Che la rete costituisca un esito dell’«inconscio lavorio»1 concettuale di gran parte della riflessione teorica del secolo scorso, è quasi ormai un’ovvietà storiografica. Già nel 1992 ad esempio, un’opera tanto inaugurale quanto precocemente invecchiata, Hypertext di George Landow, non faceva altro che certificare come la natura ipertestuale (il dispositivo operativo essenziale, nonché la vera e propria metafora fondativa) del nascente medium, costituisse in realtà una messa in opera tecnica di quella lunga serie di riflessioni sulla crisi dell’idea di testo germinata sull’incrocio tra semiologia e post-strutturalismo e poi sfociata nelle pratiche decostruttive di Derrida, Barthes e (per altri versi, come vedremo più avanti) di Foucault.2 Il cuore di ciò che di lì a poco sarebbe evoluto nel Web apparve in altri termini subito direttamente dotato di una sua propria autorevolissima protostoria concettuale. Analogo destino storiografico sembra appartenere anche alla seconda grande metafora fondativa della rete: l’idea di totalità, e quelle ad essa legate: il sistema, l’organismo, il globale. Un altro noto libro, dichiaratamente pionieristico (ai limiti del visionario) come quello di Pierre Lévy sull’antropologia del cyberspazio,3 contiene da questo punto di vista il precipitato di alcuni grandi récits sui destini prossimi dell’Occidente, e mostra come in fondo qualsiasi indagine sulla natura dei new media, pur percorrendo vie autonome, non possa prescindere dal ventennio di ipotesi sulla cosiddetta attuale condizione postmoderna. È come se per una volta la nottola hegeliana avesse assolto in anticipo al suo compito: la fantasia teorica sembra aver preceduto (di qualche decennio per giunta) la sua effettiva realizzazione pratica.4 A partire di qui, intendo proporre alcuni livelli di riflessione sulla natura dell’universo multimediale cercando di seguire il decorso di certe metafore epistemologiche in qualche modo a mio avviso ancora utilizzabili ai fini di una comprensione del destino specifico della rete, della sua interna originalità o persino eccedenza di medium.
Il tentativo di Lévy offre in questo senso una precoce sintesi ad ampio raggio sugli effetti antropologici del cyberspazio. Nella sua ricostruzione (che risente a sua volta soprattutto di tre modelli teorici: l’epistemologia di Serres, la scienza dell’immaginario di Castoriadis, il piano d’immanenza di Deleuze e Guattari5) la rete rappresenta sostanzialmente il dispiegarsi di un nuovo spazio del sapere, dalle amplissime conseguenze antropologiche. L’esito principale dell’imporsi generalizzato dei nuovi media sarebbe infatti secondo Lévy individuabile in una «produzione continua di soggettività»6 grazie a cui i singoli individui percepiscono se stessi come soggetti cognitivamente integrati. Con la rete si attuerebbe in altri termini un passaggio per certi versi epocale da un’età mediatica (situata al culmine di ciò che Lévy chiama «spazio delle merci»7) ad un’età post-mediatica caratterizzata da nuove tecniche del sapere che tendono a «filtrare i flussi di conoscenze, a navigare nel sapere e a pensare insieme piuttosto che a trasportare masse di informazioni» (p. 31). Di qui il profilarsi di un’«intelligenza collettiva» vista come dimensione costituita da un sapere disseminato ovunque ma valorizzato dalla sua stessa struttura differenziale. L’ipotesi centrale di Lévy è che l’epoca della rete consentirebbe una diversa e produttiva mobilitazione delle singole competenze. È una dimensione che Lévy definisce come passaggio da una struttura molare ad una struttura molecolare dell’universo comunicativo. Con il termine «molare» si intende un approccio di tipo olistico ai fenomeni, un atteggiamento di pensiero che teorizza gli oggetti in rapporto alla totalità degli elementi che li compongono: l’età delle comunicazioni di massa sarebbe segnata da tecnologie molari, ad esempio, in quanto tenderebbe a riprodurre i messaggi mediante dispositivi di conservazione e diffusione progressivamente più raffinati (riproducibilità, sistematicità, uso di codici comunicazionali altamente strutturati). I media costituiscono cioè delle tecnologie attive sui messaggi solo dall’esterno e in modo dichiaratamente totalizzante. Con «molecolare» si intende al contrario un’attenzione rivolta ai frammenti minimi del messaggio, una disponibilità alla combinazione, alla ristrutturazione dei segni che non mira tanto alla loro riproduzione o diffusione quanto piuttosto ad una generazione del messaggio stesso, ad un costante processo di modifica e interazione dei segni. Secondo Lévy, saremmo in presenza di una sorta di estensione vertiginosa del principio del montaggio cinematografico alle varie competenze comunicative: la rete informatizzata costituirebbe un esempio prodigioso di tecnica molecolare in quanto in grado di garantire un’attenzione assoluta verso le «microstrutture» dei messaggi da cui in ultima analisi risulta costituita. L’esito sarebbe una sorta di nuovo continuum delle conoscenze. Scrive Lévy: «Le banche dati, i sistemi esperti, i programmi che elaborano grafici, gli iperdocumenti, le simulazioni interattive e gli altri i mondi virtuali sono potenzialità di testi, di immagini, di suoni o di qualità tattili che le situazioni particolari attualizzano in mille modi» (p. 63). Si gettano le basi in questo modo per nuova sensibilità antropologica, chiaramente visibile, ad esempio, nel rinnovato interesse per tecnologie tipicamente ‘corporee’: «Il cyberspazio tende a ricostruire su vasta scala il piano liscio, il continuum indivis, l’amnio vivente e fluttuante che unisce i segni e i corpi, come pure i segni tra loro, prima che i media isolino e fissino i messaggi» (ibid.). La dicotomia molare/globale assume le caratteristiche di una distinzione tra categorizzazione, frantumazione numerica dei messaggi (centrale nell’età mediatica) e unità comunicativa collettiva caratterizzata da un’inedita interrelazione tra messaggi stessi. La nuova natura dell’informazione digitale (ipertestuale, reticolare) opererebbe in questo senso una sorta di de-gerarchizzazione dell’universo segnico: «I messaggi del cyberspazio interagiscono e si chiamano da un capo all’altro di una superficie continua deterritorializzata; i membri dei collettivi molecolari comunicano trasversalmente, al di là delle categorie, senza passare per una forma gerarchica, piegando e ripiegando, cucendo e ricucendo, complicando a piacere il grande tessuto metamorfico delle città pacifiche» (p. 68). Non sfugge l’utopia politica presente in queste tesi: la democrazia filtrata dalla rete implicherebbe un’azione politica di diffusione molecolare (non più piramidale o totalitaria appunto) delle qualità umane. Dal livello politico a quello metafisico, se così si può dire, non c’è poi che un passo: i mondi virtuali diventano, nella ricostruzione di Lévy, degli autentici strumenti di conoscenza di sé oltre che di autodefinizione dei gruppi umani. Gli «intellettuali collettivi» esprimeranno delle soggettività autonome e in qualche modo addirittura autopoietiche. Lévy cita alcune nuove esperienze di trasmissione cognitiva che sintetizzando la complessità delle informazioni, abolendo i tradizionali limiti spazio-temporali, mettono in comunicazione le intelligenze e danno senso ulteriore ad un’esperienza-chiave come la navigazione in rete.8 Si assisterebbe insomma (anche se per ora soltanto embrionalmente) ad una proliferazione, ad un arricchimento, ad una crescita del mondo concreto (del vissuto, dell’Erlebnis), più che ad una sua dissoluzione virtuale o spettacolare. Lévy ipotizza in altre parole un riapertura forte del progetto semiotico, quasi un’ermeneutica cognitiva dei segni. In uno dei passi centrali del libro (in cui è ancora facilmente percepibile l’influenza del pensiero della differenza immanente di Deleuze e Guattari, del «corpo senza organi» per intendersi) leggiamo: «Il pensiero non può essere ridotto ai discorsi razionali, ci sono dei pensieri-corpo, pensieri-affetto, pensieri-percezione, pensieri-sogni, pensieri-concetto, pensieri-gesto, pensieri-macchina, pensieri-mondo» (p. 144). Lo spazio del sapere è in qualche modo assimilabile ad una superficie di ricomposizione e rilancio processuale dei pensieri. Gli intellettuali collettivi sarebbero degli «immaginanti collettivi» e le loro reciproche interazioni produrrebbero una diversa idea di globalità, un tutto interpretabile come tessuto in fase di «riassetto dinamico permanente» (ibid.).9 Si apre lo spazio per altre identità: Lévy parla di un «policosmo», di una «cosmopedia» intesa come rappresentazione dinamica delle conoscenze da contrapporre ad una tradizionale visione del sapere come enciclopedia (letteralmente: ritorno del sapere in sé, cerchio di conoscenze, raccoglimento). Le forme-chiave di questo nuove dimensioni sono un certo «nomadismo» dei soggetti in rete, l’«eterogeneità» delle loro competenze e persino l’«identità multipla» dei nuovi naviganti. Ma progetto semiotico forte significa forse anche che alla cosiddetta iperrealtà della società mediatica (si pensi soprattutto alle posizioni di Baudrillard10) cioè alla presunta derealizzazione attuata dalla società dello spettacolo (il reale ridotto a segno, a simulacro) la semiotica del sapere contrapporrebbe un ritorno alla densità dell’essere, alla corposità della significazione. Non più certo nel senso di una nostalgia dell’oggettività o dell’autenticità (definitivamente consumate dalla tarda età mediatica) ma di un’immaginazione produttiva finalmente padrona di creare autonomamente artifici e simulazioni e non più soltanto di subirne la fascinazione. La metafora è quindi di nuovo quella dell’uscita dalla logica del sistema, dalla totalità compiuta. Nel «quarto spazio» di Lévy i segni non rinviano più ad alcuna clavis universalis, ma solo a «linee di significazione erranti, singolari, a spazi di significato metamorfici» (p. 171). L’esito finale dovrebbe includere una diversa produttività ontologica, una nuova o altra totalità direi. Spazio del sapere significa in questo senso che il soggetto della conoscenza si costituisce propriamente grazie al flusso interattivo dei singoli saperi ‘viventi’. È come se procedessimo verso una sorta di «costruzione reciproca» delle identità culturali. A questo livello diventa persino più semplice pensare ad un oltrepassamento del concetto di ipertesto come nucleo operativo della rete: i nuovi sistemi reticolari sarebbero piuttosto determinati da rappresentazioni fluttuanti dal sapere come indefinito continuum, da ciò che nelle pagine finali Lévy definisce l’«immensa immagine elettronica pluridimensionale in continua metamorfosi» (p. 211) che presiede al dispiegarsi dell’intelligenza collettiva, una sorta di utopia dell’«instabile e del molteplice» (p. 241).
Ora, appare abbastanza evidente che questa topologia della rete descritta da Lévy non rifugge dal pensare se stessa, lo abbiamo segnalato più volte, come tessuto connettivo — sia pur di natura dinamica, eteromorfa, rizomatica. Siamo al punto annunciato prima, alle origini della nozione di rete. Una protostoria che sembra però aver tematizzato alcune questioni in seguito quasi obliate dal dibattito sulle potenzialità dei new media. Cerco di chiarire. Tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80, cioè proprio nel periodo delle prime grandi applicazioni informatiche a livello internazionale,11 escono alcuni testi-chiave direttamente centrati sull’instabilità strutturale della società contemporanea, a molti livelli (politico, epistemologico, sociologico). Penso a opere come La volontà di sapere di Foucault (1976), Il metodo di Morin (1978), La condizione postmoderna (1979) di Lyotard fino a Sistemi sociali (1984) di Luhmann. Tutte convergenti nella presa d’atto della crisi irreversibile della nozione di sistema come relazione, legame organico tra le parti, comunità. In Foucault, ad esempio, la struttura del potere della tarda modernità tende a perdere il secolare carattere di dominio autocosciente o centrale, di «unità globale di una dominazione»12 e ad assumere piuttosto la forma di una «molteplicità di rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione» (p. 82). Il potere si fa pervasivo, «periferico», «onnipresente» (ibid.). Con il termine potere non si deve infatti intendere soltanto l’auctoritas statuale tout-court, ma anche e soprattutto il disseminarsi di innumerevoli dispositivi di instaurazione e codifica (oltre che di controllo) dei saperi: «La condizione di possibilità del potere, o comunque il punto di vista che permette di rendere intelligibile il suo esercizio, fin nei suoi effetti più «periferici» e che permette anche di utilizzare i suoi meccanismi come griglia di intelligibilità del campo sociale, non bisogna cercarla nell’esistenza originaria di un punto centrale, in un centro unico di sovranità dal quale si irradierebbero delle forme derivate e discendenti: è la base mobile dei rapporti di forza che inducono senza posa, per la loro disparità, situazioni di potere, ma sempre locali ed instabili» (ibid.). C’è in altri termini una capillarità invasiva, una tessitura illimitata degli strumenti di dominio che in quanto tale — ed è questa la novità forse più perspicua dell’approccio archeologico di Foucault, profondamente rimossa dall’esaltazione del presunto potenziale di libertà e democrazia insito nelle nuove tecnologie, specie quelle globali-reticolari — esprime con estrema lucidità uno degli esiti più disperanti della modernità: il nesso inscindibile tra potere e sapere, cioè tra dispositivi operativi (tecnologie, istituzioni, grandi centri decisionali) e assetti concettuali, vale a dire paradigmi interpretativi di quegli stessi dispositivi. La rete potrebbe da questo punto di vista essere davvero letta come una sorta di grandiosa realizzazione postuma del vicolo cieco della modernità ipotizzato da Foucault, cioè del livello in cui sembra profilarsi un’identificazione di fondo tra la struttura del nuovo medium e la natura cognitiva (proprio nel senso di Lévy) dei suoi interpreti. La forza teorica del circolo vizioso descritto da Foucault risiede infatti nel tentativo di delineare l’effetto degli strumenti di controllo non tanto o non più in termini di causalità o connessione logico-razionale tra fatti, ma in quelli di un’intenzionalità che sfugge ai soggetti stessi: «le relazioni di potere sono contemporaneamente intenzionali e non soggettive […]. La razionalità del potere è quella di tattiche […] che connettendosi le une alle altre, implicandosi e propagandosi, trovano altrove la loro base e la loro condizione, e delineano alla fine dei dispositivi d’insieme: […] carattere implicito delle grandi strategie anonime, quasi mute, che coordinano tattiche loquaci, i cui «inventori» o responsabili sono spesso senza ipocrisia» (p. 84). Un’interpretazione della presenza trasversale del potere nelle società contemporanee è rappresentata poi come noto anche dalla «teoria dei sistemi» di Luhmann, la cui affinità con le prospettive del tardo Foucault è stata efficacemente rilevata da Habermas.13 Già nel 1965 infatti Luhmann — in un saggio tra i suoi più penetranti: Scopo, Potere, Sistema14 — criticando la semplificazione operata dall’interpretazione weberiana dell’agire sociale alla luce del rapporto scopo/mezzo, giungeva ad un’identificazione del concetto di sistema come «organismo» capace di ottenere una riduzione della complessità (cioè, secondo Luhmann, una costruzione di senso) solo a prezzo di ospitare al suo interno un’irriducibile conflittualità di base: «L’obiettivo globale serve alla razionalizzazione imperfetta di sotto-obiettivi contraddittori, che vengono perseguiti come scopi dai singoli gruppi o sottogruppi del sistema. Sorgono dappertutto, quindi, conflitti interni e contrasti di competenza, dato che lo scopo globale non offre alcun principio decisionale adeguato» (p. 166). I progressivi processi di differenziazione interna tipici di sistemi sociali sempre più complessi e quasi «autopoietici» come quelli che pervadono le società contemporanee, non lasciano più spazio alla validità del rapporto causa/effetto come criterio esplicativo dell’agire sociale. Il mantenimento del sistema implica un sovvertimento di convinzioni secolari: dal punto di vista della sua funzionalità, esso mira infatti esclusivamente alla propria autoconservazione, e in quanto tale appare strutturalmente indifferente alla natura delle singole opzioni di volta in volta utili allo scopo (valori collettivi, produzioni di senso a livello soggettivo, ideologie politiche e così via).15 Se ci spostiamo poi a livello più interno, la critica al concetto olistico di sistema avanzata da Morin sul piano strettamente epistemologico implicava l’assunzione di nuovi paradigmi, tra cui quello fondamentale di una totalità in permanente stato di tensione dissolutiva, di entropia endemica. La tradizionale contrapposizione riduzionismo/olismo mostra i propri limiti non appena si scontra con la nozione di sistema complesso. Il «tutto» si configura infatti nella prospettiva di Morin sempre e contemporaneamente come maggiore e minore della somma delle sue parti. Ospita cioè scissioni, dualità tra interno ed esterno, emergenze, alterità, disordini. Il modello di sistema polirelazionale che affiora dai più densi snodi epistemici del Novecento, accoglie la natura contraddittoria della «complessità di base» dei fenomeni, specie quelli sociali: «Il sistema è nello stesso tempo aperto e chiuso. Non vi è organizzazione senza antiorganizzazione. Non v’è funzionamento senza disfunzione».16 Se pensiamo infine al nucleo concettuale delle ormai classiche ipotesi di Lyotard sul postmoderno come crisi dei grandi racconti di legittimazione della modernità, non possiamo non ricordare come anch’esso faccia cenno verso l’instabilità dei saperi contemporanei. Grandi narrazioni (récits) sono stati per Lyotard i sistemi e le prospettive teoriche dell’epoca moderna: il progetto illuminista di emancipazione dai dogmi religiosi, l’idea hegeliana di una fine della storia nel trionfo della ratio, le ideologie egualitarie e totalizzanti, lo sviluppo illimitato dell’economia, l’onnipotenza tecnologica e persino l’idea kantiana di una giustizia universale o di un’etica comune. Rispetto a tali «metanarrazioni» legittimanti, il postmoderno sembra concretizzare secondo Lyotard un disincantamento generalizzato. Dinanzi alla complessità crescente di una società informatizzata che moltiplica le conoscenze in miriadi di argomenti specialistici, il sapere tradizionale come codificazione di pratiche discorsive teorico/ideologiche, dilegua vertiginosamente. La condizione contemporanea sembra di fatto segnare proprio un’esplosione di quei sistemi di garanzia: la «funzione narrativa» della modernità, secondo la definizione di Lyotard, sembra davvero perdere progressivamente i suoi «grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli ed i grandi fini» disperdendosi «in una nebulosa di elementi linguistici narrativi»17 diversi e, come abbiamo notato in Luhmann, spesso internamente aporetici. Un esito possibile del crollo del progetto moderno, non necessariamente negativo ma profondamente distopico, importerebbe un uso in qualche modo eversivo della nozione di paralogia come teoria delle aporie della conoscenza, come trascrizione filosofica della crisi finale dei paradigmi dominanti.
Riepilogando: proliferazione dei dispositivi di potere/sapere (Foucault), sistema come cieca e incontrollabile autopoiesi (Luhmann), crisi dei paradigmi organicistico-olistici (Morin), sapere come paralogia, negazione, «dissenso» (Lyotard). È tutto ciò direttamente utilizzabile per un’ermeneutica della rete? È davvero praticabile, come sembra prospettare oggi Lévy, una rilettura in qualche modo positiva del più problematico lascito critico del tardo Novecento? È possibile una trasfigurazione poietica, per così dire, delle instabilità contemporanee, dei nuclei di collasso che caratterizzano la società attuale? È infine più facilmente ipotizzabile uno sviluppo e un ampliamento delle competenze (e quindi un potenziale incremento del binomio libertà/democrazia) che non una mortificazione strutturale delle nostre qualità cognitive? Habermas concludeva il suo ciclo di lezioni sui destini della modernità accennando al fatto che la contrapposizione tra sistema autopoietico e intersoggettività comunicativa potrebbe sostituirsi all’antica dicotomia spirito/corpo.18 Ritraducendo quest’ipotesi dopo la rivoluzione informatica non è improbabile che una questione tra le più interessanti per la riflessione attuale possa derivare dal chiedersi se proprio la rete tout-court (dunque non soltanto il Web, ancora incapace di sottrarsi ad una generale dimensione di intrattenimento, ma l’insieme dei flussi informatico-comunicativi, ciò che più o meno ludicamente è stato definito come una sorta di «info-econo-sfera»19) costituisca il nuovo paradigma di una comunità della differenza, cioè di un oltrepassamento delle strutture semantiche forti della tradizione occidentale (evidenza, circolarità, potere, autorità del senso) o non piuttosto una sorta di ultima totalità.
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L’espressione è di Mario Costa, in un testo decisamente militante: L’estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma 1999. ↩︎
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È appena il caso di ricordare che il lavoro di Landow faceva riferimento ad un’esperienza ormai conclusa, vale a dire al sistema denominato Intermedia, l’antenato più prossimo e (per molti versi) più raffinato dell’attuale Web. Cfr. George P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura (1992), Baskerville, Bologna 1993. Sull’immediato impoverimento della rete Web, rimando ad un’intervista rilasciata dallo stesso Landow nel 1997 (cfr. http://www.mediamente.rai.it/) in cui il Web viene definito «una forma di ipertesto molto primitiva, appiattita e ridotta» proprio rispetto ad altri precedenti dispositivi (tra cui appunto Intermedia, oltre a Storyspace, Microcosm, Sepia). Per una sintesi più recente sullo statuto teorico dell’ipertesto, rimando al volume di G. Bettetini, B. Gasparini, N. Vidattini, Gli spazi dell’ipertesto, Bompiani, Milano 1999. ↩︎
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È il sottotitolo della sua opera più organica, L’intelligenza collettiva (1994) Feltrinelli, Milano 2002. Si tratta del testo di maggior respiro teorico di Lévy, nonostante preceda la diffusione del Web. Sugli stessi temi lo studioso francese è comunque tornato anche in seguito, in un testo del 1997: Cybercultura. Gli usi sociali dei nuovi media, Feltrinelli, Milano 2001. ↩︎
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Non si celerà tuttavia anche in quest’insolita inversione di paradigma il rischio di scivolare verso un’ulteriore riabilitazione del più classico schema genetico-derivativo (anche se rovesciato, come in questo caso) secondo cui sempre in qualche modo si dà rapporto di dipendenza o di connessione storica tra innovazioni tecnologiche e clima culturale, tra riflessioni teoriche e messe in opera tecniche? In altri termini, l’universo della rete è davvero così immediatamente riconoscibile, sul piano teorico, nelle numerose ipotesi che, provenienti dai più vari campi del sapere, hanno accompagnato il dibattito sulla ‘fine’ della modernità? Sono questioni ovviamente abbastanza complesse anche dal punto di vista storiografico, e meriterebbero una lunga attenzione qui impossibile. Su questo ricorrente tipo di rischio, cfr. comunque a livello molto generale A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità (1990) Il Mulino, Bologna 1993, in particolare alle pp. 125-153. ↩︎
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Di Serres si veda soprattutto Le origini della geometria (1993) Feltrinelli, Milano 1994; di Castoriadis, La costituzione immaginaria della società (1979) Boringhieri, Milano 1990; della cospicua opera di Deleuze e Guattari, mi limito a ricordare il testo più esemplificativo delle posizioni recenti: Che cos’è la filosofia? (1991) Einaudi, Torino 2002. ↩︎
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P. Lévy, L’intelligenza collettiva, op. cit., p. 26. D’ora in poi, dopo una prima segnalazione in nota, mostreremo sempre direttamente in parentesi il numero di pagina delle citazioni dai testi in esame. ↩︎
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Si tratta di uno spazio antropologico identificabile, dal punto di vista storico, con ciò che chiamiamo comunemente ‘età moderna’ e che appare caratterizzato da «flussi di energie, di materie prime, di merci, di capitali, di mano d’opera, di informazioni» (p. 28). Sarebbe secondo lo studioso francese la terza grande mutazione antropologica della storia dell’umanità dopo lo spazio della Terra (apparizione dell’Homo Sapiens) e quello del Territorio (età del Neolitico, agricoltura, città, stato, scrittura). ↩︎
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Di queste esperienze, le mappe in movimento (o «cinecarte») cioè le mutevoli descrizioni epistemologiche delle dinamiche della società, e gli «alberi di conoscenza», cioè i sistemi aperti di comunicazione tra soggetti che permettono di riconoscere le singole competenze e di organizzare modalità nuove di formazione e apprendimento (a livello scolastico o di impresa), costituiscono attualmente una prima realizzazione. Cfr. P. Lévy — M. Authier, Gli alberi di conoscenza. Educazione e gestione dinamica delle competenze (1992), Feltrinelli, Milano 2000. ↩︎
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Sulla metafora del testo in rete come «tessuto» vivente, metamorfico e connettivo, come «sistema di cellule che muoiono e si ricostituiscono continuamente», si è soffermato recentemente R. Mordenti in Informatica e critica dei testi, Bulzoni, Roma 2001, p. 206. ↩︎
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Tra i teorici (e critici) della ‘dissoluzione mediatica’ della realtà, oltre a Baudrillard, di cui rimando ovviamente a Lo scambio simbolico e la morte (1976) Feltrinelli, Milano 2002 e ai molti lavori successivi, cfr. anche P. Virilio, di cui mi limito a citare il recentissimo L’incidente del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002. ↩︎
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Per una sintetica ma esauriente ricostruzione delle varie prospettive teoriche sull’origine e sullo sviluppo della «società dell’informazione», cfr. K. Kumar, Le nuove teorie del mondo contemporaneo (1995), Einaudi, Torino 2000. ↩︎
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M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1999, p. 82. ↩︎
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J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità (1985), Laterza, Bari 1991, specie alle pp. 270-297. ↩︎
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Cfr. N. Luhmann, Stato di diritto e sistema sociale [comprende testi redatti tra il 1964 e il 1970], Guida, Napoli 1990, pp. 157-192. ↩︎
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Ricordo appena che la prospettiva sociologica di Luhmann si è in seguito ulteriormente arricchita di contenuti (in un significativo confronto con le principali teorie ermeneutiche ed epistemologiche dei nostri anni), sino a sfociare nella succitata grande sintesi rappresentata dal volume Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (1984), Il Mulino, Bologna 1990. Per un esame critico della prospettiva luhmanniana in riferimento ai temi qui affrontati, cfr. P. De Nardis, L’equivoco sistema. Soggetti, istituzioni e struttura sociale nelle prospettive funzionalistiche, Franco Angeli, Roma 1988. ↩︎
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Cfr. E. Morin, Il metodo (1977), Feltrinelli, Milano 1989, p. 191. Rimando soprattutto all’ultima parte del libro: «L’organizzazione (dall’oggetto al sistema)», pp. 120-196. Sul contrasto olismo/riduzionismo, il testo fondamentale resta L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi (1968) ILI, Milano 1971. A livello divulgativo risulta in qualche modo utile anche il volume di F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente (1982), Feltrinelli, Milano 2000. ↩︎
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Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna (1979), Feltrinelli, Milano 1999, p. 6. Questa pubblicazione ha aperto, come si sa, un ampio dibattito e stimolato una vastissima letteratura critica. Mi limito a ricordare solo alcuni testi in varia misura legati alle questioni sin qui trattate: A. Giddens, Le conseguenze della modernità (1990), Il Mulino, Bologna 1994; F. Jameson, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo (1984), Rizzoli, Milano 1989; P. Spedicato e P. Carravetta (a cura di), Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Bompiani, Milano 1984; G. Vattimo, La società trasparente, Rizzoli, Milano 1989. ↩︎
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J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità (1985), Laterza, Bari 1991, p. 383. ↩︎
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Cfr. Breve dizionario per il secolo XXI. Le parole della mutazione, Castelvecchi, Roma 1995, p. 58. ↩︎