1. Introduzione
«L’opera del filosofo Schopenhauer non è superata».1 Con queste parole Max Horkheimer definisce il suo rapporto con il pensiero del filosofo di Danzica. Accanto alla componente marxista, infatti, in Horkheimer confluiscono curiosamente le suggestioni metafisiche del Mondo come volontà e rappresentazione. Il risultato è un pensiero singolare e parecchio attuale, scaturito da alleanze impossibili e armonie inedite, il cui risultato è un mosaico di indicazioni politiche e impressioni metafisiche.
Max Horkheimer (1895-1973), fondatore, insieme a Theodor W. Adorno, della Scuola di Francoforte, nonché direttore dell’Istituto per la Ricerca Sociale dal 1931, è una figura parecchio dibattuta. È stato colui che ha coniato il termine “teoria critica” per indicare un pensiero rivolto alla critica sociale, un pensiero che si sofferma sulle contraddizioni della ragione moderna per smascherarne la volontà di potenza e le pretese totalitarie. Tedesco di origine ebraica, ha vissuto sulla propria pelle l’orrore della persecuzione nazista. Quest’esperienza lo ha condotto ad emigrare in America, dove ha scritto, insieme a Adorno, la celebre Dialettica dell’illuminismo (1947). Da questo momento in poi la sua vita è stata interamente dedicata a combattere il pensiero dominante in Occidente, il pensiero strumentale, fondamentalmente nichilista, premessa e condizione culturale dei totalitarismi.
A fiancheggiare Horkheimer è la filosofia di Schopenhauer, filosofo il cui pensiero ha influenzato profondamente il giovane Max fin dai primissimi studi filosofici – e la cui importanza è aumentata con il tempo, sino ad assumere una considerevole rilevanza nell’ultimo Horkheimer. Come ha sottolineato A. Schmidt, in Horkheimer si intrecciano «motivi marxiani e motivi schopenhaueriani – i primi in riferimento al malum physicum, i secondi al malum metaphysicum».2 L’attenzione nei confronti dell’intera persona umana, pertanto, è un segno che contraddistingue tutta l’opera del Nostro, la cui volontà è sempre stata quella di non mutilare l’umano per mezzo di indebite manovre speculative, manovre indegne della complessità e della sensibilità dell’uomo nella sua interezza.
Il presente lavoro è dedicato a un argomento poco investigato da Horkheimer, ossia l’arte. Il paper, prendendo il via dalla considerazione estetica di Schopenhauer, vuole analizzare i pochi passi in cui Horkheimer parla dell’arte, mettendo in risalto le non poche consonanze fra i due filosofi, nell’ottica di un oltrepassamento della nefasta dialettica dell’illuminismo, che irretisce l’uomo in un sistema di dominio.3 La filosofia di Schopenhauer s’inserisce perfettamente in questo contesto, poiché sembra offrire, perlomeno nel pensiero di Horkheimer, gli strumenti concettuali adeguati a una elaborazione teorica adattata alle attuali condizioni spirituali dell’Occidente.
2. L’industria del divertissement e la cultura programmata
Prima di iniziare la trattazione dell’argomento, bisogna evidenziare preliminarmente che Horkheimer non ha mai investigato la questione dell’arte in modo approfondito. È stato piuttosto l’amico Adorno a sviluppare una teoria estetica specifica, occupandosi in particolare di musicologia e della ricezione artistica in relazione all’attuale condizione storica. I passi dedicati all’arte che possono essere trovati in Horkheimer sono perlopiù riconducibili all’influenza adorniana e al pensiero di Schopenhauer. Ma di tutto questo ci occuperemo nel prossimo paragrafo. Qua ci soffermiamo invece sulla famosa industria culturale, appellativo divenuto celebre dopo la pubblicazione di Dialettica dell’illuminismo.
L’industria culturale rappresenta ineluttabilmente la fine della cultura giunta nel pieno della sua democratizzazione, e designa altresì l’esplosione del sistema di produzione e l’implosione della capacità creativa. Nelle condizioni sociali reificate dell’attuale sistema capitalistico accade qualcosa di singolare e del tutto imprevedibile: «Il principio di organizzazione si unisce a quello della produzione per generare una totalità di dominio in cui non esistono più ambiti distinti».4 La cultura viene liquidata come prodotto, e il prodotto è sempre qualcosa di più di un semplice prodotto: potenza d’apparenza. «Lo spirito non può che dileguarsi quando è consolidato a patrimonio culturale e distribuito a fini di consumo».5 In sostanza è questo il meccanismo perverso che la produzione organizzata ha ingenerato nella società attuale, una distruzione pianificata della cultura in nome del marketing. Lo spirito diventa intrattenimento, viene svenduto come prodotto commerciale. L’arte è trasferita nella sfera del consumo. La tecnica dell’industria culturale ha ormai standardizzato l’arte nella sua produzione in serie, e
le distinzione enfaticamente ribadite, come quella tra i film di tipo a e b, o quella fra i racconti pubblicati in settimanali di diverse categorie di prezzo, più che essere fondate sulla realtà e derivare da essa, servono a classificare e organizzare i consumatori, e a tenerli più saldamente in pugno. Per tutti è previsto qualcosa perché nessuno possa sfuggire; le differenze vengono inculcate e diffuse artificialmente.6
Questo sistema infernale ha l’unico obiettivo di «rafforzare la pressione della società sull’individuo»7 amplificando il controllo sociale. Si tratta di sottomettersi a meccanismi regolatori automatici: ciascuna scelta apparentemente libera è già prestabilita dall’apparato che stabilisce in anticipo il level di ciascuno in base alla (apparente) diversificazione dei prodotti. La parvenza della libertà di scelta mantiene docile la massa assopita, venendo a realizzare concretamente uno stato di non-libertà tipico delle tirannidi. Citando Tocqueville, Horkheimer e Adorno scrivono che «sotto il monopolio privato della cultura accade realmente che “la tirannide lascia libero il corpo e investe direttamente l’anima”».8 Altrove Horkheimer denuncerà «la continua crescita dell’indurimento autoritario della democrazia»9 la cui causa principale è l’industria culturale guidata dalle cricche economiche più influenti.
Veniamo così a un principio essenziale: i prodotti culturali (ossimoro che ormai non appare come tale alle orecchie dei più) replicano sempre la stessa cosa, mettono in loop il loro contenuto identico. La «riproduzione del sempre uguale […] scarta ciò che non è stato ancora sperimentato come un rischio inutile».10 L’arte commercializzata ha venduto l’anima al positivismo volgare,11 limitandosi a confermare e ritrasmettere in forme diverse la realtà così com’è. La cultura si è arresa davanti all’esistente, e nel frattempo «la tecnica perfezionata riduce la tensione fra l’immagine e la vita quotidiana»,12 di modo che all’uscita dalla sala cinematografica, scrivono gli autori, lo spettatore non avverta la differenza tra il film e la strada per tornare a casa.
Lo spettacolo è «apologia della società»13 in una forma più sottile e sicuramente più persuasiva. La società assume il volto della natura immutabile e ordinaria; la volontà di cambiamento appare ora sovversione del normale ordine delle cose. La carica critica dell’arte viene a cadere nella «torbida identità» di universale e particolare in cui «l’universale può sostituire il particolare e viceversa»,14 senza che vi sia più alcuna tensione fra i due poli opposti. L’industria culturale si prefigge come scopo l’imitazione della realtà, fornendo «come paradiso la stessa realtà della vita quotidiana».15 «L’immutabilità dei rapporti sociali trova in tutto questo la sua sanzione definitiva».16
Sopraggiunta la noia per il contenuto sempre identico, «l’interesse di innumerevoli consumatori è tutto rivolto alla tecnica e non ai contenuti ripetuti in forma stereotipa, intimamente svuotati di ogni significato e già praticamente abbandonati».17 Che bello c’è nel sentirsi raccontare sempre la stessa storia? I mezzi della narrazione, quindi, assumono sempre maggior rilevanza, e il perfezionamento della tecnica diventa oggetto di meraviglia e di ammirazione per il pubblico inebetito. Esauritasi la carica espressiva del contenuto, è il turno del medium.
La diagnosi è alquanto disperante. Ma non è tutto. L’industria culturale, sottolineano gli autori, ha indotto lo spettatore in uno stato di apatia e sonnolenza da cui è difficile che riemerga; il suo spirito critico, da sempre motore del progresso sociale nello scontro con il pensiero dominante, è messo da parte definitivamente, barattato per quel po’ di distrazioni che l’apparato mette a disposizione. Non a caso l’industria culturale è chiamata anche con il nome di «industria del divertimento»,18 ove «divertirsi significa essere d’accordo».19 L’ottundimento del pensiero critico sancisce la vittoria del positivismo su tutti i fronti, avendo colonizzato finanche l’anima dell’uomo. I prodotti culturali – un film, una canzone, un romanzo – sono realizzati in modo da «vietare letteralmente l’attività mentale o intellettuale dello spettatore»:20
Si può sempre capire subito, in un film, come andrà a finire, chi sarà ricompensato, punito o dimenticato; per non parlare della musica leggera, dove l’orecchio esercitato può indovinare la continuazione fin dalle prime battute del motivo e provare un senso di felicità quando arriva effettivamente.21
Tutto ciò ricorda da vicino l’espressione del divertissement formulata da Pascal: «Il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte».22 È, in sostanza, questo l’intento segreto dell’industria del divertimento, la realizzazione organizzata del divertissement di pascaliana memoria, la «fabbricazione di distrazioni»23 che atrofizza il pensiero e mantiene l’uomo in uno stato di vana agitazione. Il pensiero della morte è tanto agghiacciante per l’uomo il cui unico obiettivo è oramai solo il benessere fisico che la società si è organizzata in modo da preferire la strada più breve, quello della dimenticanza di dover morire.
Il pensiero di Horkheimer è, a ben vedere, molto più affine a quello di Pascal rispetto a quanto potrebbe apparire a prima vista. Scrive sempre Pascal: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici».24 Ebbene, Max Horkheimer ha sempre elaborato teoricamente sistemi di pensiero che avessero di mira la liberazione dal dolore e dalla miseria, ma questo è possibile solo per il tramite dell’iniziale riconoscimento della propria indigenza; la volontà di liberarsene è solo successiva. Pascal denuncia propriamente la mollezza dell’uomo che non si preoccupa della propria condizione per evitare di farsene carico. «Se il nostro stato fosse veramente felice, non occorrerebbe distrarne il pensiero per renderci felici».25
L’antropologia horkheimeriana è somigliante a quella pascaliana. Pascal parla di «infelicità naturale della nostra condizione, debole, mortale e così miserabile che nulla ci può consolare quando la consideriamo seriamente».26 Horkheimer, analogamente, parla di finitezza, di sofferenza e di mortalità per indicare l’uomo concreto («Nella misura in cui una persona è in grado di prendere veramente sul serio il concetto della finitezza di ogni essere vivente, essa fa esperienza della relatività della propria vita»27). Aggiunge inoltre che nell’uomo risiede lo spirito critico, quell’anelito che tende al cambiamento, cioè alla liberazione dall’indigenza.28 Lo stesso sostiene Pascal quando, elencando le caratteristiche umane in una sommaria descrizione dell’uomo, parla di «dipendenza, desiderio d’indipendenza, bisogno».29 Nonostante tutto, però, l’uomo preferisce dimenticare il proprio stato, rinchiudendosi volontariamente in una prigione senza finestre, una prigione infiocchettata e imbellettata a dovere, ma pur sempre una prigione. «Il re è circondato da gente che pensa soltanto a divertire il re e a impedirgli di pensare a se stesso. Perché, se pensa, quantunque re, è un infelice».30
Il divertissement, in altre parole, fa di tutto per scongiurare che l’uomo pensi, e addita la mancanza di pensiero come lo stato veramente felice, il raggiungimento della condizione ideale per l’intera umanità. L’errore, sostiene Pascal, non è cercare il divertimento; l’errore è desiderarlo come se fosse il requisito essenziale per la vera felicità. Il divertimento, scrive acutamente Pascal, «deriva dal risentimento [degli uomini] per le loro continue miserie»,31 i quali fanno in modo che non ci sia mai un momento vuoto da dedicare a se stessi. Fin dall’infanzia gli uomini si sono impegnati con questo segreto intento: «per questo, se [i bambini] hanno qualche momento di tregua, si consiglia loro di usarlo per divertirsi, per giocare e per impegnarsi sempre completamente».32 L’interiorità, l’introspezione, è sospetta.
L’interiorità – scrivono Horkheimer e Adorno – viene sperimentata, ormai, solo come una “lagna”, che ci si rassegna a tollerare, come un condimento agrodolce, nei best-seller religiosi, nei film psicologici e nei women serials, solo per essere in grado di dominare e di reprimere ancora più sicuramente i propri impulsi umani nella vita reale.33
La meditazione, la riflessione, la preghiera sono tutti momenti scoraggiati dall’industria culturale. Pur esulando dalle premesse teologiche del pensiero pascaliano, dunque, non possiamo non riconoscere la forte assonanza con il discorso di Horkheimer. La necessità di tornare a riflettere autonomamente e a pensare senza condizionamenti, di fermarsi un minuto e chiedersi verso dove si sta andando, è il presupposto più salutare nell’attuale condizione sociale. Ma è proprio la pervasività dell’industria culturale a tenere a freno una simile capacità, occludendo qualsiasi spazio di libertà (ancora) rimasto all’uomo. Pure Romano Guardini aveva visto nell’introspezione l’unico mezzo per superare lo sterile e insensato movimento della società attuale. Ricordando molto da vicino il discorso horkheimeriano sulla ragione soggettiva, sul dominio e sulla necessità di resistere all’accoglimento passivo dell’esistente, scrive:
Dappertutto è azione, organizzazione e movimento, ma da dove vengono essi guidati? Da un di dentro che non sa più riconoscersi nel proprio intimo, ma pensa, giudica, agisce, partendo dalle zone periferiche della pura ragione, dalla volontà di raggiungere la mèta, dagli impulsi del potere, del possesso, del piacere. […] L’uomo deve nuovamente pregare e meditare. Non si può dire in un modo generale come egli lo debba fare. Dipende dalle sue convinzioni fondamentali, dalla sua posizione religiosa, dal suo temperamento, dall’ambiente in cui vive. In ogni modo deve liberarsi dall’assillo, divenire calmo e presente; aprirsi a una parola di devozione, di saggezza, di nobiltà morale attinta alla Sacra Scrittura, a Platone o a Pascal, a Goethe o a Jeremias Gotthelf. Deve porsi di fronte alla critica che quella parola esercita su di lui. […] Solo con un atteggiamento così approfondito si può conquistare una posizione di fronte ai poteri del mondo circostante.34
Ma oggi l’uomo non vuole più meditare, forse perché ha disimparato a farlo. La cultura, scaduta a patrimonio culturale, è stata depotenziata, l’arte non ha più la funzione di pungolo a pensar diversamente. Il pensiero critico, cui Horkheimer ha reso omaggio in tutta la sua produzione intellettuale, sembra essersi volatilizzato, arresosi di fronte all’esistente. L’utilità diviene il movente per qualsiasi azione, tanto che «il discorso che si richiama solo alla verità non fa che suscitare l’impazienza di arrivare al più presto allo scopo commerciale che si suppone che esso persegua».35 L’indifferenza intorno al discorso sulla verità – Chi è l’uomo? Che cosa è giusto fare? – è ormai tale che l’ateismo paventato da Horkheimer36 è solo accidentale: l’uomo, distratto dall’industria del divertissement, è ateo per accidente perché non si pone nemmeno il problema,37 persuaso che il mondo sia bell’e buono come appare, e che non abbisogni di giustificazioni ad esso esterne. L’anonimo apparato della società tende a rimuovere ogni resistenza da parte dell’uomo.
Venuta meno la sensibilità della preghiera, e quindi decaduta la speranza in un principio trascendente, ecco che spunta l’opzione della superstizione, tanto propagandata dall’industria culturale per motivi ben precisi. A ciò si è dedicato Adorno che, in una piccola sezione di Minima moralia e in una breve ricerca sociologica dal titolo Stelle su misura, ha affrontato il tema dell’occultismo e dell’astrologia. Accenniamo brevemente ai tratti centrali di questa materia per rintracciare ulteriori elementi che chiariscano la conformazione e la finalità dell’industria culturale. Scrive Adorno: «La moda dello spiritismo è il segno di una regressione della coscienza, che ha perduto la forza di pensare l’incondizionato e di sopportare il condizionato […] e li mescola indiscriminatamente fra loro».38 Una simile espressione è già di per sé esaustiva, indicando l’incapacità di pensare un aldilà che sia diverso dall’aldiqua. Gli spiriti diventano sperimentabili scientificamente perché la freddezza del mondo empirico è ormai divenuta insopportabile e necessita di un surplus di meraviglia, quest’ultima venuta a mancare definitivamente con il dispiegarsi della ragione strumentale. L’occultismo, continua Adorno, «è la metafisica degli stupidi. Il basso livello intellettuale dei medium non è affatto un caso, come non lo è il carattere apocrifo e melenso delle loro rivelazioni».39
I pietosi e maldestri tentativi di sbirciare attraverso le fessure delle muraglie [del sistema capitalistico], se non rivelano nulla di ciò che dovrebbe trovarsi al suo esterno, sono tanto più sintomatici e indicativi delle forze di dissoluzione che operano al suo interno.40
Detto diversamente, se l’occultismo non rivela nulla che sia eccedente rispetto al sistema sociale vigente, ma viene impiegato per avere responsi dai defunti o per avere una previsione di un amore imminente, allora è uno dei tanti meccanismi che sorreggono il sistema: «Il contenuto piattamente naturale del messaggio soprannaturale è la spia della sua falsità».41 Niente di supremo dunque, nulla di sovrabbondante rispetto alla mera immanenza.
Lo stesso opera nell’astrologia, «l’occultismo commercializzato»,42 «l’istituzionalizzazione della superstizione»43 la quale, «offerta in modo autoritario»,44 contribuisce a determinare e regolare non solo i comportamenti delle persone ma anche le loro aspettative, colonizzando i desideri e le paure con un sistema tanto più pervasivo quanto più è sottile e apparentemente innocuo. L’astrologia veicola l’ideale dell’adattamento a vaticini supremi, prefigurazione e palestra per l’adeguamento alle prescrizioni sociali. Il «bisogno di scorciatoie intellettuali»45 per il semicolto viene così soddisfatto, poiché l’astrologia riduce «la complessità a una formuletta e offre contemporaneamente a chi ritiene di essere escluso dai privilegi della cultura la piacevole gratificazione di appartenere nondimeno alla minoranza di quelli che “sanno”».46 Di più, il meccanismo dell’astrologia disabitua le persone a qualsiasi atteggiamento critico, promuovendo l’adattamento a responsi che non tengono conto della personalità del loro destinatario: «Il consiglio che viene dalle stelle rinforza una dipendenza e un’obbedienza di tipo autoritario e irrazionale»47 che invita al comportamento coatto. Tutto ciò è funzionale alla società, sempre più prossima a quello che Horkheimer chiama il “mondo amministrato”. L’astrologia, dunque, è il riflesso della razionalità irrazionale del sistema sociale.
L’irrazionalità della fonte non solo è tenuta lontana, ma è anche considerata impersonale e oggettiva […], astratta, inaccessibile e anonima. Ciò riflette il tipo d’irrazionalità con cui l’ordine complessivo della nostra vita si presenta alla maggior parte degli individui: opacità e imperscrutabilità.48
Il tipo di coscienza che l’astrologia raccomanda è la stessa dell’industria culturale, quella cioè che suggerisce l’ineluttabilità degli eventi della vita e la ripetizione del sempre identico della quotidianità: «La realtà […] assume così l’aspetto del destino».49 Ed è propriamente per questo motivo che la società tende fatalmente al fascismo, sostiene la Teoria critica francofortese.
Un simile presentimento è proprio anche di Guy Debord, pensatore che «appartiene di diritto a quella storia del pensiero critico che ha riconosciuto il destino trionfante del capitalismo, da Lenin a Horkheimer e Adorno».50 Nella sua opera più famosa, La società dello spettacolo (1966), ha rintracciato la formula che sta alla base del sistema capitalistico e che è di chiara derivazione hegeliana, e questa suona così:
Lo spettacolo si presenta come enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più che “ciò che appare è buono, ciò che è buono appare”. L’attitudine che esige per principio è questa accettazione passiva che esso di fatto ha già ottenuto attraverso il suo modo di apparire insindacabile, con il suo monopolio dell’apparenza.51
L’accettazione passiva, il disinteresse, l’apatia, sono i sentimenti indeboliti e stanchi che l’industria culturale, alleata della superstizione e del basso livello culturale, consiglia e prescrive alla massa atomizzata e passiva. L’esito è coerente e conforme al positivismo come approvazione acritica dell’esistente. In questo senso si può affermare, con un’espressione tanto più grave quanto più è vera, che «lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale».52 Horkheimer, spaventato da un esito tanto infelice, si è fin da subito proposto di rivitalizzare il pensiero critico, in modo da determinare una stimolante tensione tra il reale e l’ideale, mettendo così in movimento le forze che potrebbero condurre a una società diversa, evitando al contempo di divinizzare ciò che finora è stato conquistato. La mancanza d’inquietudine nei cuori degli uomini si traduce inevitabilmente in indifferenza e insensibilità, ed è altresì indice dell’esaurimento spirituale e intellettuale dell’Occidente. L’industria culturale è il sigillo di una condizione tanto infausta, il cui superamento rimane tutt’oggi un enigma.
La vita umana è dunque regolata fin nei minimi particolari, scindendosi inesorabilmente in due facce ben distinte e nondimeno complementari: il tempo lavorativo e il tempo libero. Questa distinzione sembra rimarcare il pensiero schopenhaueriano che definisce la vita come un pendolo tra il dolore e la noia. Il tempo lavorativo, pianificato dalle direttive sociali, viene compensato dal tempo libero, destinato alla sfera privata della vita. Ma quest’ultimo, lungi dall’essere il luogo della libertà, diventa, sotto la pressione dell’industria culturale e dell’organizzazione delle distrazioni, «mero divertimento, sciocco e privo di significato; in ultima analisi è un puro mezzo di riproduzione della capacità lavorativa».53 Durante il tempo libero si va alla ricerca di passatempi, e il riposo acquisisce senso solo in relazione al lavoro. Il passatempo è quindi fin dall’inizio funzionale all’apparato. Scrive Horkheimer:
Con la progressiva dissoluzione della famiglia, con la trasformazione della vita privata in tempo libero e del tempo libero in attività insulse, completamente controllate, nei piaceri dello stadio e del cinema, del bestseller e della radio, scompare anche l’interiorità.54
I divertimenti manipolati finiscono per organizzare del tutto il tempo libero, e l’industria culturale rafforza sempre più la sua dittatura guidata dal segreto obiettivo di dissoluzione dell’Io.
Ma «il piacere del divertimento – scrivono Horkheimer e Adorno – si irrigidisce in noia, poiché per poter restare piacere non deve costare altri sforzi, e deve quindi muoversi strettamente nei binari delle associazioni consuete».55 L’assonanza con Schopenhauer è quindi molto più concreta di quanto potesse sembrare di primo acchito. Il tempo libero si tramuta in noia poiché i divertimenti organizzati evitano scrupolosamente connessioni logiche che richiedano un certo respiro intellettuale, rimanendo nei limiti del noto; il tempo lavorativo, invece, diventa il dolore del vivere, l’insieme delle direttive cui necessariamente sottoporsi. Il pendolo fra il dolore e la noia riacquista tutto il suo rinnovato vigore nelle attuali condizioni sociali, e rimane un’intuizione notevole anche se spogliata della metafisica della Volontà.
Contro una simile condizione – che sia naturale, come vuole Schopenhauer, o che sia storica, secondo l’analisi di Horkheimer e Adorno – tutti quanti concordano sulla necessità di sviluppare un pensiero libero dai condizionamenti esterni, un pensiero affrancato dagli affanni quotidiani, un pensiero che ritorni a meditare e pregare, come vuole Guardini. L’industria culturale, invece, libera dal pensiero autonomo, regola le reazioni dello spettatore in ciascuna parte della fruizione spettacolare. «Nulla protegge da quell’infelicità meglio della ricchezza interiore, quella dello spirito: perché lo spirito, quanto più si avvicina all’eccellenza, tanto meno spazio lascia alla noia»56 scrive Schopenhauer. Chi non sviluppa una tale finezza d’animo allora ricerca incessantemente divertimenti, distrazioni e giochi, come ad esempio quello delle carte.57 L’Occidente, sostiene Horkheimer, necessita di una rinascita spirituale che si identifichi con il risveglio della personalità, quest’ultima messa a tacere dalle forze sociali dominanti. C’è bisogno di una presa d’atto forte che coincida con ciò che Debord chiama «la coscienza del desiderio e il desiderio della coscienza»,58 nel duplice significato di consapevolezza dei propri desideri per resistere all’influenza della pubblicità onnipervasiva, e di volontà della interiorità, dell’Io, contro la spersonalizzazione imperante. È questo il tentativo di Schopenhauer, la cui filosofia parla al singolo ed esorta allo sviluppo della personalità. E questo è anche il tentativo di Horkheimer, che difende l’uomo dalla tecnica che «diventa psicotecnica, tecnica della manipolazione degli esseri umani».59
È arrivato il momento di parlare dell’arte come una possibile via per saltare oltre la dialettica dell’illuminismo. Questo paragrafo è stato indispensabile per un corretto inquadramento della tematica, dimodoché la trattazione dell’arte non risulti avulsa dal contesto storico di riferimento e mantenga come interlocutore privilegiato la più forte istanza sociale che mira a depotenziarla, e cioè l’industria culturale.
3. L’estetica di Schopenhauer: una panoramica
All’inizio del paragrafo precedente abbiamo rapidamente segnalato i pensieri che hanno influenzato la concezione estetica di Horkheimer. Questi sono, da una parte, la teoria estetica dell’amico Adorno, e, dall’altra, la dottrina di Schopenhauer. Come già indicato, Horkheimer non si è mai dedicato realmente all’estetica, limitandosi a fare brevi cenni alla questione dell’arte in modo disorganico e perlopiù occasionale.
Ci sia permesso sin da subito di accennare brevemente alla dottrina estetica di Schopenhauer, in modo da facilitare l’intendimento del discorso horkheimeriano. L’esperienza estetica è una delle tre vie che Schopenhauer elabora per sfuggire alla ragione assoggettata alla Volontà e finalizzata all’autoconservazione. Nel discorso schopenhaueriano, la compassione e l’ascesi hanno lo scopo di rendere l’uomo consapevole dell’unità noumenica del mondo fenomenico, in modo da far sorgere un comportamento compassionevole che assottigli, per quanto possibile, il principium individuationis, e che approdi alla totale sparizione del soggetto, momento coincidente con lo spegnimento della volontà di vivere che dimora in ciascun fenomeno. Sull’arte, invece, Schopenhauer svolge un discorso di carattere diverso, volto più a un’attenta considerazione del meccanismo della conoscenza umana e di un suo possibile superamento.
Secondo Schopenhauer la conoscenza dell’uomo è subordinata al principio di ragion sufficiente, essendo l’intelletto l’organo che ordina le intuizioni sensibili secondo le categorie dello spazio, del tempo e della causalità. L’uomo, così, capisce e, insieme, carpisce gli oggetti conosciuti, essendo l’intelletto fin dall’inizio subordinato alla Volontà; infatti secondo questo pensiero, l’intelletto è un fenomeno tra fenomeni, è espressione della volontà di vivere al pari del resto della natura. Lo sguardo dell’uomo si ferma alla superficie della realtà, non riesce a bucare il velo del fenomeno – il velo di Maya –, e tutto ciò che cade sotto i sensi, ordinato dall’intelletto in intuizioni strutturate, e infine organizzato dalla ragione in concetti astratti, finisce per essere confuso con l’interezza della realtà, e diventa altresì ciò di cui disporre per la propria sopravvivenza. Questa è, secondo il pensiero di Schopenhauer, la conoscenza ordinaria che è alla base anche della scienza.
Tuttavia – e sta qui la novità – esiste anche una conoscenza di secondo grado che rompe con la gnoseologia ordinaria. Questa è l’intuizione estetica «che sola riesce a sottrarsi al dominio della ragione sufficiente, in vista di una rappresentazione essenziale del mondo, perfetta ed imperitura».60 Il principio di ragione è l’elemento che configura la nostra conoscenza ordinaria perché è il principio di ogni individuazione, «la forma universale della rappresentazione»;61 riuscire a scavalcarlo significherebbe andare al di là della molteplicità, benché non ancora affacciarsi sulla cosa in sé. La metafisica schopenhaueriana, infatti, prevede un grado intermedio della Volontà fra sé e il mondo fenomenico della conoscenza ordinaria, e questa è l’idea, l’oggettità immediata della Volontà.
La dottrina delle idee è presa in prestito da Platone, e nell’economia del discorso sulla Volontà sta a indicare la stabilità e la struttura della sfera fenomenica, in accordo con il significato platonico.62 L’idea indica pertanto l’essenza che sta dietro i fenomeni simili fra loro.
Intendo dunque per idea – scrive Schopenhauer – ogni grado determinato e fisso di oggettivazione della volontà, in quanto è cosa in sé e quindi estranea alla pluralità, i quali gradi comunque stanno alle cose singole come le loro forme eterne o come i loro modelli.63
In altri termini, le idee sono una prima obiettivazione della Volontà, un cosmo di forme ideali che fungono da modelli per i fenomeni – ove invece quest’ultimi sono la seconda obiettivazione della Volontà. A questo proposito Di Napoli scrive acutamente che le idee sono una «cerniera tra la Volontà e la rappresentazione»64 poiché rendono intelligibili le cose sensibili.
Ma torniamo all’arte. La conoscenza di secondo grado, l’intuizione estetica, riesce a elevarsi sopra la molteplicità fenomenica, senza raggiungere la cosa in sé, la Volontà, ma pervenendo alla conoscenza delle idee, gli archetipi dei fenomeni. L’idea in quanto «oggettità immediata della volontà […] è l’oggettità più adeguata possibile della volontà o cosa in sé»,65 e la sua comprensione è ciò che di più sublime possa intendere l’uomo.
Ne consegue che nella contemplazione estetica
il soggetto cessa di essere un soggetto meramente individuale ed è ora il soggetto puro della conoscenza, privo di volontà, che non tiene più dietro alle relazioni in conformità del principio di ragione, bensì riposa nella ferma contemplazione dell’oggetto dato, al di fuori della sua connessione con tutti gli altri, dissolvendosi in esso.66
L’uomo, in altri termini, si distrae da sé, si lascia alle spalle la propria individualità, e non assume nei confronti dell’oggetto contemplato l’atteggiamento da predatore. L’uomo diventa soggetto puro della conoscenza, «chiaro specchio dell’oggetto»,67 «senza volontà, senza dolore, senza tempo»,68 «libero dall’individualità e dalla servitù alla volontà».69 In tale esperienza si realizza perfettamente l’unità e la complementarietà di soggetto e oggetto:
Come l’oggetto qui non è altro che la rappresentazione del soggetto, così anche il soggetto, sciogliendosi del tutto nell’oggetto contemplato, è diventato questo oggetto stesso, tutta la coscienza null’altro essendo che la sua più chiara immagine […] Quando appare l’idea, non si possono più distinguere in essa soggetto e oggetto, perché solo in quanto essi si riempiono e si compenetrano perfettamente fra loro sorge l’idea, l’adeguata oggettità della volontà, il vero e proprio mondo come rappresentazione.70
La Volontà, quindi, viene a coincidere con se stessa nell’abbraccio mistico di soggetto e oggetto. L’arte, in quest’ottica, è il medium privilegiato per una simile esperienza: «Sua unica origine è la conoscenza delle idee; suo unico fine la comunicazione di questa conoscenza».71 L’arte è opera del genio, cioè di colui che ha un’attitudine preponderante per la contemplazione delle idee ed è in grado «di unire loro la riflessione necessaria a riprodurre in una libera creazione l’oggetto conosciuto. Quest’oggetto è l’opera d’arte e in realtà l’idea si manifesta più nell’opera d’arte che nella vita, in quanto l’artista ha provveduto a liberarla da ogni contingenza perturbatrice».72
Schopenhauer illustra con un’immagine efficace la separazione tra il modo di conoscere razionale, che segue il principio di ragione, e il modo di conoscere geniale, che entra in gioco nell’arte. Scrive così:
Il primo è simile alla violenta tempesta, che passa senza principio e fine, che tutto piega, smuove e trascina con sé; il secondo al placido raggio di sole che attraversa del tutto indisturbato la via di questa tempesta. Il primo è simile alle innumerevoli gocce nel movimento impetuoso della cascata che, sempre mutando, non si fermano un attimo; il secondo all’arcobaleno che posa silenzioso su questo furioso tumulto.73
Concludendo questa panoramica, è bene segnalare la differenza che intercorre tra idea e concetto. La prima è l’unità essenziale che viene frammentata nella pluralità delle forme fenomeniche sotto la nostra conoscenza sottoposta al principio di ragione; la seconda è invece l’unità che viene ristabilita a partire dalla molteplicità dei fenomeni per mezzo dell’astrazione operata dalla ragione. Come si vede, «il nominalismo che sorregge la concezione schopenhaueriana della facoltà astrattiva, viene negato al livello estetico e metafisico, ove è riproposto il realismo».74
4. Reminiscenze schopenhaueriane in Horkheimer
Alla luce di quanto detto è adesso possibile andare a indagare i pochi passi in cui Horkheimer si dedica al tema estetico, valutando al contempo la rilevanza di un simile campo d’indagine per la questione che più sta a cuore a Horkheimer, se cioè possa esistere una via di fuga dal vicolo cieco della dialettica dell’illuminismo, definibile nei termini di una circolarità infelice di reificazione e concettualità.
Già nel 1941 Horkheimer dedicava un saggio alla questione dell’arte dal titolo Arte nuova e cultura di massa. In questo testo Horkheimer si pronuncia in modo decisamente netto sul ruolo dell’arte, sostenendo che
nelle opere d’arte in quanto oggettivazioni dello spirito distaccate dal contesto della pratica materiale sono insiti dei principi che fanno apparire estraniato e falso il mondo nel quale sono sorte. […] Evocano una libertà al cospetto della quale i criteri stabiliti ci appaiono limitati e barbarici. Da quando è diventata autonoma, l’arte ha preservato l’utopia che è sfuggita dalla religione.75
Bastano queste poche parole per evidenziare l’importanza che Horkheimer riserva all’arte: questa, infatti, ripropone la tensione tra il reale e l’ideale una volta venuta a cadere la centralità della religione per la vita dei popoli occidentali. L’utopia di un mondo migliore, l’immagine di una libertà totale che realizzi appieno l’umanità, è preservata così nell’opera estetica, sopravvive nel fondo della poesia e della pittura.
Ma oggi il meccanismo dell’industria culturale minaccia sensibilmente l’autonomia dell’arte, tendendo a fagocitare tutto ciò che le è (ancora) esterno. L’armonia delle forme, l’equilibrio fra le note, insomma tutto quello che era sempre stato sinonimo di arte viene ora utilizzato per scopi commerciali, per realizzare canzonette adatte alla pubblicità o quadri mediocri da vendere nei centri commerciali. Alla vera arte non rimane nient’altro che pervertire ciò che l’industria veicola come arte in modo da rimettere in moto il contrasto con la realtà esistente e dare vita alla feconda contrapposizione che sola può destare il pensiero critico dal torpore in cui è caduto.
Oggi l’arte sopravvive solo nelle opere che esprimono senza compromessi l’abisso che si apre tra l’individuo monadico e il suo ambiente barbarico – nella prosa di Joyce, ad esempio, e in quadri come Guernica di Picasso. La mestizia e l’orrore che tali opere emanano non si identificano con i sentimenti di coloro che per motivi razionali volgono le spalle alla realtà o si ribellano a essa. La coscienza che sta dietro di esse si vive piuttosto come tagliata fuori dalla società com’è, e costretta a forme espressive grottesche, dissonanti. In quanto queste opere inospitali tengono fede all’individuo contro l’infamia dell’esistente, esse preservano il contenuto autentico della grande arte del passato, sono molto più profondamente affini alle madonne di Raffaello e alle opere di Mozart di tutto ciò che oggi ripete pappagallescamente la loro armonia, in un’epoca in cui la spensieratezza si è trasformata in maschera della follia e i volti tristi della follia sono diventati l’unico indizio di speranza.76
Le opere inospitali, quelle più complesse e oscure, disarmoniche e problematiche, sono propriamente i lavori che mantengono, nella rottura, la continuità con la tradizione, perché in un’epoca in cui l’armonia e l’ordine sono ripetuti assiduamente, solo la disarmonia e la dissonanza possono fungere da stimolo per un pensiero diverso. Di più, le opere contemporanee, ammantate di un’aura d’irrazionalità, denunciano la presunta e solo apparente razionalità delle attuali relazioni umane:
Sotto la superficie della loro vita borghese organizzata, del loro ottimismo ed entusiasmo gli uomini sono impauriti e confusi, conducono un’esistenza miserabile, quasi preistorica. Proprio questo simbolizzano le opere d’arte più recenti. […] Sono monumenti di una vita solitaria e disperata, che non trova un ponte che conduce all’altro o anche solo alla propria coscienza. […] L’opera d’arte è la sola oggettivazione adeguata dello stato di abbandono e della disperazione dell’individuo.77
In questo senso, dunque, la potenza dell’arte si dispiega nuovamente e in tutta la sua magnificenza. Ad esempio, il costante insistere sulla tematica dell’angoscia o della nausea in ambito letterario denuncia nientemeno che la condizione miserevole del soggetto nelle attuali condizioni sociali. L’arte deve, su avviso di Horkheimer, penetrare nella profondità dell’animo umano e scandagliarne la profondità, per portarne infine a galla il contenuto decomposto di quello che una volta custodiva, l’ideale dell’humanitas venuto a mancare sotto i colpi possenti del positivismo.
L’industria culturale ha elevato a programma la ripetizione del sempre identico; non si arrischia in nuove creazioni, ma si mantiene su un terreno già testato e sicuro per evitare di incorrere in pericoli che potevano benissimo essere evitati. Pertanto l’arte industriale è il contrario dell’arte, mantenendo immutate le proprie premesse e i propri contenuti, modificando casomai la tecnica, senza tuttavia che questo alteri il contenuto. Contro ciò Horkheimer sostiene che
le idee rivelano la loro verità non tanto quando le si mantiene immutate, quanto quando le si sviluppa. […] Il pensiero che rimane fedele a se stesso si vive in ogni istante come totalità e come incompiuto. Più che il verdetto di un giudice, esso ricorda l’ultima parola di un condannato che viene interrotto anzitempo. Questi considera le cose mosse da un impulso diverso da quello di dominarle.78
Ebbene, è proprio in quest’ultima espressione che sta la vicinanza di Horkheimer a Schopenhauer, come vedremo tra poco. Ad ogni modo, l’arte contemporanea, per quanto possa essere difficilmente comprensibile e ostica ai non addetti ai lavori, è uno sviluppo e un’evoluzione dell’arte cosiddetta tradizionale, e quindi altrettanto vera quanto quella. Al contrario, l’arte industriale, fermandosi a un certo momento della storia ed evitando di esporsi a rischi che le appaiono vani, non sviluppa più l’idea che guida il genio artistico, finendo per irrigidirsi e per trasmettere un atteggiamento di conformismo e immobilismo, pericolosamente affine alla propaganda ideologica. «Oggi la dissonanza è spinta all’estremo […] e provoca l’ira della “normalità”, che proprio così tradisce qualcosa della sua falsità».79 L’arte contemporanea smaschera la presunta normalità della società, denunciandone le pretese totalitarie.
L’arte contemporanea, inoltre, ponendosi in netto contrasto con l’ordine vigente, contesta anche la democratizzazione cui l’arte è andata incontro, preferendo un atteggiamento elitario nel senso di autonomo – autonomo dal gusto della massa e dagli interessi economici:
Se la democratizzazione della musica ai tempi di Haydn e Beethoven, che la emancipava dalla tutela feudale e dalle corrispondenti forme ornamentali, ebbe carattere eminentemente progressivo, oggi invece si può pensare che possa servire all’emancipazione umana soprattutto un’arte sciolta dal contesto eterodiretto e uniformato della consumabilità la cui natura democratica ha più soltanto funzione ideologica.80
Dopo Arte nuova e cultura di massa, e soprattutto dopo aver scritto Dialettica dell’illuminismo, Horkheimer si limiterà a fare solamente pochi accenni all’arte, senza più dedicarle un intero lavoro. Possiamo leggere, ad esempio, in Eclisse della ragione (1947):
L’opera d’arte aspirava un tempo a dire al mondo che cosa esso è, a formulare un verdetto definitivo. Oggi essa è completamente neutralizzata. […] Non esiste più nessun vivente rapporto con l’opera, nessuna diretta e spontanea comprensione della sua funzione espressiva, nessuna capacità di intenderla nella sua totalità come un’immagine di ciò che un tempo si chiamava verità.
E aggiunge a questo proposito che
questo processo è tipico del formalizzarsi e soggettivarsi della ragione: esso trasforma le opere d’arte in beni di consumo culturali, e il godimento di esse in una serie di emozioni casuali che non hanno nulla a che fare con le nostre intenzione e aspirazioni reali. L’arte non ha più nessun rapporto con la verità.81
Un simile pronunciamento è indicativo del nuovo corso del pensiero del Nostro, che ormai ha impostato la riflessione intorno alla critica della ragione strumentale e soggettiva, imputando a questa la degenerazione cui è andato incontro il mondo occidentale.
È nondimeno curioso osservare nelle sue parole il rimando alla verità. C’è un’ambiguità di fondo nel parlare di verità, dato che il suo pensiero ha sempre e programmaticamente voluto mantenersi negativo. Ma, tenendo sempre lo sguardo su Eclisse della ragione, possiamo notare un altro e più significativo passaggio, che forse può offrire una chiave di lettura per la comprensione dell’utilizzo della parola “verità” poc’anzi citata. Com’è noto, la colpa dell’illuminismo è la separazione, la scissione, e la conseguente configurazione soggetto-oggetto del reale, nonché la sua evoluzione conseguente in res cogitans e rex extensa: «L’illuminismo […] proclama impassibile il dominio della scissione, la frattura tra soggetto e oggetto, che esso vieta di colmare».82 Horkheimer ribadisce questo essenziale punto anche in Eclisse della ragione, affermando che «in quest’epoca raggiunge il culmine il distruttivo antagonismo di io e natura, un antagonismo in cui si riassume la storia della nostra civiltà».83 In realtà, sostiene Horkheimer, spirito e natura (il primo inteso come capacità dell’uomo di riflettere la natura, trascendendo l’hic et nunc;84 la seconda come tutto ciò che è esterno allo spirito, la necessità delle leggi natura) sono concetti complementari: «Non si può né ridurre una di queste due identità all’altra, né ipostatizzarne la polarità».85 Ecco venire in aiuto a questa aporia la filosofia, che
aiuta l’uomo a placare le sue paure aiutando il linguaggio a svolgere la sua funzione genuina, che è quella mimetica, la sua missione di rispecchiare le tendenze naturali. La filosofia, come l’arte, riflette la passione nel linguaggio e così la trasferisce alla sfera dell’esperienza e della memoria. Se si dà alla natura la possibilità di rispecchiarsi nel regno dello spirito, contemplando la propria immagine, essa raggiunge una certa serenità. Questo processo è alla radice di ogni forma della cultura, in particolare della musica e delle arti plastiche.86
Questo meccanismo è analogo a quello per il quale «la ragione può essere più che natura solo rendendosi conto della sua “naturalità” – che consiste nella sua tendenza al dominio – quella stessa tendenza che paradossalmente l’aliena dalla natura».87 La ragione che riflettesse la propria naturalità, identificandone la spinta al dominio – tema prevalente della Teoria critica –, si riconoscerebbe quale natura e, insieme, quale altro dalla natura in virtù della propria capacità riflessiva. Lo spirito che dà alla natura la possibilità di rispecchiarsi in sé si riconcilia con la natura nel suo riconoscersi come uguale e diverso dalla natura, ponendo fine al conflitto che la separazione perpetua da sempre. Lo spirito che si fa specchio della propria naturalità, dunque, raggiunge una certa serenità, e non trattiene più niente; similmente, la natura riflessa nella spirito si accheta perché l’impulso al dominio, riconosciuto come tale, viene meno.
È possibile, a questo punto, ripetere con rinnovata consapevolezza le parole di Horkheimer riportate poco sopra: «Non si può né ridurre una di queste due identità all’altra, né ipostatizzarne la polarità». Spirito e natura, soggetto e oggetto, sono complementari e ambedue essenziali, per cui una loro netta separazione apparirebbe ingiusta e indebita, e anche una qualche loro unità non sarebbe una formula adeguata.
Il dualismo di natura e spirito non può essere postulato nel senso di una definizione, come nella classica teoria cartesiana delle due sostanze. Da una parte, ciascuno dei due poli è stato staccato dall’altro con un processo d’astrazione; dall’altra parte, la loro unità non può essere concepita né accertata come un fatto.88
Il dualismo è solo apparente, e altrettanto lo è l’unità immediata. Ma tutto ciò non ricorda forse la concezione schopenhaueriana dell’esperienza estetica? L’abbraccio mistico di soggetto oggetto – l’uno scioltosi nell’oggetto contemplato e riempito da esso, l’altro divenuto pura rappresentazione per il soggetto – sembra rinnovato e riproposto nel discorso horkheimeriano.
«Quando appare l’idea – scrive Schopenhauer – non si possono più distinguere in essa soggetto e oggetto, perché solo in quanto essi si riempiono e si compenetrano perfettamente fra loro sorge l’idea, l’adeguata oggettità della volontà».89 Fatto salvo per il riferimento alle idee platoniche, la compenetrazione reciproca è la stessa che Horkheimer annuncia nel riconoscimento da parte dello spirito della propria naturalità, nell’ammissione di essere natura – e, nel far ciò, altro dalla natura. Horkheimer pertanto ammette una complementarietà di schopenhaueriana memoria, in cui entrambi (spirito e natura) pervengono a se stessi solo sprofondando nel proprio opposto: la natura rispecchiandosi nel regno dello spirito, e lo spirito diventando puro riflesso della natura – il che è un altro modo di dire, con vocabolario schopenhaueriano, che la natura diventa pura rappresentazione e lo spirito puro soggetto della conoscenza. La divisione, contrassegno della dialettica dell’illuminismo, viene così revocata nell’abbraccio mistico di spirito e natura.
Horkheimer, come Schopenhauer, conferisce all’arte – «alla musica e alle arti plastiche» scrive – il compito di mettere in moto una simile esperienza, non giungendo tuttavia a sviluppare ulteriormente questa intuizione.
5. L’arte oltre il dominio
L’elemento importante di tutto questo discorso è che l’esperienza estetica non è solo la consapevolezza della naturalità dello spirito nell’identificazione dell’impulso al dominio, ma anche la conseguente messa in discussione della conflittualità della ragione strumentale, e quindi il totale rigetto della ragione soggettiva che tende ciecamente all’autoconservazione. La critica alla ragion strumentale trova in questo argomento il suo culmine. Andiamo a vedere, a tal proposito, alcuni brevi passaggi in Taccuini 1950-1969, testo colmo di spunti interessanti, molti dei quali non sono mai stati sviluppati analiticamente, a testimonianza della poliedricità, acutezza e sensibilità del nostro Autore. In un importante aforisma dedicato all’autoconservazione come cifra della ragione spogliata da qualsiasi precetto morale e rifugiatasi nella mera sopravvivenza dell’individuo e della specie, scrive Horkheimer di punto in bianco: «La sinfonia di Beethoven non è solo autoconservazione, è anche e altrettanto liberazione dal suo cerchio».90 L’enigmaticità di un simile passaggio si scioglie leggendolo alla luce di quanto detto nel paragrafo precedente: l’arte libererebbe dall’accecamento cui la ragione è sempre stata gravata, e rinnoverebbe completamente l’uomo, rendendolo libero dalla coazione al dominio (per la quale il pensiero è immediatamente sovranità sulle cose conosciute) e aprendolo a una prossimità non ostile alla natura. Anche fra le pagine di Adorno possiamo ritrovare un simile motivo: «L’arte si ribella contro questo tipo di razionalità, che concentrandosi sulla relazione fini-mezzi dimentica i fini e feticizza i mezzi a fini. Tale irrazionalità nel principio della ragione viene smascherata dall’irrazionalità dell’arte».91 E, in modo ancora più esplicito:
La commozione [che si prova di fronte a un’opera d’arte…] è un memento della liquidazione dell’io, che in quanto commosso si rende conto della propria limitatezza e finitezza. Questa esperienza è contraria all’indebolimento dell’io che promuove l’industria culturale. […] Per alcuni momenti l’io si rende realmente conto della possibilità di lasciarsi alle spalle la propria autoconservazione.92
Leggiamo, sempre a questo proposito, un altro passo in cui, dopo aver criticato l’industria culturale («l’arte di massa è la caricatura di quella vera»), Horkheimer si avventura in una dichiarazione inequivocabile e piuttosto insolita per il suo pensiero:
L’arte rinvia al di là dell’esistenza materiale della singola opera – ma non verso la realtà dominante, bensì verso quell’elemento incondizionato che è in un certo senso garantito dalla interna perfezione e armonia dell’opera. Ogni opera testimonia di un principio diverso da quello del mondo. […] L’arte s’identifica con la verità, e questa ci costringe ad affrontare la prassi reale, la battaglia infinita e impari per ogni creatura.93
L’arte rimette in movimento la criticità del pensiero, lo libera dall’ingessatura in cui l’industria culturale l’ha costretto, lo scuote fortemente per ridestarlo dal letargo in cui è caduto; ma principalmente l’arte ha lo scopo di riportare lo sguardo dell’uomo verso la verità, una verità che non è solo contemplativa ma anche immediatamente attiva, poiché spinge «ad affrontare la prassi reale, la battaglia infinita e impari per ogni creatura». In questo senso il principio dell’“arte per l’arte” è parziale e limitato, non figurandosi più la verità in quanto tale ma solo l’arte nel suo starsene da sé e per sé. Invece
gli artisti di fin de siècle non si proponevano come scopo l’arte, ma la verità, che non ha altro principio se non quello di rifiutare tutto ciò ch’è cattivo, errato, falso. Ciò ch’essi volevano esprimere fino in fondo era l’esperienza che si riferisce al tutto e che non si può legittimare di fronte al sapere costituito. A tale esperienza risalgono anche le religioni; esse hanno ora assunto la forma irrigidita di giganteschi apparati che in parte funzionano ancora, come il cristianesimo o l’islamismo. Ma l’espressione esatta in cui l’esperienza poteva pervenire a se stessa, diventando ciò che davvero è, era rappresentata dall’arte.94
La verità si manifesta nell’insoddisfazione del reale e nella prefigurazione dell’ideale. L’arte porterebbe alla luce questa tensione e questa irrequietezza che abita nel cuore dell’uomo, divenendo il veicolo ideale della rivolta contro il positivismo una volta venuto a decadere il ruolo della religione. L’arte sprigiona la sua potenza nel contrasto con il senso comune ormai fossilizzato e incancrenito nel seno di una società in via di decomposizione. «L’arte – scrive Adorno – rispetta le masse quando compare davanti ad esse come quel che potrebbero essere, invece di adeguarsi ad esse nella loro forma svilita».95 «Una società liberata sarebbe […] al di là della razionalità fine-mezzi di ciò che è utile. Ciò si cifra nell’arte».96
6. Conclusioni
Facciamo il punto della situazione. Il disfacimento sociale e, prima ancora, umano causato dalla dialettica dell’illuminismo può essere scongiurato dall’arte. L’arte sarebbe investita così da una triplice funzione: pervenire alla reminiscenza della natura nello spirito in vista dello smascheramento del dominio che vive nel fondo del pensiero umano; liberare dall’accecamento della ragione strumentale e dall’autoconservazione, quest’ultima oggi accettata acriticamente come unico e solo scopo dell’agire; sprigionare la tensione fra reale e ideale e dare così vita al pensiero critico che rimetta in moto la fantasia e la vitalità oggi soppressa.
Ora, ad affiancare l’arte c’è la filosofia. Horkheimer è chiaro su questo punto. «Tramite la filosofia e tramite l’arte diventa evidente la grande distanza tra ciò che è e ciò che deve essere nell’ente che di volta in volta si considera».97
L’arte è un’occupazione che mira al suo oggetto, non a ciò cui esso serve […]. La filosofia è quel pensiero che non tende al dominio e nemmeno a nuove scoperte […] ma cerca invece, con insistenza, di trovare per l’esperienza di quest’epoca, anziché la parola d’ordine, la parola – è il pensiero che, proprio per questo, non è sottomesso all’epoca. Entrambe, arte e filosofia, non possono mai dimostrarsi del tutto razionali; esse costituiscono l’anima della vita sociale, e, al tempo stesso, le sono estranee.98
Arte e filosofia sono le uniche due forze di resistenza. «La verità e l’humanitas sono difese solo dalle opere dell’arte e della filosofia attuale».99 Sono queste le restanti energie che si oppongono all’accettazione rassegnata dell’esistente, anticipando teoricamente, o anche solo intuitivamente, una situazione realmente umana. Anche Schopenhauer accosta le due discipline, distinguendo adeguatamente i rispettivi ambiti: «Le arti parlano tutte quante solo il linguaggio ingenuo e fanciullesco dell’intuizione, non quello astratto e grave della riflessione»,100 posto che entrambe, «non soltanto la filosofia, ma [anche] le arti belle mirano in fondo a risolvere il problema dell’esistenza».101 Sono pertanto ambedue rivolte alla verità e la perseguono con mezzi diversi.102
Ma oggi la potenza critica dell’arte è compromessa, scrive Schopenhauer, da quell’«arbitrario trastullarsi coi mezzi dell’arte, senza vera conoscenza del fine»,103 attitudine promossa anche dall’industria culturale che distrae e diverte, guardandosi bene dal mettere l’uomo nella condizione di porre la questione sul senso della vita e sulla giustizia. Sebbene Horkheimer, come abbiamo visto, attribuisca all’arte la speranza di un pensiero altro, è altresì pessimista, come più volte ripetuto, sugli esiti che possono essere conseguiti con questo mezzo nelle attuali condizioni sociali. L’industria del divertissement banalizza e volgarizza, neutralizzando quanto rimane di veramente rivoluzionario oggi.
La pittura astratta ebbe qualcosa da dire nel momento in cui fece fronte al Naturalismo, incluse le sue forme avanzate in senso impressionistico ed espressionistico. Ma dopo che le opere d’arte dell’Ottocento si sono pietrificate nei musei, l’astrattismo impallidisce a bene di consumo e decorazione. Diventa inespressivo e conformistico anche quando assume gli atteggiamenti più ribelli. “Su questa parete, una bella macchia di colore!”, dice il direttore di banca che è al passo coi tempi. “Look how funny – esclama l’impiegato americano di fronte a un Picasso – that woman has three eyes, doesn’t she”. Gli artisti hanno vinto, ma è stata una vittoria di Pirro. In epoche come la nostra l’arte vive di sconfitte.104
Il pessimismo di Horkheimer sembra quindi mettere un freno a quanto finora detto a proposito della funzione sovvertitrice dell’arte, facendo sorgere il dubbio se sia meglio resistere oppure attendere l’autodistruzione della società per vederla rinascere dalle sue ceneri. Speranza e disperazione stanno in un equilibrio precario nel pensiero di Horkheimer, tanto che è ugualmente difficile dire se in esso prevalga l’una o l’altra. È bene, dunque, tenere a mente il motto di tutta la Scuola di Francoforte: essere pessimisti in teoria e ottimisti nella pratica.105
-
M. Horkheimer, Il pensiero di Schopenhauer in rapporto alla scienza e alla religione, in Id., Studi di filosofia della società, a cura di A. Bellan, Mimesis, Milano-Udine, 2011, p. 212. ↩︎
-
A. Schmidt, La fisionomia spirituale di Max Horkheimer, in M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, Marietti, Genova 1988, p. XVIII. ↩︎
-
La questione che Adorno e Horkheimer si propongono di comprendere in Dialettica dell’illuminismo è «perché l’umanità, invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di barbarie» [M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010, p. 3]: il progresso, ci insegna la storia, si capovolge sovente in regresso. La dialettica dell’illuminismo, dunque, indica che conoscenza e potere, ragione e dominio sono, di fatto, sinonimi, e la violenza, l’assoggettamento, riguarda anche l’uomo nei confronti dell’uomo. Detto in altri termini, il dominio dell’uomo sulla natura si rovescia sovente nel dominio dell’uomo sull’uomo, fino all’esito estremo, cioè la situazione odierna, in cui «nessuno domina più su nessuno e tutti tremano di fronte al potere» [M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 50]. ↩︎
-
C. Galli, Introduzione a M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. XXIX. ↩︎
-
M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 7. ↩︎
-
Ivi, p. 129. ↩︎
-
U. Galeazzi, La teoria critica della Scuola di Francoforte, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, p. 141. ↩︎
-
M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 140-141. La citazione all’interno è tratta da A. De Tocqueville, De la démocratie en Amérique, Parigi, 1864, II, p. 151. ↩︎
-
M. Horkheimer, La filosofia come critica della cultura, in Id., Studi di filosofia della società, a cura di A. Bellan, Mimesis, Milano-Udine, 2011, p. 129. ↩︎
-
M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 142. ↩︎
-
Con il termine “positivismo” Horkheimer intende, in modo generico, l’accettazione passiva dell’esistente, ed è un’etichetta apposta man mano alle diverse creazioni filosofiche della modernità, dall’empirismo logico al pragmatismo, allo storicismo. Quel che caratterizza tali discipline è un deficit di riflessività che accoglie la realtà come un idolo e si mette al suo servizio. ↩︎
-
Ivi, p. 135. ↩︎
-
Ivi, p. 154. ↩︎
-
Ivi, p. 137. ↩︎
-
Ivi, p. 151. ↩︎
-
Ivi, p. 159. ↩︎
-
Ivi, p. 144. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 154. ↩︎
-
Ivi, p. 133. ↩︎
-
Ivi, pp. 131-132. ↩︎
-
Pascal, Pensieri, Mondadori, Milano 2013, p. 180. ↩︎
-
M. Horkheimer, La filosofia come critica della cultura, in Id., Studi di filosofia della società, cit., p. 135. ↩︎
-
Pascal, Pensieri, cit., p. 179. ↩︎
-
Ivi, p. 178. ↩︎
-
Ivi, p. 167. ↩︎
-
M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., pp. 186-187. ↩︎
-
Un simile pensiero verrà sviluppato nei suoi ultimi anni di vita, specialmente con l’elaborazione della celebre nostalgia del totalmente Altro. ↩︎
-
Pascal, Pensieri, cit., p. 165 (corsivo mio). ↩︎
-
Ivi, p. 168. ↩︎
-
Ivi, p. 170. ↩︎
-
Ivi, p. 173. ↩︎
-
M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 153-154. ↩︎
-
R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 209-210. ↩︎
-
M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 158. ↩︎
-
Cfr. M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, Brescia 2008, p. 103: «La dimensione teologica sarà soppressa. E, con essa, scomparirà dal mondo ciò che noi chiamiamo senso. Certo, ferverà una grande attività, ma in fondo sarà priva di senso». ↩︎
-
Ci sia permesso qua di citare un passo tratto da F. Dostoevskij, I demonî, Einaudi, Torino 2014, p. 402, in cui si sottolinea la differenza fra un ateo e un indifferente: «Il perfetto ateo sta sul penultimo gradino prima della fede più perfetta, lo debba poi varcare o no, mentre l’indifferente non ha nessuna fede, fuorché una mala paura, e anche questa solo a tratti, se è un uomo sensibile». ↩︎
-
T.W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino 2014, p. 291. ↩︎
-
Ivi, p. 296. ↩︎
-
Ivi, p. 293. ↩︎
-
Ivi, p. 296. ↩︎
-
Th.W. Adorno, Stelle su misura, Einaudi, Torino 2010, p. 6. ↩︎
-
Ivi, p. 7. ↩︎
-
Ivi, p. 8. ↩︎
-
Ivi, p. 30. ↩︎
-
Ivi, p. 23. ↩︎
-
Ivi, p. 51. ↩︎
-
Ivi, p. 17. ↩︎
-
M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 163. ↩︎
-
P. Stanziale, Introduzione a G. Debord, La società dello spettacolo, Massari Editore, Bolsena (VT) 2004, p. 12. ↩︎
-
G. Debord, La società dello spettacolo, p. 46 (corsivo mio). ↩︎
-
Ivi, p. 48. ↩︎
-
Th.W. Adorno, Stelle su misura, cit., p. 62. ↩︎
-
M. Horkheimer, Arte nuova e cultura di massa, in Id., Teoria critica, a cura di A. Bellan, vol. 2, Mimesis, Milano-Udine, 2014, p. 310. ↩︎
-
M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 145 (corsivo mio). ↩︎
-
A. Schopenhauer, Aforismi per una vita saggia, Bur, Milano 2013, p. 61. ↩︎
-
«Non avendo pensieri da scambiarsi, [gli uomini] si scambiano le carte» (Ivi, p. 64). ↩︎
-
G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 63. ↩︎
-
M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 177. ↩︎
-
N. Di Napoli, Al di là della rappresentazione, Loffredo Editore, Napoli 1993, p. 286. ↩︎
-
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I., Bur, Milano 2009, p. 362. ↩︎
-
La parola “idea” «è da intendere presso di me sempre nel suo significato autentico ed originario assegnatole da Platone» (Ivi, p. 307) ↩︎
-
Ivi, pp. 307-308. ↩︎
-
N. Di Napoli, Al di là della rappresentazione, cit., p. 126. ↩︎
-
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I., cit., p. 370. ↩︎
-
Ivi, p. 374. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 375. ↩︎
-
Ivi, p. 377. ↩︎
-
Ivi, p. 376. ↩︎
-
Ivi, p. 383. ↩︎
-
I. Vecchiotti, Introduzione a Schopenhauer, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 52. ↩︎
-
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I., p. 384. ↩︎
-
N. Di Napoli, Al di là della rappresentazione, cit., p. 316. ↩︎
-
M. Horkheimer, Arte nuova e cultura di massa, in Id., Teoria critica, vol. 2, cit., p. 307. ↩︎
-
Ivi, p. 310. ↩︎
-
Ivi, p. 311. ↩︎
-
Ivi, p. 320 (corsivo mio). ↩︎
-
M. Horkheimer, Th.W. Adorno (a cura di), Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino 2001, p. 121. ↩︎
-
Ivi, p. 122. ↩︎
-
M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 2000, pp. 40-41. ↩︎
-
M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 47. ↩︎
-
M. Horkheimer, Eclisse della ragione, cit., p. 140. ↩︎
-
Cfr. ivi, p. 147. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 154 (sottolineature mie). ↩︎
-
Ivi, p. 152. ↩︎
-
Ivi, p. 149. ↩︎
-
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I., cit., p. 376. ↩︎
-
M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 97. ↩︎
-
T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 2009, p. 59. ↩︎
-
Ivi, pp. 328, 329. ↩︎
-
M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 10 (corsivo mio). ↩︎
-
Ivi, p. 144. ↩︎
-
T.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 321. ↩︎
-
Ivi, p. 305. ↩︎
-
M. Horkheimer, La filosofia come critica della cultura, in Id., Studi di filosofia della società, cit., p. 118. ↩︎
-
Ivi, p. 134. ↩︎
-
Ivi, p. 130. ↩︎
-
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, cit., p. 571. ↩︎
-
Ivi, p. 570. ↩︎
-
«Nelle opere delle arti figurative è sì contenuta ogni sapienza, però solo virtualiter o implicite: mentre di fornirla actualiter ed explicite si sforza la filosofia, che in questo senso sta a quelle come il vino all’uva» (Ivi, p. 572) ↩︎
-
Ivi, p. 573. ↩︎
-
M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, cit., p. 84. ↩︎
-
Cfr. M. Horkheimer, La teoria critica ieri e oggi, in Id., La società di transizione, Einaudi, Torino 1979, pp. 179-180. ↩︎