Logica e nomi nel Tractatus

Introduzione

La filosofia di Wittgenstein elaborata ed esposta nel Tractatus, a discapito di quello che si potrebbe supporre, non consiste in una forma di empirismo, poiché seppur viene descritta una realtà per lo più non «fondata» a partire da impostazioni metafisiche, la problematica dell’unificazione dei dati sensoriali (l’esperienza) non risulta oggetto di indagine; tale filosofia si potrebbe denominare logicismo: base e presupposto di ogni analisi e riflessione è la logica. In aggiunta, per Wittgenstein la logica non possiede esclusivamente un valore intellettivo, ma essenzialmente etico; la sua rigorosità permette di trattare adeguatamente una problematica: l’essenzialità indica il non perdersi in chiacchiere. Pur se vi sono stati alcuni fraintendimenti, su cui successivamente cercheremo di gettar luce, da parte della critica secondaria, in merito al mondo quotidiano, al linguaggio comune, per comprendere Wittgenstein è essenziale, non solo tener a mente l’originale ontologia che il filosofo propone, non solo definire il discorso logico (e dunque etico), ma carpire la natura dei nomi e l’applicazione delle teorie del Tractatus.

In questo modestissimo contributo, sia per ragioni di ordine economico che per coerenza espositiva, ci soffermeremo principalmente sul Tractatus ed eventualmente su passi di altre opere laddove le impostazioni non si discostino di molto dalla traccia che desideriamo sviluppare: qual è il ruolo della logica nel cosiddetto “primo” Wittgenstein, e come – avendo stabilita l’armatura logica del mondo – possa esserci un’applicazione effettiva delle concezioni del testo?

L’esigenza della chiarezza

L’enorme difficoltà, la durezza e levigatezza dei problemi logici, questa è l’austerità con cui il filosofo concepisce la logica;1 essa scaturisce da un’impostazione gnoseologica in cui pervade l’idea della chiarezza (del non fraintendimento) e da una purezza cristallina.2 Svolgendo correttamente, ogni riflessione logica è filosofica, in quanto porta a una migliore comprensione dei problemi, la filosofia stessa consiste nella chiarificazione dei problemi e dei pensieri,3 che altrimenti sarebbero torbidi e indistinti; ed ogni riflessione filosofica è logica, per poter adempiere al suo compito etico: serietà nel pensare e chiarezza nello scrivere.4 La chiarezza e la trasparenza, così auspicabili nelle scienze empiriche, non costituiscono un semplice mezzo, per uno spirito inquieto, alla ricerca di un qualcosa che possa soddisfare lo slancio del pensiero, ma sono fine a se stesse.5 Uno spirito inquieto che sosteneva che la filosofia consiste essenzialmente in un lavoro su di sé,6 per trovare anche una sorta di “pace” fra i pensieri, quasi una parola liberatrice,7 smettendo a comando persino di filosofare.8

La comunicazione richiede necessariamente un’etica per poter essere ottimizzata. L’etica della comunicazione richiede non soltanto sincerità e purezza di valori, perché un’espressione sincera, ma destituita di un prezzo morale, può risultare una banalità moraleggiante e una comunicazione superficiale. L’etica della comunicazione presuppone lo sforzo, che è uno degli sforzi più difficili che possa essere richiesto, il quale consiste nell’affrontare con coraggio il dolore di discendere negli intimi recessi della propria interiorità. Se un uomo vuole parlare, se soprattutto un uomo deve parlare, egli è esposto al pericolo, che è il suo massimo pericolo, di risultare superficiale se non è disposto ad affrontare sofferenze e tormenti.9

Abbiamo deciso di proseguire questo paragrafo sul connubio fra la chiarezza e il sentimento etico con le splendide parole di Gargani in quanto proprio la chiarezza, secondo la concezione delineata nel Tractatus, risulta uno dei postulati linguistici necessari: il dicibile è tale in quanto viene espresso in modo chiaro, mentre il non-dicibile presenta una natura confusa derivante da errori semantici o sintattici. Ovvero il senso che si esprime per mezzo di una proposizione deve essere definito, né l’asserirla può donarle un altro valore:10 la proposizione mostra da sé il proprio senso, mostra come le cose stanno, se è vera.11 Con gli assunti delineati possiamo continuare il discorso sostenendo che l’atto del comprendere una proposizione, che ne precede la verifica, postula che il senso espresso per mezzo di essa sia definito e completo in sé, come l’atto stesso dell’intendere presuppone una certa organizzazione linguistica dell’enunciato. Con ciò si mostra come l’esigenza della chiarezza abbia un valore effettivamente linguistico, non solo estetico. Quanto detto non deve distogliere dal fatto che la verità e l’evidenza di una proposizione siano indipendenti dalla sua comprensione e che, inoltre, sia possibile comprendere una proposizione cogliendone le singole parti che la costituiscono, ovviamente al di là della verità di tale proposizione; ciononostante comprendere una proposizione significa sapere che stato di cose sussista se essa è vera.12

In altra sede abbiamo già trattato l’ontologia di Wittgenstein,13 tuttavia avendo evocato lo stato di cose, ci sia consentito di tratteggiarlo brevemente. In uno stato di cose gli oggetti sono in una specifica relazione,14 oggetti che sono semplici;15 mentre la totalità degli stati di cose sussistenti è il mondo,16 inoltre quelli che sussistono determinano quelli che non sussistono17 e il loro sussistere o meno significa la realtà.18 Ai fini della nostra ricerca e di qualsiasi altra trattazione del Tractatus, è bene precisare come il mondo si costituisca come pura espressione dell’accidentalità e che il mondo di cui il testo tratti sia essenzialmente un mondo linguistico, ovvero un postulato alla dicibilità.

Come è stato accennato prima, per Wittgenstein la filosofia consiste in una chiarificazione dei problemi, i quali non hanno un’esistenza propria, ma vengono creati dal modo scorretto di usare il linguaggio; pertanto essa non si forma a partire dallo stilare proposizioni specifiche, detto diversamente: «La filosofia è una battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio».19 Compito di questa «disciplina» è sciogliere tali nodi: essa consiste essenzialmente in una terapia.20 Al riguardo, riportiamo la splendida riflessione di Gargani:

Attraverso il rapporto comunicativo con un interlocutore, un uomo (il paziente con lo psicoterapeuta) può arrivare, attraverso l’analisi di se stesso e un percorso interiore, ad una nuova descrizione di sé. La semplice circostanza di essere ascoltati da un interlocutore, sia pure silenzioso, suscita in chi parla un processo di autonarrazione e di d’identificazione che si genera nel corso di un mutamento.21

Gli “errori filosofici” nascono dalla particolarità che non si comprende la logica del linguaggio;22 ché la forma logica apparente delle proposizioni non coincide con la loro forma reale.23 Certamente, a ridosso di queste problematiche, si può porre la logica, intesa non quale metodo astratto, ma come − ed ora lo possiamo intendere − esigenza etica; infatti, in contrapposizione a quanto asserito, ovvero al connubio etica-logica auspicato da Wittgenstein, avverrebbe che:

In un clima sociale di bigottismo e ipocrisia, anche la lingua tende a corrompersi. Vi si infiltrano eufemismi. Le cose non vengono più chiamate direttamente e semplicemente con i loro nomi, ma sono mascherate da evasive circonlocuzioni, e ad esse ci si riferisce con un’artificiosa terminologia tecnica. Lo stile diventa oscuro, il significato si fa sfuggente.24

A comprovare quale assoluto valore per Wittgenstein abbia la logica, come essa possa pizzicare le più profonde corde dell’animo, nonostante per molti coincida con una tecnica astrusa, astratta, arida, si pensi a ciò che dichiarò Russell, che una volta chiese a Wittgenstein se stesse pensando alla logica o ai suoi peccati, lui rispose ad entrambi.25 In linea a quanto stiamo sostenendo, per Wittgenstein interrogarsi sui problemi di logica significò domandarsi sull’essenza del mondo e rispondere alle più profonde esigenze spirituali. «Etica e logica, i due aspetti del dovere verso se stessi, confluiscono: sono due aspetti dello stesso impegno della persona e due facce dello stesso lavoro filosofico».26 Approfondendo ulteriormente le peculiarità della logica e sottolineando gli aspetti secondo lo stesso Wittgenstein più essenziali, essa non possiede un fondamento, un criterio uniformatore, a sé stante: la logica deve curarsi da sé.27 Essa non consiste in un insieme organizzato di principi – principi logici non vi sono, – né in teorie riguardanti “fenomeni logici”, né in ipotesi, in quanto la logica non risulta essere contingente (né può esistere una contingenza in merito alle osservazioni logiche). “Accadimenti logici” non sussistono, fatti necessari non ricorrono.

Possibilità e quotidianità

Dopo aver evocato, sommariamente, la peculiarità dell’intimo rapporto fra la logica e l’etica, ovvero la possibilità di significazione e la comprensione come atto di condivisione, cerchiamo di capire come le possibilità di un oggetto, le sue proprietà interne,28 determinino gli stati di cose ove la cosa può occorrere, ovvero di come la logica sia effettivamente l’armatura del mondo. La logica non si esplica come fatto o cosa nell’universo, ma inerisce a ciò che, al di là di tutto ciò che accade, esiste (una “logica contingente” risulterebbe una contradictio in adjecto), per l’appunto essa è trascendentale (trascende il tutto ciò che accade, gli elementi del mondo);29 ciononostante pervade il mondo30 in quanto immagine speculare di esso.31 La comprensione della logica coincide nell’osservazione di qualcosa che è;32 non è associato a questo atto una descrizione di questo qualcosa: esso si manifesta e non può venir detto, in quanto non appartenente ai “contenuti del mondo” (i fatti, gli stati di cose).

Ora si comprende come sia possibile descrivere solo tali contenuti; tuttavia, la logica ha – per così dire – con questi un peculiare rapporto: inerisce le loro possibilità.33 Se la cosa può occorrere in uno stato di cose, la possibilità di questo stato di cose deve essere già insita nella cosa stessa.34 Conoscere un oggetto significa conoscere le possibilità di occorrere in determinati stati di cose,35 come per analogia conoscere una parola prevede conoscere la giusta collocazione nelle proposizioni in cui può occorrere, le quali, per tale condizione, presenteranno un significato.36 Non stupisce dunque che gli oggetti contengano la possibilità delle loro situazioni,37 è come se ogni cosa fosse in uno spazio di possibili stati di cose – e non è dato pensare una cosa senza questo spazio.38 Ritorneremo, seppur brevemente, sia sulla nozione di stato di cose, sia su quella di possibilità, connaturata alla logica, e brevemente capitoleremo sulla concezione ontologica di Wittgenstein. Intanto, alla luce del connubio fra ontologia e linguaggio che sempre più si sta schiarendo, possiamo concordare con Donato:

gli oggetti semplici non si dànno nell’esperienza – in essa noi ci troviamo davanti solo fatti complessi –, ma si tratta di una conoscenza a priori. Wittgenstein postula l’esistenza dei semplici per salvaguardare la determinatezza del senso delle proposizioni, che altrimenti fluttuerebbe in un’ambiguità e in una plurivocità perenne.39

Ovvero, se da un lato l’esperienza si configura a partire dai fatti, in un mondo costituito dall’insieme di essi, e l’esistenza degli oggetti e la loro semplicità viene postulata per un’atavica non divisibilità all’infinito degli enti, le determinazioni specifiche del mondo dall’altro garantiscono la significazione, la possibilità stessa del linguaggio.

Per ciò che concerne la logica, sottolineando aspetti già menzionati, essa non consiste in una pura tecnica da applicare ai concetti o ai dati empirici, ma coincide con un’immagine speculare del mondo e “permette” tramite le proposizioni di descriverlo adeguatamente; perciò essa non è una dottrina. Tuttavia se la logica consiste in un’immagine speculare del mondo, non ne stabilisce le possibilità: la sussistenza o meno di uno stato di cose non è deducibile da essa.40 Né dalla logica è possibile dedurre leggi naturali, in quanto con essa non si descrivono i contenuti del mondo, ma se ne rappresenta la forma: il Come, non il Che cosa.41 Detto diversamente, dalle osservazioni logiche non si può desumere un sapere, una scienza: ogni sapere si riferisce ai contenuti del mondo, al contingente, che, come tale, potrebbe essere diverso. Continuando a svolgere la trama dei nostri discorsi e sintetizzando, a differenza di quello che sosteneva Russell,42 la logica non consiste in una scienza empirica, perciò per mezzo di essa non si descrive il mondo, ma se ne rappresenta l’armatura.43 Va precisato – se ce ne fosse bisogno – che se tale armatura potesse essere descritta essa consisterebbe in un fatto,44 risulterebbe accidentale,45 contingente, qualcosa che per caso è.

Caratterizzata la logica nelle sue linee più impellenti, possiamo riportare a coronamento dei discorsi, un aspetto importante su cui Wittgenstein si differenzia dai suoi contemporanei, in primis Frege e Russell, consiste nel non considerare il linguaggio quotidiano come imperfetto, riflesso inadeguato e manchevole d’un linguaggio ideale. Wittgenstein scrisse, in una lettera inviata a Ogden, che le proposizioni del linguaggio comune non sono, da un punto di vista logico, meno corrette o esatte del simbolismo di Russell o dell’ideografia di Frege.46 La differenza che sussiste fra un enunciato appartenente al linguaggio comune e uno di un simbolismo formale risiede nella particolarità che nel secondo la forma logica è mostrata in maniera più evidente.

Nella critica secondaria, fu persuasivo l’assunto che vide il Tractatus occuparsi di un linguaggio ideale; tuttavia il Tractatus non consiste in un’analisi del linguaggio che prescinda dalla sua reale applicazione, in esso non vengono indicate le condizioni di un linguaggio perfetto come erroneamente sostenne Russell,47 ma per merito della teoria raffigurativa, è mostrato in quale modo per mezzo delle proposizioni si esprima un senso. Nell’analisi del linguaggio viene già postulato che con qualsiasi linguaggio, compreso quello della quotidianità, si può esprimere ogni senso in quanto esso condivide la medesima forma di ciò che comunica: i contenuti del mondo. Come abbiamo già più volte sostenuto, il linguaggio quotidiano non è scorretto, in quanto «istintivamente noi usiamo il linguaggio in modo corretto; ma per l’intelletto questo uso è un enigma.»

Nella nostra interpretazione di Wittgenstein, il mondo consiste in un postulato di significazione, così esso coinciderebbe con un mondo linguistico, assodato ciò potrebbe non essere sbagliata l’interpretazione che vede nel Tractatus non l’analisi del linguaggio vero e proprio, di uso corrente, ma la ricerca di un linguaggio puro, è ciò che sostenne Wright,48 sviluppando a sua volta l’impostazione di Black che profetizzava, riferendosi a Wittgenstein, l’esplicazione di un linguaggio inerente un mondo immaginato, descritto con un linguaggio assolutamente ipotetico.49 Non è questa la sede per sviluppare tale impostazione, ciononostante ci preme sottolineare che più volte Wittgenstein parli di scienza, di scienze empiriche, sperimentale e del linguaggio quotidiano, dunque potrebbero essere sì le teorie del testo interpretate come inerenti un “sistema logico puro”, tuttavia riteniamo che in lui vi fosse sempre l’attenzione di studiare il linguaggio autentico, effettivo, non di eliminare da esso “elementi di contaminazione”; ciò significa che il Tractatus non inerisce lo studio di un linguaggio in una forma incorrotta.

Si deve rifiutare l’assunto che veda il linguaggio comune come manchevole, non sussiste alcuna priorità fra le diverse “tipologie” di linguaggio; bisogna invece interessarsi dell’essenza di una proposizione – di ciò che la rende portatrice di un significato – al di là che essa stessa appartenga a un simbolismo formale o a un linguaggio comune. Considerando il precedente paragrafo, non stupisce sapere che nei Quaderni Wittgenstein sostenga che tutto il suo compito come filosofo è comprendere l’essenza della proposizione,50 ciò che permette per mezzo di essa di esprimere un significato. Per inciso e concludere questa prima parte, la “comunanza” di ciò che le proposizioni hanno in comune è stato uno dei problemi che più ha attanagliato Wittgenstein, come lui stesso ricorda nelle Ricerche.51

Logica e rispecchiamento del mondo

Sviluppando ulteriormente la relazione tra la logica e il mondo, si può sostenere che la logica non consista in un fatto, in quanto tale variabile (incostante),52 che può essere diverso da com’è: nella logica non si può errare,53 non risulta esserci nemmeno un progresso, un cambiamento di prospettiva, un cambiamento in genere – non vi sono delle sorprese –54 in quanto tutto ciò che le concerne risulta a priori deducibile:55 in essa con le operazioni logiche non si introducono nuovi elementi.56 Con le parole magistrali di Wittgenstein:

Nostro principio è che ogni questione, che possa esser decisa dalla logica, deve potersi senz’altro decidere. (E se ci troviamo costretti a guardare il mondo per rispondere a un tale problema, questo mostra che siamo su una pista fondamentalmente errata).57

Ogni problematica che necessiti di uno sguardo sul mondo (sui suoi contenuti), per poter essere risolta, non si rivela una questione di carattere logico. Le proposizioni di tutto quel che può venir detto, che può venir descritto, perciò appartenente al mondo fattuale, e che sono in aggiunta vere – ove vi è una totale corrispondenza fra linguaggio e realtà – questa totalità postulata di proposizioni è considerabile come la scienza tutta.58

Ed ecco del perché la logica non sia affatto una scienza empirica; inoltre essa non spiega come sia possibile che i segni significhino, non risponde alle domande sulle essenze (se non quelle, in parte, inerenti le proposizioni)59 o che cosa sia il pensiero, la verità, la necessità stessa.60

Se la logica può compiersi senza rispondere a certe questioni, allora deve essere compiuta senza rispondere ad esse.61 L’«esperienza», che ci serve per la comprensione della logica, è non l’esperienza che qualcosa è così e così, ma l’esperienza che qualcosa è: Ma ciò non è un’esperienza. La logica è prima d’ogni esperienza – d’ogni esperienza che qualcosa è così. Essa è prima del Come, non del Che cosa.62

L’esperienza che garantisce la comprensione della logica non è un’esperienza degli elementi del mondo, del ciò che può essere «così o così» – che può essere diverso, – ma l’esperienza d’un qualcosa che è; dunque non propriamente un’esperienza. Perlustrando ancora le peculiarità della logica, quasi a costituire un ecosistema di idee, in merito la nozione della necessità, non v’è una ragione assoluta che qualcosa accada, esiste soltanto una necessità logica: il contenuto di una proposizione, per mezzo del quale si descrive una situazione, è accidentale, ma ciò che permette tale descrizione, che in ossequio alla tradizione costituisce ciò che determina senza venir determinato, dunque la forma, non potrà essere a sua volta accidentale. Effettivamente, la forma dell’oggetto è la sua possibilità stessa di occorrere in stati di cose;63 ritorna qui con prepotenza il connubio logica-possibilità. Per concludere ed evidenziare ulteriormente, se la forma dello stato di cose ne fosse un altro, avremmo un fatto necessario e che l’altro ne dipenderebbe, e la forma dello stato di cose sopradetto consisterebbe in un ulteriore stato di cose, e così all’infinito.

Ci sia consentita un’osservazione: abbiamo asserito l’esistenza del connubio fra la logica e l’etica, ora stiamo trattando quello che intercorre fra la logica e la possibilità; riteniamo che questa assonanza non sia una pura coincidenza, ovvero che l’etica abbia a che fare con la possibilità stessa (la libertà), perché se vi fosse un determinismo assoluto essa, seguendo un’impostazione ben consolidata, verrebbe meno.

Ricapitolando, tutta la nostra «conoscenza logica» non riguarda l’accidentale singolarmente (gli stati di cose), ma qualcosa di necessario, qualcosa che è (non che può essere), qualcosa che non si dà nel mondo,64 ove tutto ribadiamo sussiste accidentalmente. Non stupisce che tramite le osservazioni logiche non si esprima nulla sui contenuti del mondo,65 essendo le proposizioni logiche tautologie,66 ove processo e risultato si equivalgono,67 perciò non si hanno sorprese; non venendo descritta alcuna situazione singola e specifica, poiché la logica inerisce tutte le possibilità.68

Tenendo a mente le ultime considerazioni sopradette e rievocando taluni assunti evocati, le osservazioni logiche non possono venir confermate o smentite dall’esperienza: se la logica coincide con le condizioni di tutte le possibilità, tali condizioni, al di là di qualsiasi evento, non mutano, pertanto la logica inerisce a qualcosa che è; è nella loro peculiarità la possibilità di essere riconosciute vere senza l’ausilio di una verifica. Esse non esprimono nulla, ma mostrano le proprietà logiche del linguaggio e dunque dell’universo, in quanto le proprietà dell’universo e del linguaggio coincidono.

La necessità logica, l’unica necessità che sussiste, in un mondo linguistico,69 è la significazione: l’effettività che per mezzo delle proposizioni si descrivano le situazioni − senza cedere a forzate specificazioni terminologiche, possiamo asserire che col termine situazioni indichiamo gli stati di cose che possono sussistere, mentre con quello di fatti gli stati di cose che sussistono effettivamente; perciò il mondo ha a che fare con i fatti (con tutto ciò che accade), mentre la logica con le situazioni (con tutto ciò che può accadere).70 Non stupisce che le osservazioni logiche differiscono dalle proposizioni: una proposizione, per poter essere considerata vera o falsa, non può inerire a tutte le possibilità (non può essere un’osservazione logica), né può non inerire ad alcuna possibilità (ed essere una contraddizione), ma per mezzo di essa si deve descrivere una situazione. Come non stupisce che non vi può essere un linguaggio illogico;71 un linguaggio in cui sussistano solo le contraddizioni: un linguaggio di questa tipologia non presenterebbe alcun rapporto con la realtà, con l’esperienza e non potrebbe neppur essere appreso, non descrivendo alcuna situazione, risultando puramente vuoto e, per l’appunto, illogico e neppure effettivamente un linguaggio.

Questa onnipresenza della logica, che si fa sempre più pressante nella nostra trattazione, non significa che essa stessa possa venir descritta come un fatto, in quanto abbiamo già sostenuto a più riprese che si può descrivere solo l’accidentale: concordando, non è possibile esprimere ciò che per mezzo della logica si osserva. Non è possibile descrivere un quadrato circolare, poiché lo stesso linguaggio non concepisce tale espressione come avente un senso; così si comprende maggiormente come le condizioni del linguaggio, ciò che permette ad esso di essere tale, di esprimere dei sensi, coincidono con le condizioni del mondo. Ribadendo, il linguaggio, in quanto ha valore, ovvero per mezzo di esso è possibile descrivere le situazioni, «rispecchia certe proprietà del mondo mediante le proprietà che esso deve avere».72 Precisiamo: affinché un linguaggio abbia un valore deve avere determinate proprietà, le quali non potranno essere espresse per mezzo del medesimo linguaggio,73 né da un altro come differentemente sosteneva Russell.

Riassumendo, siccome la logica inerisce tutte le possibilità, non è incomprensibile che essa non stabilisca l’effettività che uno stato di cose sussista o non sussista; perciò con la logica non si possono escludere certe possibilità, ciò richiederebbe che essa trascendesse i propri limiti, coincidenti con quelli del mondo. Non stupisce che le osservazioni logiche, mostrando tutte le possibilità, mostrino le medesime proprietà in un modo sistematico,74 poiché ha già profuso tutte le condizioni. Avendo compreso ciò si può asserire che:

La logica pervade il mondo; i limiti del mondo sono anche i limiti di essa.75 Ogni proposizione è essenzialmente vera-falsa. Pertanto una proposizione ha due poli (corrispondenti al caso della sua verità e al caso della sua falsità). Chiamiamo questo il senso d’una proposizione. Il significato d’una proposizione è il fatto che attualmente le corrisponde.76

Una qualsiasi proposizione viene verificata mediante il confronto con la realtà.77 «Oggi piove», il senso espresso in questa proposizione è, senza alcun raffronto, intuibile: se ne comprende la situazione senza l’ausilio di un controllo empirico, il quale non le dona alcun valore aggiuntivo. Per tali ragioni il senso di una proposizione, per poter essere compreso, deve essere chiaro; ritorna così con decisione uno dei motti e pensieri più famosi di Wittgenstein: ciò che si può dire, lo si può dire chiaramente.78 Compiendo una precisazione terminologica, non si abbisogna di una verifica per il senso di una proposizione, che invece è necessaria per stabilirne la verità, il suo significato, che cosa per l’appunto significhi. Precedentemente abbiamo accennato alla forma delle proposizioni, è giunto il momento di articolare maggiormente questo ambito della riflessione; ovvero, la realtà è conoscibile in quanto riflessa, riprodotta, ridisegnata dalla struttura stessa del linguaggio; ma cos’è che garantisce che per mezzo di una proposizione si descriva una situazione? Ciò deve essere reso possibile grazie a un qualcosa di comune fra la proposizione e lo stato di cose, tra il linguaggio e il mondo; questo qualcosa è la forma logica.

La Forma logica

La teoria della forma logica permette il superamento del dualismo fra mondo e pensiero (linguaggio), specchiandoli l’uno nell’altro. La forma logica ha dunque una funzione connettiva tra la realtà e il linguaggio, per tale ragione non risulta «parte del mondo»: posto che per mezzo delle proposizioni si descrivano solo stati di cose, non potrà essere descritta, risultando pertanto indicibile.

La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare – la forma logica. Per poter rappresentare la forma logica, noi dovremmo poter situare noi stessi con la proposizione fuori della logica, ossia fuori del mondo.79

La proposizione, l’immagine, giunge alla realtà,80 ovvero «le forme delle entità sono contenute nella forma della proposizione che su quelle entità verte»;81 in ciò si comprende l’identità logica di segno e designato che «consiste nel fatto che non si deve riconoscere nel segno o più o meno che nel designato»:82 segno e designato, rispetto al loro contenuto logico, sono identici.83 Tale comunanza non si esaurisce solo in queste considerazioni, ma – come intuibile – le proposizioni presentano un ordine. In una proposizione le parole sono disposte in modo tale che per mezzo di essa si può esprimere un senso: una proposizione non consiste in un miscuglio di parole, essa è articolata.84 Tenendo a mente che una proposizione è tale se per mezzo di essa si descrive una situazione, un possibile stato di cose, se si comunica un senso, si può constatare che l’insieme85 «il pavimento è sul tavolo» differisce dalla proposizione «il tavolo è sul pavimento», pur se in entrambe compaiono le medesime parole. La proposizione consiste in qualcosa di organico: è determinata dalla relazione delle singole parti,86 dalla loro articolazione; a differenza dell’universo che è determinato non da ciò che lo costituisce singolarmente, ma dall’insieme di ciò che lo costituisce complessivamente.

Continuando la perlustrazione, la possibilità di descrivere il mondo, poiché i suoi limiti coincidono con quelli del linguaggio, è inglobante, con le proposizioni ogni senso può esprimersi: non v’è una situazione indescrivibile. Per mezzo della proposizione si può rappresentare la realtà tutta, tuttavia non ciò che il linguaggio e il mondo hanno in comune; ovvero la forma delle proposizioni è non-dicibile: per mezzo degli elementi del linguaggio (le proposizioni) si può descrivere ogni situazione, la realtà tutta, ma non la stessa espressività. Se la possibilità della descrizione del mondo risulta inglobante, in una sorta di olismo linguistico (ove singola proposizione e linguaggio sono un “tutt’uno”), una situazione e, di conseguenza la proposizione per mezzo della quale essa viene descritta, rimanda e presuppone “tutta” la logica: ogni proposizione, per quanto semplice, mostra di più di ciò che per mezzo di essa viene descritto. Nel semplice atto della ricezione del segno, che immediatamente ne precede la comprensione (il suo pensarlo), deve esserci già il rimando alla situazione descritta.

Una singola proposizione consiste in una «parte» dello spazio logico, e il medesimo spazio logico (la possibilità di significazione) è dato già integralmente;87 questa è l’unica necessità che propriamente sussiste e che in sé ingloba l’effettività stessa che la cosa deve poter essere parte costitutiva di uno stato di cose.88 L’ultimo pensiero espresso mostra, nuovamente, come nella logica nulla sia accidentale, detto altrimenti che una cosa può occorrere nello stato di cose, e questa stessa possibilità, deve essere – lo si è visto – pregiudicata nella cosa. Quindi una singola proposizione non può che presumere la possibilità stessa di significazione, lo spazio logico più volte menzionato, e con essa il linguaggio stesso. Pertanto lo spazio logico non può costituirsi a partire dalle singole proposizioni, né tantomeno dagli eventi; non è impossibile perciò comprendere che una proposizione con l’aiuto d’una armatura logica costituisca un mondo.89 Volendo svolgere un’analogia didattica, a ogni immagine presiede una specifica grammatica: la grammatica italiana presiede a una proposizione espressa in italiano; come la logica presiede a qualsiasi grammatica.

Bisogna specificare che non si deve intendere la logica alla stregua di un metalinguaggio che svolga la funzione di intermediario fra il mondo e una lingua: anche se sussistono diversi codici non si dà un linguaggio generalissimo, fondamento degli altri linguaggi. Ogni lingua, ogni codice può essere espresso traducendo non «ogni proposizione dell’uno in una proposizione dell’altro, ma traducendo solo le parti costitutive della proposizione»;90 cioè la “distanza” fra il segno e il designato non si altera col variare del codice, ma traducendo i medesimi costituenti della proposizione si otterrà la medesima, in un’altra lingua. La traduzione si rivela pertanto una forma di tautologia; ed è questa peculiarità a renderla possibile. «Il limite del linguaggio si mostra nell’impossibilità di descrivere il fatto che corrisponde a una proposizione (che è la sua traduzione) senza appunto ripetere la proposizione».91 Non si dà un intermediario fra il mondo e il linguaggio in quanto la proposizione è a “stretto contatto”, connessa, con la situazione rappresentata:92 in essi v’è quella identità di forma che precede, come è stato constatato, e fonda qualsiasi possibile interpretazione. La forma logica risponde alla domanda, taciuta dallo stesso Wittgenstein, come “si colma” la distanza tra il mondo e il linguaggio? Sostenendo che sussista qualcosa in comune che garantisce sia la sensatezza che l’articolazione e la struttura ad entrambi. Seguendo la traccia precedente, nel tradurre per così dire non passo da un linguaggio a un altro, in quanto una proposizione espressa in una lingua e la medesima tradotta in un’altra presentano la stessa forma.

Unificando la concezione della possibilità con quella di ordine abbiamo che per mezzo di una proposizione non si può descrivere nulla che non sia possibile; né si può concepire un oggetto fuori dalla possibilità della sua occorrenza in stati di cose, in quanto la logica, come abbiamo visto, “tratta” di tutte le possibilità e tali possibilità sono i suoi fatti.93 Ora si comprende come la forma dell’oggetto coincide con la possibilità della sua occorrenza in stati di cose; tale proprietà normativa trova riscontro nelle parole, nella loro configurazione attuabile in una proposizione: esse, come avviene negli eventuali stati di cose, non possono assumere qualsiasi disposizione. Possiamo concludere sostenendo che il linguaggio consiste nell’insieme delle proposizioni,94 è determinato dall’insieme di tutte le proposizioni, come l’universo viene determinato dall’insieme di tutte le situazioni; se l’insieme di tutte le proposizioni è il linguaggio, esso non determina quali vi siano, come l’universo − considerato come insieme e non come organico − non condiziona quali stati di cose sussistano. L’insieme di tutte le proposizioni, il linguaggio, ha in comune con il mondo la forma logica: le situazioni, ove le cose possono occorrere, sono specchiate dall’articolazione, dalla disposizione delle parole in proposizioni per mezzo delle quali sono descritte le relazioni possibili, i fatti.

La reale applicazione degli assunti del Tractatus

Riassumendo; la filosofia si esplica attraverso la critica del linguaggio,95 tuttavia per mezzo delle proposizioni filosofiche (delle osservazioni logiche), non sono descritte situazioni, pertanto risultano proposizioni limite, in cui vengono mostrate la forma delle proposizioni e l’“armatura” del mondo. Ogni lingua è costituita da regole proprie, ma quando una proposizione viene espressa, indipendentemente dal codice usato, la situazione descritta è vista (in questi termini può esplicarsi la teoria raffigurativa),96 ovvero viene pensata in quanto possibile; ciò significa che il vedere un’immagine, una proposizione, e il pensarla non si rivelano momenti distinti, ma un unico processo. Non a caso non conoscendo il codice con cui è stata espressa una proposizione, non conoscendone la lingua, non è possibile immaginarsi la situazione che viene descritta. Non è possibile pensare per mezzo di una lingua che non conosciamo; ciò significa che il linguaggio presiede ai nostri pensieri, e nel comprendere una proposizione si pensa il suo contenuto, la situazione descritta, come possibile.

È una problematica empirica constatare l’effettiva esistenza di una montagna d’oro e le sue reali dimensioni; tuttavia, che la situazione in cui essa occorre sia linguisticamente possibile (e dunque pensabile) lo mostra la nostra capacità di comprendere la proposizione «la montagna d’oro esiste», indipendentemente dal valore veritativo dell’enunciato in questione.

Frege e Russell si erano fatti portatori di un realismo metafisico estremo, una concezione in cui è possibile – anzi doveroso – dare una completa descrizione del modo in cui il mondo è, e tale descrizione è resa possibile dalla corrispondenza fra le parole o i segni del pensiero e le cose, atomi del reale.97

Certamente, con le dovute considerazioni, la filosofia di Wittgenstein risponde a esigenze simili, in cui l’orizzonte di ricerca coincide con l’isomorfismo linguistico. Proseguendo, la specificità della comprensione delle proposizioni è stata evocata rapsodicamente, ma non è impossibile carpire che se si comprende una proposizione per mezzo della sua verifica; in questi termini la teoria di significazione del Tractatus può considerarsi di matrice neopositivista: la validità di un enunciato è esaurito, totalmente spiegato e giustificato, dal suo metodo di verifica. Pur se le conseguenze dell’Opera, cioè il professare un non-dicibile (la forma logica) – il professare un limite verificativo-conoscitivo – sono in netto contrasto con gli assunti totalizzanti neopositivistici.

Noi apprendiamo/insegniamo il linguaggio usandolo. La convenzione linguistica è resa nota dalla connessione della proposizione con la sua verificazione. “Comprendere” significa essere guidati dalla convenzione linguistica a una aspettativa corretta; e dell’aspettativa noi possiamo soltanto dire che essa deve avere la medesima molteplicità logica dell’evento. Una proposizione deve avere la medesima molteplicità logica del fatto al quale si riferisce.98

In questi termini, ricordando che solo una situazione è descrivibile e che una proposizione consiste in un’immagine di una situazione, si comprende appieno per quale ragione un oggetto, e di conseguenza un nome, non è mai in sé, cioè deve sempre occorrere in uno stato di cose, in una proposizione. Ponendo il problema in un’ottica più «tradizionale» per mezzo del linguaggio si può descrivere la situazione ove la cosa può occorrere (il come), non che cosa essa sia in sé (il che cosa);99 qualsiasi enunciato, in quanto enunciato, mostra le cose costituenti stati di cose.

Nella lettura ivi proposta, alle conseguenze del testo, il valore di una parola non è certamente qualcosa in sé, un valore a sé stante, un postulato necessario che garantisca la sua presenza in un contesto proposizionale; esso invece non è altro che l’astrazione di tutte le proposizioni in cui quel nome può ricorrere, e tuttavia è solo in ciascuna delle occorrenze effettive che il nome, la parola, possiede un proprio valore semantico, denotando un oggetto, una cosa. Il nome può valere come segno di un oggetto solo in virtù di una correlazione arbitraria, in quanto, intuitivamente comprensibile, il designato è qualcosa di diverso dal proprio segno; al contrario, nell’immagine, nella proposizione, permanendo la diversità fra segno e designato, la loro correlazione si baserà non sull’arbitrio, ma su un’effettiva analogia strutturale. In questi termini si comprende il profondo legame che si manifesta pienamente nel linguaggio (nella semantica e nella sintassi), fra l’accidentalità e la necessità; legame che pervade tutto il testo di Wittgenstein, fin dalle prime sezioni. La regola lega ogni proposizione, ogni immagine, al suo referente e coincide anche col principio unitario che ordina le contingenze dei fatti; il linguaggio, o più precisamente le sue strutture, “imprimono” al mondo un ordine.

Nella costituzione effettiva del linguaggio, da parte del parlante, nell’“azione linguistica”, verrà fissato il valore dei nomi (cosa denotino i nomi), identificando gli oggetti; compiendo ciò, verrà circoscritto lo spazio logico, un luogo – metaforicamente parlando – dove per mezzo delle proposizioni, essendo configurazioni delle possibili forme delle parole, delle loro articolazioni, si esprime un senso: le situazioni e le proposizioni sussistono in questo spazio logico, la cui esistenza è garantita dal darsi delle proposizioni, per mezzo delle quali si esprime un significato;100 lo spazio logico esprime una possibilità di esistenza.101 Le unità elementari del linguaggio (che non possono sregolarsi) si configurano in possibilità prestabilite dalla loro forma – ed è nella loro essenza il doversi configurare in una data possibilità – secondo determinate regole; questa articolazione linguistica costituisce l’ordine, la configurazione, al reale stesso, in quanto entrambi condividono la medesima strutturazione.

Conoscendo il valore semantico di una parola, l’unità elementare del linguaggio, si può comprendere un enunciato in cui essa occorre, senza mai averlo udito prima – è insito nella natura della proposizione la possibilità che per mezzo di essa si comunichi un senso nuovo,102 grazie a ciò che già si sa103 (per l’appunto il valore semantico) – senza che venga spiegato,104 perché si può già conoscere la situazione che esso rappresenta.105 «Come la descrizione descrive un oggetto secondo le proprietà esterne dell’oggetto, così la proposizione descrive la realtà secondo le proprietà interne della realtà».106 Wittgenstein intende con il sintagma proprietà esterne l’effettività di una situazione, cioè un fatto, mentre con proprietà interne la possibilità, che si rivela coincidere con il logico; questa assonanza fra possibilità e logica si è mostrata più volte nella nostra esposizione.

Per il tramite di una proposizione è possibile esprimere un senso indipendentemente dalla sua verità (dai fatti),107 grazie alla particolarità che essa consista in un’immagine.108 Ovvero possiamo rappresentarci situazioni al di là dell’effettività che non ricorrano, proprio perché possono ricorrere. È possibile immaginarsi un mondo a più dimensioni, ma non senza nessuna dimensione, in quanto ciò oltrepassa l’ambito della logica, rivelandosi impensabile, dunque non descrivibile. Per dare seguito a queste informazioni, grazie alla concezione della logica si risolve la problematica di come sia possibile una descrizione di ciò che non sussiste, del come una proposizione possa rappresentare relazioni che non occorrono.109 Di per sé uno stato di cose, il quale ha certe proprietà, ma non sussiste è qualcosa di problematico.110 Perciò la proposizione consiste in un’immagine di stati di cose solo nella misura in cui si rivela articolata logicamente.111

Possiamo ora comprendere che non è possibile di una cosa farsene un’immagine, non si può descrivere un oggetto; giacché non v’è nell’oggetto quella coincidenza che esiste fra la forma della proposizione e dello stato di cose, che permette al primo di essere un immagine del secondo: della reale natura dell’oggetto non si può dire nulla; né di esso si può avere una rappresentazione singola: pensando l’oggetto, in realtà, si pensa sempre l’oggetto in una determinata situazione: «una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa essa è».112 La reale natura dei nomi rimane inesprimibile, come la logica. Se si potesse descrivere la logica come si descrivono i contenuti del mondo (per mezzo delle proposizioni si possono descrivere solo stati di cose), ciò equivarrebbe a dire, nel serrato discorso di Wittgenstein, che essa stessa sia uno stato di cose e che, pertanto, nella realtà vi siano degli elementi logici; tuttavia non si possono trovare nell’universo oggetti logici. La logica, in quanto non ha elementi che la costituiscono (a differenza dei fatti, che sono il sussistere di stati di cose) non risulta descrivibile. Per comprendere appieno la problematica si ricordi che la conoscenza dei contenuti del mondo non è mai a priori; se nella realtà vi fossero degli oggetti logici la loro conoscenza sarebbe accidentale (non v’è nulla nella conoscenza empirica che sia necessario). Secondo ciò che asserisce Wittgenstein stesso il suo pensiero fondamentale è che le costanti logiche non si possono descrivere.113 Le considerazioni sulla logica sfociano, perciò, nel mistico.

Abbreviazioni delle opere di Wittgenstein citate

  • AO Alcune osservazioni sulla forma logica, in Tractatus logico-philosophicus, op. cit., pp. 116-124;
  • BT The Big Typescript, Torino 2002;
  • EP Esperienza privata e dati di senso, Torino 2007;
  • LB Libro blu e Libro marrone, Torino 2000;
  • LC Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Milano 2005;
  • LE Lezioni 1930-1932, Milano 1995;
  • LF Lettere a Ludwig von Ficker, Roma 197;
  • LO Letters to C. K. Ogden, London 1973;
  • ND Note dettate a G.E. Moore in Norvegia, in Tractatus logico-philosophicus, op.cit., pp. 265-282;
  • NL Wittgenstein, Note sulla logica, in Tractatus logico-philosophicus op.cit., pp. 243-263;
  • PD Pensieri diversi, Milano 1980;
  • Q Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus, op.cit., pp. 127-240;
  • RF Ricerche filosofiche, Torino 2014;
  • TP Tractatus logico-philosophicus, in Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino 2009, pp 1-110.

  1. Cfr. PD, (1937) p. 65. Si potrebbe asserire che da un lato la filosofia di Wittgenstein risulta così rigorosa da sembrare fredda e arida, dall’altro che essa sia un continuo dialogare con se stessa su problematiche quotidiane; tuttavia, come sosterremo più volte, poiché egli considera i problemi logici alla stregua di questioni etiche, in quanto la chiarezza consiste in una forma di spiritualità, tali problematiche si presentano come concrete. ↩︎

  2. Cfr. RF, §107, p. 57. Le Ricerche Filosofiche, scritte tra il 1941 e il 1949, ma rese note nel 1953, due anni dopo la morte dell’autore (pubblicate postume da G. E. M. Anscombe e R. Rhees: Wittgenstein, Philosophical Investigations. Philosophische Untersuchungen, testo tedesco curato da R. Rhees e G. E. M. Anscombe, traduzione inglese di G. E. M. Anscombe, Oxford 1953), contengono la versione ultima della filosofia del “secondo Wittgenstein”; etichetta fuorviante che tradisce la reale natura del suo filosofare, dividendo schematicamente un pensiero che, proprio per la sua particolarità, sfugge a classificazioni. Nei tre decenni che intercorrono fra la formulazione della teoria raffigurativa del Tractatus e la constatazione dell’esistenza dei giochi linguistici vi sono cambiamenti che mostrano un evolversi fluido della speculazione. Temi come l’atteggiamento negativo verso la scienza, l’assunto che vi siano interrogativi esistenziali inscindibili dal pensare, la constatazione di uno slancio metafisico “disperato” nell’uomo, l’idea che la filosofia sia una sorta di terapia e il primato linguistico nell’indagine speculativa avvicinano le varie fasi del suo pensiero più di quanto alcune tesi, seppur cardini, le allontanino. Per Wittgenstein si può parlare effettivamente di un «atteggiamento immutato verso la vita», G.H. von Wright, Wittgenstein e il Novecento, in R. Egidi (a cura di), Wittgenstein e il novecento. Tra filosofia e psicologia, Roma 2002, pp. 17-43, p. 29. ↩︎

  3. Cfr. TP, §4.112. ↩︎

  4. Non a caso Wittgenstein sostiene che il compito del filosofo consista più in un lavoro su se stessi, sul proprio modo di pensare, cfr. BT, §86, p. 407. In merito a questo modo di intendere la filosofia v. S. Cavell, The Claim of Reason. Wittgenstein, Skepticism, Morality, and Tragedy, New York 1979. ↩︎

  5. Cfr. PD, (1930) pp. 27-28. ↩︎

  6. Cfr. ivi, (1931) p. 43. ↩︎

  7. Cfr. ivi, (1931) p. 89. ↩︎

  8. Cfr. RF, §133, p. 62. ↩︎

  9. A.G. Gargani, Wittgenstein. Dalla verità al senso della verità, Pisa 2003, p. 48. ↩︎

  10. Cfr. TP, §4.064. ↩︎

  11. Cfr. ivi, §4.022. ↩︎

  12. Cfr. ivi, §4.024. ↩︎

  13. In merito all’ontologia di Wittgenstein, ci sia concesso rimandare a G. Petrella, «La rivoluzione ontologica di Wittgenstein», in Dialegesthai 8 (2016). ↩︎

  14. Cfr. TP, §2.031. ↩︎

  15. Cfr. ivi, §2.02. ↩︎

  16. Cfr. ivi, §2.04. ↩︎

  17. Cfr. ivi, §2.05. ↩︎

  18. Cfr. ivi, §2.06. ↩︎

  19. RF, §109, p. 558. ↩︎

  20. Il termine terapia, in un contesto di analisi di un’opera di inizio secolo, non può non evocare il nome di Freud. Wittgenstein, in merito al fondatore della psicanalisi, scrisse a Malcolm: «anche io sono stato fortemente impressionato quando ho letto per la prima volta Freud. È straordinario. Certamente, il suo pensare risulta essere pieno di equivoci; ma il suo fascino, e il fascino delle argomentazioni, è così grande che facilmente possono ingannare. Egli marca di continuo le grandi forze insite nella mente, saldi pregiudizi che operano contro i concetti della psicanalisi; ma lui non esprime mai l’enorme fascino che quei concetti hanno sulle persone, compreso lui stesso. Per quanto sia la veemenza dei pregiudizi contro qualcosa di spregevole e nascosto, talora essa è infinitamente più allettante di quanto sia repulsiva.», B. McGuinness (edited by), Wittgenstein in Cambridge: Letters and Documents 1911-1951, Malden (MA) 2008, p. 343; traduzione dell’autore del presente scritto. Più specificamente in merito al rapporto che intercorre fra Wittgenstein e Freud v. M. Mancia (a cura di), Wittgenstein & Freud, Milano 2005; differente risulta essere l’approccio di Bouveresse, che analizza l’ipotetica scientificità della teoria sull’inconscio e gli eventuali presupposti scientifici delle teorie freudiane v. J. Bouveresse, Filosofia, mitologia e pseudo-scienza. Wittgenstein lettore di Freud, Torino 1997. ↩︎

  21. A.G. Gargani, Wittgenstein. Dalla verità al senso della verità, Pisa 2003, p. 49. ↩︎

  22. Cfr. TP, §4.003. ↩︎

  23. Cfr. ivi, §4.0031. ↩︎

  24. G.H. von Wright, Wittgenstein e il Novecento op.cit., pp. 17-43, p. 29. ↩︎

  25. Cfr. B. Russell, The autobiography of Bertrand Russell, II, London 1968, p. 99. ↩︎

  26. M. Damonte, «Gli scritti di Wittgenstein durante la Grande Guerra», in Quaderni di Palazzo Serra, 28 (2015), pp. 281-296, p. 294. ↩︎

  27. Cfr. TP, §5.473. ↩︎

  28. Cfr. ivi, §2.01231. ↩︎

  29. Cfr. ivi, §6.13. ↩︎

  30. Cfr. ivi, §5.61. ↩︎

  31. Cfr. ivi, §6.13. ↩︎

  32. Cfr. ivi, §5.552. ↩︎

  33. Cfr. ivi, §3.411. ↩︎

  34. Cfr. ivi, §2.012. ↩︎

  35. Cfr. ivi, §2.0123. ↩︎

  36. L’assunto che sostiene che per utilizzare, conoscere, alcune parole bisogna conoscere qualsiasi occorrenza a priori, o più precisamente che debba essere familiare l’impiego della parola medesima, possiamo considerarlo una costante del suo filosofare, si pensi alle varie occorrenza della parola credere; Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Milano 1980, passim↩︎

  37. Cfr. TP, §2.014. ↩︎

  38. Cfr. ivi, §2.013. ↩︎

  39. D. Donato, «Esistono due Wittgenstein?», in AGON, 12 (gennaio-marzo 2017), pp. 127-151, p.132. ↩︎

  40. Cfr. TP, §5.61. ↩︎

  41. Cfr. ivi, §5.552. ↩︎

  42. Cfr. B. Russell, Introduction to Mathematical philosophy, London 1919, passim↩︎

  43. Cfr. TP, §6.124. ↩︎

  44. Si ricordi che per mezzo delle proposizioni si possono descrivere solo stati di cose. ↩︎

  45. Cfr. ivi, §2.012. ↩︎

  46. Cfr. LO, p. 50. ↩︎

  47. In merito si legga l’introduzione che Russell scrisse al Tractatus: cfr. TP, dall’Introduzione di B. Russell, p. 4. ↩︎

  48. Cfr. G.H. von Wright, Wittgenstein e il Novecento, op.cit., p. 34. ↩︎

  49. Cfr. M. Black, Manuale per il Tractatus di Wittgenstein, Roma 1967, p. 21. ↩︎

  50. Cfr. Q, 22.1.15, p. 175. In questo frangente Wittgenstein si riallaccia a peculiari problemi che avevano visto la filosofia di inizio secolo coinvolgere i pensatori, in particolare tale problematica è affrontata da Frege e Russell, autori che egli ricorda e ringrazia; cfr. TP, dalla prefazione, p. 23. ↩︎

  51. Cfr. RF, §65, p. 46. In esse, come è ben risaputo, tale problematica si risolve non con l’esplicazione di un qualcosa in comune fra i linguaggi, ma con l’asserzione dell’esistenza di relazioni di famiglia tra i medesimi: «ciò che si deve accettare, il dato, sono – potremmo dire – forme di vita» (ivi, p. 264). Nella concezione linguistica delle Ricerche non v’è propriamente un linguaggio, inteso come unica modalità di espressione umana, ma esistono vari giochi linguistici; con tale espressione si designano diverse attività, che corrispondono a diverse situazioni concrete, definibili come forme di vita↩︎

  52. Cfr. TP, §2.0271. ↩︎

  53. Cfr. Q, (2.9.14) p. 129. ↩︎

  54. Cfr. TP, §6.1251. ↩︎

  55. Cfr. ivi, §6.125. ↩︎

  56. Cfr. ivi, §3.42. ↩︎

  57. Ivi, §5.551. ↩︎

  58. Cfr. ivi, §4.11. ↩︎

  59. Cfr. Q, 22.1.15, p. 175. ↩︎

  60. Alcuni di questi interrogativi, seguendo le impostazioni di Wittgenstein, risultano come degli incantesimi del nostro linguaggio, non sono dei quesiti a cui si può dar risposta, ma come dei bernoccoli che l’intelletto si è procurato cozzando con i propri limiti, cfr. RF, (§119) p. 59; perché spesso non siamo in grado di vedere l’adeguato impiego delle parole, cfr. ivi, §122, p. 60.

    ↩︎

  61. Q, (4.9.14) p. 131. ↩︎

  62. TP, §5.552. ↩︎

  63. Cfr. ivi, §2.0141. ↩︎

  64. Ancor più precisamente, potremmo sostenere che la logica si dia continuamente poiché l’accidentale rientra in tutte le possibilità, ché in esse vi sono anche le possibilità realizzate dall’accidentale. ↩︎

  65. Cfr. ivi, §6.11. ↩︎

  66. Cfr. ivi, §6.1. ↩︎

  67. Cfr. ivi, §6.1261. ↩︎

  68. Cfr. ivi, §2.0121. ↩︎

  69. Come abbiamo già accennato, il mondo nel Tractatus sembra essere essenzialmente linguistico; in merito v. G. Petrella, «La rivoluzione ontologica», in Dialegesthai 8 (2016). ↩︎

  70. Sempre più si sta comprovando l’idea che «nella» logica sussistono le possibilità. ↩︎

  71. Cfr. TP, §5.4731. ↩︎

  72. ND, p. 267. ↩︎

  73. Cfr. Ibidem↩︎

  74. Cfr. ibidem↩︎

  75. TP, §5.61. ↩︎

  76. NL, p. 246. ↩︎

  77. Cfr. TP, §4.05 e cfr. LE, p. 14. Questo testo è particolarmente interessante: esso consiste, da un lato, in un commento ad alcune teorie del Tractatus, o più precisamente, le teorie esposte in queste lezioni esplicano, con esempi pregnanti, alcune impostazioni dell’opera; dall’altro, tale testo mostra quel ritorno alla quotidianità, al mondo quotidiano, che molti critici, tra cui Hadot (cfr. P. Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, Milano 2007, p.76), denunciano nel Wittgenstein successivo al Tractatus. Tuttavia se si considera che il Tractatus tenta di trovare le condizioni di verità di una proposizione, del linguaggio stesso, a prescindere dai contenuti, in modo puramente formale, si intuisce che inevitabilmente il mondo quotidiano trova la propria ragione d’essere in una visione di più ampio respiro. Segnaliamo che l’espressione un ritorno alla quotidianità, che indica una non considerazione da parte di Wittgenstein del mondo quotidiano nel Tractatus, è perciò fuorviante; come più volte da noi denunciato. ↩︎

  78. Cfr. TP., dalla prefazione, p. 23. ↩︎

  79. Ivi, §4.12. ↩︎

  80. Cfr. ivi, §2.1511. ↩︎

  81. AO, p. 122. ↩︎

  82. Q, 4.9.14, p. 131. ↩︎

  83. Cfr. ibidem↩︎

  84. Cfr. TP, §3.141. ↩︎

  85. Utilizziamo il termine insieme a sottolineare la non applicazione di regole sintattiche, la mancanza di organicità che preclude la possibilità di esprimere un senso. ↩︎

  86. Sulla questione che una proposizione sia comprensibile a partire dalla sua “totalità”, Wittgenstein, credo, ripercorre l’impostazione di Frege; cfr. G. Frege, Logica e aritmetica, op.cit., p. 297. ↩︎

  87. Cfr. TP, §3.42. ↩︎

  88. Cfr. ivi, §2.011. ↩︎

  89. Cfr. ivi, §4.023. ↩︎

  90. Ivi, §4.025. ↩︎

  91. PD, (1931) pp. 32-33. ↩︎

  92. Cfr. TP, §4.03. ↩︎

  93. Cfr. ivi, §2.0121. ↩︎

  94. Cfr. ivi, §4.001. ↩︎

  95. Cfr. ivi, §4.0031. ↩︎

  96. La teoria raffigurativa, teoria cardine del Tractatus, consiste nell’assunto che vi sia un isomorfismo serrato fra il mondo e il linguaggio: le proposizioni sono immagini della realtà (cfr. ivi, §4.01), degli stati di cose, proiezioni di essi (mostrano la medesima articolazione, struttura, forma) e, pertanto, riproiettano i singoli elementi delle situazioni in un modello (cfr. ivi, §2.12) articolato (cfr. ivi, §2.14). Sulla teoria raffigurativa, v. D. Pears, La teoria dell’immagine di Wittgenstein e le teorie del giudizio di Russell, in M. Andronico, D. Marconi, C. Penco (a cura di), Capire Wittgenstein, Genova-Milano 2010, pp. 63-86 e M. Dummett, Frege e Wittgenstein, in M. Andronico, D. Marconi, C. Penco (a cura di), Capire Wittgenstein, Genova-Milano 2010. ↩︎

  97. D. Donato, «Esistono due Wittgenstein?», in AGON, 12 (gennaio-marzo 2017), p. 130. ↩︎

  98. LE, p. 18. ↩︎

  99. Cfr. TP, §3.221. ↩︎

  100. Cfr. ivi, §3.4. ↩︎

  101. Cfr. ivi, §3.411. Per quanto concerne la questione ontologica e logica, caratterizzati dalla questione della possibilità, riteniamo rivelatorie le considerazioni di Frascolla; v. P. Frascolla, L’interpretazione dell’ontologia del Tractatus: un criterio generale di valutazione, in L. Perissinotto (a cura di), Un filosofo senza trampoli, Milano 2010, pp. 11-24. ↩︎

  102. Cfr. TP, §4.027. ↩︎

  103. Cfr. ivi, §4.03. ↩︎

  104. Cfr. ivi, §4.02. ↩︎

  105. Cfr. ivi, §4.021. ↩︎

  106. Ivi, §4.023. ↩︎

  107. Cfr. ivi, §4.061. ↩︎

  108. Cfr. ivi, §4.06.

    ↩︎

  109. Cfr. Q, 30.9.14, p. 136. ↩︎

  110. Cfr. ivi, 23.9.14, p. 134. ↩︎

  111. Cfr. ivi, 3.10.14, p. 137. ↩︎

  112. TP, §3.221. ↩︎

  113. Cfr. TP, §4.0312. ↩︎