1. Il rappresentazionalismo
Il rappresentazionalismo, ossia l’idea che pensieri, enunciati e credenze hanno un contenuto in virtù della loro capacità di rappresentare accuratamente ciò che si trova fuori della mente, è l’architrave dell’epistemologia moderna e contemporanea. Questa linea di pensiero, che non possiamo considerare né unitaria né sistematica nel suo sviluppo, accomuna la maggior parte dei filosofi moderni e contemporanei. Del resto che abbia costituito una sorta di koiné per il pensiero occidentale, soprattutto nelle formulazioni che da Cartesio, passando per Kant, giungono al pensiero contemporaneo attraverso l’opera di Frege, Russell, Tarski, Carnap e del primo Wittgenstein, lo testimoniano le cogenti posizioni epistemiche che emergono dai teorici del rappresentazionalismo.
Nell’ottica del paradigma rappresentazionale, se vogliamo comprendere la possibilità e la natura della conoscenza dobbiamo innanzitutto capire il modo in cui la mente elabora le proprie rappresentazioni. secondo Rorty, «l’immagine che tiene prigioniera la filosofia tradizionale è quella della mente come un grande specchio che contiene rappresentazioni diverse – alcune accurate, altre no – e che può essere studiato attraverso metodi puri, non empirici. Senza la nozione della mente come specchio, non si sarebbe potuta proporre quella della conoscenza come rappresentazione accurata».1 Sono considerate rappresentazioni accurate quelle che si dicono vere o false in base alla loro capacità di descrivere come di fatto stanno le cose, di rispecchiare la realtà, di corrispondere ai fatti.
Alla base del modello rappresentazionalista vi è una sorta di «dicotomia ontologica» che tende a separare il segno dal significato e la parola dal pensiero. Una volta che si è optato per tale modello, viene quasi a stabilirsi un «a priori strutturale per il quale si tende a perpetuare una radicale frattura tra il mondo linguistico, da una parte, ed il mondo della realtà e dei pensieri, dall’altra».2 Questa diversificazione sembra riecheggiare una concezione di marcata derivazione classica del funzionamento «rappresentativo» degli esseri umani: secondo Aristotele infatti, «i suoni che sono nella voce sono i simboli delle affezioni che sono nell’anima, e i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce».3 Viene così auspicata «una logica delle corrispondenze» che, nel mettere in luce una forma probabilmente troppo circoscritta di conoscenza, «tende ad eclissare il nostro proprio entroterra di esperienze e scambi interattivi»; si tratta di una logica che tende a privilegiare una concezione tendenzialmente semiotica del linguaggio. Secondo il paradigma rappresentazionale, il linguaggio è concepito fondamentalmente come un sistema di segni che rappresentano o significano qualcos’altro.
L’influsso del rappresentazionalismo induce dunque un pervasivo programma di ricerca che consiste nella costruzione di «una teoria generale della rappresentazione, una teoria che sia in grado di dividere la cultura nelle aree che rappresentano bene la realtà, in quelle che la rappresentano meno bene, e in quelle che non la rappresentano affatto».4 Il modello rappresentazionale è così profondamente radicato nella riflessione da rendere difficile concepire una linea di pensiero “alternativa” nei suoi confronti. Tuttavia una eminente tradizione filosofica che accomuna, tra gli altri, Hegel, Husserl, James, Dewey, l’ultimo Wittgenstein, l’ultimo Heidegger, C. I. Lewis, Hook, M. White, Rorty e Davidson ci ha suggerito come evitare il rappresentazionalismo, suggerendo nuovi approcci dinamici di descrivere la conoscenza.
2. L’antirappresentazionalismo di Davidson
Davidson, in particolare, è stato ritratto da Rorty come il filosofo che, sulla scia del pragmatismo di James e Dewey, ci ha aiutati ad evitare le insidie del modello rappresentazionale, dando un rinnovato impulso all’antirappresentazionalismo attraverso la sua critica al dualismo schema-contenuto.5 Quest’ultimo Davidson lo connette al dualismo cartesiano di oggettivo e soggettivo e si basa su una «certa concezione della mente con i suo stati e i suoi oggetti privati»6 e l’idea che la verità consiste nel corretto rispecchiamento dei fatti.
Sulla scia della critica di Davidson e mediante il suo rifiuto della dicotomia schema-contenuto è difficile concepire la conoscenza nei termini di relazioni rappresentazionali tra il linguaggio e il mondo. L’abbandono del rappresentazionalismo, ossia la demolizione di ciò che Davidson chiama il “mito del soggettivo”, comporta il rifiuto della nozione di corrispondenza tra il linguaggio e il mondo, tra gli enunciati e i fatti e dell’idea che gli enunciati veri debbano rappresentare accuratamente il mondo «là fuori». Secondo Davidson, il contenuto dell’esperienza e della conoscenza non deve essere concepito in termini rappresentazionali, ossia nei termini di ciò che è rappresentato da certi episodi o stati rappresentanti. Il contenuto rappresentazionale non deve essere analizzato nei termini degli oggetti, stati di cose o eventi che provocano causalmente la rappresentazione, poiché questo comporta una concezione del linguaggio che si concentra sul riferimento, sull’estensione e sulla denotazione.
Per comprendere la svolta antirappresentazionale di Davidson ci sembra opportuno focalizzare la nostra attenzione sulle sue note argomentazioni contro i fatti, poiché è dal ripudio dei fatti che egli può rigettare la teoria corrispondentista e il modello rappresentazionale. In uno dei suoi contributi sulla tematica dei fatti, Davidson afferma che
il rifiuto dei fatti in quanto entità di corrispondenza che possono spiegare la verità è centrale per le… concezioni [di Davidson] della verità e del significato, per il… rifiuto [di Davidson] della distinzione schema/contenuto, per il rappresentazionalismo e molto di più.7
Nelle sue argomentazioni contro i fatti Davidson sostiene che vi sono due motivi essenziali per respingerli:
- I fatti non sono supposti dalle più attendibili teorie del significato. Al riguardo Davidson afferma che aggrapparsi «all’idea che gli enunciati veri corrispondano ai fatti» sarebbe plausibile
se si potesse mostrare che la verità degli enunciati dipende da fatti chiaramente individuati, giacché tale dipendenza potrebbe bastare a rendere conto dell’unità degli enunciati. Il problema… è che nessuno sa come individuare i fatti in modo plausibile». Secondo Davidson, infatti, gli enunciati veri (o i giudizi e le credenze che essi esprimono)… [non] corrispondono a fatti chiaramente individuati,8
poiché uno degli argomenti più persuasivi a supporto delle definizioni di Tarski è che in esse non c’è niente che svolga il ruolo di fatti o state of affairs.9 Inoltre, i cosiddetti “fatti” collassano in un unico fatto che non ci permette di riconoscere l’uno dall’altro.10
- C’è un argomento rilevante, denominato da Barwise e Perry slingshot argument,11 che ci offre un valido motivo per rifiutare i fatti. Lo slingshot è un argomento non solo contro i fatti ma «contro ogni entità che potrebbe venir proposta come corrispondente, per esempio gli stati di cose o le situazioni».12 Esso dimostra che i fatti, concesso che ce ne sia qualcuno, alla fine collassano in un solo fatto complessivo e che ogni presunto truth-maker noi concepiamo incontrerà lo stesso destino, «poiché mostra che quali che siano le cose cui pensiamo che gli enunciati corrispondano, tutti gli enunciati veri dovranno corrispondere alla stessa cosa»: l’universo.^[13] Secondo Davidson, se c’è «una sola cosa cui gli enunciati possono corrispondere, non rimane alcun interesse nella relazione di corrispondenza».13
In Fedele ai fatti, Davidson si serve dello slingshot argument per minare la concezione corrispondentista della verità costruita sui fatti. A suo modo di vedere,
l’asserzione che Napoli è più a nord di Red Bluff corrisponde al fatto che Napoli è più a nord di Red Bluff, ma anche, sembrerebbe, al fatto che Red Bluff è più a sud di Napoli (forse si tratta dello stesso fatto); e anche al fatto che Red Bluff è più a sud della maggiore città italiana nel raggio di trenta miglia da Ischia. Quando riflettiamo sul fatto che Napoli soddisfa la seguente descrizione: è la maggiore città italiana nel raggio di trenta miglia da Ischia e tale che Londra è in Inghilterra; allora cominciamo a sospettare che se un’asserzione corrisponde a un singolo fatto, corrisponde a tutti.14
Davidson spinge questo ragionamento fino alle sue estreme conseguenze e conclude che ci può essere, come mostra lo slingshot argument, al massimo un solo fatto, che egli chiama il «Grande Fatto»15, che però è inadeguato a sostenere il rappresentazionalismo e la teoria corrispondentista della verità. Lo slingshot, come opportunamente chiarisce Davidson, non può dimostrare che gli enunciati o le credenze rappresentino (o corrispondano a) fatti, situazioni, oggetti o stati di cose.16 Che gli enunciati veri corrispondano tutti alla stessa cosa (il mondo, la realtà, la natura) implica, secondo Davidson, la banalizzazione del concetto di corrispondenza. Scrive infatti: «Se esiste solo una cosa a cui gli enunciati possono corrispondere, non rimane alcun interesse nella relazione di corrispondenza», poiché potremmo ridurre la relazione in una sola proprietà17. Facendo seguito a quanto detto, Davidson arriva a sostenere che, se «s corrisponde all’universo», analogamente, «s corrisponde a (o nomina) il Vero» o «s corrisponde ai fatti», può essere detto«in modo meno fuorviante come “s è vero”».18 La proprietà di essere vero non è spiegata dalla relazione di corrispondenza, poiché, se vi è al massimo una cosa a cui gli enunciati possono corrispondere, è più semplice dire «è vero» che «corrisponde alla verità»19.
Poiché, secondo Davidson, non c’è niente che rende veri gli enunciati, la nozione di conformità all’esperienza, come anche quella di essere fedele ai fatti, non aggiunge nulla di «intelligibile» alla nozione di essere vero. Non c’è niente che possa rendere veri gli enunciati, le credenze o le teorie:
non l’esperienza, né le irritazioni di superficie, né il mondo possono rendere vero un enunciato. Che l’esperienza segua una certa direzione, che la nostra pelle venga riscaldata o punta, che l’universo sia finito: questi fatti se vogliamo chiamarli così, rendono veri gli enunciati o le teorie. Ma si può dire la stessa cosa meglio senza parlare di fatti. L’enunciato “La mia pelle è calda” è vero se e solo se la mia pelle è calda.
E qui, afferma Davidson, «non c’è alcun riferimento a un fatto, a un mondo, a un’esperienza, a un’evidenza»20. Lo slingshot argument, secondo l’interpretazione che ne dà Davidson, dimostra che non ci sono fatti individuali a cui gli enunciati veri corrispondono21 e dimostra altresì che nessuna teoria della verità intesa come corrispondenza ai fatti può illuminare il suo explanandum: la postulazione dei fatti non riesce a spiegare, a definire il concetto di verità. Appellarsi ai fatti per spiegare la verità perciò non è di alcuna utilità, poiché il predicato «corrisponde a un Solo Fatto», potrebbe anche essere visto come una «parola non strutturata», e noi abbiamo già un predicato più appropriato e meno fuorviante come «è vero»22. Già Strawson, al riguardo, aveva sostenuto che asserire che «un enunciato corrisponde a (collima con, è convalidato da, si accorda con) i fatti» è solo «una variante per dire che è vero»23.
In Epistemologa e verità, un saggio di particolare interesse ai fini delle nostre argomentazioni in quanto appunto ci permette di esplicitare meglio alcuni punti nodali del pensiero di Davidson che hanno suscitato perplessità, egli osserva che,
partendo dalle assunzioni per cui un enunciato vero non può essere fatto corrispondere a qualcosa di diverso attraverso la sostituzione di termini singolari coreferenziali, o attraverso la sostituzione di enunciati logicamente equivalenti, si può mostrare che, se gli enunciati veri corrispondono a qualcosa, allora essi corrisponderanno tutti alla stessa cosa.24
Questo passo risulta illuminante per chiarire ciò che Davidson aveva sostenuto in Fedele ai fatti riguardo alla teoria della corrispondenza. In questo lavoro egli aveva fatto riferimento ad una teoria della corrispondenza, del tipo V-teoria di stile tarskiano, che aveva suscitato perplessità, in quanto le definizioni di verità di Tarski sembrano implicare, secondo alcuni interpreti, che gli enunciati veri corrispondano ai fatti.25 È stata un’improprietà terminologica, come chiarirà nei saggi successivi Davidson, parlare di teoria della corrispondenza, un’improprietà o, se vogliamo, un errore che ha generato una serie di confusioni di ordine concettuale. Neale sostiene che si tratta soltanto di una «tensione… verbale».26 Nella Introduzione a Verità e interpretazione Davidson afferma infatti che è stata una scelta erronea quella di chiamare la concezione tarskiana della verità una teoria corrispondentista, poiché «una simile teoria non spiega la verità indicando delle entità, per esempio, i fatti, a cui gli enunciati veri possano corrispondere». Ricollegandosi all’opera di Frege, Davidson respinge «i fatti come entità capaci di svolgere questo ruolo»27. Per il filosofo americano, la teoria tarskiana non presuppone la postulazione di alcuna entità (fatti o stati di cose) a cui gli enunciati veri devono corrispondere, ma implica «la caratterizzazione di una relazione fra entità ed espressioni («soddisfacimento»)»28. Le definizioni di verità di Tarski non si basano sull’idea che un enunciato raffiguri, rappresenti o «corrisponda» a una qualche entità. Secondo Davidson, infatti, non vanno presi sul serio i riferimenti che Tarski fa agli «stati di cose» in osservazioni del tipo: «[I] concetti semantici esprimono determinate relazioni fra oggetti (e stati di cose) a cui ci si riferisce nella lingua in questione ed espressioni della lingua che si riferiscono a questi oggetti».29 Anzi, uno dei suoi grandi meriti è di averci mostrato come possiamo evitare la nozione di fatto.
Davidson ravvisa il carattere «corrispondentistico» della teoria tarskiana nel «soddisfacimento»30, inteso come relazione «tra il linguaggio e qualcosa d’altro»31. La verità di un enunciato, osserva, non deriva dall’esistenza del fatto che descrive, ma dipende direttamente dalle relazioni di soddisfacimento e di riferimento. In questo modo, Davidson evita la categoria ontologica di fatto che sottende la teoria della verità come corrispondenza32. L’idea di chiamare la concezione tarskiana della verità una teoria corrispondentista è scaturita, secondo Davidson, dal ruolo svolto dalle sequenze nel soddisfare gli enunciati chiusi.
Risale a Kotarbiński l’interpretazione che individua nel «soddisfacimento» il tratto corrispondentistico della teoria tarskiana. Kotarbiński aveva infatti affermato che
la concezione semantica della verità… è un prolungamento moderno, svincolato dalle solite obiezioni, dell’interpretazione classica della verità intesa come accordo con la realtà. Secondo questa concezione la verità di un enunciato consiste nel fatto che esso viene soddisfatto da tutti gli oggetti, dove il concetto di soddisfacimento non è definito in relazione alla verità.33
Nei lavori successivi Davidson è tornato nuovamente a parlare del problema della corrispondenza per specificare ulteriormente la sua posizione e chiarire le perplessità suscitate dalla sua riflessione iniziale su questa teoria. In Ripensamenti e in Epistemologia e verità, ad esempio, egli ribadisce che è stato un errore parlare di corrispondenza poiché «non vi è nulla cui gli enunciati potrebbero corrispondere»34. Quest’ultima affermazione viene sostenuta da Davidson ricollegandosi all’opera di Clarence Irving Lewis; egli sfida i teorici della corrispondenza a delimitare il fatto, o pezzo di mondo, o di realtà, cui un enunciato vero potrebbe eventualmente corrispondere.35 Si potrebbero localizzare degli oggetti individuali, se all’enunciato capitasse di nominarne o descriverne, ma anche queste localizzazioni acquisterebbero un senso solo rispetto a un quadro di riferimento e dunque, presumibilmente, il quadro di riferimento dovrebbe essere incluso in qualunque cosa cui un enunciato vero corrispondesse. Nel seguire fino in fondo le implicazioni delle analisi di Lewis, Davidson conclude che, se gli enunciati veri corrispondono a qualcosa, deve trattarsi dell’universo nella sua interezza; ma «così, tutti gli enunciati veri corrispondono alla stessa cosa».36
La concezione che individua nel soddisfacimento il tratto corrispondentista della teoria di Tarski è stata fortemente criticata, tra gli altri, da Wiggins,37 che considera «erroneo» e fuorviante parlare di soddisfacimento per la teoria tarskiana della verità. Procedendo nella stessa linea critica, anche Engel obietta che «una teoria della corrispondenza soddisfacente deve, in un modo o in un altro, spiegare le relazioni tra le parole e il mondo»,38 per cui non può basarsi sul soddisfacimento. Replicando a questa obiezione di Engel, Davidson sostiene che, sebbene Tarski sembri suggerire che gli enunciati veri corrispondono ai fatti, ciò è
fuorviante, perché nel suo lavoro sulla verità non c’è niente a cui gli enunciati possano corrispondere. Ciò che potrebbe avere in mente è che il suo metodo stabilisce delle relazioni tra parti significanti degli enunciati ed entità mondane, mostrando come queste relazioni siano adeguate a dare conto delle condizioni di verità degli enunciati.39
È bene, secondo Davidson, liberarsi della corrispondenza e con essa del fallace potere esplicativo che di solito le si attribuisce: la corrispondenza sarebbe utile soltanto se noi riuscissimo a dire, «in un modo istruttivo, quale fatto o pezzo della realtà rende un particolare enunciato vero». Ma sfortunatamente: «Nessuno è riuscito a farlo (No-one has succeded in doing this)»,40 afferma in modo risoluto il filosofo.
Secondo Davidson, inoltre, dovremmo accettare le conclusioni dello slingshot argument: «non ci sono interessanti e appropriate entità disponibili che, essendo in qualche modo messe in relazione agli enunciati, possono spiegare perché gli enunciati veri sono veri e gli altri no». E: «vi è, allora, un buon motivo per essere scettici sull’importanza della teoria corrispondentista della verità»41.
Il lavoro di Davidson ci mostra che, in assenza di fatti a cui corrispondano gli enunciati veri, non è possibile arrivare alla formulazione di «rappresentazioni». Per lui, l’unica obiezione plausibile che possiamo fare alle teorie corrispondentiste della verità è
che queste teorie non riescono a produrre le entità cui i portatori di verità (si tratti di asserti, enunciati o proferimenti) dovrebbero corrispondere… «Niente, nessuna cosa, rende veri i nostri asserti». Se questo è vero, e io sono convinto che lo sia, dovremmo anche rimettere in questione l’assunto comune secondo cui gli enunciati, o i loro esempi proferiti, o altre entità del genere, o certe configurazioni cerebrali, possano essere correttamente chiamati «rappresentazioni», dal momento che non vi è niente per essi da rappresentare.42
Se c’è solo una cosa da rappresentare, non c’è niente di interessante nel generare rappresentazioni; né può, secondo Davidson, la nozione di rappresentazione permetterci di fare distinzioni tra entità quali gli enunciati e le credenze. Vi sono invece delle entità che solitamente vengono dette «presentare» o «ra-ppresentare» qualcosa. Riferendoci alle carte geografiche, si può dire che una certa proiezione produce una rappresentazione dei due emisferi. Anche se sarebbe meglio, secondo Davidson, usare i termini «nominare» e «descrivere», poiché essi esprimono meglio la relazione tra nomi e descrizioni e ciò che essi nominano o descrivono.43
Con il mostrarci i problemi che derivano da una scelta di ordine rappresentazionale, i contributi di Davidson hanno decisamente minato il modello rappresentazionalista. Infatti, tutti i problemi derivanti dal rappresentazioanlismo sono connessi agli obsoleti discorsi sui fatti, sugli states of affairs e sulle teorie corrispondentiste della verità. Anche lo scetticismo nasce dalla fiducia posta sul vuoto e vano modello rappresentazionalista basato sulla relazione tra io e mondo. Se non ci sono né fatti né cose che li rappresentano tutti i problemi filosofici tradizionali – scetticismo, realismo, relativismo – sono destinati a fallire.44 Se optiamo per una scelta di ordine antirappresentazionalista derivante, anche, dall’abbandono della distinzione apparenza/realtà, realismo/antirealismo e dalla spiegazione della conoscenza come conoscenza da «spettatore»,45 allora le posizioni scettiche e relativiste che sorgono dagli assunti del modello rappresentazionale si dissolveranno.
Secondo Rorty, l’abbandono di Davidson della distinzione linguaggio/fatto ha messo in luce l’insostenibilità della relazione tra proposizioni e mondo nei termini di una relazione rappresentazionale46. In Una graziosa confusione di epitaffi, che si propone di radicalizzare e ampliare l’approccio naturalistico di Quine allo studio del comportamento linguistico, Davidson ci invita a cancellare «la linea di demarcazione tra conoscere un linguaggio e conoscere come orientarsi globalmente nel mondo», e a riconoscere che «non c’è una cosa quale il linguaggio, se un linguaggio è qualcosa di simile a ciò che molti filosofi e linguisti hanno supposto».47
In modo particolare l’opera di Davidson, nel perfezionare e ampliare le linee di pensiero sviluppate da Sellars e Quine, è, secondo Rorty, «la migliore espressione contemporanea della corrente principale del pensiero pragmatista: la corrente naturalizzante, darwinizzante».48 Davidson, che già in Sull’idea stessa di uno schema concettuale ci aveva messo in guarda dai pericoli del rappresentazionalismo – dall’idea che la caratteristica essenziale del linguaggio sia la capacità di descrivere come di fatto stanno le cose –, ha di nuovo attaccato il rappresentazionalismo affermando:
Le credenze sono vere o false, ma non rappresentano niente. È bene liberarsi delle rappresentazioni, e con esse della teoria della verità come corrispondenza, perché è l’idea che vi siano rappresentazioni a generare i germi del relativismo.49
Se abbandoniamo il rappresentazionalismo, allora si sarà poco interessati alla relazione tra mente e mondo o tra linguaggio e realtà. Per Davidson, infatti, non è possibile parlare di un linguaggio che «rappresenta» adeguatamente il mondo, poiché soltanto ulteriori credenze, e non il mondo, possono rendere vere le credenze; soltanto ulteriori enunciati, e non la realtà, possono rendere veri gli enunciati, poiché «non vi è alcuna relazione di “esser reso vero” che lega le credenze», gli enunciati e il mondo. Noi capiamo tutto quel che c’è da sapere sulla relazione tra le credenze, gli enunciati e il mondo «quando comprendiamo le loro relazioni causali con il mondo»50. Alla tradizionale concezione del linguaggio inteso come rappresentazione raffigurativa sopravviene quella secondo cui gli enunciati sono il risultato dell’interazione tra credenze e significati.
Da un punto di vista antirappresentazionalista, la conoscenza non scaturisce da una «relazione reciproca» tra mente e mondo, tra enunciati, credenze e realtà, ma è continua con il mondo; è «un’impresa creativa (ludica), che inventa strutture per tutto ciò che incontra e crea una molteplicità di mondi».51 Finché la conoscenza viene concepita in termini di connessioni rappresentazionali, di relazioni reciproche tra mente e mondo, di corrispondenza, di adaequatio rei et intellectus, non è possibile liberarci da una delle più possenti ed elusive metafore della modernità, quella della mente come specchio della natura.
La differenza principale tra ricerche rappresentazionali e antirappresentazionali potrebbe essere vista come l’effetto di due atteggiamenti umani: il primo descrive la cognizione come un processo di riproduzione del mondo, il secondo, invece, come un’impresa creativa che incontra e crea pluralità di mondi. Mentre il primo sottoscrive la funzione «riproduttiva»,52 ossia evidenzia il modo in cui i «contenuti della coscienza rispecchiano – o deformano – il mondo»,53 il secondo sottoscrive quella «produttiva»,54 focalizzando la sua attenzione «su quegli atti di significato che non solo influenzano la struttura ma promuovono anche l’esperienza stessa».55 La cognizione riproduttiva della conoscenza impiega la metafora «ubiquitaria del rispecchiamento»; la cognizione produttiva o antirappresentazionale invece opera attraverso le metafore della «generazione interattiva»56 della conoscenza.
Secondo Davidson, dovremmo arrivare ad abbandonare, una volta per tutte, la nozione di rappresentazione accurata, poiché essa per usare le parole di Rorty, non costituisce «il modo giusto di pensare quello che fa la filosofia», poiché la «ricerca di rappresentazioni accurate di… costituisce una rappresentazione inaccurata della filosofia».57
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R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, tr. it. a cura di G. Millone - R. Salizzoni, Bompiani, Milano 1986, p. 15 ↩︎
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G. Corradi Fiumara, Il processo metaforico, Il Mulino, Bologna 1998, p. 19. ↩︎
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Aristotele, Della interpretazione, introduzione, traduzione e commento di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1993, 16a. I prodromi della concezione della verità come corrispondenza li troviamo in Platone, Sofista, 262e-263b, nel passo sopra citato del De interpretatione e nella Metafisica, IV, 7, 1011b 25-26 («falso è dire che l’essere non è o che il non essere è; vero, invece, è dire che l’essere è e che il non-essere non è »). Ad alcuni interpreti, questo celebre passo della Metafisica appare poco chiaro, soprattutto se letto in rapporto a IX, 10, 1051b 6-8 («Non perché noi ti pensiamo bianco tu sei veramente bianco, ma per il fatto che tu sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero». Per Aristotele, «il vero ed il falso non sono nelle cose… ma solo nel pensiero»VI, 4, 1027b 25). Da questi passi di Aristotele si evince che la relazione tra verità ed essere è una relazione più di significazione che di corrispondenza o identità. Commentando questi passi di Aristotele, Tommaso nota delle difficoltà (cfr. al riguardo P. Engel, Verità. Riflessioni su alcuni truismi, De Ferrari, Genova 2004, pp. 18-19). Nella sua elaborazione della concezione della verità come adaequatio intellectus et rei, egli afferma: «necesse est quod intellectus, inquantum est cognoscens, sit verus inquantum habet similitudinem rei cognitae, quae est forma eius inquantum est cognoscens. Et propter hoc per conformitatem intellectus et rei veritas definitur» (Summa theologiae, Ia q. 16 a. 2 arg. 2 co). Cfr. al riguardo P. Valore, Verità e teoria della corrispondenza, Cusl, Milano 2004, pp. 17-21. ↩︎
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R. Rorty, la filosofia e lo specchio della natura, cit., p. 7. ↩︎
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D. Davidson, Sull’idea stessa di uno schema concettuale, in Verità e interpretazione, tr. it. a cura di R. Brigati, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 263-82. ↩︎
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D. Davidson, Il mito del soggettivo, in D. Davidson, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, tr. it a cura di S. Levi, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 56. ↩︎
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D. Davidson, Reply to Stephen Neale, in L.E. Hahn (a cura di), The Philosophy of Donald Davidson, Open Court, Chicago 1999, p. 667. ↩︎
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D. Davidson, Sulla verità, cit., p. 112. ↩︎
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## Cfr. D. Davidson, The Folly of Trying to Define Truth, in D. Davidson, Truth, Language, and History, Oxford University Press, Oxford 2005, pp. 22-23. Si veda inoltre S. Neale, Facing Facts, Oxford University Press, Oxford- New York 2001, p. 3. ↩︎
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CFr.D. Davidson, Truth Rehabilitated, in D. Davidson, Truth, Language, and History, cit., p. 5. ↩︎
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Come affermano Barwise e Perry, il termine slingshot gli è stato suggerito dall’uso che Davidson fa di questo «pezzo compatto di artiglieria filosofica nella sua guerra contro alcuni giganti della nostra industria». Lo slingshot è il «colpo di fionda», che Davidson avrebbe lanciato contro giganti come Frege, Austin e Reichenbach. Esso è parte essenziale delle critiche che Davidson rivolge a Reichenbach sugli eventi e ad Austin sulla verità (J. Barwise - J. Perry, Semantic Innocence and Uncompromising Situations, in A.P. Martinich (a cura di), The Philosophy of Language, Oxford University Press, Oxford-New York 19902, pp. 392-405, in particolare p. 401. Dello slingshot argument ne esistono due versioni: una viene attribuita da Alonzo Church a Frege in una recensione che egli fa al libro di R. Carnap, Introduction to Semantics, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1942. Cfr. A. Church, Carnap’s Introduction to Semantics, «The Philosophical Review», 52 (1943), pp. 298-304. Secondo Church questo argomento è ravvisabile nelle analisi contenute in G. Frege, Senso e significato (tr. it. a cura di E. Picardi, in G. Frege, Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici 1891-1897, a cura di C. Penco - E. Picardi, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 32-57), l’altra, invece, viene solitamente ascritta a Gödel. Church propone una forma di slingshot in A. Church, Introduction to Mathematical Logic, Princeton University Press, Princeton 1956, p. 25. Sullo slingshot si vedano inoltre K. Gödel, Russell’s Mathematical Logic (1944), in Collected Works, a cura di S. Feferman et alii, Oxford University Press, Oxford 1990. Per una letteratuta critica su questo argomento si vedano J. Barwise - J. Perry, Situations and attitudes, MIT Press, Cambridge (Massachusetts) 1983; per una discussione estesa dello slingshot cfr. Neale, Facing Facts, cit. ; Neale, “The Philosophical Signifi cance of Gödel’s Slingshot,” Mind 104 (1995), pp. 761–825 e S. Neale - J. Dever, Slingshots and Boomerangs, «Mind», 106 (1997), pp. 143-168. ↩︎
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D. Davidson, Sulla verità, cit., p. 115. ↩︎
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Cfr. D. Davidson, The Folly of Trying to Define Truth, in D. Davidson, Truth, Language, and History, cit., p. 266. ↩︎
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D. Davidson, Fedele ai fatti, in D. Davidson, Verità e interpretazione, cit., p. 93. Neale ha sviluppato in modo dettagliato le implicazioni e le conseguenze dello slingshot di Gödel mostrandone la sua efficacia in The Philosophical Significance of Gödel’s Slingshot, cit., pp. 761-825; S. Neale, Facing Facts, cit., pp. 8-13, e cap. 9. ↩︎
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D. Davidson, Sulla verità, cit., p. 37. Cfr. inoltre D. Davidson, Fedele ai fatti, in D. Davidson, Verità e interpretazione, cit., pp. 92-93. ↩︎
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Hilary Putnam in Etica senza ontologia, Bruno Mondadori, tr. it. a cura di E. Carli, Milano 2005, sostiene che trattare gli enunciati come nomi di fatti o di «stati di cose» o di valori di verità è un esempio di ontologizzazione nel suo modo peggiore. ↩︎
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D. Davidson, Sulla verità, cit., p. 38. ↩︎
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Ibidem, p. 38. Si veda dello stesso, Epistemologia e verità, in D. Davidson, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, cit., p. 234. ↩︎
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D. Davidson, Sulla verità, cit., p. 116. ↩︎
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D. Davidson, Sull’idea stessa di uno schema concettuale, in D. Davidson, Verità e interpretazione, cit., pp. 276-277. Qui Davidson sembra ricollegarsi alla tesi di Frege contro la teoria corrispondentista della verità: «Non si può stabilire che c’è verità quando sussiste una corrispondenza sotto un qualche aspetto? Ma sotto quale? Cosa dovremmo mai fare per decidere se qualcosa sia vero? Dovremmo ad esempio indagare se sia vero che una rappresentazione e un che di reale concordano nell’aspetto stabilito. Ma con questo ci troveremmo nuovamente di fronte a una questione dello stesso tipo, e il gioco potrebbe ricominciare da capo. Fallisce quindi questo tentativo di spiegare la verità nei termini della corrispondenza. Ma con ciò fallisce anche ogni altro tentativo di definire l’“essere vero”. Infatti in una definizione verrebbero fissate alcune caratteristiche e, nell’applicazione a un caso particolare, si tratterebbe sempre di vedere se sia vero o no che queste caratteristiche concordano. Così ci si muoverebbe in un circolo» (F.L.G. Frege, Ricerche logiche, a cura di M. Di Francesco e con un’introduzione di M. Dummett, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 46). ↩︎
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Cfr. Ibidem. Cfr. inoltre S. Neale, Facing Facts, cit., pp. 3-4 e 49-57. ↩︎
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D. Davidson, Reply to Stephen Neale, cit., p. 667. ↩︎
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P. Strawson, Truth, in P. Strawson, Logico-Linguistic Papers, Methuen, London 1971, p. 195. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Nonostante Tarski sembri alludere a una teoria della corrispondenza, in cui gli enunciati corrispondono ai fatti, egli «non può essere usato per dare una mano ai partigiani del corrispondentismo» (cfr. D. Davidson, The Folly of Trying to Define Truth, in D. Davidson, Truth, Language, and History, cit., p. 25). ↩︎
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S. Neale, Facing Facts, cit., p. 45. ↩︎
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Cfr. D. Davidson, Verità e interpretazione, cit., p. 35. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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A. Tarski, La fondazione della semantica scientifica, in A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Bompiani, Milano 1973, p. 427. Cfr. D. Davidson, The Folly of Trying to Define Truth, in D. Davidson, Truth, Language, and History, cit., pp. 22-23. ↩︎
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Per quanto concerne la nozione di «soddisfacimento», Davidson afferma che «non bisogna credere che specificando le relazioni tra gli atteggiamenti e il mondo io stia abbracciando una teoria della corrispondenza. Il tipo di teoria della verità che ho in mente dipende sì dall’individuazione di una relazione tra certe parole e certi oggetti (la relazione di “soddisfazione” tarskiana), ma non fa alcun uso degli oggetti cui gli enunciati potrebbero corrispondere» (D. Davidson, Indeterminismo e antirealismo, in D. Davidson, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, cit., p. 98, n. 5. ↩︎
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D. Davidson, Fedele ai fatti, in D. Davidson, Verità e interpretazione, cit., p. 100. ↩︎
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Cfr. P. Horwich, Verità, tr. it. a cura di M. Dell’Utri da Laterza, Bari 1994, pp. 133-134. ↩︎
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T. Kotarbinski, Gnosiology: The Scientific Approach to the Theory of Knowledge, a cura di G. Bidwell - C. Pinder, Pergamon Press, Oxford 1966, p. 410. ↩︎
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D. Davidson, Epistemologia e verità, in D. Davidson, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, cit., p. 233. ↩︎
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Cfr. C.I. Lewis, Facts, Systems, and the Unity of the World, «Journal of Philosophy», 20 (1923), pp. 141-151; ristampato in J.L. Mothershead (a cura di), Collected Papers of Clarence Irving Lewis, Stanford University Press, Stanford 1970, pp. 383-393; Si veda inoltre dello stesso C.I. Lewis, An Analysis of Knowledge and Valuation, Open Court, La Salle (Illinois) 1946, pp. 50-55. ↩︎
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D. Davidson, Sulla verità, cit., pp.37-38. ↩︎
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A questo proposito, si veda D. Wiggins, Needs, Values, Truth. Essays in the Philosophy of Value, Blackwell, Oxford 1991, pp. 333-334. ↩︎
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P. Engel, The Norm of Truth. An Introduction to the Philosophy of Logic, University of Toronto Press, Toronto 1991, p. 114. ↩︎
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D. Davidson, Sulla verità, cit., p. 139. ↩︎
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D. Davidson, Truth Rehabilitated, in D. Davidson, Truth, Language, and History, cit., p. 5. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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D. Davidson, Epistemologia e verità, in D. Davidson, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, cit., p. 235. Nel vasto dibattito sviluppatosi intorno alle teoria della corrispondenza, Ian Hacking, sulla linea di Davidson, sostiene che l’obiezione principale che possiamo fare a questa teoria è che «non c’è alcun modo di identificare i fatti a cui un enunciato corrisponde, indipendentemente dall’enunciato stesso» (I. Hacking, Statistical Language, Statistical Truth, and Statistical Reason, in E. McMullin (a cura di), The Social Dimensions of Science, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1992, p. 134. Alcune osservazioni illuminanti sulla teoria della corrispondenza le possiamo trovare anche nell’ultimo libro di R. Nozick, Invarianze: la struttura del mondo oggettivo, tr. it. a cura di G. Pellegrino, Fazi, Roma 2003, pp. 67-73. ↩︎
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D. Davidson, Reply to Stephen Neale, in L.E. Hahn (a cura di), The Philosophy of Donald Davidson, cit., p. 667-668. ↩︎
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Cfr. al riguardo S. Neale, Facing Facts, cit., p. 1; S. Neale, On Representing, in L.E. Hahn (a cura di), The Philosophy of Donald Davidson, cit., p. 657. ↩︎
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Per quanto concerne la teoria spettatoriale della conoscenza cfr. J. Dewey, La ricerca della certezza: studio del rapporto fra conoscenza e azione, tr. t. a cura di A. Visalbergi, La Nuova Italia, Firenze 1968, in particolare i capp. 1, 2 e 4. Si veda inoltre dello stesso J. Dewey, Rifare la filosofia, tr. it. a cura di S. Coyaud, Donzelli, Roma 2002, in particolare il cap. 1. Si veda inoltre C.B. Kulp, The End of Epistemology: Dewey and his Current Allies on the Spectator Theory of Knowledge, Greenwood Press, Westport (Connecticut) 1992. ↩︎
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Cfr. R. Rorty, Twenty-Five Years After, cit., pp. 371-372. ↩︎
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D. Davidson, Una graziosa confusione di epitaffi, in D. Davidson - I. Hacking - M. Dummett, Linguaggio e interpretazione. Una disputa filosofica, Unicopli, Milano 1993, pp. 84-85. ↩︎
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R. Rorty, Le asserzioni sono pretese di validità universale?, tr. it. a cura di M. Cellerino, in G. Vattimo (a cura di), Filosofia ’94, Laterza, Bari 1995, p. 53. Davidson, dopo una riluttanza iniziale ad essere incluso nel retaggio pragmatista (cfr. G. Borradori, Conversazioni americane, Laterza, Bari 1991, pp. 51-52), alla domanda: «Rorty ha visto in lei una delle figure di spicco del neopragmatismo. Che ne pensa di questo giudizio?», Davidson risponde: «Penso che la giusta cosa da dire sia che non ho un’idea al riguardo. Di sicuro rifiuto la concezione pragmatista della verità. Per il resto, mi sono fatto un’idea di ciò che Rorty ha in mente, e mi sembra corretto. Gli piace Dewey, per esempio, perché Dewey non pensava che i filosofi stiano in rapporti confidenziali con un tipo di verità che è fondamentale per il resto della conoscenza. Io concordo fermamente con questo. Ed è vero che rifiuto un gran numero di problemi filosofici standard come fasulli. Forse dunque, anch’io credo nel pragmatismo nel senso in cui ci crede lui. Le dirò che non sono molto bravo a classificare i filosofi. È un compito che lascio ad altri» (Donald Davidson interviewed by Giancarlo Marchetti, «Philosophy Now», 32 (2001), 3, p. 36; si veda anche p. 35). ↩︎
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D. Davidson. Davidson, Epistemologia e verità, in D. Davidson, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, cit., p. 60 modificata. ↩︎
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R. Rorty, Il pragmatismo, Davidson e la verità, in R. Rorty, Scritti filosofici. Vol. I, Laterza, Bari 1994, p. 171. ↩︎
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G. Corradi Fiumara, Il processo metaforico, Il Mulino, Bologna 1998, p. 241. ↩︎
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J. Bruner - C. Fleischer Feldman, Metaphors of Consciousness and Cognition in the History of Psychology, in D. E. Leary ( a cura di), Metaphors in the History of Psychology, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1990, p. 231. ↩︎
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G. Corradi Fiumara, Il processo metaforico, cit., p. 241. ↩︎
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J. Bruner - C. Fleischer Feldman, Metaphors of Consciousness and Cognition in the History of Psychology, in D.E. Leary ( a cura di), Metaphors in the History of Psychology, cit., p. 231. ↩︎
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G. Corradi Fiumara, Il processo metaforico, cit., p. 241. Si veda al riguardo J. Bruner - C. Fleischer Feldman, Metaphors of Consciousness and Cognition in the History of Psychology, in D.E. Leary ( a cura di), Metaphors in the History of Psychology, cit., p. 231. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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R. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, cit., p. 371; tr. it., leggermente modificata, p. 284. Nella stesura di questo lavoro sono stato influenzato dagli argomenti sviluppati da S. Neale in Facing Facts anche se giungiamo a conclusioni diverse. Le suggestioni tratte dal libro di Neale non sempre sono segnalate o supportate da citazioni. ↩︎