche svincolate dall’agire e dall’emotività umana, non accidentali, non arbitrarie (ed è ciò che comunemente si delinea con questo termine), sia le strutture che costituiscono la sensatezza e il reale – quasi in un «idealismo linguistico». In esso, non viene postulato esclusivamente che il reale sia strutturato logicamente, vieppiù che il linguaggio, le sue strutture, devono essere logiche per significare e che questa significazione inerisca a un qualcosa: la realtà, il mondo. Reale che è sempre consegnato pregno di significati, senza che il dubbio possa essere fondante; questi e altri temi ritorneranno successivamente.

Siamo consci che durante l’esposizione saranno due i principali errori imputabili.

  1. Tratteremo la filosofia di Wittgenstein avendo un senso di continuità che si presta facilmente a critiche, ma che può essere giustificato con l’assunto che vede dei pilastri, delle concezioni, che non sono stati mai effettivamente abbandonati: il linguaggio coincide con la vita, l’importanza di strutture preesistenti la significazione, la critica a una visione scientista del mondo.
  2. Evocheremo temi, pur diversi e contrastanti, senza dargli una sufficiente spiegazione, ci giustifichiamo sostenendo che per ognuno di esse occorrerebbe una trattazione specifica; tuttavia ci accontenteremo se almeno i punti salienti, quelli che danno i titoli ai paragrafi, verranno giustificati nell’esposizione.

Premesse: pubblico e privato

Rievocando il cambiamento, dunque, non stupisce che la logica sia divenuta grammatica; si tratta sempre di un a priori, sì linguistico, ma che presenta le fattezze di un contesto pubblico, non più semplicemente di un’applicazione a sé – tale impostazione depotenzia l’assunto del linguaggio privato, che potrebbe trovare ampiamente spazio in una teoria che inerisca solo all’applicabilità del parlante. Si ricordi che il linguaggio privato, più precisamente il solipsismo, è uno dei temi principali del Tractatus.

Gli aspetti grammaticali, essendo pubblici, possono essere comunicati, insegnati, dubitati, condivisi, etc., peculiarità che vedremo a breve. Ora la teoria linguistica che predilige essenzialmente la grammatica risponde anche al quesito su come si possano comunicare gli stati d’animo, in primis come si possano riconoscere, ovvero situazioni non inerenti l’effettualità, che pur caratterizzano il vissuto umano; lapidariamente, tale teoria si definisce proprio in un contesto pubblico, caratterizzando il sensato.

Vediamo più profusamente come si accordino temi quali la significazione e gli stati d’animo. Affinché un’espressione sia considerata falsa, deve essere possibile distinguere il contenuto della proposizione dal criterio della sua veridicità, in maniera non dissimile da come è sostenuto nel Tractatus,9 ma nel caso che l’espressione si riferisca a uno stato d’animo tale distinzione non è possibile: il dubbio non è associabile al dolore, la proposizione “dubito di provare dolore” rimane priva di senso.

Può sembrare che l’identificazione di una sensazione come dolore manifesti uno stadio intermedio fra il verificarsi stesso del dolore e la sua espressione, tuttavia non esiste alcun processo intermedio: il riconoscere la sensazione è da identificare o con il patire tale sensazione, oppure con l’esprimerla. Lo stesso avviene per qualsiasi esperienza interiore: «è fuorviante sostenere che la parola “spavento” significa qualcosa che accompagna l’esperienza dell’esprimere spavento».10

Sostenere che vi sia un qualcos’altro significa semplicemente manifestare la decisione di usare un particolare modo di espressione,11 inadeguato in quanto nessun qualcos’altro accompagna l’esperienza: la stessa esperienza significa. Come non si possono separare le sensazioni che si provano quando si ascolta della musica dall’udirla, così non si può separare il riconoscere la sensazione dal partirla o dall’esprimerla.

Una sensazione, seppur personale, intima, deve essere non solo condivisibile, ma primariamente costituita in uno sfondo di significati: «ancorare il nome al colore, non si può infatti imparare a nominare una sensazione o una rappresentazione mentale stando all’interno della singola sensazione».12 Cerchiamo un primo appoggio valido ai nostri discorsi: veridicità, dubbio, significazione e stati d’animo presentano un intreccio peculiare che non può essere eluso formulando espressioni ad hoc per oltrepassare i limiti espressivi: può sembrare che se due espressioni hanno la medesima forma e una di esse significa in certo modo, anche l’altra deve significare nello stesso modo; ma l’espressione di un sentimento consiste in un gioco linguistico diverso dalla descrizione di un oggetto. Ovvero, i termini oggetto e sentimento sono grammaticalmente differenti. I paradossi inerenti alle esperienze private scompaiono se si comprende che il linguaggio non funziona e non può essere usato in un unico modo. Sussistono relazioni diverse, diversi usi del linguaggio: sussistono diversi giochi linguistici; questo vuol dire che il significato non coincide con l’essenza. In effetti, non ha molto valore parlare dell’essenza di un nome o del linguaggio; le essenze vengono sostituite dall’uso, dall’impiego della parola. Uso che coincide con il modo in cui essa è impiegata in uno specifico gioco linguistico.

Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? – Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giuochi linguistici sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. Qui la parola «giuoco linguistico» è destinata a mettere in evidenza il fatto che parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita.13

Il linguaggio non ha fondamento

I giochi linguistici costituiscono i limiti invalicabili all’interno dei quali le proposizioni esprimono un significato; non v’è un linguaggio in sé: «il linguaggio, dopotutto, sono le lingue».14 Non si comprende un linguaggio a sé, ma ponendosi in un determinato gioco linguistico esso può essere compreso. Ogni gioco funziona a suo modo. Non v’è un significato in sé che il linguaggio possa esprimere: non esistono significati indipendenti dall’attività linguistica; il significato stesso è definibile in termini di attività: «Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio».15

Non esiste un significato assoluto e indipendente della parola (dalla parola); il significato non è indipendente dalla prassi, dalla vita: lo stesso atto linguistico lo determina. Il linguaggio non esprime la propria espressività: nel Tractatus ciò viene giustificato in quanto il linguaggio può descrivere solo stati di cose (situazioni effettive), mentre nelle Ricerche è l’attività linguistica stessa che crea significati differenti secondo i giochi linguistici dove essi hanno valore; non esiste un’entità a sé definibile come significato, non c’è mistero.16 Sembra doveroso sottolineare che si tratta di un’attività pubblica e condivisa; ciò è massimamente importante per comprendere appieno la differenza rispetto alla prima opera del Filosofo.

In concomitanza del significato, per quanto concerne la validità delle espressioni, avendo come sfondo i giochi linguistici, si può sostenere che il tipo di gioco linguistico coincide con il tipo di certezza.17 La certezza e la validità di un’espressione significano il gioco linguistico in cui tale espressione esprime un significato e, fuori di questo, essa non ha alcun senso. Si pensi a dover tradurre linguaggi specifici fuori dal contesto in assenza di parlanti che condividano quel modo di intendere le parole, che impieghino le medesime in un dato modo.

Non esistono delle regole che governano il linguaggio o ne garantiscono la validità, esso non è nato grazie a dei ragionamenti.18 In ciò si scorge il carattere non razionale o razionale dei giochi linguistici. Essi non sono la risultante di un ragionamento o la negazione di alcune categorie, ma ciò che permette agli stessi concetti di avere un significato. È possibile quasi sostenere che solo entro i giochi linguistici i concetti di razionalità e irrazionalità esprimono un senso.

Non stupiranno le lapidarie considerazioni che seguono. Wittgenstein asserisce che un gioco linguistico è imprevedibile (non è possibile formulare previsioni sul suo mutamento), non fondato (non v’è un principio che lo fondi) e non razionale o non irrazionale19 (tali concetti sono inscritti in un gioco linguistico). I giochi linguistici esistono come esiste la vita.20 Il concetto di sapere è come accoppiato a quello di gioco linguistico:21 si ha conoscenza solo in riferimento a un gioco linguistico ed è la stessa vita a mostrare le conoscenze e le certezze,22 indicando in quali giochi linguistici mi esprimo – il gioco linguistico funge dunque da orizzonte. Essi si apprendono con la naturalezza con cui si apprende nella vita, e non sono delle semplici nozioni o concetti frutto di un ragionamento (gli stessi ragionamenti rientrano in un particolare gioco linguistico): «Il giuoco si può imparare anche in modo puramente pratico, senza bisogno d’imparare regole esplicite».23

Riassumendo, il contesto pubblico, l’agire, la grammatica delle parole, le intese fra i parlanti, costituiscono il mondo di significazione ben prima di ogni astrazione in quanto significare indica rendere pubblico: solo ciò che è pubblico può possedere un significato. Un’osservazione è doverosa: l’essere pubblici non rende i giochi linguistici agevolmente confrontabili, né «quantificabili»: non esiste un gioco linguistico che abbia più valore, che sia più importante: non v’è un iper-gioco linguistico. È insensato il confronto di forme di vita diverse: ogni civiltà, basandosi su diversi principi, appare folle agli occhi dell’altra;24 dunque non è possibile uscire dal proprio gioco linguistico. Non è possibile appellarsi a dei dati di fatto, in un confronto fra i giochi linguistici, per valorizzare i propri assunti: i giochi non indicano quali dati di fatto li rendano possibili.25 Di nuovo Wittgenstein critica qualsiasi pretesa di oggettivazione in senso assoluto, la stessa parola “oggettivo” significa già, nella prassi.

I giochi linguistici non sono spiegabili in quanto ogni spiegazione presuppone un orizzonte di significazione. Essi non sono di per sé né veri né falsi, ma coincidono con lo sfondo sul quale è possibile distinguere il vero dal falso. Tale sfondo non è un principio per la creazione di un sistema metafisico o per l’organizzazione del sapere, ma l’elemento vitale delle stesse argomentazioni. La certezza non poggia su di un qualche enunciato, ma sul gioco linguistico stesso, che ha come fondamento l’agire, la prassi, il fare.26 L’errore consiste nel tentare di trovare una spiegazione ai giochi linguistici, invece di concepirli come un fenomeno originario senza alcun fondamento se non la prassi.27 «Non si tratta di spiegare un giuoco linguistico per mezzo delle nostre esperienze, ma di prender atto di un giuoco linguistico».28 Inoltre, proseguendo rigorosamente con questi discorsi, l’espressione “dati di fatto” viene depotenziata.

Si deve rinunciare a una spiegazione non necessaria né sufficiente; non si è spettatori, in un gioco linguistico, ma partecipi: si agisce in una determinata maniera, si pensa in una determinata maniera, si viene educati in un certo modo. Inoltre, ogni volta che si agisce o si pensa, non si parte da zero, ma ci si riallaccia a determinati giochi linguistici, considerandoli come primari, originari. Il linguaggio non è considerabile come un oggetto: non è possibile separare il fluire del pensiero dalla vita stessa.

Con la verità di un enunciato si controlla la sua comprensione nel suo avere un senso in un determinato gioco linguistico – limite invalicabile ove le stesse espressioni significano.29 In aggiunta, se talune proposizioni sono considerate indubitabili, ciò non avviene una volta e per sempre: anche i giochi linguistici mutano, e lo fanno in maniera non prevedibile. Nel dubitare, a un certo punto, bisogna pur fermarsi; ciò che in un dato momento non viene messo in dubbio potrà essere oggetto di dubbio quando l’uso di ciò che è indubitabile muterà.

Che io sappia certe cose, si mostra dal modo in cui agisco e parlo delle medesime.30 La stessa correzione – il passo successivo al sapere – è il ricondurre l’espressione al suo impiego ordinario, al suo giusto impiego. La nostra conoscenza e la nostra certezza trovano il proprio fondamento nel gioco linguistico in cui sono valide. Tuttavia, ciò che è fondamento del nostro sapere non è materia di conoscenza.31

Fede e sapere

L’analisi delle modalità di certezza non può non chiarificare le modalità del dubbio. Assodato che la certezza e il sapere sono tali in un determinato gioco linguistico, si evince che anche il dubbio è legato inevitabilmente al gioco linguistico in cui è possibile. Il dubbio presuppone la certezza, ossia è possibile dubitare solo di qualcosa che è ritenuto certo. Inoltre non si può dubitare di tutto, poiché si dovrebbe sospettare anche del senso delle proprie parole, finendo per confutare se stessi.32 Si può dubitare solo dopo essersi fidati.33

Detto diversamente, si può dubitare solo ove è possibile il controllo, e il controllare necessita di un qualcosa di non dubitabile e di non controllabile a sua volta. Wittgenstein mostra che il sapere poggia sul credere, che il dubbio presuppone la certezza, che si apprende fidandoci di chi insegna e si apprende, senza ragionamenti, anzitutto ad agire in un determinato modo, emulando – si pensi al ruolo dei neuroni a specchio. Il fondamento del sapere è una credenza infondata, un agire infondato, che è lo sfondo ereditato da altri uomini. Il sapere non è autonomo, ma dipende da ciò che gli uomini credono. Sapere significa aver fede. «Quello che so: questo credo».34 Ove i ragionamenti, le giustificazioni e i dubbi si fermano perché non vi può essere un percorso infinito nell’analisi, si scorge la natura del gioco linguistico, lì sta una credenza infondata, una prassi infondata.

La natura stessa del gioco linguistico significa fiducia, prassi condivisa. La significazione risulta essere un «luogo pubblico»; il nesso grammatica-pubblico pare sempre più insolubile. Un quesito sorge spontaneo: cosa avviene del linguaggio privato? Una teoria linguistica fondata sulla prevalenza della grammatica, ammesse le precedenti considerazioni, non può non sfociare in asserzioni che neghino la possibilità di un linguaggio privato, dacché la certezza avviene in un contesto pubblico. La grammatica si modula a partire da una vita, per l’appunto, condivisa.

Esiste una diversa impostazione, rispetto alla problematica del significato, fra le Ricerche e il Tractatus, ove la validità semantica è garantita proprio da quel serrato isomorfismo che in altre sedi abbiamo analizzato.35 Non sfugge che Wittgenstein nelle Ricerche neghi la possibilità di teorizzare o scoprire una dottrina unilaterale del significato; il linguaggio non ha un fondamento a partire dal quale sia possibile attribuirgli una giustificazione univoca sul piano semantico, poiché esso consiste in un insieme di strumenti eterogenei con finalità diverse. Non stupisce, dunque, che si possa sostenere che il linguaggio non è una realtà esclusivamente logica.

Le regole, legate alla stabilità delle istituzioni umane, non sono specchi di un ordine a priori, ma convenzioni di cui è intessuto il linguaggio. Come in un gioco, le regole stabiliscono le modalità d’esecuzione. Il bambino, non a caso, chiede: «come si gioca a questo gioco?» Convenzioni che diventano convinzioni pretendendo uno statuto assolutista. Si deve comunque tener presente che non vi sono significati al di fuori del processo linguistico: l’espressione linguistica stessa significa.

Non esistono modelli, paradigmi perfetti, forme immutabili di cui il pensiero è l’espressione, ma vi sono paradigmi grammaticali che, una volta assunti, divengono vincolanti. I sistemi formali di Frege e di Russell, e in genere qualsiasi sistema che aspira al formalismo, alla validità a priori, si fondano sul presupposto della stabilità dei sistemi di notazione e dell’uniformità degli schemi percettivi umani; presupposti che, pur se indubitabili in quanto costituiscono il sapere, non sono dimostrabili come paradigmi eterni: possono essere ipotizzati cambiamenti che alterano la forma di vita e dunque i giochi linguistici a cui essa si riferisce.

Proseguendo, l’isomorfismo logico del Tractatus non è più il criterio di verificazione: non esiste un unico linguaggio valido, ma vi sono vari giochi linguistici. Non v’è più una forma logica unitaria che, fra la proposizione e ciò che viene espresso, permette l’espressività: è l’applicazione delle parole a dar loro il senso. Tradotto: la certezza non è garantita da un fondamento logico, da un isomorfismo razionale fra il linguaggio e il mondo, né da un fondamento psicologico (che richiederebbe a sua volta un fondamento). La certezza esiste nella sua stessa effettività, nella corretta assunzione di una proposizione all’interno di una pratica entro la quale trova validità, cioè in un particolare gioco linguistico. Anche le espressioni scientifiche hanno validità nell’essere in rapporto con tecniche e pratiche circoscritte dai giochi linguistici, dal loro impiego nel quale una teoria acquista integralmente significato.

Precisiamo che questo atteggiamento verso le problematiche inerenti la certezza non può considerarsi come una forma di scetticismo (come sostiene Moore)36 o di relativismo, ma consiste in un rinnovamento delle modalità della certezza. Non a caso Wittgenstein ha sempre ritenuto l’atteggiamento scettico inadeguato, pur se con modalità diverse: nel Tractatus sostiene che una proposizione ha un senso, oppure non ne ha alcuno. «Lo scetticismo è non inconfutabile, ma apertamente insensato, se vuol mettere in dubbio ove non si può domandare».37

Non v’è dubbio ove è possibile una domanda, ove è possibile una risposta, ove è possibile che qualcosa possa essere detto, non v’è un chiaroscuro nella conoscenza. Quanto detto risulta un altro tratto in comune fra le due opere maggiori di Wittgenstein. Per dar seguito a queste riflessioni, nel Della Certezza si sostiene che le certezze sono tali in un determinato gioco linguistico, ove risultano indubitabili; non stupisce che l’atteggiamento scettico sia erroneo e che il dubitare possa sussistere solo in determinate circostanze.38 Le certezze, le quali non risultano desunte da realtà fattuali, hanno il loro funzionamento nei giochi linguistici dove alcuni assunti sono considerati certi: in una collettività è sempre dato un orizzonte di significazione.

Dove si trae la certezza in generale e quella dell’evidenza scientifica? Dai fenomeni psichici? Che siano certi taluni assunti lo si desume nel vivere. Normalmente non ci chiediamo se siamo certi, se facciamo bene a credere a questo e a quello, perché il dubbio si insinua laddove c’è il sapere, e il sapere, a sua volta, dove si può dubitare. Si sa, se si ha fede.

Mondo, limiti e grammatica

Per quanto riguarda la teoria del mistico, essa smette di avere quel primato speculativo teoretico assunto nel Tractatus, perdendo persino la possibilità di venir concepita adeguatamente, in quanto non v’è una visione delimitata del mondo: la parola mondo non significa più quel porgersi oltre l’accidentalità dei fatti e non sussiste una visione privilegiata rispetto ad altre. Non si dà più una demarcazione linguistica netta fra il dicibile e il non dicibile, come avviene nel Tractatus, poiché il detto è tale trova significato in un gioco linguistico, in un orizzonte di significazione; mentre il non dicibile non è più un qualcosa che manifesta i limiti del linguaggio, in quanto risulta la constatazione dell’intraducibilità fra i giochi e l’impossibilità di fondarli: di spiegare con il linguaggio ciò che permette ad esso di significare. Gli errori linguistici si correggono non bollandoli come tali, ma comprendendo ciò che interrompe quel fluire tra il linguaggio e la vita.

Non v’è un ente a fondamento della semantica: non v’è un mondo che viene presupposto come esistente per garantire la significazione alle proposizioni; le stesse proposizioni significano grazie a un fare, a un applicare prassi linguistiche. I giochi linguistici risultano non indagabili; non poiché uno strumento superiore di indagine sia introvabile oppure di difficile attuazione, ma in quanto ogni indagine, ogni spiegazione presuppone il significare e tale significare esiste solo in un orizzonte linguistico. Se essi fossero indagabili esisterebbe un altro orizzonte di significazione che permetterebbe l’indagine e così avverrebbe all’infinito. In sostanza vi sarebbe una reinterpretazione della teoria dei tipi di Russell.

Concludiamo dicendo che vi è sempre in Wittgenstein un atteggiamento delimitativo rispetto alle possibilità del significato, ma che le ragioni di ciò nelle Ricerche sono diverse da quelle del Tractatus e portano a conseguenze inconciliabili. Il linguaggio appare ora parte integrante dell’a priori sociale che determina l’agire, il modo di vivere, la nostra stessa visione delle cose, le nostre abitudini. Il gioco linguistico non trae fondamento da un atto riflessivo, ma la stessa riflessione è parte del gioco linguistico. «Comprendere una proposizione significa comprendere un linguaggio».39

La comprensione di una proposizione non viene garantita a priori, come avviene nel Tractatus, da un isomorfismo tra il linguaggio e il mondo. Le regole non manifestano un ordine logico, né sono il risultato di un’analisi empirica, in quanto consistono in degli assunti grammaticali che l’agire ha reso vincolanti. Non esiste alcun metodo di proiezione per la significazione. Il linguaggio – ormai dovrebbe essere assodato – è un evento pubblico, caratterizzato dall’essere una pratica umana condivisa.

Una tematica che spesso caratterizza il Wittgenstein successivo al Tractatus, o almeno di cui si è occupata la critica secondaria, è la questione delle regole (complementari alla problematica del linguaggio privato). Una regola ha valore in un orizzonte linguistico, non vi sono regole private: le regole, come la significazione, appartengono a un sistema espressivo; derivano da una consuetudine pubblica.

Anche le espressioni di speranza, di dolore e di altri stati d’animo, che risultano così intime, private, esprimono un significato in un contesto linguistico: può sperare «solo colui che è padrone dell’impiego di un linguaggio. Cioè, i fenomeni dello sperare sono modificazioni di questa complicata forma di vita».40 Per queste ragioni, è insensato attribuire specifici stati d’animo a esseri sprovvisti di un linguaggio, che appartiene a un contesto pubblico. «Un concetto che si riferisca a un carattere della scrittura umana, non può essere applicato a esseri che non posseggano la scrittura».41

In tutto questo dibattito, cosa rimane della premessa e del tema dell’articolo, ovvero della grammatica? La comprensione del concetto di gioco linguistico è fondamentale, a nostro avviso, per la comprensione degli errori grammaticali; il termine grammaticale non deve essere frainteso con un’operazione di tipo morfologico, ma come il tentativo di comprendere l’adeguato utilizzo del linguaggio evitando, pertanto, suoi erronei usi. Comprendere la grammatica delle parole, in qualche modo, significa filosofare, ovvero non cadere in false problematiche. In questo ambito si colloca la critica di Wittgenstein alla definizione ostensiva, che si riallaccia alla sua generale critica alla genesi dei falsi quesiti. Inoltre, gli stati d’animo sono una chiara esemplificazione di come si attui la significazione. I nessi tra significazione, prassi, contesto pubblico diventano in quest’ottica inscindibili.

Nel Libro blu Wittgenstein sostiene che si è soliti ipotizzare dietro l’atto della scelta fra alcuni oggetti l’esistenza dell’interpretazione delle parole che li designano. Quando è dato l’ordine di prendere un determinato oggetto ed esso viene preso, si ipotizza che nella mente, oltre la scelta dell’oggetto, vi è stata anche l’interpretazione della parola che lo designa. Il significato di un sentimento non accompagna la sua espressione; in quanto non v’è un qualcosa che accompagni le esperienze interne, in egual modo dietro alla comprensione di una parola, alla scelta di diversi enti, non v’è un atto interpretativo, una definizione ostensiva.

Un’altra importante riflessione presente nel Libro blu, attinente ai nostri discorsi, è la costatazione dell’impossibilità dell’esistenza di una legge coerente e univoca che determina il significato di una parola. Quando nella mente si insinua quest’ipotetica legge si manifesta il disagio mentale che porta inesorabilmente alla formulazione di domande filosofiche che fraintendono le molteplici grammatiche, nascoste dietro agli stessi termini. In differenti giochi linguistici la medesima parola può assumere diversi significati, intraducibili fra loro. È il caso della domanda sul tempo ove inavvertitamente trasferiamo la grammatica di misurazione di una lunghezza estensiva al concetto di misurazione temporale.42

Continuando la perlustrazione delle opere successive al Tractatus, pur se la loro composizione, organizzazione e pubblicazione è stata oggetto di discussione da parte della critica secondaria, dopo aver interrogato Della Certezza e il Libro Blu, proponiamo, ovviamente solo di sfuggita, considerazioni sull’altra opera fondamentale di Wittgenstein: Le Ricerche. Nelle Ricerche l’autore ristabilisce la demarcazione fra problemi di natura empirica e problemi logico-filosofici.43 I primi possono essere risolti adeguatamente dalle indagini scientifiche, grazie a metodologie appropriate; i secondi non consistono propriamente in interrogativi (risolvibili), non nascono da un interesse per fatti naturali: essi riguardano il tentativo profondo di trovare il significato universale, il fondamento universale, senza tener conto dei contenuti del mondo, della realtà stessa.44 Per mezzo della logica non si vuole trovare qualcosa di nuovo, una nuova conoscenza fattuale, ma vedere qualcosa che è già di fronte agli occhi, qualcosa che tuttavia non possiamo comprendere appieno.45 La logica appare per questo sublime.46

Sembra, infatti, che ad essa competa una particolare profondità, un significato universale. Essa starebbe – così sembrava – a fondamento di tutte le scienze, perché la ricerca logica indaga l’essenza di tutte le cose. Vuol vedere le cose nella loro ragion d’essere e non è tenuta ad affliggersi con i particolari di ciò che effettivamente accade. Non nasce da un interesse per i fatti naturali, né da un bisogno di cogliere nessi causali, bensì dallo sforzo di comprendere il fondamento (o l’essenza) di tutto ciò che è empirico. Ma non nel senso che per far ciò dobbiamo andare alla caccia di nuovi fatti: essenziale alla nostra ricerca è piuttosto il fatto che con essa non vogliamo apprendere nulla di nuovo. Vogliamo comprendere qualcosa che sta già davanti ai nostri occhi. Perché proprio questo ci sembra di non comprendere.47

Si è parlato di logica, eppure con le nuove considerazioni linguistiche, di cui abbiamo accennato la natura, non sarebbe stato lo stesso se avessimo parlato di grammatica? Wittgenstein nelle Ricerche sostiene che le problematiche temporali non sono di natura scientifica. Egli, citando il famoso interrogativo di Agostino in merito al tempo,48 si chiede quale significato abbia porsi il problema in questa maniera; la particolarità di tale metodologia di indagine è la constatazione che in essa non viene evocata una conoscenza empirica, ma un qualcosa che si deve richiamare alla mente, qualcosa che è di fronte a noi quando non ne siamo coscienti; che tuttavia, mentre diviene oggetto di analisi, sfugge inevitabilmente.49 Ciò che si sa quando nessuno ce lo chiede, ma non si sa più quando dobbiamo spiegarlo, è qualcosa che si deve richiamare alla mente.50

È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni. La nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni ma, si potrebbe dire, alla 'possibilità' dei fenomeni. Richiamiamo alla mente, cioè, il tipo di enunciati che facciamo intorno ai fenomeni. Pertanto anche Agostino richiama alla memoria diversi enunciati che si fanno intorno alla durata degli eventi, al loro passato, presente o futuro.51

In una perlustrazione generale degli scritti di Wittgenstein è possibile constatare che la formulazione tautologica delle osservazioni logiche viene in parte riformulata nella concezione dei chiarimenti grammaticali, in un periodo della riflessione speculativa successivo al Tractatus. Wittgenstein definisce grammaticali gli enunciati che danno forma al linguaggio, che modellano il modo di vedere, pensare e agire: egli non ha mai abbandonato l’idea che il linguaggio e il mondo siano inscindibili e che in qualche modo coincidano. In questo senso la grammatica non è misurabile, ma è il criterio per la misurazione.

La differenza, di cui avevamo brevemente accennato, che sussiste fra analisi concettuali (grammaticali) e ricerche empiriche, campo di indagine scientifico, non è chiara a chi si occupa di metafisica.52 Le sue problematiche possono apparire questioni fattuali, benché i suoi problemi siano di natura grammaticale.53

Analizzando il concetto di oggetto, ad esempio, si può constatare che l’espressione “gli oggetti non spariscono da soli” è un enunciato grammaticale, non un’asserzione empirica. Gli enunciati grammaticali fissano le modalità delle indagini empiriche: il concetto che gli oggetti non spariscono da soli è parte integrante del concetto di oggetto. Pertanto si rivela un errore considerare un chiarimento grammaticale alla stregua di una scoperta fattuale; da tale fraintendimento nascono le «confusioni metafisiche». Si può persino sostenere che su talune di queste asserzioni non sia possibile convincersi in merito alla loro probabilità: se si comprendono, si comprende che non è possibile convincersi della loro non effettività. Come nel caso del sostenere che forse non esistano oggetti fisici, non è possibile convincersi della genuinità di questa asserzione (l’asserzione che inerisce l’esistenza degli oggetti fisici modella il nostro mondo).54

La nostra è perciò una ricerca grammaticale. Questa ricerca getta luce sul nostro problema, in quanto sgombra il terreno dai fraintendimenti, fraintendimenti che riguardano l’uso delle parole: prodotti, fra l’altro, da certe analogie tra le forme di espressione, in differenti regioni del nostro linguaggio. Alcuni di questi fraintendimenti si possono eliminare sostituendo una forma d’espressione a un’altra; questo procedimento si può chiamare «analisi» delle nostre forme d’espressione; il procedimento, talvolta, somiglia infatti a una scomposizione.55

Gli enunciati grammaticali “modellano” anche le espressioni inerenti al mondo interno, alla soggettività: apparentemente l’enunciato “non si può patire il dolore di un altro” è definibile come fattuale, tuttavia tale espressione si rivela metafisica, cioè delimitante i limiti degli enunciati empirici, in quanto non indica una nuova scoperta sul dolore, ma risulta una delle condizioni determinanti del concetto di dolore.

Alla scienza spetta il compito di indagare sulla genealogia fisica del dolore, sulle sue modalità, ma non sul significato stesso del concetto, il cui campo di indagine non è fisico, ma grammaticale. L’enunciato citato evidenzia qualcosa di importante sull’essenza del dolore, qualcosa di metapsicologico, di metafisico, di diverso rispetto ai legami causali: essere un’esperienza privata è parte costitutiva del concetto di dolore, la sua essenza non è indagabile scientificamente, ma definibile con un’indagine grammaticale.56 L’a priori logico si è, per così dire, mutato nelle condizioni grammaticali di significazione; in tali modalità è possibile comprendere pienamente questa identificazione fra la grammatica e la metafisica (intesa essenzialmente come elemento logico) che abbiamo tematizzato. Inoltre, non si nega affatto l’esistenza di un mondo privato, ma la peculiarità che per esso esista un linguaggio specifico, che può essere compreso solo da un parlante (che ha le specifiche esperienze).

Wittgenstein sostiene: «Com’è che l’espressione che potrei proporre per quegli enunciati che descrivono la mia esperienza personale non mi soddisfa mai del tutto?».57 Il linguaggio è inadeguato nell’esprimere il mondo interiore, le esperienze personali; in aggiunta, le parole utilizzate in questo ambito risultano spesso avere un significato diverso da quello che ne costituisce l’uso comune; è il caso della parola “suppongo” che, se posta in un’espressione sull’esperienza privata, in quanto non verificabile,58 esprime un significato diverso da quello fattuale. L’espressione “suppongo che egli abbia mal di denti” denota una supposizione che non si potrà verificare poiché, per sua essenza, non è direttamente verificabile:59 questo significa che non può essere intesa allo stesso modo di “suppongo che piova”.60 In merito all’indagine del presente scritto, questa insoddisfazione verso il linguaggio, rispetto all’espressione del mondo privato, può essere considerata una mutazione della teoria del Mistico? Per tentare di rispondere a tale quesito è opportuno introdurre brevemente il concetto di linguaggio privato.

L’esperienza è un comportamento linguistico

Una parte rilevante delle osservazioni che costituiscono le Ricerche riguarda le problematiche dell’espressione dell’esperienza interiore: possiamo esprimere le nostre sensazioni, i nostri sentimenti, i nostri stati interiori? I diversi giochi linguistici nei quali si formulano le proposizioni sensate si riferiscono a una forma di vita collettiva. Non v’è un linguaggio privato: il linguaggio che si usa per parlare a sé stessi non differisce dal linguaggio collettivo. Gridare a causa del dolore è un comportamento istintivo; dire “provo dolore” è un comportamento linguistico, collettivo, che nulla esprime sulla reale esistenza del dolore. Lo stato interiore, in quanto tale, è inesprimibile.

Si osservi come Wittgenstein, nelle Ricerche, abbandoni sia lo schema teorico che modella il significato secondo un paradigma ontologico di entità sostanziali, sia lo schema mentalistico in cui il significato viene espresso grazie a stati della mente o strutture ideali. Nelle Ricerche, ove non è sostenuto alcun isomorfismo, il significato non è un ente co-esistente con il segno, ma la condizione accordata a esso per l’appartenenza a un gioco linguistico. Tale metodologia mette in crisi la convinzione che la filosofia e la logica possano garantire i fondamenti del linguaggio, della matematica e del sapere, negando la possibilità di organizzare teoricamente i concetti entro schemi formali unitari e definitivi.

Dissolvere quesiti o falsi quesiti è uno degli aspetti wittgensteiniani su cui siamo tornati più volte; a questo proposito è proprio la collettività, l’impiego pubblico delle parole, a garantire la significazione. Il filosofo intende dissolvere la mitologia filosofica generata dalle grammatiche inappropriate che assumono fenomeni come comprendere, pensare, intendere nei termini di processi interni privati – specifici e distinti – mostrando che essi hanno significato in un orizzonte pubblico e sono modalità osservabili del comportamento umano, rappresentando paradigmi linguistici che introducono differenze di tipo grammaticale, non ontologico.

La critica da parte di Wittgenstein al modello cartesiano della privatezza e della priorità epistemologica del mondo interiore non mette in dubbio l’esistenza di quest’ultimo, né nega il suo valore reale, ma solo il primato nell’ambito della validità linguistica. Perciò, il piano logico, normativo, e con esso la questione dei limiti del linguaggio, è stato sostituito da un piano pratico, collettivo: l’impiego di parole in contesti pubblici specifici garantisce la significazione.

Quanto detto finora risponde al quesito del perché sussistano gli errori linguistici, se non v’è un principio normativo unico che delimiti la significazione. Secondo Wittgenstein, i problemi filosofici non si collocano in contesti oggettivi fattuali, ma sono imputabili a un atteggiamento interpretativo che assume i fenomeni linguistici al di fuori delle circostanze caratteristiche del loro impiego, dell’effettivo contesto linguistico che ne costituisce il sistema di riferimento e di significazione.

Cerchiamo ora, tenendo a mente quanto conquistato, ovvero il nuovo paradigma della significazione (impiego e collettività), di analizzare il termine privato, il quale indica un evento interiore che è conosciuto solo se esibito per mezzo di segni. Situazioni quotidiane possono sottolineare questa particolarità, eppure vi sono circostanze in cui è possibile condividere il dolore o la gioia di un altro. Si potrebbe supporre che questi non siano altro che modi di dire e che il fatto metafisico rimanga, cioè che il mondo interno di ognuno sia inconoscibile ad altri, tuttavia questa peculiarità non è un fatto metafisico. Tale espressione risulta inappropriata in quanto alla «metafisica», nel nuovo senso di indagine grammaticale, non empirica, spetta l’analisi delle forme che rendono delle realtà sensibili significanti e che non possono essere considerate fattuali. Qui c’è indubbiamente una certa affinità con le teorie del Tractatus. “Non posso provare il tuo dolore” è un’espressione che non indica una conoscenza empirica sul dolore, ma rivela una priorità semantica che determina il suo concetto, che non risulta essere «un’immagine speculare dell’essenza delle cose».61

L’espressione “non si può conoscere cosa egli provi” è un enunciato che ha valore non per qualche fatto: «non dipende da uno sfortunato fatto metafisico»,62 ma per la natura stessa del concetto di dolore, “fenomeno grammaticale” che, come tale, rimane indagabile empiricamente. Non è questa la sede per approfondire la questione, ma non possiamo non considerare che fenomeni privati, pur quelli più intimi, abbiano un risvolto pubblico; si pensi alla tristezza e a tutti gli eventi concatenati che essa significhi: accettazione, manifestazioni espressive, disagio.

Possiamo concludere dicendo che in Wittgenstein è sempre delineata e distinta la sfera di indagine scientifica da quella filosofica. Se qualcuno sostenesse di provare il dolore di un altro, quest’affermazione non sarebbe errata, non vi sarebbero degli errori empirici ma, dal punto di vista grammaticale, non avrebbe senso alcuno. Alcune parole non designano un oggetto o un evento specifico: è il caso della parola io, la quale non designa una persona.63 In queste riflessioni inerenti al non-senso e ai falsi quesiti si può rinvenire una certa affinità con il Tractatus, ove le proposizioni metafisiche non vengono considerate errate, ma non-sensate, cioè non aventi un campo di indagine. Uno degli scopi di Wittgenstein, vero cardine del suo pensiero, consiste nell’eliminazione dei falsi quesiti, come nel caso della verifica sui colori: come si può essere sicuri che il termine rosso sia sempre usato in modo corretto e che abbia sempre lo stesso significato?64 che l’esperienza a cui si riferisce non muti? Questo non si può sapere in senso stretto, in quanto non riguarda un campo di indagine scientifico: poiché alla scienza non spetta la delimitazione dei concetti, non v’è alcuna problematica.65 Per riutilizzare un’espressione familiare: l’enigma non v’è.


  1. Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 2009, §5.6. ↩︎

  2. In merito si legga l’introduzione che Russell scrisse al Tractatus↩︎

  3. Cfr. L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980 (1931), pp. 47-48. ↩︎

  4. Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit, §5.621. ↩︎

  5. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 2014 (§309), p. 121. ↩︎

  6. L. Wittgenstein, Note sulla logica, in Id., Tractatus logico-philosophicus, cit., pp. 243-263; 245. ↩︎

  7. L. Wittgenstein, Lezioni 1930-1932, Adelphi, Milano 1995, p. 13. ↩︎

  8. Ivi, p. 14. ↩︎

  9. In questo si esplica quella continua ricapitolazione sulle problematiche del Tractatus nelle opere successive a esso, che spesso evochiamo nella nostra discussione. ↩︎

  10. L. Wittgenstein, Esperienza privata e dati di senso, Einaudi, Torino 2007, p. 3. ↩︎

  11. Cfr. Ibidem↩︎

  12. M. Carapezza, La lingua traveste il pensiero Immagine, logica e giochi linguistici in Wittgenstein, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 98. ↩︎

  13. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit. (§23), p. 17. ↩︎

  14. L. Wittgenstein, Grammatica filosofica, La Nuova Italia, Firenze 1990, IX n122. ↩︎

  15. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit. (§43) p. 28. ↩︎

  16. Cfr. Ivi (§559), p. 174. ↩︎

  17. Cfr. Ivi, p. 262. ↩︎

  18. Cfr. L. Wittgenstein, Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune, Einaudi, Torino 1999 (§475), pp. 76-77. ↩︎

  19. Cfr. Ivi (§559), p. 91. ↩︎

  20. Cfr. Ibidem↩︎

  21. Cfr. Ivi (§560), p. 91. ↩︎

  22. Cfr. Ivi (§7), p. 4. ↩︎

  23. Ivi (§95), p. 19. ↩︎

  24. Cfr. Ivi (§611), p. 99. ↩︎

  25. Cfr. Ivi (§618), p. 100. ↩︎

  26. Ivi (§255), p. 41. ↩︎

  27. Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit. (§654), p. 194. ↩︎

  28. Ivi (§655), p. 194. ↩︎

  29. Cfr. L. Wittgenstein, Della certezza, cit. (§80), p. 15. ↩︎

  30. Cfr. Ivi (§395), p. 62. ↩︎

  31. Cfr. Ivi (§90), pp. 17-18. ↩︎

  32. Cfr. Ivi (§114), p. 22. ↩︎

  33. Cfr. Ivi (§160), p. 29. ↩︎

  34. Ivi (§177), p. 31. ↩︎

  35. Cfr. G. Petrella, «La rivoluzione ontologica di Wittgenstein», in Dialegesthai 8 (2016). ↩︎

  36. G.E. Moore, A Defence of Common Sense, in Contemporany British Philosophy, J. H. Muirhead, Londra 1924, serie II, pp. 193-223. ↩︎

  37. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., §6.51. ↩︎

  38. L. Wittgenstein, Della certezza, cit. (§204), p. 35. ↩︎

  39. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit. (§199), p. 95. ↩︎

  40. Ivi, p. 203. ↩︎

  41. Ibidem↩︎

  42. Cfr. LB, pp. 37-40. ↩︎

  43. Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit. (§89), pp. 59-60. ↩︎

  44. Cfr. Ibidem↩︎

  45. Cfr. Ibidem↩︎

  46. Cfr. Ibidem↩︎

  47. Ibidem↩︎

  48. Dove se ne ricava che il tempo è conosciuto se non ne viene richiesta una definizione, mentre risulta inspiegabile quando si tenta di spiegarlo. ↩︎

  49. Cfr. Ivi (§89), p. 52. ↩︎

  50. Ibidem↩︎

  51. Ivi (§90), pp. 52-53. ↩︎

  52. Cercando di attenerci al tentativo d’una interpretazione logica linguistica delle teorie di Wittgenstein, possiamo intendere con il termine metafisica la logica: quell’ambito di indagine che esula dal fisico, dalle situazioni del mondo. ↩︎

  53. Cfr. L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi, Milano 1990 (§949), p. 268. ↩︎

  54. Cfr. L. Wittgenstein, Della certezza, cit. (§23), p. 7. ↩︎

  55. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit. (§90), p. 53. ↩︎

  56. Cfr. L. Wittgenstein, Esperienza privata, cit., p. 9. ↩︎

  57. Ivi, p. 29. ↩︎

  58. In merito Wittgenstein sostiene che vi siano molti modi per poter descrivere un’esperienza, ma appare, giustamente, che qualcosa, l’essenziale, lo stesso esistere (e non già il semplice esprimerlo), non sia descrivibile (cfr. ivi, p. 4). Potremmo, utilizzando la distinzione fra significato e senso, costatare che il senso dell’espressione di un particolare stato d’animo sia sempre comprensibile, mentre il significato, la costatazione dell’effettiva esistenza di esso, rimanga incomunicabile – ciò a cui si riferisce, l’essenza degli stati d’animo (la loro esistenza), rimane non descrivibile –,in quanto esso consisterebbe in un fenomeno interno. Tuttavia, come già sostenuto, avendo questa concezione linguistica il significato di una parola viene confinato all’uso e dunque viene depotenziato il concetto stesso di significato come ente a se stante, come entità, come sostanza o essenza. ↩︎

  59. Cfr. Ivi, p. 24. ↩︎

  60. A completare questi discorsi, risulta impropria anche l’espressione “suppongo che io abbia mal di denti”. ↩︎

  61. Ivi, p. 9. ↩︎

  62. Ivi, p. 18. ↩︎

  63. Cfr. Ivi, p. 28. ↩︎

  64. Cfr. Ivi, p. 19. ↩︎

  65. Cfr. Ibidem↩︎