Natura umana e normatività della coscienza in Joseph Butler

1. Il metodo

Da alcuni anni a questa parte, il pensiero del vescovo di Durham Joseph Butler è stato sicuramente trascurato. Lo scarso interesse viene solitamente giustificato dal fatto che la sua teoria morale presenterebbe alcuni vizi di fondo, come la circolarità e la fallacia naturalistica. In realtà la maggior parte degli studiosi si sono concentrati però solo sui primi tre sermoni della raccolta che Butler pubblicò nel 1726, senza inoltre tenere conto del contesto sociale in cui il vescovo visse e li scrisse. Il valore dei discorsi di Butler si evince invece dal fatto che, nei settanta anni che dividono la pubblicazione del Leviatano dai Quindici sermoni di Butler, nessuno, da Cumberland a Cudworth e da Clarke a Shaftesbury, era riuscito a confutare in modo convincente l’egoismo di Hobbes. D’altronde, il rispetto che il vescovo di Durham godeva nel XVIII sec. viene testimoniato da diverse fonti, tra cui spicca l’epistolario di Hume.

Sul metodo che il nostro autore utilizza per elaborare la sua concezione morale c’è stato un lungo e vivace dibattito. Lo stesso Butler, nella Prefazione aggiunta alla seconda edizione dei Sermoni (1729), afferma che ci sono due possibili modi di trattare l’argomento morale:

  1. «La ricerca delle relazioni astratte delle cose» (Butler, 1969: 6);
  2. «Una indagine sulla peculiare natura dell’uomo, la sue numerose parti, la economia o costituzione da cui si procede per determinare quale sia la condotta di vita che corrisponde a questa natura nel suo complesso» (Butler, 1969: 6).

Entrambi i metodi ci portano allo stesso risultato, continua Butler, ovvero che praticare la virtù è il nostro dovere. Il primo però, è più formale e quindi più stringente, ma anche più astratto. Il secondo si mostra invece più adatto a essere applicato alle reali condizioni di vita degli individui, proprio perché basato sull’osservazione della regolare ricorrenza dei fenomeni (dottrina della probabilità). Benché non porti con sé la certezza che invece scaturisce da una dimostrazione formale, esso ha il vantaggio di essere percepito facilmente da tutti. Sulle motivazioni che portano Butler a scegliere quest’ultimo, i critici si sono divisi. Alcuni hanno sostenuto che Butler ha portato nella sfera morale quella rivoluzione che Bacone aveva compiuto nell’ambito delle scienze naturali (Spooner, 1901) e che quindi egli si allontana dalla scuola razionalistica di Clarke per aderire alla corrente del sentimentalismo inglese (Roberts, 1983); altri invece, più cauti, ritengono che Butler eviti di assumere una posizione definita (Taylor, 1926). In effetti, la scelta di un metodo empirico nell’indagine morale sembra motivata da esigenze contingenti più che da una convinzione dell’autore. È infatti dirimente il fatto che sempre nella Prefazione egli si preoccupi di spiegare che è in fondo d’accordo con l’insegnamento di Clarke e che quindi sia convinto che il miglior modo di trattare l’argomento morale sia quello razionale. Ciò che spinge Butler ad aderire al secondo metodo sarebbero allora essenzialmente due motivi: le caratteristiche dell’uditorio e l’obiettivo polemico dell’opera, ovvero l’egoismo psicologico di Hobbes. Al tempo in cui scrisse i Sermoni, il nostro autore era predicatore alla cappella reale di Londra e si trovava di fronte a una assemblea di fedeli educati secondo una tradizione culturale definita. Non avevano quindi bisogno né di essere convinti dell’esistenza della morale, né che la virtù è conforme alla nostra natura di esseri umani senzienti. Inoltre, un pubblico di media cultura, alieno da riflessioni filosofiche, avrebbe potuto considerare ragionamenti troppo formali come inutili sottigliezze. Le necessità pratiche di Butler si riscontrano anche nelle due classi di «egoisti» a cui è indirizzata l’opera:

  1. Coloro che sostengono che l’interesse egoistico è l’unico possibile;
  2. Coloro che ammettono l’esistenza di impulsi altruistici, ma che negano che ciò possa coincidere col loro interesse (ovvero il caso dello «scettico senza rimedio» di Shaftesbury).

Non a caso il vescovo di Durham evita di trattare una terza possibile classe, ovvero coloro per i quali la condotta naturale è il calcolo della massima felicità nel complesso, ovvero gli «egoisti razionali» di Sidgwick. Ma tale omissione è giustifica dal fatto che tra gli astanti non c’era sicuramente nessuno che si dilettasse in tali sottigliezze filosofiche.

Comunque sia, è evidente che Butler ricava il suo concetto di natura umana dalle relazioni che intercorrono tra le varie parti di essa e il fine per cui quest’ultime sono state create. In altre parole, il concetto di natura butleriano è squisitamente teleologico. Non a caso la natura viene infatti paragonata a un sistema: «Ogni opera della natura e dell’arte è un sistema, e siccome ogni cosa particolare, sia naturale, sia artificiale, è destinata a una utilità e a uno scopo che vanno al di là della cosa stessa, si può aggiungere a ciò che è già stato introdotto nell’idea di sistema, la sua capacità di condurre a questo e a più fini». (Butler, 1969: 9). Interessante in questo passo è l’equazione che viene postulata tra opera della natura e opera d’arte. Mentre quest’ultima è creata dall’uomo con determinate finalità (la penna per scrivere, la barca per navigare, ecc.) così la prima è plasmata dal demiurgo divino da cui riceve la propria causa finale, ovvero il realizzare un’esistenza morale. Non stupisce quindi che Butler ponga poco dopo la virtù nel «seguire la natura», espressione che però era stata proprio in quegli anni criticata da Wollaston, il quale la riteneva un modo di parlare vago.1 Ma il nostro autore, pur non citando l’avversario mai direttamente, risponde che sarebbe vago se si intendesse «seguire la natura» come seguire una qualunque passione o la passione al momento più forte. In questo caso infatti, uccidere una persona o provare compassione sarebbero entrambi comportamenti «virtuosi». Per Butler, come suddetto, «seguire la natura» non consiste ovviamente in ciò, perché la natura umana è stata dotata di una capacità che gli permette di condurre una vita morale (al contrario di quella dei bruti, per i quali invece è perfettamente coerente con la propria natura abbandonarsi alla passione del momento). Il carattere «naturale» di una azione non discende quindi dall’azione in se stessa o dalle sue conseguenze, ma dal paragonarla con la natura dell’agente. Un ulteriore distinzione che però va fatta è tra oggetti inanimati e oggetti animati: se infatti il fine di un orologio è quello di trasmettere l’ora giusta e questo non avviene, esso non può essere imputabile di tale responsabilità in quanto oggetto passivo; al contrario l’uomo, proprio perché soggetto attivo, può scegliere se seguire o no l’imperativo categorico della coscienza, e dove c’è scelta, c’è sempre responsabilità.

2. La natura umana

Vediamo adesso più in dettaglio come il vescovo di Durham concepisce la natura umana. Bisogna innanzitutto distinguere tra un desiderio generale e interno di felicità detto amor di sé e una molteplicità di affezioni/passioni rivolte a particolari oggetti esterni:

Ciò che si deve dire di quelle altre particolari affezioni e passioni è che procedono da quella particolare natura, secondo cui l’uomo è fatto, o contribuiscono a costituirla. L’oggetto delle prime aspirazioni è qualcosa di interno, la nostra felicità, il godimento interiore, la soddisfazione, sia che abbiamo o non abbiamo una particolare distinta percezione di che cosa essa sia, o in che cosa consista. Gli oggetti delle altre passioni sono questa o quella particolare cosa esterna, verso cui quegli affetti tendono e di cui la mente ha sempre una particolare idea o percezione. (Butler, 1969: 152)

La distinzione tra amor di sé e semplici passioni è universalmente vista dalla critica come uno dei maggiori contributi alla critica dell’egoismo hobbesiano. La colpa di Hobbes è in fondo quella di aver confuso il possesso degli impulsi con il loro oggetto. I nostri impulsi, originandosi appunto dall’io, non possono che appartenerci, come il loro soddisfacimento provoca un piacere che è mio. Detto questo però, niente vieta che una passione possa essere diretta e quindi trovare soddisfacimento nell’amore del prossimo. Butler distingue in verità tra passioni private e passioni pubbliche, laddove le prime, come la fame, mirano alla conservazione dell’individuo, mentre le seconde, come il desiderio di stima, contribuiscono a regolare il nostro comportamento in mezzo agli altri. Hobbes sosterebbe però che il desiderio di stima non è altro che un sentimento privato mascherato da sentimento pubblico. Il fatto che però al bene si accompagni la felicità e quindi l’utile non dimostra ancora che il primo dipenda dalla seconda. La distinzione tra passioni pubbliche e passioni private esiste dal punto di vista dell’uomo ma non da quello della passioni. L’oggetto della fame è semplicemente il cibo e l’oggetto del desiderio di stima non è altro che la buona opinione degli altri. La seconda tuttavia non potrà essere soddisfatta senza allo stesso tempo beneficiare l’intera società, ma ciò, nell’ottica di Butler, è dovuto al piano provvidenziale di Dio più che a una identità di moventi. Non c’è quindi differenza per l’amor di sé (ma, vedremo, ci sarà per la coscienza) tra il soddisfacimento di una passione pubblica e una privata. Il principio dell’amor di sé è ovviamente superiore alla semplici passioni le quali non hanno alcun freno e possono anche essere contrarie all’interesse dell’individuo che di dispiega in un arco temporale più esteso rispetto alla semplice soddisfazione presente. Per questo motivo, il vescovo di Durham non esita a dire che ci vorrebbe molto più amor di sé nel mondo. Allo stesso tempo però l’amor di sé trova appagamento soltanto attraverso il soddisfacimento delle passioni a cui si trova irrimediabilmente vincolato in una dialettica servo-padrone difficilmente risolvibile. Accade infatti talvolta che le passioni abbiano il sopravvento sull’amor di sé. In questo caso si passa da un amor di sé «freddo o deliberato» a un amor di sé «sensuale o passionale», il che viola l’ordine teleologico della natura umana, poiché affezioni particolari prevalgono su un desiderio generale. In effetti, il miglior modo per categorizzare l’amor di sé butleriano è quello di considerarlo come un second-order-desire (Phillips, 2000), ovvero come il desiderio che altri desideri siano realizzati. Ci sono però vari modi in cui ciò può avvenire: selezionando alcune passioni invece che altre, posticipando il soddisfacimento di alcune o addirittura spingerci all’inazione se un desiderio si configura come imprudente. La conclusione a cui però vuole arrivare Butler è che ovviamente non c’è alcuna particolare contraddizione tra amor di sé e benevolenza, poiché quest’ultima si rapporta al primo come qualsiasi altra passione. Di conseguenza, noi possiamo provare piacere nel fare del bene agli altri. Risulta quindi evidente la critica che viene mossa a Hobbes, per il quale la benevolenza, intesa come ricerca disinteressata del bene altrui, de facto non esiste, bensì è connessa a una particolare volontà di potenza: «non vi può essere prova maggiore del proprio potere, che il fatto di trovarsi in grado, non solo di realizzare i propri desideri, ma anche di assistere altri uomini nei loro; e questo è il concetto in cui consiste la carità o benevolenza». (Hobbes, 1968: 72). Considerando invece la benevolenza come un principio naturale nell’uomo, indipendentemente dal piacere che l’esercizio di questa produce, Butler si oppone deliberatamente a Hobbes. Il principio di benevolenza non è però ben definito dal vescovo di Durham, che talvolta lo definisce una semplice passione e talvolta lo caratterizza come principio generale che pone accanto all’amor di sé. Si prendano come esempio i seguenti due passi:

  • «L’amore di sé e la benevolenza non si devono contrapporre, ma solo distinguere l’uno dall’altro allo stesso modo che si devono distinguere la virtù e qualsiasi altra affezione particolare». (Butler, 1969: 21)
  • «La proporzione in cui stanno vicendevolmente le due disposizione generali, la benevolenza e l’amore di sé definisce il carattere di un uomo quanto alla virtù». (Butler, 1969: 174)

Queste due brevi citazioni sono in aperto contrasto tra di sé e per tale motivo alcuni (Broad, 1930) hanno optato per la seconda, e altri (Taylor, 1926) per la prima. Benché non si possa assolvere Butler dalla colpa di essere a volte poco coerente, si può cercare di ricostruire quella che poteva essere la sua visione del problema. È possibile trovare un indizio di ciò in un altro passo, di solito trascurato, dove si dice che:

L’umanità ha passioni incontrollate che soddisferà in ogni caso, sia per offendere altri sia in contraddizione con l’interesse privato riconosciuto: ma come non c’è qualcosa come l’odio di sé, così neppure c’è qualcosa come il malvolere verso un altro uomo, pur essendoci emulazione e risentimento; mentre c’è evidentemente benevolenza o buona volontà: non c’è qualcosa come amore di ingiustizia, oppressione, slealtà, ingratitudine; ma solo il vivo desiderio di tali e tali beni esterni; i quali, secondo una antichissima osservazione, i più dissoluti sceglierebbero di ottenere con mezzi innocenti, se fossero così facili e così efficaci al loro fine. (Butler, 1969: 40)

Normalmente ci si limita a dire che in questo passaggio Butler nega l’esistenza della malevolenza come ricerca disinteressata del male altrui (a differenza di Shaftesbury) perché ciò rappresenterebbe una smentita del mondo della morale. Ma in realtà non c’è malevolenza perché non c’è un desiderio generale per l’odio degli altri, ma soltanto passioni per determinati oggetti esterni, il soddisfacimento delle quali può a volte essere fonte di ingiustizia. Quest’ultima non è essenziale all’appagamento della passione bensì solo collaterale, essendo le passioni caratterizzate da una sostanziale amoralità. Per lo stesso motivo non ci può essere una benevolenza intesa come desiderio generale del bene altrui, ma soltanto singole affezioni che collateralmente lo provocano. Se il vescovo di Durham usa spesso il termine benevolenza lo fa probabilmente come termine-ombrello per indicare una molteplicità di affezioni caratterizzate da un elemento comune. E se lo usa con tanta frequenza è forse perché vuole insistere sul fatto che l’amor di sé non esclude l’amore del prossimo.

3. Compassione e risentimento

Allo stesso modo Butler si sofferma su alcune passioni perché considerate problematiche: la compassione e il risentimento.

Per quanto riguarda la prima, è evidente che il nostro autore ha presente la definizione che ne dà Hobbes, ovvero come immaginazione di un futura calamità su noi stessi, derivante dalla vista o della conoscenza della calamità di un altro uomo. La compassione sarebbe dunque paura per noi stessi; e se proviamo più compassione per coloro che non se la meritano sarebbe soltanto perché ciò aumenterebbe la probabilità che questo capiti anche a noi. Ma secondo il nostro autore, Hobbes è indotto a negare l’esistenza di un vero sentimento di compassione per motivi di coerenza con il suo sistema filosofico. Se infatti riduciamo la compassione a una paura per noi stessi, ne consegue che lo stato d’animo dell’uomo timoroso non può essere distinto da quello di un uomo misericordioso, ma ciò è smentito dall’esperienza quotidiana. D’altronde, se davvero ci fosse in noi qualcosa come l’immaginazione di un pericolo a seguito della visione di una disgrazia altrui, ci sarebbe nell’uomo un sentimento di simpatia verso gli altri, cosa su cui Hobbes non sarebbe certamente d’accordo. Butler scorge invece nell’esistenza della compassione la prova dell’intrinseca imperfezione umana e del carattere passeggero della fortuna. Il disagio che proviamo di fronte alla sofferenza di un nostro simile non è altro che quest’ultimo che bussa alle porte del nostro cuore chiedendo ospitalità e aiuto. La causa finale della compassione è quindi quella di aiutare gli sventurati a sollevarsi dalla loro condizione e di impedire un’eccessiva crudeltà. Non bisogna quindi cercare, come facevano gli stoici, di restare impassibili di fronte alle sofferenze del mondo. La compassione non va vista come una debolezza da sradicare, ma come un processo estatico in cui l’individuo esce fuori di sé per incontrare l’altro nel momento del bisogno, consapevole del fatto che egli stesso potrebbe prima o poi trovarsi nella stessa condizione: «la compassione ci richiama alla mente il nostro debito, e che noi ne siamo obbligati per i disgraziati non meno che per noi stessi». (Butler, 1969: 92). Ovviamente, in quanto passione, quando la compassione diventa eccessiva deve essere corretta.

Per quanto riguarda invece il sentimento del risentimento, esso sembrerebbe prima facie porre dei problemi di carattere morale: «perché l’uomo fu dotato di un principio [risentimento], che appare proprio l’opposto della benevolenza? » (Butler, 1969: 111). Se però la nostra natura non fu creata esente da tale passione, evidentemente esso deve avere una qualche utilità. Ci sono due tipi di risentimento: rapido e improvviso (hasty and sudden) e calmo e deliberato (settled and deliberate). Il primo può essere chiamato anche ira, intesa come un istinto irragionevole la cui genesi è repentina e involontaria e a volte anche ingiusta. Il motivo per cui però l’uomo fu dotato di tale passione è, secondo Butler, quello di prevenire o a resistere alla violenza inaspettata, senza alcun ragionamento razionale. Benché essa era forse più utile quando l’umanità era meno civilizzata, ancora oggi continua a svolgere un ruolo di autodifesa dell’individuo. Il risentimento in senso proprio è però quello calmo e deliberato, il quale non è connesso a una violenza diretta, quanto a una percezione della virtù e del vizio. Quando assistiamo ad atti di crudeltà verso degli innocenti, proviamo un senso di sdegno morale e desideriamo che l’offensore sia punito. Questo secondo tipo di risentimento è dunque diretto contro l’ingiuria e contro il vizio morale. A differenza del primo tipo, esso ha anche un maggiore durata nel tempo. Entrambe le tipologie possono ovviamente essere soggette ad abuso: per quanto riguarda il risentimento rapido e improvviso, esso può degenerare in collera furibonda, se il temperamento è forte, e irritabilità, se invece l’indole è più debole; relativamente al secondo, possiamo immaginarci, per parzialità verso noi stessi, un’offesa inesistente oppure ingigantire qualche vizio. Benché esso non sia stato posto nell’uomo per amministrare la giustizia, non si può però negare la sua buona influenza anche in questo ambito:

supponiamo una persona colpevole di omicidio, o qualsiasi altra azione di crudeltà e che l’umanità non avesse per natura alcuna indignazione contro tale malvagità e gli autori di essa, ma che tutti fossero disposti verso un tale criminale allo stesso modo che verso un innocente, la compassione, fra le altre cose, renderebbe l’esecuzione delle giustizia eccessivamente dolorosa e difficile e spesso l’impedirebbe. […] Perciò si può penso, giustamente, concedere molto al risentimento, nel senso più stretto della considerazione morale. (Butler, 1969: 119-120)

Il problema del risentimento è però che esso genera una serie di reazioni a catena potenzialmente senza fine, perché tende a produrre un analogo sentimento in chi ne è oggetto. Anche se infatti ci fu dato per prevenire un’offesa, esso trova soddisfazione solo nella miseria del prossimo, il quale a sua volta sarà mosso da un desiderio di vendetta contro di noi. Complementare al risentimento è allora il perdono delle offese, che si configura come un vero e proprio dovere morale, l’unico modo in cui il male diventa reversibile. Tuttavia, il precetto del perdono non intende negare il risentimento come sentimento naturale, ma solo i suoi abusi, e soprattutto lo spirito di vendetta. Ciò che poi giustifica le pubbliche esecuzioni capitali, non è tanto il venir meno alla obbligazione del perdono o della benevolenza in generale, bensì l’impossibilità di conciliare la condotta di vita del presunto criminale «con la quiete e felicità del mondo» (Butler, 1969: 130). Giustificazione che probabilmente Butler desume da Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino, i quali avevano sostenuto la liceità della pena di morte sulla base del concetto della conservazione del bene comune: come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità stessa.

Benché lo spazio dedicato al perdono delle offese sia marginale all’interno dei sermoni, esso ha avuto un certa influenza su alcuni autori posteriori come Downie, Ewing e Murphy i quali hanno visto in esso un modo, forse l’unico, per superare il vicolo cieco del risentimento. È necessario però sottolineare che Butler vede nel perdono non tanto il superamento del risentimento, quanto una soluzione al problema della vendetta. Come si è detto, essa viene generata dal risentimento, ma tradisce il fine per il quale quest’ultimo è stato posto nell’uomo, ovvero il prevenire le ingiurie e non il causarle: «il soddisfacimento del risentimento, ove non sia tendente al fine per cui ci fu dato, […] deve necessariamente contraddire quel fine specifico stesso» (Butler, 1969: 128). Il perdono delle offese entra quindi in atto solo quando si realizza questa particolare condizione e non quando il risentimento agisce in modo «naturale».

4. Coscienza e inganno di sé

La chiave di volta della concezione di Butler è però sicuramente la coscienza, investita quasi di un «ufficio profetico» (Marston, 1919: 58). Infatti fino a ora si è detto che l’uomo possiede da un lato un desiderio generale di felicità e dall’altro una molteplicità di passioni a esso sottoposte, ma per il momento niente lo differenzia da qualsiasi altro animale che segue la proprio natura. In altre parole: cosa rende l’uomo un agente morale? Risponde il vescovo di Durham che «c’è un principio superiore di riflessione o coscienza in ogni uomo […] che afferma in modo determinato che certe azioni sono in sé rette, giuste, buone e […] approva o condanna di conseguenza l’autore di quelle». (Butler, 1969: 51). La differenza tra coscienza, amor di sé e passioni è ovviamente qualitativa: l’autorità dei primi due è maggiore rispetto alla terza. Tuttavia, accade spesso che le passioni trionfino sopra i due principi più autorevoli a causa della loro forza. Bisogna infatti distinguere tra mera potenza e autorità. Senza questa distinzione infatti, «data la forza sarebbe data l’intera natura dell’uomo» (Butler, 1969: 55), poiché ogni azione sarebbe compiuta seguendo il principio più forte, sia esso la compassione o l’istinto omicida. Se invece siamo trattenuti da compiere quest’ultima azione, ci deve un qualcosa che ci impedisce di farlo. Questo qualcosa è la coscienza, la quale non si limita quindi ad approvare, come vorrebbero alcuni (Sturgeon, 1976), un’azione soltanto perché è approvata dall’amor di sé ma perché è intrinsecamente giusta. È però vero che in un passo Butler afferma che nessuna azione è proporzionata alla natura umana se viola o il ragionevole amore di sé o la coscienza. A livello teorico, in un possibile conflitto tra i due, dovrebbe essere infatti la seconda a prevalere. Ma a livello pratico, come fa notare Broad, questo conflitto spesso non esiste, poiché «c’è una generale coincidenza fra i verdetti della coscienza e l’amore di sé, nel senso che l’azione, che la coscienza condanna come ingiusta, l’amore di sé disapprova come imprudente». (Broad, 1930: 78).

Risulta necessario a questo introdurre una precisazione terminologica che però è ricca di risvolti concettuali. Il vescovo di Durham utilizza sinonimicamente le espressioni «coscienza» (conscience), «ragione» (reason) e «principio di riflessione» (principle of reflection). Butler non è certo sistematico nell’uso del linguaggio, ma poiché gli anni in cui scriveva erano quelli della fioritura del sentimentalismo inglese, tutto ciò non può essere casuale. Con questo gesto, Butler si allontana dalle posizioni dei sentimentalisti a lui coevi, che invece parlavano di «senso morale». Tuttavia, la coscienza-ragione, non è in grado autonomamente di spingere all’azione: è vero che in prima battuta la coscienza discrimina razionalmente tra male e bene, ma poi ciò che ci spinge concretamente ad agire (o a non agire) in un determinato modo e non in un altro è una emozione, un sentimento, benché l’intelletto comprenda il perché una azione è giusta e un’altra non lo è. Per questo motivo, alcuni studiosi come Mossner (1936) hanno visto nella teoria di Butler la via verso la caduta storica del concetto di sufficienza della ragione, destinata a completarsi poi con Hume. Il carattere razionale della coscienza permette comunque al vescovo di preservare l’oggettività e l’universalità delle dichiarazioni di essa, che, se considerata alla stregua di «senso morale», si sarebbero basate su semplici qualità emozionali di piacere e di pena, critica che Kant muoverà infatti a Hutcheson.2 Non bisogna però avvicinare troppo la posizione di Butler a quella del filosofico di Königsberg, poiché per il vescovo di Durham la ragione non determina la virtù e il vizio meramente secondo le sue leggi formali, ma tenendo presente la natura organica dell’agente. Per Butler in fatti la virtù non è una mera coerenza logica, ma una questione di self-consistency.

C’è però un modo per quietare la propria coscienza e darsi così indisturbati alla malvagità: ingannando se stessi. Un uomo infatti può agire in contrasto con la propria natura non solo abbandonandosi alle passioni ma anche trovando dei sotterfugi per evitare la riflessione o per trovare una giustificazione al proprio atteggiamento. L’autoinganno è dovuto principalmente a due fattori complementari ma distinti:

  • Il non esercitare il proprio giudizio su se stessi
  • L’amor proprio, che spinge gli uomini a ritenersi moralmente perfetti, a cedere al narcisismo di quell’io «di cui tutti siamo così appassionati» (Butler, 1969: 139).

In altri termini, la parzialità verso se stessi rende gli uomini insensibili ai propri vizi e li porta a giudicare le proprie azioni con un metro diverso rispetto a quelli degli altri membri della comunità. L’inganno di sé è una disonestà morale che, lungi dal costituire un’attenuante dei misfatti commessi, è la più grande di tutte le colpe, perché va a corrompere la stessa capacità di giudizio. Non solo: il vizioso tenderà a perdonare lo stesso vizio anche negli altri. Butler elenca allora tre possibili rimedi:

  1. Chi non ha mai sospettato di essere caduto in tale debolezza può dare per scontato di essersi autoingannato;
  2. Imparare a conoscere il nostro carattere morale e quindi le nostre debolezze;
  3. Adottare la massima di Cristo che dice di fare agli altri quello che vorressimo fosse fatto a noi.

Mentre i due punti possono essere conseguiti dalla maggior parte delle persone, l’adottare pienamente la massima di Cristo risulta un compito difficile e ristretto a pochi. Ma il nostro autore si accontenta di dire che anche solo il provare a praticarla può essere di una qualche utilità, e che in fondo l’esistenza dell’inganno di sé non è altro che un’ulteriore conferma dell’esistenza della morale poiché la necessità interiore di giustificare, o scusare, determinate azioni, scaturisce dal fatto che gli uomini preferirebbero essere liberi dalla colpa, la avvertono come un peso, e questo «dimostra almeno il turbamento e l’implicita insoddisfazione che c’è nel vizio» (Butler, 1969: 110).

Resta da rispondere alla domanda, lasciata senza risposta da Shaftesbury, donde deriva l’obbligo di obbedire alla legge della coscienza. L’obbligo di obbedire alla legge morale consiste nel fatto che essa è la legge della nostra natura e che il giudizio della coscienza è di per sé motivo di obbligazione morale. Il dovere dell’uomo è quello di seguire la propria natura e quest’ultima è un sistema governato dalla coscienza. Come ha fatto però notare acutamente Babolin (1973), la coscienza non crea la moralità, ma rende solo possibile l’azione morale, poiché la realtà che percepisce non è una sua creazione. In altri termini, essa è semplicemente la capacità per la virtù. Per questo motivo Butler è però incorso in diverse critiche, prima tra tutte quella di chi sostiene che egli mantiene in fondo un approccio platonico all’etica e che la voce della coscienza non è altro in fondo che la voce di Dio nell’uomo (Barnes, 1951). Per questo motivo, ci sarebbe una contraddizione tra la metafisica di Butler e la sua metodologia, perché all’inizio della sua trattazione afferma di voler parlare della natura umana, mentre poi vi inserisce un elemento soprannaturale. Tale critica, come anche quelle che hanno come oggetto il carattere incompleto della teoria della coscienza poiché né viene definito il criterio per distinguere azioni giuste e sbagliate né viene trattato il problema dell’evoluzione della coscienza, sono in fondo giustificate. Comune a tutte è però l’aver trascurato, come già detto in apertura, le credenze religiose di Butler, per il quale la natura umana è un’opera di Dio il quale l’ha creata per una precisa finalità e senza possibili ripensamenti. C’è poi anche da dire che il vescovo di Durhan non ha mai inteso rispondere alla domanda shaftesburiana «perché agiamo moralmente? », ma, dandola per scontata, si è concentrato sul problema pratico di come possiamo agire moralmente.

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  • J. L. Murphy (1963), A Rationalist Defense of Christianity, «The American Ecclesiastical Review», CXLVIII.
  • P. A. Newberry (2000), Joseph Butler on Forgiveness: A Presupposed Theory of Emotion, «Journal of the History of Ideas», LXII.
  • W. J. Norton (1938), Bishop Butler, Moralist and Divine, Rutgers University Press, New Brunswick.
  • D. Phillips (2000), Butler and the Nature of Self-Interest, «Philosophy and Phenomenological Reserach», LX.
  • F. Purser (1903), Butler’s Indebtedness to Aristotle. A Reply, «Hermathena», XII.
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  • M. Scrutton (1952), Bishop Butler: A Reply, «The twentieth Century», CLII.
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  • B. Willey, (1940) The Eighteenth Century Background. Studies on the Idea of Nature in the Thought of the Period, London.
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  1. «Coloro che fanno consistere tutto nel seguire la natura, se intendono con quell’impressione l’agire secondo la natura delle cose dicono ciò che è giusto. Se intendono solo che l’uomo deve seguire la propria natura, dal momento che la sua natura non è puramente razionale, ma c’è una parte nell’uomo che egli condivide con i bruti, essi gli assegnano una guida che, temo, li fuorvierà, poiché questa parte comunemente ha più probabilità di prevalere rispetto alla parte razionale. Nella ipotesi migliore, questo modo di parlare è impreciso». (Wollaston, 1727: 22) ↩︎

  2. «Più sottile ancora, benché altrettanto falsa, è la supposizione di coloro che ammettono un certo senso morale particolare, il quale, e non la ragione, determinerebbe la legge morale: secondo la quale supposizione la coscienza della virtù sarebbe legate immediatamente con la contentezza e col piacere; e quella del vizio, invece, coll’inquietudine dell’animo e col dolore. […] Per immaginare il vizioso tormentato dall’inquietudine dell’anima mediante la coscienza dei suoi falli, lo devono immaginare già prima, quanto all’elemento principale del suo carattere, come moralmente buono; almeno in qualche grado. […] Quindi il concetto della moralità e del dovere dovette precedere ogni considerazione di questa contentezza e non può affatto esserne derivato. […] Non si può dunque sentire questa contentezza o questa inquietudine prima di conoscere l’obbligo, e porla a base di questo ultimo. Si deve già essere un uomo onesto almeno a metà, per potersi fare anche soltanto una rappresentazione di quei sentimenti. Io non nego, del resto, che, come mediante la libertà della volontà umana può essere determinata immediatamente dalla legge morale, anche l’esercizio frequente conforme a questo motivo determinante, possa produrre infine soggettivamente un sentimento di contentezza in se stessi; […] ma il concetto del dovere non può essere derivato da esso, altrimenti noi dovremmo immaginare il sentimento di una legge come tale, e fare oggetto della sensazione ciò che può esser soltanto pensato mediante la ragione. Il che, se non deve essere una contraddizione grossolana, annullerebbe affatto ogni concetto del dovere, e in suo luogo porrebbe semplicemente un giuoco meccanico d’inclinazioni più squisite che a volte vengono in contrasto con inclinazioni più rozze» (Kant, 1997: 86-87)». ↩︎