1. Il Socrate visto dal basso
Tentare una ricostruzione storica della figura di Socrate appare, da sempre, come uno dei problemi più ardui in cui è incorsa la storiografia filosofica. L’abbondanza delle fonti, più che rappresentare un vantaggio, segna l’intrinseca difficoltà della questione.1 In effetti se le fonti da un lato si presentano come pressoché esaustive, dall’altro sembrano contrassegnate da una evidente plurivocità.2 A ciò si aggiunga l’interminabile bibliografia socratica che attraversa la storia del pensiero filosofico.3 La più illustre scuola platonica contemporanea — quella di Tubinga — tratteggia il personaggio Socrate essenzialmente attraverso i dialoghi platonici e, nonostante quasi all’unanimità tenda a considerare l’Apologia come l’unico dialogo che offre una prospettiva realmente storica, ricostruisce d’altra parte il pensiero socratico attraverso tutti i primi dialoghi di Platone, ossia attraverso quei dialoghi detti aporetici o socratici.4 Senofonte è riconosciuto, insieme a Platone, come una delle fonti più attendibili e, sebbene il livello dei suoi scritti sia inferiore a quello platonico e la sua ricostruzione storica pecchi talvolta di idealizzazione tardiva, egli è largamente utilizzato per la focalizzazione dei tratti salienti della personalità socratica.5 Il Socrate che emerge dalla lettura di Platone e di Senofonte può essere definito, secondo un’efficace espressione contemporanea, come un filosofo visto dall’alto,6 ovvero dalla prospettiva di coloro che ben lo conoscevano e lo stimavano.
Differente, e ben più amara, è la sorte riservata dagli storici della filosofia alla commedia di Aristofane Le Nuvole. La commedia aristofanesca rappresenta il documento più antico che ci informa della figura e dell’operato di Socrate nell’Atene del V secolo. Essa ha, dunque, un vantaggio rispetto alle altre due fonti maggiori: presentare un giovane ma già conosciuto Socrate. In essa, tuttavia, si assiste alla rappresentazione di un personaggio che presenta caratteristiche quasi assenti negli altri autori, o quanto meno presenti a livello di notizie ininfluenti per la sua dottrina.7 È proprio questo singolare ritratto di Socrate a far sì che tale fonte venga considerata, nel suo complesso, inattendibile. Taluni studiosi pur riconoscendo l’importanza straordinaria delle Nuvole, in quanto unica reale fonte coeva, non ne fanno uso alcuno;8 altri, ritenendo che quello di Aristofane sia un Socrate visto dal basso, ossia dalla prospettiva incolta e rozza del popolo ateniese di cui il commediografo attico si fa mero portavoce,9 la escludono in linea di principio. La forma satirica è, per altro intesa, da questi ultimi studiosi, come una visione deformante della realtà sorretta, fondamentalmente, dal risentimento e dall’ignoranza popolare.
L’abbozzo della questione della selezione delle fonti e, in particolar modo, l’accenno al controverso uso della fonte Aristofane, dato qui di sopra, è elemento funzionale alla posizione del problema che di seguito porremo. Se è vero, infatti, che guardare a Socrate dalla prospettiva dei suoi discepoli, e dunque dalla prospettiva di coloro che lo amarono e lo stimarono, può fornire un quadro intimo e profondo della sua personalità filosofica, è anche vero, di contro, che proprio i suoi discepoli, ragionevolmente mossi dall’ammirazione per lui, forse non riuscirono a vederlo con la dovuta obiettività e distanza.10
I celeberrimi tratti della personalità di Socrate, ricavati e dai dialoghi di Platone e dai Memorabilia di Senofonte, consistono essenzialmente in tre indicazioni fondamentali: il sapere di non sapere, la maieutica e l’ironia. Tali caratteristiche composte indissolubilmente in Socrate danno la cifra della sua personalità filosofica, ossia quella di un grande educatore e, nello stesso tempo, di un sottile critico della morale corrente.11 Così, almeno, appariva Socrate ai suoi discepoli. Ma come lo percepivano coloro i quali ingaggiavano con lui un aspro confronto? Torniamo per un momento ad Aristofane.
Aristofane non dovrebbe essere semplicemente ritenuto il portavoce del pregiudizio popolare rispetto a Socrate. La sagacia satirica della sua critica, infatti, affonda le radici nell’elitarismo oligarchico ateniese che colse nell’ambiguo atteggiamento socratico una devastante instabilità per la pólis. Semmai sarebbe opportuno considerare il commediografo un avversario politico di Socrate, ma in modo totalmente differente da come lo furono i suoi avversari democratici. Un accenno alla configurazione drammaturgica del personaggio Socrate nelle Nuvole può chiarire la colta critica politica che si cela dietro la popolaresca invettiva aristofanesca.
Nelle Nuvole il dialettico ateniese è presentato come il filosofo nel senso deteriore del termine, colui che, estraneo alla vita socio-politico cittadina, trascorre il suo tempo circondato da tre o quattro ragazzi a occuparsi di questioni di nessuna utilità. Il sapere di non sapere è totalmente assente nel personaggio rappresentato nelle Nuvole, così come lo è la maieutica, a cui viene sostituita l’abilità sofistica dell’insegnare. La celeberrima ironia assume poi, nella commedia aristofanesca, i tratti del sarcasmo, tingendo il tono di Socrate, più che di una sottile critica, di una gravità propria dei moralisti. Ma è soprattutto l’assenza del tratto peculiare della personalità socratica, ossia il sapere di non sapere, a destare maggiore perplessità in vista di un inquadramento storico e biografico. Dal sapere di non sapere taluna contemporaneità ermeneutica ha potuto ricavare la cifra della criticità12 — intesa per altro in senso moderno-cartesiano e dunque estranea nella sua essenza alla mentalità classica — filosofica del pensiero socratico.
E tuttavia tale insipienza del sapere, più che configurarsi come un fatto della biografia socratica, costituisce, al contrario, la risposta-interpretazione fornita dallo stesso Socrate al responso dell’oracolo delfico, presentata per altro in forma diversa da Platone e da Senofonte. Il responso oracolare, pur nella multiformità delle sue versioni antiche, proclamava Socrate come il più sapiente tra gli uomini del suo tempo. Di quale natura fosse tale sapere, attribuito al filosofo in massimo grado, è questione a tutt’oggi discussa dalla storiografia socratica, la cui definitiva caratterizzazione è affare non da poco per la comprensione del nucleo tematico e del fine principale del suo pensiero.13 Lasciando, tuttavia, per un momento in sospeso la questione della natura del sapere cui si riferisce il responso delfico, c’è un altro elemento della sentenza che può rischiarare il senso dell’oracolo intorno a tale imprecisato sapere. Nietzsche ricorda come l’oracolo delfico, proclamando Socrate come il più sapiente tra gli uomini del suo tempo, facesse seguire al suo nome quello dei due più grandi tragediografi dell’Atene del V secolo, Euripide e Sofocle. E se l’amicizia e la collaborazione intellettuale tra Socrate ed Euripide può ben motivare l’accostamento dei due nomi, più complessa appare l’interpretazione dell’inserimento di Sofocle in questo elenco. A nostro parere Nietzsche fornisce tuttavia un’interessante chiave di lettura, sostenendo che Sofocle fu quel tragediografo «che poté vantarsi nei confronti di Eschilo di fare il giusto e di farlo poiché sapeva cosa fosse». Questa dichiarazione, spiega il filosofo, dice «proprio il grado di chiarezza di questo sapere»,14 al cui apice si trova emblematicamente Socrate e il suo ironico sapere di non sapere.
All’epoca in cui Aristofane scrisse e rappresentò le Nuvole15 verosimilmente il responso dell’oracolo doveva già essere circolato nella città di Atene, e verosimilmente Socrate era già a tal punto rinomato come sapiente, e per i suoi metodi e per la sua atopía, da essere rappresentato nella stessa commedia come l’emblema dell’intellighenzia ateniese a metà tra lo scientismo e la sofistica. Eppure il sapiente Socrate, bersaglio della satira aristofanesca, è non tanto il teorico di bizzarre, seppur comuni, spiegazioni cosmologiche,16 e ancor meno il sofista arricchito e tracotante — immagine esemplare della schiera dei nuovi dotti circolanti nell’Atene del V secolo. Piuttosto il Socrate messo alla berlina da Aristofane è il maestro che dall’alto della cesta, in cui per lo più vive, dirige il pensatoio, luogo a un tempo elitario, perché pochi sono i discepoli che ne fanno parte, e democratico, poiché aperto a tutti coloro che desiderino apprendere.
Oggetto dell’insegnamento salvifico, che conduce il rozzo Strepsiade alle porte del pensatoio, è quel celebre discorso ingiusto che Aristofane contrapporrà, con sagacia dialettica, al discorso giusto, segno rispettivamente l’uno della nuova e democratica paidéia, l’altro emblema del modello educativo tradizionale e aristocratico. Il sapiente Socrate, dunque, oggetto della satira aristofanesca nelle Nuvole è indicato come il campione della nuova paidéia, il contestatore della religione tradizionale, e insieme il grande divulgatore democratico. Ciò che tiene insieme questi elementi è la comune radice polemica di natura essenzialmente socio-educativa, o meglio ancora etico-pedagogica, proveniente dal ceto aristocratico ateniese e rivolta contro l’emergente classe di nuovi dotti. Contestazione che, mutatis mutandis e presentata in forma positiva, ritroviamo proprio nel responso dell’oracolo delfico.
Conformemente alla natura politico-educativa del teatro greco, Sofocle ed Euripide si presentano, e alla contemporaneità in cui vivono e alla tradizione che li recepisce, come fini interpreti della crisi di valori in atto, e insieme come informatori delle coscienze popolari attraverso la comunicazione di nuovi modelli educativi e gerarchie di valori. Socrate non è come loro un drammaturgo — sebbene circolasse ad Atene la diceria secondo la quale soleva aiutare Euripide a scrivere le tragedie, e si dilettava in teatro solo dinnanzi alle di lui rappresentazioni -, bensì un filosofo che ha intrattenuto rapporti con gli uomini più sapienti del suo tempo; non ha interesse per la téchne in cui Euripide e Sofocle primeggiano, ma padroneggia come nessuno la téchne dia-lógou. Socrate come i due tragediografi parla all’intera comunità di Atene, e tuttavia, non già attraverso la repraesentatio teatrale, quanto piuttosto attraverso quell’interrogare da tafano chiunque s’imbatta in lui per le strade della sua città; come loro, il suo interesse privilegiato è quello del determinare la natura dei costumi; rispetto a loro, non fa uso alcuno della poesia e della scrittura, privilegiando l’oralità del confronto dialettico coniugata a un procedimento discorsivo rigidamente logico.
Tra di essi si stabilisce — e in questo l’oracolo è rivelativo della percezione che i contemporanei ebbero di loro — un nesso che potremmo indicare con l’espressione convergenza dei fini. L’operato dei tre uomini più sapienti dell’Atene del V secolo, in piena crisi socio-politica, era quello di spiegare al popolo ateniese in cosa consistesse l’insufficienza della morale tradizionale e, insieme, quello di fondare su più solide basi i precetti che, di quella morale, non solo dovevano essere conservati ma, ancora di più, essere resi a tutti accessibili.
Le considerazioni di natura storica, fin qui svolte, costituiscono il quadro tematico all’interno del quale poter collocare la determinazione della natura del sapere socratico e, dunque, del tipo di sapiente che emerge da una lettura del Gorgia.
In generale, la natura del sapere socratico può essere individuata attraverso un’analisi composita dei dialoghi aporetici, ossia di quei primi esperimenti della produzione filosofica platonica in cui la figura del maestro domina e in cui la problematica propriamente socratica emerge con maggiore persuasività. Questa è l’opinione largamente diffusa tra gli studiosi di Socrate, alcuni dei quali ritengono addirittura di potere stabilire una vera e propria demarcazione temporale tra ciò che è socratico in Platone e ciò che è già propriamente platonico.17 Il rischio in cui s’incorre, procedendo nel suddetto modo, è quello di operare demarcazioni eccessivamente nette all’interno di un corpus filosofico, demarcazioni per altro intrinsecamente segnate da un esigenzialismo di natura storiografica — vittime, spesso, della tentazione della schematizzazione — ovvero da una predilezione per la figura storica di Socrate, tendente suo malgrado a considerare Platone come un mero biografo del maestro. Di contro, le più recenti interpretazioni dell’ermeneutica se da un lato hanno consentito un progressivo superamento della contrapposizione radicale tra Socrate e Platone — attenuando la distinzione tra un giovane Platone seguace del dialogo socratico e un maturo metafisico elaboratore della dottrina delle idee -, dall’altro hanno assottigliato, sino quasi a farla scomparire, la differenza contenutistica e metodologica, derivante dalla differente condizione socio-economica, che di necessità storicamente deve essere intercorsa tra maestro e allievo.
Tale differenza è verosimilmente uno dei pochi fatti certi intorno a Socrate.
La differenza è quella tra un uomo proveniente dal popolo minuto ateniese, che sceglie autonomamente di apprendere il sapere e crede radicalmente nella possibilità che tale sapere debba essere a tutti accessibile, e un uomo proveniente dalla élite di Atene, cresciuto all’ombra dei più cruenti uomini politici del suo tempo, nutrito sin da fanciullo della passione per la politica e naturalmente destinato al sapere. A partire da tale differenza proporremo una possibile chiave di lettura del sapere socratico e del sapiente che Socrate fu.
Lo sguardo di Platone su Socrate fu, dunque, in un certo senso, quello di un aristocratico ateniese mosso da una giovanile e fervente passione per la politica attiva; fu uno sguardo dall’alto verso il basso, quello di Platone su Socrate. Paradossalmente questa risulta essere la stessa condizione prospettica del comico Aristofane. E se è certamente vero che Platone subì profondamente il fascino del messaggio socratico, e vibrò dinnanzi al tipo di vita beata da Socrate prospettato a quel giovane troppo invaso dalla manía in tutte le possibili declinazioni, è anche vero che un residuo di elitarismo permane in Platone, permane nel suo sguardo su Socrate. Un residuo di elitarismo con il quale il filosofo costruisce alcune delle sue maschere drammaturgiche maggiormente riuscite, e attraverso le quali possiamo, verosimilmente, guardare a Socrate in modo inedito.
Guardare all’ironico pensatore dalla prospettiva di coloro che né lo amavano né lo stimavano non è, dunque, possibile soltanto attraverso la commedia aristofanesca. A ben guardare i dialoghi platonici sono costellati di personaggi che nutrivano nei confronti di Socrate non teneri sentimenti. E se la prospettiva di taluni di essi è delineata con grande abilità e profondità speculativa, a noi pare che con solo uno dei suoi personaggi Platone abbia davvero superato se stesso nella plasticità della creazione drammaturgica, al punto tale da destare, in molti degli interpreti, il sospetto che sia lui stesso a nascondersi dietro la maschera tragica.18
Noi crediamo che il dialogo che si presti a una visione dal basso del filosofo Socrate sia, senza alcun dubbio, il Gorgia. Interrogando i retori che con Socrate dialogano ci accosteremo a un personaggio assolutamente inedito e, allo stesso tempo, squisitamente platonico.
2. La dialettica come fondazione del sapere
Il Gorgia è quasi unanimemente ritenuto come il dialogo del definitivo sorpasso del discepolo sul maestro, ossia l’opera in cui alla problematica educativa socratica viene sostituendosi quella etica e politica propriamente platonica, e in cui alla tendenza aporetica dei dialoghi giovanili si contrappone la granitica fermezza della sapere delle opere della maturità. Lo stile dell’opera si presenta decisamente ridondante rispetto a quello dei dialoghi precedenti, e la fermezza del sapere morale, cui Socrate costantemente rimanda, riceve nella vibrante chiosa dell’opera addirittura un estremo suggello escatologico. La maschera Socrate nel Gorgia è caratterizzata in modo dissonante rispetto a dialoghi di pochissimo antecedenti, come il Protagora o l’Apologia, il che costituisce, evidentemente, un intricato problema ermeneutico, al quale si tenta, generalmente, di ovviare adducendo la spiegazione che Platone stesso si sia già interamente sostituito al suo maestro, in vista di una personale esposizione della sua filosofia. Guardando, inoltre, all’ampiezza dell’opera, essa si presenta come il più lungo dei dialoghi giovanili, ed insieme come il meno aporetico tra i dialoghi socratici.
E tuttavia la differenza più radicale, rispetto ai dialoghi precedenti, pare potersi ravvisare nella differente declinazione che Platone opera del metodo dialettico-confutatorio. La ben nota dialettica socratica, tutta volta all’interrogare e al lasciar emergere la conoscenza dal confronto dialogico, si presenta in tale opera viziata dalla tentazione per la risposta, e la famigerata criticità dialogica lascia lentamente il posto alla certezza di una comunicazione di sapere.
Apparentemente il tema centrale del dialogo è la chiarificazione della natura della retorica e del ruolo socio-politico ed educativo del retore. A ben guardare, tuttavia, tale tema costituisce soltanto l’escamotage drammaturgico per sollevare problemi della massima importanza per la vita terrena e ultraterrena dell’uomo. In questo senso il Gorgia si presenta come un dialogo di amplissimo respiro, che al crescendum della importanza argomentativa fa seguire, in maniera direttamente proporzionale, la gravità del tono degli interlocutori e lo stesso spessore teoretico di essi. Su questa intricata griglia di questioni massimamente filosofiche, si snoda la peculiare maniera di intendere il metodo dialettico-confutatorio. Se la differente declinazione di esso sia dovuta alla gravità dei problemi sollevati in questo dialogo o se, piuttosto, essa ne sia una conseguenza è un fatto che deve essere lasciato, per un momento, in sospeso.19 Ciò che però possiamo, sin da ora, asserire è la posizione di un’ipotesi di lavoro: laddove le questioni etiche assumono la gravità della normatività morale, l’arduo compito della formazione umana e la pesantezza della decisione politica, la filosofia abbandona, in linea di massima, la tensione erotica della dialettica.20 Tale ipotesi di lavoro troverà proprio nel dialogo adialettico Gorgia un campo applicativo esemplare. In primo luogo è bene, dunque, esaminare in che modo nel suddetto dialogo il metodo gorgiano si contrappone a quello socratico.
L’antitesi, tanto classica quanto massimamente superficiale, tra il dialogo e l’epidissi tende a mettere l’uno di fronte all’altro l’argomentare discorsivo, che si esplica nella dialettica domanda-risposta, e l’esposizione ex cathedra, che procede attraverso l’articolata e lunga opera di persuasione. Una simile e radicale contrapposizione tra i due metodi non può essere ravvisata nel Gorgia. Se da un lato l’epidissi presenta originariamente una struttura ben più complessa di quella sovraesposta, d’altra parte la dialettica socratica compare nel nostro dialogo in maniera atipica, assottigliando la differenza con l’epidissi sino quasi a farla scomparire. Vedremo che tra epidissi e dialettica la distinzione formaliter è pressoché assente, e solo un’analisi del differente contenuto potrà rivelare una più netta caratterizzazione dell’una e dell’altra. Se proviamo a osservare la struttura formale del discorso retorico ci accorgeremo ben presto che esso presenta una tangenza fondamentale con il metodo messo in atto da Socrate nell’opera.
In linea generale il procedere epidittico consta di tre momenti strategici. In principio il retore, in possesso della questione, attinge i suoi argomenti da una serie di tópoi e pone domande tipo all’interlocutore. Una volta richiesto e ottenuto l’assenso dei convenuti ed esposti i fatti, il retore procede con la confutazione della tesi dell’avversario. L’esito dell’epidissi è, infine, un tirare le somme dei ragionamenti fatti ossia, conformemente allo svolgimento stesso del ragionamento, trarre le necessarie conclusioni. Questa stessa modalità si ritrova riprodotta, passo per passo, nei tre discorsi pronunciati da Socrate nel Gorgia.
L’assunzione, da parte di Socrate, della metodologia argomentativa retorica è particolarmente significativa all’interno del contesto di senso proprio di questo dialogo. Nonostante, infatti, l’opera metta in scena la contrapposizione tra retori e dialettici e, conseguentemente quella tra metodo epidittico e dialogico, in realtà essa promuove implicitamente un mantenimento della retorica come strumento e un coniugarsi di essa ai saldi principi della morale. In altri termini, il Socrate del Gorgia mira a conservare intatta sia la struttura formale dell’epidissi sia la potenza persuasiva in essa contenuta, ma contemporaneamente sostituisce all’argomento verosimile della retorica quello vero della dialettica, nel tentativo di fondare su premesse scientificamente e unanimemente valide il ragionamento che ha di mira. Comprendere, dunque, che il procedimento epidittico si presenta in questo dialogo ammantato della scientificità della dialettica appare come la chiave di volta per smascherare21 la natura del sapere cui Socrate rimanda e il tipo di sapiente che Socrate fu.
Se il primo dei dialoghi presenti nell’opera, quello tra il maestro Gorgia e l’educatore Socrate, verte prevalentemente sulla determinazione della natura della retorica, e ha come risultato finale la tesi secondo cui l’epidissi è totalmente priva di un contenuto morale, e dunque incapace di potere educare alla virtù,22 il secondo dialogo, quello tra Socrate e l’impetuoso Polo, mostra e dimostra il vero statuto della retorica: quello dell’essere meramente un’empeiría e non una téchne.23 L’ultimo dei confronti presenti nell’opera, l’incompiuto dialogo tra Callicle e Socrate, tratteggia invece una radicale e audace contrapposizione tra due modelli politico-educativi e filosofici.
Ciò che a noi interessa porre in evidenza è la procedura attraverso la quale Socrate svolge i tre confronti, procedura grazie alla quale egli perviene a un contenuto di verità indubitabile e inconfutabile.
Lo schema tipo della procedura socratica può essere brevemente riassunto: l’educatore Socrate, in evidente possesso della questione,24 elenca una serie di tópoi,25 pone delle domande al suo interlocutore, e successivamente sollecita il suo uditorio a convenire con la sua posizione, o piuttosto lo esorta a contraddirlo se non dirà il vero: a ogni modo egli cerca l’assenso dei convenuti al dialogo. Una volta ottenuto l’assenso, attraverso quella forma di persuasione che è volta al sapere e non al credere, Socrate passa a formulare scientemente la confutazione dell’avversario.
Proviamo a ripercorrere nello specifico del dialogo il procedere socratico.
3. Il dialogo tra Gorgia e Socrate
Mentre il luogo del dialogo resta significativamente indeterminato,26 l’esordio è affidato al personaggio drammaturgicamente più caratterizzato dello stesso. Callicle debutta commentando divertito il ritardo27 di Socrate alla dimostrazione del sapere di Gorgia, e ottiene da lui una calzante risposta ironica.28 Dinnanzi all’invito del fedele Cherefonte, amico anch’egli del retore, a rinnovargli la richiesta di un saggio del suo sapere, Socrate esorta Gorgia, qualora lo voglia, non tanto a dare bella mostra di ciò che sa, quanto piuttosto a intrattenersi a discutere, interrogando e rispondendo.29 Alla compiacente disponibilità del retore, Socrate ribatte con due sole avvertenze metodologiche: non dire il falso e non pronunciare lunghi discorsi.30 E tuttavia, il dialogo — del quale Socrate invita i convenuti a rispettare le regole fondamentali — procederà in modo non conforme a tali premesse. In una sorta di rovesciamento dei ruoli, Socrate apparirà come il fautore del lungo discorso, mentre il macrologico Gorgia darà risposte talmente brevi e concise da suscitare le puntellate ironiche di Socrate.31
Le incalzanti domande — pronunciate nell’estremo rispetto gerarchico prima da Cherefonte a Polo e solo successivamente dallo stesso Socrate a Gorgia — tendono a chiarire chi sia, nella sua essenza,32 il retore, e che ruolo egli abbia o debba avere — ma per Socrate non v’è nessuna differenza tra l’essere e il dover essere — all’interno della pólis. Il domandare socratico pare, dunque, muoversi in due direzioni: l’una che mira a svelare il tipo di sapere del retore, l’altra che tende a definire il ruolo socio-politico della retorica. La composizione delle due direzioni semantiche consegnerà a Socrate l’essenza della retorica.33
Per stabilire quale sia il ruolo della retorica è necessario, anzitutto, determinare il tipo di sapere che essa possiede .34 In un primo momento Socrate domanda a Gorgia che tipo di epistéme sia quella in cui egli è maestro; ma subito dopo scompare il termine epistéme al quale viene prontamente sostituito quello di téchne.35 Il passaggio riveste un’importanza decisiva, poiché suggerisce, sin da queste prime battute, l’idea che la retorica non rientri tra le epistémai, ma che piuttosto sia una téchne.36 Eppure non è su questo passaggio che il dialettico concentra la sua attenzione.
Il problema che più di ogni altro preoccupa Socrate è la definizione del ruolo socio-politico della retorica, e proprio per questo gli domanda se sia in grado di rendere retori anche gli altri. La domanda appare realmente retorica, dal momento che costituisce un vanto dello stesso Gorgia — circondato com’è dai suoi molti discepoli e dai molti giovani che da lui si recano alla ricerca di quel famigerato sapere-potere in cui egli è maestro — saper rendere anche gli altri retori. Ciò che interessa a Socrate non è allora stabilire quanto la retorica abbia la capacità di insegnare una abilità tecnica, quanto piuttosto valutare se essa sia in grado di formare i giovani.37
Ma cosa significa formare? Qual è il senso attribuito da Socrate al termine paidéia?
Dinnanzi alla richiesta di sapere se il retore sia in grado di formare i giovani, Gorgia risponde: «qualora non abbia già una formazione, gliela darò io».38 Ma l’espressione di Gorgia qualora non la abbia già è paradossale, essendo, per un greco, un puro non sense ipotizzare che un uomo non abbia già una formazione, ovvero è impensabile per la mentalità classica che un individuo non sia già cresciuto all’interno di una determinata paidéia. La risposta di Gorgia deve essere, dunque, spogliata della sua apparente paradossalità ed essere condotta a uno spettro semantico ben più ampio, che è quello all’interno del quale il dialettico ripensa proprio il concetto classico di paidéia. La sorpresa di Gorgia dinanzi alla domanda di Socrate mostra come al retore sia, in un certo senso, totalmente estranea quell’idea per cui le convinzioni morali debbano trovare una solida base di verificabilità scientifica e come piuttosto la paidéia assuma molteplici volti a seconda delle circostanze storiche, socio-politiche ed economiche; ma la sua sorpresa racchiude, svelando per contrasto, proprio la visione socio-culturale che l’educatore, a parere di Socrate, deve avere all’interno della pólis: non tanto formare l’uomo greco, quanto piuttosto fondare su solide basi quella formazione che qualsiasi uomo ha già in precedenza ricevuto.
Il quadro in cui s’innesta, allora, questo primo attacco all’operare del sofista-retore Gorgia è quello di una fervente polemica a ogni tipo di relativismo culturale — del quale proprio il retore di Leontini si faceva promotore con il suo sapere — ma si affaccia, soprattutto, nel dialogo la pretesa, da Socrate sentita come propria, in quanto egli è il più sapiente tra gli uomini, di possedere l’unica prospettiva forte che deve essere conservata e che può, attraverso le rigide regole del procedimento logico, anche essere fondata.39
L’elemento che più di ogni altro concorre alla fondazione di una comune paidéia è la costante messa in campo della ricerca delle definizioni essenziali. L’attrito iniziale, ad esempio, tra Polo e Socrate ha come oggetto proprio la differente interpretazione del concetto di definizione che l’uno e l’altro utilizzano. Se, infatti, Polo tende a rispondere alle domande, come era proprio di ogni buon retore, attraverso definizioni qualitative, Socrate al contrario mira, col suo interrogare, a suscitare definizioni che svelino ciò che distingue ontologicamente una cosa dall’altra, un concetto da un altro. Esaminando dunque alcune delle sue caratteristiche fondamentali, potremo rischiarare la natura del sapere che egli sa di possedere. La formulazione socratica della definizione — assunta acriticamente da Socrate in poi come emblema della definizione filosofica — comporta sia una precognizione delle caratteristiche essenziali dell’oggetto ricercato, sia una generalizzazione delle stesse. Il fine, poi, che essa ha di mira è il mettere l’una di fronte all’altra queste stesse precognizioni possedute, allo scopo di ricavare un’identificazione dell’oggetto rispetto a se stesso.40 Noi crediamo esista un filo conduttore che lega la fondazione della paidéia socratica e l’uso della definizione. Tale filo conduttore, che si esplica nella dipendenza, più o meno dichiarata, dalla pratica del consenso, può essere brevemente tratteggiato ripercorrendo alcuni passaggi del Gorgia.
Socrate e Gorgia, durante il dialogo, si trovano continuamente concordi sulla maggior parte delle precognizioni propedeutiche al raggiungimento della definizione. Se tale concordia sia solo apparente, ovvero dipendente da una reticenza morale del retore a contravvenire ai principi basilari della morale comune, è un fatto che poco ha a che vedere con il rischiaramento del senso della ricerca socratica. Piuttosto ciò che deve essere messo in luce è l’intento di Socrate nel cercare il consenso su tali principi e l’uso strumentale che egli ne fa.41 La confutazione di Gorgia,42 alla fine del primo atto del dialogo, mette paradigmaticamente in scena proprio l’uso del consenso come elemento decisivo della paidéia e come tratto determinante che decreta il successo della definizione. E tuttavia ciò a cui assistiamo, durante lo svolgersi del dialogo, è non soltanto la drammatizzazione del comune assenso sulle basilari precognizioni morali, ma ancora di più la messa in scena del successo del dialogo fondata su un mero tirare le somme del confronto su base comparativa.
Il confronto dialettico tra Gorgia e Socrate mette, dunque, in scena non tanto lo scontro tra la visione classica dell’etica, che meno che mai in questo dialogo è dal retore incarnata, e quella di una buona novella ante litteram, quanto piuttosto la discrasia tra la debolezza dell’etica contenuta nella filosofia che Gorgia va diffondendo in lungo e in largo per il mondo antico e la saldezza della morale restauratrice di Socrate il quale, democratizzando una tradizione etica prettamente elitaria, deve di necessità presentare una persuasione che si muova su larga scala e che venga perciò corroborata da una rigida logica della verificabilità. Insomma, lo scontro tra il retore e il dialettico si esaurisce non concludendosi davvero, ovvero se il dialettico certamente vince l’agone della disputa, egli è costretto però a rinunciare a quella tensione aporetica e dunque a quella metaetica che oggi, sempre più spesso, sembra caratterizzare la vera novità del socratismo rispetto al suo tempo.43
4. Il picco della retorica socratica: il confronto con Polo
Polo intende il suo confronto con Socrate, fin dal principio, come un riscatto della sua stessa posizione che è stata sbrigativamente liquidata dal dialettico proprio all’inizio del dialogo. Sebbene egli intenda elevarsi al di sopra della massa, contestando quelle opinioni su cui tutti, per ritegno o per convinzione, non potevano che convenire, non possiede, tuttavia, la statura morale ovvero il coraggio per farlo fino in fondo.
Socrate, dal canto suo, muta repentinamente atteggiamento: se a Gorgia, infatti, aveva manifestato quel rispetto che si deve a un sapiente, o almeno a uno di quelli che dalla comunità cui appartiene tale è creduto, rispetto a Polo sa di potersi comportare come un maestro. Ed è per questo che il tono conciliante che aveva caratterizzato l’interrogatorio di Gorgia, viene adesso rimpiazzato da un tono decisamente pungente e polemico.
Sin dall’esordio registriamo la polemicità del dialettico. Socrate, dopo aver diviso con Gorgia le colpe di un ragionamento che al giovane interlocutore appare fallace, ammonisce Polo a contenere quel suo modo di parlare lungo con cui aveva esordito.44 Quale esordio, verrebbe subito da domandarsi. Il giovane e irruente retore, infatti, se aveva certamente dato prova di una genuina inesperienza nel rispondere alle domande di Cherefonte, non s’era certo distinto per la lunghezza del discorso. L’ammonimento di Socrate dovrebbe, perciò, essere interpretato come una precauzione rispetto a quello straniero, giovane eppur già noto nell’Atene del tempo, celebre per la macrologia delle sue epidissi retoriche. Dovrebbe invece essere letto come un espediente volto all’atterramento dell’avversario l’apparente rovesciamento di ruoli. Socrate, in effetti, invita Polo a scegliere se preferisce interrogare o rispondere, e il giovane retore, convinto che la chiave del successo della disputa risieda nel tenere le redini dell’interrogatorio, ovvero nell’assunzione formale di un ruolo, sceglie di interrogare il maestro di dialettica.45 Lo scambio di ruoli è, però, come anticipavamo, semplicemente apparente, perché in realtà è Socrate a suggerire in molti casi le domande a cui egli stesso dovrà rispondere, facendo in tal modo virare il discorso verso la direzione che egli desidera imprimere all’intero ragionamento e manifestando, perciò, non tanto un’autentica volontà di dialogare, quanto la rigidità del sistema dell’élenchos in cui tutto è già deciso fin dapprincipio. Insomma nel confronto dialettico non è essenziale il ruolo dialogico che si assume, quanto la capacità di riempire la posizione interrogatoria dei giusti contenuti, ovvero di quei tasselli singoli che composti secondo un ordine ben preciso nel quadro del mosaico del ragionamento possono far prendere forma alla figura. E tuttavia, affinché i singoli contenuti delle domande siano scelti nel modo più adeguato, è necessario, fin dall’inizio, avere ben chiaro il fine che si vuole raggiungere. E perciò l’evoluzione del dialogo non sorprende affatto, anzi si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un esercizio retorico: se l’epidissi consisteva nel far bella mostra di una tecnica intorno ai più svariati argomenti, la dialettica appare qui come la tecnica infallibile che conduce attraverso un rigido automatismo alla dimostrazione di una tesi che è già posseduta dal principale dialogante.
L’intenzione primaria nel confronto con Polo è intaccare la principale convinzione dei retori, ovvero l’idea di possedere e di poter conseguentemente insegnare un’abilità attraverso la quale non solo dimostrare la ragionevolezza di una tesi, ma anche corroborare la ineluttabilità di un comportamento.
La tesi che, invece, Socrate possiede al principio del dialogo è la seguente: la retorica non è né una scienza, né un’arte, ma semplicemente una pratica volta a lusingare gli uomini assecondandone e accrescendone gli appetiti.46 In quanto pratica fondata interamente sull’apparente essa non possiede quella forza, propria soltanto di un lògos vero, capace di supportare ragionevolmente una qualsiasi condotta di vita.
Retorica e culinaria sono dette pratiche che producono diletto e piacere non in senso sinonimico, ma analogico: come il cuoco esordisce solleticando il palato dei partecipanti a un banchetto, elaborando piatti che coniughino il cromatismo delle composizioni alla raffinatezza dei cibi scelti e, costruendo in tal modo un’alchimia accattivante e irresistibile, finisce per tenere in pugno i convitati, così il retore compone all’unisono l’eleganza dei discorsi alla sinuosità degli argomenti, travolge e imbriglia l’uditorio nella fitta rete dell’apparente affinché il pubblico non s’arrenda alla conquista. Questa tesi socratica, tuttavia, non sorge semplicemente da un parallelismo estemporaneo, al contrario cela una ben costruita classificazione delle arti e delle pratiche, che risponde formalmente a un rigido schema geometrico, e contenutisticamente a una teoria ben determinata e perciò passibile al momento del dialogo non tanto di una dimostrazione quanto di una dettagliata spiegazione.
L’errore formale di Polo si condensa perciò, proprio in virtù di una simile impostazione del dialogo, nelle battute d’esordio. Se, infatti, il giovane retore avesse respinto la determinazione iniziale della retorica come una pratica — e fosse per altro riuscito a dimostrarne lo statuto di tecnica — tutto il discorso di Socrate sarebbe crollato.47 Ma Polo non può agire diversamente da come fa perché, rispetto a Socrate, non possiede quelle precomprensioni teoriche tali da sostenere lo svolgimento di una spiegazione.
La retorica è dunque una pratica, analogicamente identica nelle sue funzioni alla culinaria alla cosmetica e alla sofista; l’elemento che lega queste pratiche l’una all’altra in un indissolubile vincolo epistemico è l’esser tutte, a vario titolo, éidola téchnon. In quanto imitazioni esse hanno già in partenza uno statuto modellato sulla mera apparenza, e dal momento che si assume l’esistenza di realtà contrapposte alle apparenze — ovvero si assume formalmente l’esistenza delle idee e delle copie — allora le pratiche suddette non avranno nemmeno nessuna reale utilità. Semmai l’ophélimon da esse raggiunto, nei rispettivi campi, è una degradazione-imitazione di un altro autentico ophélimon. Con ciò Socrate sembra sgomberare il campo da un’accusa che lungo il corso del dialogo tornerà a più riprese, ovvero ritenere che il ripiegamento socratico sulle questioni di filosofia sia allontanamento da quell’utile politico e civico di cui egli, al contrario, si propugna maestro.48
A questo punto, però, è necessario soffermasi un istante non solo sul contenuto delle affermazioni socratiche — che si presenteranno nella loro forma più esplicita nel dialogo con Callicle — ma altresì sulla forma delle stesse. Se è vero, infatti, che solo una comprensione adeguata del guadagno teorico dell’etica socratica può chiarire l’intricato svolgimento del dialogo, e dunque anche la dissonanza con le posizioni dei retori, è altrettanto evidente che alle spalle di questo guadagno teorico si staglia la ricorrenza di un determinato atteggiamento, rinvenibile di volta in volta nei vari personaggi Socrate che costellano l’universo drammaturgico platonico e che, di là delle discrasie relative al contenuto, rivela un éthos, ovvero un modo abituale, che è sempre lo stesso.
Tale atteggiamento, come già la strutturazione formale dell’élenchos, rivela una tangenza con l’éthos sofistico e retorico, e quindi con le posizioni di Protagora e Gorgia.
Protagora sembra essere il primo sapiente a sposare l’istanza egualitaria della democrazia ateniese, non tanto, però, sposandone i contenuti, quanto ritenendo che fosse proprio di ogni cittadino potere acquisire ed esercitare la virtù politica. Il sofista, tuttavia, non s’inseriva nella dinamica primaria della partecipazione pubblica, ovvero nell’insegnamento di una paidéia, che in una sorta di automatismo culturale veniva recepita dai singoli, quanto in quello stadio più complesso, e perciò più rilevante, che consisteva nel comprendere quale decisione politica fosse più vantaggiosa all’interno di un determinato quadro valoriale.49 Con ciò la figura del sofista, lungi dal poter essere ridotta a un giocoliere di parole, si stabiliva piuttosto come l’esperto dei sistemi della politica e dell’etica in generale, ma anche come il téchnites in grado di poter consigliare gli allievi nel modo migliore, proprio perché a conoscenza dei meccanismi e delle dinamiche concrete della vita pubblica. È evidente come dinanzi a una tale democratizzazione della virtù politica si levassero gli scudi dell’aristocrazia che, ancora nel V secolo, non poteva che pensare l’areté come vincolata al génos.
Ora Socrate è dalla stessa parte di Protagora, laddove sostiene la democratizzazione della virtù politica; ed è ancora dalla sua stessa parte quando antepone la conoscenza di una téchne alla determinazione del valore.50 L’andare per le vie di Atene, interrogando coloro che nei rispettivi campi ritenevano d’esser sapienti, se, da un lato, è certamente il segno di un mettere alla prova quella sapienza, svelata dall’oracolo a Cherefonte, che egli possedeva in massimo grado, dall’altro era presa di coscienza, di volta in volta, che alla base dell’esercizio di ogni virtù si stagliasse una determinata conoscenza. La virtù dell’artigiano consisteva nel conoscere la tecnica artigianale, quella del poeta la metrica e così via. Da questo atteggiamento iniziale prese corpo nel pensiero socratico quella equivalenza tra virtù e conoscenza, che non era altro se non la possibilità di raggiungere una determinata virtù attraverso la conoscenza degli strumenti e delle tecniche che la potessero rendere operativa.
Il pensiero di Gorgia, incentrandosi certamente su una maestria linguistica, ma recando alle sue spalle un complesso quadro di riferimento che, nella sua stringente radicalità, non poteva che dirsi filosofico, aveva il potere di rendere non soltanto giusto l’ingiusto e vero il falso, ma, e ancora di più, esistente l’inesistente e dunque essere il non-essere.51 Significativamente quello che Socrate mette in atto nello scambio di battute con Polo, con un modo dell’esprimersi decisamente retorico, è proprio l’attribuzione di essere, e per di più di essere vero, a un non essere, e diversamente la determinazione di non essere, ovvero di essere apparente, a tutto ciò che i convenuti tengono come essere. È evidente che un tale modo del procedere sia un’operazione teorica e contemporaneamente un esercizio linguistico e come tale retorico. E tuttavia, mentre Gorgia si dilettava nel mettere in crisi il suo uditorio, facendogli credere inconsistente ciò che sino a quel momento aveva ritenuto vero e giusto, Socrate, al contrario, ha in serbo per il suo pubblico, oltre la scomposizione del mosaico, e quindi la messa in crisi, una sua ricomposizione. Quindi, mentre il procedimento retorico gorgiano si limitava a frantumare il mosaico, disperdendone i pezzi e quindi facendo smarrire all’uditorio la fermezza di un punto fisso dal quale ripartire, l’élenchos socratico non getta via in un vortice di aporeticità i tasselli della morale tradizionale, ma li ricompone in modo inedito, e cioè li riassembla sulla scorta di un unico principio posto preventivamente come assiomatico.52
Ora tale principio assiomatico, operante implicitamente lungo il corso del dialogo con Polo, viene introdotto da una chiarificazione preliminare intorno ai concetti di volere e potere. Platone abilmente mette in bocca questa distinzione a un inconsapevole Polo, che domanda a Socrate se i tiranni, la cui figura è analogicamente assimilabile a quella dei retori, non abbiano un grandissimo potere dal momento che possono mandare a morte e scacciare dalla città chi vogliono.53 Socrate ammonisce il retore a formulare più rigorosamente le sue domande in modo che non sembrino delle affermazioni, e lo invita contemporaneamente a separare le due questioni: non hanno forse un grande potere i tiranni e non fanno forse ciò che vogliono? Il dialettico, però, separando il volere dal potere, intende superare quell’automatismo retorico che lasciava scaturire il secondo dal primo, mettendo in campo un ulteriore e ben più complesso automatismo che è quello proprio dell’intellettualismo: il potere e il volere non possono che scaturire da un sapere, ovvero solo la conoscenza certa e stabile della verità consente di esercitare autenticamente la volontà e quindi di ottenere un potere reale.
Per giungere a questo risultato Socrate deve però mettere in campo una complessa argomentazione dal sentore sofistico e dai contenuti non propriamente rivoluzionari. Se un uomo, argomenta il dialettico, si trova in uno stato di malattia e vuole tornare in salute dovrà prendere delle amare medicine. Gli stati in cui egli potrà trovarsi sono dunque tre: quello cattivo della malattia, quello intermedio della cura e quello buono della salute. Posto che la guarigione è un bene e che la cura è connotata in modo neutro, ovvero è quello stadio in cui si lavora per il conseguimento di un fine, resta da vedere se la scelta dei mezzi è conforme al fine buono. Qualora la scelta del mezzo non fosse coerente al fine-bene, assunto in modo certo attraverso la conoscenza, allora non potremmo che registrare un errore di valutazione proprio in questo stadio intermedio. E però, la scelta dei mezzi non idonei non può essere un errore in sé, ma scaturisce semmai dall’ignoranza dei fini. E cioè per Socrate, ma più generalmente all’interno di una prospettiva intellettualistica, l’errore morale sorge da una fallacia iniziale nell’intero ragionamento. E perciò solo conoscendo il bene è possibile scegliere gli strumenti adeguati per il suo conseguimento; ma, se questa conoscenza viene a mancare allora l’intera azione che ne scaturisce è anzitutto il risultato di un ragionamento scorretto, e solo in seconda battuta un non-atto morale,54 ovvero è un’azione sorta da una passione.
L’elemento determinante per comprender la morale socratica, e quindi per marcare lo scarto che la separa da quella antica di cui Polo, a ragione o a torto, sembra essere il rappresentante, è proprio l’estromissione della passione — e aggiungiamo anche del desiderio — dalla sfera della morale.
Una morale come quella epica in cui le passioni concorrevano alla determinazione etica di un’azione non poteva rispondere, secondo Socrate, a quell’esigenza d’ordine e di proporzione di cui, invece, abbisognava il vivere comunitario ateniese deluso dalla democrazia e frastornato dalla tirannia dei Trenta. Le passioni, eccedenti per difetto o per eccesso, avevano generato, e lo avrebbero fatto ancora, un’etica mutevole e come tale non controllabile. La morale socratica, di contro, intende sottrarre ogni atto morale alla mutevolezza del sentimento e agganciarlo alla fermezza del ragionamento.
Riprendendo l’esempio socratico iniziale: se la malattia è uno stato cattivo, e la cura è quell’azione che strappa il malato all’indigenza della situazione, allora la guarigione, il bene raggiunto attraverso la cura, è cessazione di ogni attività, ovvero estinzione della tensione volta al bene e autentico possesso dello stesso.
Se dal punto di vista della determinazione teorica la cessazione del movimento è il culmine stesso della perfezione, dal punto di vista pratico è estinzione di quella tensione senza la quale non si dà l’azione morale. Svuotata della dilemmaticità concernente la deliberazione la moralità rischia di trasformarsi in moralismo.
Rispetto all’esemplare discorso del retore Callicle — dove si può vedere all’opera tutta la potenza e la schiettezza argomentativa della scrittura platonica — il lungo monologo finale socratico appare perciò come un solipsistico atto di estrema violenza e di moralismo.
5. L’impossibile dialogo tra Callicle e Socrate
Al principio del saggio avevamo dichiarato come sia possibile guardare a Socrate dal basso, ovvero dalla parte di coloro che né lo amano né lo stimavano, ricorrendo al testo del suo più fedele allievo. Nella costruzione drammaturgica dei personaggi dei suoi dialoghi, Platone raggiunge con la delineazione scenica di Callicle una prospettiva sul suo maestro tanto aspra e crudele, quanto elaborata sul piano strettamente filosofico.
Lo sguardo di Callicle ci appare come un punto di vista privilegiato attraverso il quale guardare all’operato e al sapere socratico. L’ambizioso e aristocratico retore ha, in certo senso, una prospettiva dal basso, non appartenendo né alla cerchia dei suoi amici né a quella dei suoi discepoli; il tono del suo procedere argomentativo, sebbene in principio sia ammantato di poetiche citazioni, cade in taluni casi nell’approssimatività dialettica propria degli uomini d’azione; la morale, inoltre, di cui Callicle si fa radicale fautore è quella impietosa della legge di natura. Eppure, in un senso strettamente socio-politico ed economico, il suo sguardo su Socrate si muove dall’alto verso il basso, ossia dall’alto dell’aristocrazia ateniese al basso del popolo minuto, con quel tono sprezzante verso coloro che, per natura, sono i più deboli. L’opposizione che, d’altra parte, egli manifesta dinanzi al tentativo socratico di persuaderlo è tanto ostinata quanto eroica: Callicle è l’unico personaggio dei dialoghi aporetici che non si lascia persuadere da Socrate, l’unico che non cede dinanzi alla impeccabilità del suo procedere logico-argomentativo.
E tuttavia esiste un’ulteriore ragione per accordargli una posizione ermeneuticamente privilegiata rispetto a quella degli altri personaggi. Callicle è uno dei pochi personaggi dei dialoghi platonici di cui non abbiamo notizie storiche. La lacuna documentaria può essere duplicemente interpretata: in prima ipotesi, potrebbe essere dovuta all’insufficiente fama di questo personaggio;55 in seconda ipotesi, essa potrebbe, più che verosimilmente, indicare la costruzione interamente fittizia da parte di Platone. Ma la ragione per cui la prospettiva di Callicle appare realmente privilegiata è la possibilità, messa in luce da diversi studiosi,56 che sia il punto di vista sotterraneo dell’aristocratico Platone — o meglio quella parte irrazionale del suo animo mai definitivamente disciplinata dalla stoica e democratica morale socratica — ad adombrarsi dietro il giudizio del retore, punto di vista forse messo a tacere nella sua maturità biografica e filosofica.
La strutturata posizione teoretica di Callicle fa sì che lo scontro con Socrate sia non soltanto acceso sul piano emotivo — come era accaduto in precedenza con Polo -, ma ricco ed elaborato a un livello propriamente contenutistico. Egli dà maggiormente filo da torcere al maestro di virtù Socrate poiché più saldamente crede in ciò che fa e più saldamente difende, contro la communis opinio, le sue idee. Oltre a essere un fine retore poi, egli è insieme l’unico tra i convenuti ad avere potere politico e l’unico per il quale l’azione politica sia interamente una ragione di vita. Infine quello con Callicle è l’unico dei confronti dialogici dell’opera in cui la verità vince ma non convince, in cui il non potere-essere-altrimenti della verità è un fatto raggiunto a livello meramente logico-formale, ma che non trascina dietro di sé un’effettiva persuasione dei convenuti al dialogo.
Callicle però, e al contrario di quello che intende far credere Socrate, non è un mero demagogo, uno schiavo del démos e di Démos;57 o forse lo è soltanto a patto che con demagogo s’intenda quel tipo di politico che fa del démos il mezzo principale per il raggiungimento di un fine egoico e che nutre nei confronti di esso un altero e radicale disprezzo. Callicle è piuttosto un aristocratico fortemente convinto che la legge di natura abbia maggior valore di qualsiasi legge positiva e, conseguentemente, quel politico che ritiene qualsiasi legge positiva frutto di un risentimento plebeo, flebile nella sua costituzione ontologica, ma devastante nella sua applicazione giuridico-legislativa. Rispetto all’aristocratico Callicle, Socrate si presenta, invece, come il teorico di una concezione democratica della politica e come il fautore di un’antropologia egualitaria.
Sul piano contenutistico, inoltre, il dialogo tra Socrate e Callicle non è semplicemente un’opposizione tra due diverse concezioni della politica, poiché i temi della disputa attraversano e l’ontologia e l’antropologia. Il tono della discussione è poi un elemento che, se coniugato al diverso argomentare dei due, può informarci del fine che i loro discorsi hanno. Socrate è estremamente serio, quasi grave nelle sue affermazioni; Callicle, invece, intende il confronto come un puro e semplice divertissement: egli è realmente ludico nell’esposizione della sua seria teoria antropologica. È, dunque, anzitutto interessante notare come quel severe ludens dell’ironia socratica, che contraddistingue generalmente l’atteggiamento di Socrate nel partecipare ai dialoghi, venga qui a mancare. Quasi in un capovolgimento dei ruoli, Callicle appare come un giocoso dialogante, e Socrate, al contrario, non solo come il saggio maestro che sussulta a ogni indisciplinatezza del giovane che ha dinanzi, ma addirittura quasi come un fiero moralista. Callicle viene persino accusato dallo stesso Socrate di fare dell’ironia,58 rovesciando con tale intimazione un luogo comune dei dialoghi, ossia l’essere Socrate oggetto di tale accusa. Le ragioni che possiamo addurre per questa anomala configurazione drammaturgica possono essere molteplici: Socrate, forse, ha maggiormente da perdere nel dialogo con Callicle,59 forse la serietà del tema affrontato gli suggerisce una certa gravità,60 o forse ci troviamo dinanzi a un Socrate che mostra uno degli aspetti più inquietanti della sua policromatica atopía. Egli mostra proprio alcuni degli aspetti sui quali Aristofane aveva costruito il personaggio Socrate nelle Nuvole.
Ma guardiamo più da vicino il confronto tra Socrate e Callicle.
6. Il presunto capovolgimento socratico della morale
Rispetto al passionale e tumultuoso Polo, che irrompe sulla scena con frasi concitate e spezzate, Callicle si presenta da subito come un uomo sobrio e controllato, sicuro di sé e per nulla intimorito dai discorsi che sino a ora ha pronunciato Socrate. Nell’opinione di Reale,61 egli si rivolge al fedele discepolo di Socrate Cherefonte nel rispetto di quella prassi comune per cui prima di rivolgersi direttamente al maestro era necessario parlare al suo discepolo. Ma nulla della configurazione drammaturgica presentata da Platone suggerisce una simile interpretazione. Per comprendere il primo rivolgersi al discepolo di Socrate bisogna provare a rappresentarsi mentalmente la scena. Callicle è, tra gli uditori dei due dialoghi precedenti, il più vicino a Cherefonte. Quando Polo è messo alle strette dal lungo discorso di Socrate, egli si avvicina a Cherefonte e gli bisbiglia all’orecchio: «dimmi Cherefonte, Socrate scherza o parla sul serio?».62 Già soltanto questa prima battuta, che Platone mette in bocca al suo migliore personaggio, mostra alcuni degli elementi che assumeranno un peso determinante nello svolgimento del dialogo tra Callicle e Socrate: dietro la proverbiale ironia socratica, che a dire il vero non rappresenta una peculiarità del Socrate del Gorgia, si nasconde un’altrettanto proverbiale ambiguità, e dietro lo scherzo si cela sempre la granitica fermezza della comunicazione di un sapere morale.
Proprio per sciogliere questo dubbio Callicle domanda, su suggerimento dello stesso Cherefonte, direttamente a Socrate se egli stia scherzando o se piuttosto parli sul serio, perché nel caso in cui egli stesse parlando sul serio la vita degli uomini risulterebbe esattamente capovolta.63 In quest’ultima proposizione di Callicle la critica ha potuto individuare quello che è passato alla storia come il rovesciamento socratico della morale antica dei Greci. Ma in realtà, a ben guardare, non è esattamente chiaro a quale comportamento, e dunque a quale tipo di morale, si riferisca precisamente Callicle. Come abbiamo avuto modo di mostrare nei paragrafi precedenti, il dissidio tra Socrate e gli altri due principali interlocutori non verteva su differenti concezioni della morale, anzi sia Gorgia sia Polo, messi alle strette da Socrate, non potevano che convenire con lui nell’indicazione di alcuni basilari valori propri della mentalità classica. Lo smacco che Socrate dava ai sofisti in questo dialogo non sarebbe, dunque, prevalentemente contenutistico ma formale: egli riusciva a fondare su solide basi, ovvero attraverso il ragionamento e la logica, quei principi sui quali tutti i convenuti al dialogo non potevano che assentire.
Per sciogliere il significato della proposizione di Callicle, «se tu parli sul serio e se queste cose sono vere, che altro dovremmo dire se non che la vita di noi uomini risulterebbe esattamente capovolta e che, come sembra, facciamo tutto il contrario di quello che si deve?»,64 dobbiamo di necessità riportarla al sentire del solo Callicle, o comunque al sentire di coloro che come lui propugnano una morale che si muove sotterranea nella mentalità culturale e politica della Grecia antica: la morale dionisiaca, la morale della legge di natura. Ciò su cui però Callicle desidera mettere l’accento non è tanto lo scontro tra due sistemi della morale, quanto la discrasia tra l’essere e il dover essere, tra l’éthos e il nómos, e dunque quella discrasia tra ciò che siamo e ciò verso cui dovremmo tendere. La drammatizzazione dello scontro tra l’essere e il dover essere rivela come sia già in atto in questo dialogo la platonica dottrina delle idee, per cui alla mondanità delle copie sempre si oppone l’eternità delle idee: da un lato troviamo Callicle invischiato nel mondo copia della morale, e dall’altro, e significativamente, Socrate appigliato alle idee. La posizione di Platone in questo scontro è evidentemente quella del regista e non del protagonista che s’identifica in una delle due ipotesi. Platone non è semplicemente un altro Socrate, né esclusivamente un Callicle: egli è, però, l’uno e l’altro insieme. Se, infatti, il nostro filosofo non avesse sentito con tale drammaticità la potenza dell’essere mai avrebbe pensato all’esistenza di un dover essere. In Socrate come in Callicle lo scarto invece non trova alcuno spazio: tanto l’uno quanto l’altro si fanno fautori di un automatismo, il primo tra la natura divina dell’uomo e la morale, e il secondo tra la natura bestiale dell’uomo e la morale. E non è affatto un caso che nel rispondere a Callicle Socrate faccia appello a ciò che è comune agli uomini: quella passione che li unisce rendendoli partecipi di una medesima aspirazione.
Ma Socrate e Callicle hanno una precisa passione in comune. Entrambi sono innamorati di due uomini dal forte temperamento e dallo spiccato interesse per la politica. E tuttavia, mentre il primo preferisce all’instabilità del figlio di Clinia l’immutabilità della filosofia, il secondo è egualmente trascinato dalla passione verso Demo e verso il demo di Atene.65 La filosofia è, però, non soltanto l’amata di Socrate, ma anche colei che gli suggerisce le parole da dire. Quelle parole sono sempre le stesse poiché dicono la verità eterna e immutabile che la filosofia custodisce. Per tale ragione la confutazione di Callicle delle parole di Socrate, latore della verità della filosofia, non potrà in nessun caso avere luogo: o Callicle riconoscerà la verità che Socrate pronuncia o sarà, per tutta la vita, in disaccordo con se stesso. Nel modo più netto il filosofo dunque oppone la coerenza della sua vita e del suo pensiero all’incoerenza dei suoi interlocutori. Ma cosa significa davvero essere incoerenti? Per Socrate incoerenza è non solo pronunciarsi contro l’evidenza della verità, che è sempre immutabile e uguale a se stessa, ma distogliersi dal se stesso che custodisce tale verità. Il ruolo del sapiente Socrate appare dunque duplice: egli è educatore, poiché conduce i suoi interlocutori sulla via della verità, ma è anche il più sapiente tra gli uomini poiché, diversamente da costoro ignari della verità che in loro dimora, egli conosce tale verità. Lo scarto che separa, insomma, il maestro Socrate da Callicle può essere sintetizzato nel modo che segue: il primo sa della verità, mentre il secondo ha soltanto la possibilità di riconoscerla.
Callicle, tuttavia, non si rassegna a incassare l’accusa socratica di incoerenza. Con fervore la rimanda al mittente, accusando piuttosto coloro che lo hanno preceduto nel dialogo di aver ceduto, per reticenza o per vigliaccheria, all’astuta e sofistica persuasione di Socrate. Gorgia e Polo — continua Callicle — non sono stati in grado di sopportare il peso della loro diversità rispetto all’opinione comune e, irretiti dalle scontate e demagogiche66 affermazioni socratiche, si sono infine omologati «a un certo costume degli uomini».67 Il retore-politico, insomma, promette di non cedere all’incoerenza in cui per vigliaccheria si sono ritrovati i suoi predecessori, accusa Socrate di conformismo e demagogia, lo incrimina di voler difendere solo l’eticità dello stato e delle leggi, e contemporaneamente gli rimprovera di incarnare la peggior specie di retorica, quella attraverso cui si mira a ottenere l’assenso popolare per la conservazione di uno stato di cose.68 È proprio su quest’ultimo aspetto che s’innesta una questione della massima importanza.
Mentre Socrate si appella a concetti di giustizia, equità e valore che riguardano la sfera della legge positiva, Callicle invece articola il suo ragionamento fondandosi sulla legge di natura. Ma non solo. Socrate, spiega Callicle, sposta la domanda sul piano della natura, se qualcuno parla secondo la legge, e viceversa si sposta sul piano della legge se qualcuno parla secondo natura.69 Servendosi talvolta della legge di natura e talaltra di quella positiva, il sapiente incastra il suo interlocutore, irretendolo e confondendolo. Ma Callicle intende rompere quest’ambiguità del ragionamento socratico riferendosi a concetti di giustizia equità e valore che siano tali secondo natura e non secondo la legge.
La natura mostra come i più forti e i più potenti abbiano maggiori vantaggi rispetto a coloro che sono deboli e impotenti; la legge, invece, stravolge l’ordine naturale per sostituirlo a un ordine positivo. In natura solo pochi potenti hanno la forza di condurre la massa, mentre secondo la legge, ovvero secondo la legge di Atene, è la massa che impugna lo scettro della giustizia sociale e, mossa da un risentimento plebeo, sovverte la legge di natura. Il risentimento delle masse, e quindi la forza occulta dei deboli, pur essendo degno del massimo disprezzo da parte di Callicle, è tuttavia temuto. Coloro che propugnano, come Socrate, dottrine plebee fondate sull’aspirazione a un egualitarismo positivo rovinano quei pochi che per natura sono superiori.70
La potenza secondo natura, però, non è da intendersi in modo puramente fisico, il che equivarrebbe a considerare più forti i forzuti, né ancora in modo quantitativo, ché altrimenti migliore per natura sarebbe la massa. Il più potente, spiega Callicle, in seguito all’insistenza di Socrate nel definire con più precisione tale concetto, è colui che, armato di arguzia, coraggio e abilità politica, osa sfidare la morale corrente, sovvertendo quell’ordine fittizio che dai molti è scambiato per naturale.71 Che in queste pagine abbia luogo il presunto capovolgimento socratico della morale è da escludersi già soltanto considerando il tipo di antropologia propugnata da Callicle che, lungi dal poter essere intesa come l’espressione emblematica della mentalità greca — che in teoria dovrebbe essere da Socrate rovesciata -, ne è piuttosto la negazione. È contro il naturalismo del superuomo che invece muove la sua invettiva Socrate, e in ciò egli non contrasta in nessun modo con la morale del suo tempo; semmai è a livello politico che può essere riscontrata una precisa presa di posizione, relativamente nuova, da parte del dialettico.
Su un’altra questione fondamentale porta, però, l’attenzione Callicle. All’indebolimento causato dall’imposizione della legge positiva corrisponde secondo il retore il depotenziamento, pratico ma anche teorico, dovuto al prolungato dedicarsi alla filosofia da parte degli uomini. L’attacco alla funzione formativa della filosofia scatenerà Socrate nel più complesso elogio della filosofia come strumento privilegiato dell’educazione degli uomini. Di tutti gli uomini.
7. Sull’inutilità e il danno della filosofia per la vita
L’attacco sferrato alla presunta sapienza di Socrate, e quindi alla verità, che egli con forza difende per cui la filosofia è strumento della conoscenza del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, è da Callicle introdotto dall’invito che egli rivolge al filosofo a occuparsi non tanto di vuote speculazioni quanto piuttosto della vita. L’invito del retore a non scivolare nel rischio di divenire un acchiappanuvole estraneo alla vita politica è non solo quello stesso che Aristofane rivolse a Socrate nella sua commedia, ma significativamente lo stesso su cui Platone riflette nella Repubblica, laddove avverte che il buon timoniere dello stato è colui che sa coniugare in un’unica persona la dedizione al vero e l’arditezza per realizzarlo, ovvero colui che è insieme filosofo e politico.72 Callicle però, radicale com’è in ogni sua posizione, non intende affatto richiamare una saggia commistione di prassi e teoria, quanto inveire duramente contro la funzione formativa, e perciò anche politica e sociale, della filosofia. Egli ritiene cosa pregevole che i giovani si occupino di filosofia, ma solo nella giusta misura, ovvero soltanto finché essi siano inesperti della vita politica.73 Superata l’età dell’inesperienza la filosofia è non soltanto inutile, ma altresì dannosa per l’uomo.
Coloro che filosofano oltremisura, secondo Callicle, lo fanno spinti da una naturale inadeguatezza rispetto all’attività politica; ma nell’allontanarsi da essa trovano il vanaglorioso riscatto da una condizione di inferiorità.74 Essi sono giudicati uomini ridicoli, rispetto ai quali il retore non riesce a trattenere un sentimento che sfiora la pena: «nei confronti dei filosofi provo un’impressione del tutto uguale a quella che provo nei confronti di quelli che balbettano e giocano».75 Il balbettio dei filosofi è quel tentennare e quel dubitare di ogni cosa che rischia di paralizzare ogni autentica decisione, il gioco è invece l’incapacità di esaminare con la dovuta serietà la concretezza, perdendosi invece nella fumosità eterea del ragionamento.
Quando è un adulto a dedicarsi ancora alla filosofia è perché non è riuscito a gettarsi nell’attività politica, l’unica che si conviene a un uomo libero, ma quando è un anziano, come Socrate, a proseguire filosofando, allora, tuona il retore, «costui ha bisogno di botte».76 E ne ha bisogno, evinciamo dal testo, perché costui ha asservito la propria nobile natura a una causa ingiusta, perché ha mortificato il fervore che nella gioventù proprio la filosofia gli aveva acceso nell’autoreferenzialità inutile del ragionamento. Il sottrarsi iniziale all’attività politica diverrà ben presto timore della vita pubblica e la conoscenza del giusto e dell’ingiusto secondo ragionamento diverrà ignoranza dei meccanismi della politica concreta. Per tali ragioni, infine, il filosofo che oltremisura ha filosofato si ridurrà «a vivere il resto della sua vita nascosto in un angolo bisbigliando con tre o quattro ragazzi, senza mai sapere dire una parola degna di uomo libero, grande e adeguata».77
L’emarginazione politica, però, è soltanto il preludio a ciò che potrebbe divenire una vera e propria cancellazione sociale del filosofo. Se egli si trovasse a essere vittima di un’accusa ingiusta non troverebbe argomenti persuasivi per perorare la propria causa e se fosse ingiustamente condannato a morte non saprebbe come salvare se stesso.78 Nella prima grande arringa di Callicle contro Socrate, e quindi contro il modo della filosofia che egli propugna, compare l’accenno al tema che concluderà il Gorgia, quello della salvezza dell’anima.79 La filosofia è un’arte che rende peggiore un uomo di buona natura, un’arte che avvilisce e mortifica la potenza della natura umana, tutta intrisa, secondo il retore, di volontà di potenza e di piacere. Non solo. La filosofia è altresì un’arte che se coltivata oltremisura intorpidisce il fervore dell’anima indebolendola. Ma l’anima cui fa riferimento Callicle non è la stessa dell’epica omerica, né quella di cui Eraclito ne definisce l’essenza come insondabile e profonda.80
Proprio per tali ragioni è estremamente difficile poter interpretare la replica di Socrate come un capovolgimento dell’etica dei padri. Nel costante richiamarsi a valori su cui ognuno non può che assentire, riconoscendoli come propri, Socrate intende richiamarsi alla morale antica; e ampliando lo spettro d’azione di tali valori, il dialettico intende individuare le lacune che in quella morale comparivano, riempiendole della fermezza di un ragionamento e quindi sottraendole all’instabilità di un sentimento.
8. La ricchezza di Socrate e lo spettro del moralismo
Socrate elogia la franchezza, l’audacia e la sapienza di Callicle nell’aver pronunciato una lunga arringa sulla superiorità della legge di natura su qualsiasi legge positiva. Trovandosi dinnanzi a un così tenace interlocutore egli dichiara di essersi imbattuto in un fortunato destino, aggiungendo, però e in modo ironico, che la verità sulle questioni sollevate nel corso dell’intero dialogo non potrà che consistere nell’incontro tra le sue posizioni e quelle del retore. Socrate passa, dunque, a interrogare Callicle.
Con grande astuzia sostituisce al termine potente, con il quale Callicle aveva indicato il migliore per natura, quello di forte, tentando di invischiare il retore nell’affermare che i più forti, sia qualitativamente sia quantitativamente, meritano anche maggiori vantaggi. Al concitato interrogare socratico, Callicle si limita a rispondere brevemente, finché impazientemente sbotta: «Quest’uomo non la finirà mai con le sue scempiaggini».81 Ma Socrate non molla la presa e, stanco delle vane parole pronunciate sino a quel momento sulla natura dei migliori, desidera piuttosto ricevere, con il dovuto rispetto che si deve a un sapiente,82 delle dimostrazioni concrete che possano supportare le sue affermazioni.83 Callicle, quindi, passa a definire i migliori come i più intelligenti, ritenendo che a costoro non soltanto spetterebbe il dominio politico sugli altri uomini, ma altresì il possesso delle cose migliori.84 Con un atteggiamento che, a questo punto, non può più esser definito ironico ma semplicemente sarcastico, Socrate ridicolizza la teoria politica del suo avversario, domandando a Callicle se ai migliori spetterebbero le migliori scarpe o i migliori vestiti o i cibi più prelibati. Dinnanzi alla sequela inarrestabile degli esempi socratici Callicle perde la pazienza, chiarendo quasi con rabbia la serietà della sua teoria politica e antropologica: «[…], per più potenti io non intendo né i calzolai, né i cuochi, ma coloro che sono intelligenti negli affari che riguardano la città, ossia coloro che meglio sanno in quale modo possa essere amministrata […], ma che sono anche coraggiosi, cioè capaci di realizzare ciò che pensano, e che non desistono per debolezza d’animo […] . A costoro — aggiunge il retore — spetta dominare le città».85
Callicle adesso è davvero inequivocabile. La sua cruda e spietata teoria antropologica sostenta una concezione politica che preclude ogni possibilità di un ordinamento democratico, ovvero proprio quello che il dialettico sostiene.
La via che Socrate percorrerà da questo momento del dialogo sino al suo compimento rivelerà come al fondo di ogni conoscenza politica debba esserci sempre una conoscenza filosofica della realtà, come al fondo di ogni azione debba potersi rintracciare la trasparenza del dovere su cui quest’azione è modellata, come la scaturigine di ogni deliberazione debba essere la ponderata e misurata valutazione razionale delle sue conseguenze. Ribadiamo, dunque, che ancora una volta Socrate non intende primariamente operare un rivolgimento della morale della sua amata città; piuttosto è la forza del ragionamento e la fondatezza di una rigida logica che egli intende consegnare a quel sistema di valori. E non è un caso che nell’introdurre il tema del dominio di sé — questione che per alcuni significherebbe lo spostamento da una morale normativa a un’etica della singolarità anticipatrice della mentalità cristiana — Socrate faccia appello alla comune comprensione di questa espressione.
Il sapiente Socrate domanda, quindi, a Callicle se i migliori abbiano oltre al dominio sugli altri uomini anche dominio su se stessi, chiarendo come con questa espressione egli non intenda nulla di complicato, ma si riferisca a quel dominio di sé come tutti lo intendono. Ecco, sono proprio tutti gli appartenenti alla comunità cui Socrate sta parlando a riconoscere la condivisibilità del valore del dominio di sé, che altro non è se non la temperanza. Tutti, dunque, eccetto l’anarchico Callicle, riconoscono che la temperanza è un valore, tutti sono concordi nel ritenere che bisogna frenare se stessi dall’impeto delle passioni e dei desideri, che bisogna sempre ricercare la giusta misura in ogni cosa, che bisogna frenare quella ricerca infinita, e del piacere e del sapere, che nel suo interminabile procedere non potrebbe che condurre a un mettersi sulle tracce di un illogico infinito. Tutti sono concordi, ma non tutti ne conoscono il perché.
Socrate allora si accinge a spiegare alla sua comunità le ragioni per cui è necessario riconoscere giusto quel valore. E lo spiega attraverso l’uso di immagini e di metafore, ma soprattutto attraverso l’efficacia del ragionamento.
Non c’è traccia della dialettica nel discorso del sapiente Socrate, se non a patto di credere che la dialettica possa essere il rigido procedimento logico attraverso il quale tesi e antitesi si compongono per giungere al risultato di una sintesi. Non c’è dialogo nelle pagine che seguono, se non a patto di intendere il dialogo come solitario autologo.86
Socrate è riconosciuto unanimemente come fautore di un intellettualismo estremo. Ma al fondo di ogni intellettualismo si nasconde la radice del moralismo poiché credere che la scelta morale dipenda esclusivamente dalla perentorietà oggettiva del ragionamento, che pur la sostiene, significa privare il soggetto morale dell’elemento che ne contraddistingue l’essenza: la volontà e il desiderio di compiere un’azione ritenuta giusta, e di compierla anche laddove essa appaia come una follia per il pensiero dei più.
Al fondo del pensiero di Socrate non si cela affatto la costituzione di uno stato etico, che ancora sarebbe lontano dal moralismo di cui il pensatore è fautore. Per il Socrate del Gorgia non è il politico a dover essere primariamente etico, ma è l’etico a dover prendere il posto di ogni politico, guidando non già la comunità, ma ogni singolo nella persuasione alla virtù. E forse potrebbe essere questa una possibile chiave di lettura per comprendere quella straordinaria affermazione socratica, unica nell’intero corpus platonico, «io credo di essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo tra i contemporanei che la eserciti».87
Il Gorgia, perciò, non si conclude con l’invito socratico a migliorare la costituzione di Atene, a modificarne le leggi, o ancora a formare quei cittadini che meglio di altri possano amministrare la città. Il forte accento politico che Socrate aveva impresso alle sue parole scompare, infatti, interamente nelle battute finali del dialogo.
Socrate è, in un certo senso, superiore a ogni politico perché fondatore logico della morale ma, in un altro senso, egli è inferiore al politico che Platone avrebbe immaginato dovesse guidare lo stato migliore. Costui non avrebbe dovuto essere né ignorante né intemperante, ma nemmeno sapiente soltanto della verità: «i primi non hanno alcun ideale al quale conformare le loro azioni nella vita pubblica e privata, gli altri non si adatteranno giammai volentieri a fare qualche cosa ritenendo di essere emigrati, ancora vivi, nelle isole dei beati».88
Il Socrate del Gorgia aspira a vivere soltanto nelle isole dei beati, dubitando finanche che la vita che viviamo sia forse morte rispetto alla vera vita di lassù.
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Per una panoramica ampia, e pressoché esaustiva, sulla questione M. Montuori, Socrate. Fisiologia di un mito, op. cit., che ripercorre nel dettaglio la vicenda delle fonti socratiche a cavallo tra storia e mito. Alla complessità della multiprospettica visione del Socrate storico, ricavabile attraverso le fonti, si aggiunge la questione della agrafia socratica, motivo per cui l’accesso al pensiero del filosofo ateniese è sempre e comunque il risultato di una interpretazione. L’avere, poi, individuato in Socrate il filosofo per eccellenza, in quanto fondatore di un metodo critico che caratterizza, di per se stesso, la filosofia, fautore per primo di un pensiero che ponga la questione dell’agire come nucleo tematico essenziale, fa della questione socratica uno dei nodi della massima importanza per la storia del pensiero occidentale. ↩︎
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Le fonti antiche attraverso le quali ricostruire la figura di Socrate sono, in ordine cronologico: Aristofane, Platone, Senofonte, i Socratici minori e Aristotele. ↩︎
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Labirintico appare il sentiero della bibliografia socratica. L’elenco a oggi, in lingua italiana, più esaustivo sulla bibliografia socratica, è presente in F. Adorno, Introduzione a Socrate, Laterza, Bari 1970 (I ed.; da noi cit. qui di seguito nella VII ed.), ma anche M. Montuori, Socrate. Fisiologia di un mito, op. cit. ↩︎
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Ritenere l’Apologia l’unico tra i dialoghi platonici in cui sia stata messa in scena la verosimile difesa che Socrate fece di se stesso dinnanzi ai suoi accusatori, e dunque considerarla come un documento storico, è una questione che attraversa la storia della bibliografia socratica. Per un esame dettagliato della questione confronta, tra gli altri, T. Gomperz, Pensatori greci, op. cit.; Wilamowitz-Möllendorff, Platon, vol. I, Sein Leben und seine Werke, Weidmann, Berlin 1919; H. Maier, Socrate la sua opera e il suo posto nella storia, op. cit.; M. Croiset, Œuvres Complètes, vol. I, Les Belles Lettres, Paris 1920; ma soprattutto O. Gigon che, in Sokrates Sein Bild in Dichtung und Geschichte, Bern-München 1947, giunge ad un radicale scetticismo circa la conoscibilità del pensiero socratico, ritenendo che tutto quanto sappiamo di Socrate sia l’accusa, il processo e la condanna a morte, ovvero i fatti contenuti nell’Apologia. ↩︎
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Per una rivalutazione della fonte senofontea si veda il recente, G. Mazzara, M. Narcy, L. Rossetti, Il Socrate dei dialoghi, op. cit. ↩︎
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F. Sarri, in Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997, ritiene che «quello di Platone e di Senofonte […] è un Socrate visto dall’alto, ossia dai suoi discepoli, da coloro che l’amavano e lo stimavano», p. 155. ↩︎
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L’interesse socratico per le questioni fisiche è uno degli elementi che tende a scomparire sia nei dialoghi platonici, sia negli scritti senofontei; in entrambi i casi, infatti, il legame con l’eleatismo è presentato esclusivamente come notizia che, dicendo la provenienza formativa di Socrate, mostra la presa di distanza rispetto ad esso, e rivela contemporaneamente, l’inaudita attenzione per la problematica etica e antropologica. Il tono sofistico, invece, dei discorsi di Socrate è presente Nuvole, assente nei Memorabilia senofontei — ma in questi ultimi è assente anche la celeberrima criticità socratica! — ma richiamato spessissimo da Platone, come ciò rispetto a cui il metodo socratico si definisce. L’unico caso in cui il metodo si sovrappone alla fondazione di una morale razionale, appare proprio nel dialogo che esamineremo qui di seguito. ↩︎
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È questo il caso di Reale il quale, da un lato, dichiara, l’essenzialità della fonte Aristofane per la ricostruzione del Socrate storico, e dall’altro finisce per non citarla mai nella sezione dedicata alla sua biografia e della sua dottrina. ↩︎
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F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e pensiero, Milano 1997, pp. 153-171. L’interpretazione di Sarri sul contenuto di verità storica del Socrate presentato nelle Nuvole è scientificamente discutibile. Il giudizio di Aristofane è, infatti, sommariamente respinto adducendo le seguenti ragioni: il comico nella sua invettiva non farebbe altro che ingigantire i pregiudizi che l’incolta massa popolare di Atene nutriva rispetto a Socrate; è probabile, inoltre, che lo stesso commediografo, per la sua intelligenza, non credesse nemmeno fino in fondo al giudizio che formulò attraverso l’invettiva sarcastica; lo pronunciò, piuttosto, solo per compiacere il suo pubblico. A nostro parere l’argomentazione di Sarri culmina con un’affermazione spiazzante: «quello di Aristofane, portatore del pregiudizio popolare, è un Socrate visto dal basso, ossia osservato da coloro che non nutrivano stima per lui, da coloro che non lo conoscevano intimamente; quello di Platone e di Senofonte, al contrario, è un Socrate visto dall’alto, ossia dai suoi discepoli, da coloro che l’amavano e lo stimavano». p. 155. ↩︎
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L’argomento rimanda alla pregnanza, in taluni casi evidentissima, del senso comune, e contemporaneamente contesta quel residuo di snobismo intellettuale che muove a volte gli interpreti. Ritenere, infatti, che la massa non sia in grado di comprendere l’operato della cosiddetta intellighenzia è troppo spesso un pregiudizio formulato dall’alto. Nel caso, poi, della vita e del pensiero di Socrate tale pregiudizio è massimamente inappropriato, dal momento che egli continuamente ricorre, durante l’èlenchos, alla dòxa, ossia alla comune opinione, nel tentativo di motivarla e fondarla razionalmente. Di natura differente appare il giudizio che del popolo ateniese formula Hegel [cfr. G. W. F. Hegel, Vita di Gesù, a cura di A. Negri, Laterza, Bari 1980]. Il filosofo di Jena stabilisce una delle differenze essenziali tra il messaggio di Socrate e quello di Cristo, proprio attraverso la distinzione dell’uditorio cui rivolsero rispettivamente i loro messaggi; se Socrate, infatti, ebbe in sorte la fortuna di parlare da libero dinnanzi ad uomini liberi, trovandosi dinnanzi un popolo maturo e formato, e riuscendo, per questo motivo, a esprimere il suo pensiero attraverso le formule della pura ragione; Cristo, al contrario, dovette conformare il suo messaggio alle grette menti dei farisei, abituati a pensare solo per precetti e rituali. Il giudizio hegeliano — rivalutando quel popolo dell’Atene del V secolo, che mandò a morte Socrate e per questo passò alla storia come filosoficida — può condurre ad una rivalutazione delle Nuvole, che sembrerà sempre meno una geniale re-interpretazione del pregiudizio popolare, e piuttosto si mostrerà come uno dei punti di vista della città di Atene sull’operato di Socrate. ↩︎
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In realtà il saggio mostrerà che la lettura del Socrate di Platone non sia totalmente riconducibile ad una prospettiva dall’alto. La presentazione platonica del personaggio Socrate si risolve nell’oscillazione tra due direzioni opposte ma complementari: da una parte l’assunzione dei caratteri bassi di Socrate, il suo delirio, il suo procedere sofisticamente, la sua dottrina, dall’altra l’assunzione degli attributi alti, la sua ispirazione divina, il procedere dialetticamente, la sua dotta ignoranza. ↩︎
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Cfr. H.-G. Gadamer, Studi Platonici, op. cit. Per una rivisitazione in chiave ermeneutica del pensiero socratico inoltre cfr. F. Filippi, Socrate nell’età dell’ermeneutica. Rilettura del pensiero socratico alla luce dell’ontologia ermeneutica di H.-G. Gadamer, op. cit. Nel dettaglio enucleare i motivi dell’ermeneutica. ↩︎
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Sulle differenti interpretazioni del sapere dell’oracolo cfr. M. Montuori, op. cit., pp. 109-154. ↩︎
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F. Nietzsche, Il Crepuscolo degli idoli. Ovvero come fare filosofia col martello, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 1970. ↩︎
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Le Nuvole vennero rappresentate per la prima volta nel 423. L’opera che, però, possediamo costituisce una seconda versione rispetto a quella messa in scena. Aristofane fu estremamente rammaricato di essersi posizionato al terzo posto nella gara, convinto, com’era, di aver scritto la sua migliore commedia, e fu proprio per tale ragione che mise mano nuovamente all’opera. È, comunque, opinione diffusa ritenere non sostanziali le modifiche rispetto al testo del 423. ↩︎
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Tali elementi, caratteristiche effettive del personaggio Socrate nella commedia, non costituiscono i bersagli dell’invettiva satirica; piuttosto, essi si danno come veri e propri rimandi a un reale interesse giovanile per la cosmologia e per la fisica, e all’intrattenimento di quei cordiali rapporti che Socrate instaurò con i sofisti. L’aristocratico Aristofane, paladino dell’antica paidéia formatrice degli eroi di Maratona, non poteva che attaccare il metodo e lo stesso contenuto dell’insegnamento socratico — ben distinto nella stessa commedia e da quello dei fisici, e da quello dei sofisti —, mettendo alla berlina sia la democratizzazione del sapere sia la presentazione di esso come l’unico modo possibile di salvarsi la pelle. Insomma la metafisica cura dell’anima, tanto cara al Socrate dei dialoghi platonici, è qui presentata in forma esattamente rovesciata; ma all’interno di tale rovesciamento è possibile ravvisare un che di comune: entrambe le interpretazioni del messaggio socratico tendono a sottolineare come quella indicata dal maestro Socrate sia l’unica possibile via per la salvezza. ↩︎
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Cfr. G. Vlastos, Socrate. Il filosofo dell’ironia complessa, op. cit., pp. 59-106. La posizione di Vlastos è quella che meglio rappresenta la tendenza alla schematizzazione. L’interprete statunitense, infatti, si dice certo di potere schematizzare in dieci punti la differenza tra Socrate e Platone. Per una critica alla semplificazione operata dallo schema di Vlastos, rimandiamo a G. Figal, Socrate, Il Mulino, Bologna 2002. ↩︎
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Cfr. infra n. 56. ↩︎
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La questione è, appunto, capire se è l’eccezionalità del discorso morale a modificare la struttura del metodo dialettico-confutatorio, o se piuttosto è l’irrigidimento del metodo a modificare la morale. Ora, sebbene dirimere una tale questione è certamente a di là delle prerogative di questo lavoro, non possiamo sottrarci all’impellenza di una simile domanda e perciò, pur senza pretendere di risolverla, proveremo a far ruotare intorno a essa l’intero discorso di Socrate nel Gorgia. ↩︎
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La contrapposizione tra retorica e dialettica compare in molti dei dialoghi platonici, quasi ad evidenziare la necessità di dovere marcare di volta in volta la distanza tra i due metodi. Ora, se da un lato, la caratterizzazione della retorica è pressoché eguale nei luoghi platonici, non è, dall’altro, identica la reazione di Socrate dinnanzi ai retori o alla retorica. Nei primissimi dialoghi lo scontro tra retori e dialettici si polarizza intorno al binomio éros/ophelía, binomio che pone da una parte l’utile della retorica — che può delinearsi come pubblico e politico, ma anche semplicemente come vantaggio personale —, e dall’altro il carattere erotico della ricerca socratica. Quando nel Teagete Socrate dichiara d’essere per nulla esperto delle beate e belle scienze di cui sono maestri Gorgia e Polo, tranne che in qualcosa d’amore, di cui, anzi, si ritiene il più esperto (deinós) [Teag., 128b], se formalmente dichiara l’insipienza del suo sapere retorico, dall’altro, e dunque nei fatti, affermando l’altissimo grado della sua sapienza nelle questioni d’amore, svela un volto di sé che si confarebbe piuttosto ai retori e ai sofisti, ovvero il dichiararsi sapiente non delle cose divine ma di quelle umane. Nel Filebo, nel rispondere a Protarco, il quale, richiamandosi alla posizione di Gorgia, riteneva che nessun’altra scienza superasse la retorica, poiché essa possedeva una potenza in grado di far conseguire agli uomini la maggiore utilità [Fil., 58c2-6], Socrate rivendica a sé e alla scienza in cui egli è deinós la vera utilità, poiché la dialettica lungi dal conformarsi agli individualistici diletti dell’uomo, mira all’utile comune del sapere. La potenza, con cui, inoltre, il Fenarete caratterizza la dialettica è contrassegnata da una eroticità che si snoda tra i poli della tensione e dell’aggancio allo alethés [Fil., 58d4-5]; se essa, però, da un lato, genera un tendere interrogante, dall’altro richiede pur sempre un approdare senza il quale si ridurrebbe a un semplice gioco linguistico o a una falsa tensione. Sintomatico è ancora l’esordio del Menone, in cui Socrate dice di Gorgia che «giunto in quella città (Larissa) e appassionato della sapienza, riuscì a catturare i migliori della casa Aleuada» [Men., 70b2-3]. È certamente innegabile che la proposizione socratica si muova sul filo dell’ironia. E però, come ha puntualmente segnalato la Novel Pieri, tutta la proposizione è non soltanto ironica, ma altresì ambigua [S. Nonvel Pieri, Gorgia, op. cit., p. 8]. Ora un attacco ironico si condensa essenzialmente nell’attribuire un carattere che in realtà s’intende negare [Socrate definisce ironicamente Gorgia l’erastés, mentre in realtà è lui l’unico degno di un tale attributo]; affinché però il rovesciamento ironico risulti evidentissimo, è necessario che l’attributo che s’intende negare sia limpido. Ovvero: io posso dire di Socrate che egli fu il peggior educatore del suo tempo, intendo invece sostenere che egli fu il migliore. Nel caso dell’esordio del Menone, invece, ogni singolo elemento della proposizione rivela una tale ambiguità, o doppiezza, da costringere l’interprete a domandarsi: qual è davvero l’accusa che Socrate muove a Gorgia? Egli attacca ironicamente un retore ammaliato dalla sapienza o innamorato di essa? E dunque Socrate stesso è ammaliato dalla sapienza o innamorato di essa? Dall’epilogo del dialogo possiamo ottenere una soluzione al nostro enigma. La soluzione è che Socrate non rivendica per sé solo l’eroticità, nel senso che non ritiene la dialettica l’unico modo del procedere contraddistinto da una tensione al sapere; semmai è il reale conseguimento dell’utile a marcare la differenza tra retori e dialettici. Mentre, infatti, il conseguimento di una qualche reale ophelía manca interamente agli erastái retori, esso caratterizza invece i dialettici. Menone, alla fine del dialogo non riuscirà davvero a persuadere Anito, ovvero pur vincendo la gara non lo convincerà, e dunque non agirà su di lui in modo da far fruttare il discorso in cui egli è bensì maestro [quanto è simile, a ruoli rovesciati, l’esito del Menone a quello del Gorgia!]. Un’ultima nota merita, infine, il riferimento mitico-poetico a Gorgia pronunciato da Socrate nel Simposio. Dopo aver ascoltato l’elegante e solenne encomio di Agatone, al fianco del quale Socrate siede trepidante dal principio del convito, il dialettico confessa di esser tentato di «fuggire per la vergogna»; il discorso di Agatone non solo gli ha richiamato alla mente Gorgia, ma lo ha scaraventato in quella stessa situazione che descrive poeticamente Omero: «ho avuto paura che alla fine del suo discorso Agatone lanciasse contro il mio la testa di Gorgia, di quel formidabile oratore, e m’impietrisse, togliendomi la voce» [Simp., 198c1-5]. Così come le Gorgoni, terribili Erinni degli inferi, avevano il potere di far diventare pietra coloro che vedevano, allo stesso modo Gorgia, secondo l’ironico Socrate, potrebbe far divenire pietra non tanto lui quanto il suo discorso. Ora, è evidente che il pietrificare un discorso sull’éros significa svuotarlo della tensione che lo contraddistingue. Ma in che modo si toglie la tensione a un lógos sull’éros? E in che modo, per converso, Socrate riuscirà a mantenerla intatta? Evidentemente non tessendone l’elogio, così come ha fatto l’elegante Agatone, ma dicendo su éros la verità, ovvero agganciando la spinta di éros all’approdo dello alethés senza il quale esso resterebbe un esercizio linguistico tutto ornato di figure retoriche. Il discorso di Socrate sull’éros, insomma, aggancerà il légein a quell’utile vero, che è fissazione di un risultato valido oltre l’empiricità dei prágmata in cui Gorgia e Agatone sono esperti [ivi, 198d3-4]. L’inferno delle Gorgoni richiamato da Socrate, poi, non è semplicemente un gioco linguistico creato da Platone, ma ancora di più esso è rivelativo di un destino cui i retori sono sospinti: è sempre in gioco [anche qui nel Simposio i cui toni sono lontani dalla gravità di quelli del Gorgia] la salvezza dell’uomo che fugge un utile apparente e che invece sa, perché conosce, agganciare la tensione della ricerca all’approdo di un alethés che è meta del discorso e insieme destinazione dell’anima. Lungi dal poter essere ridotta la contrapposizione tra retorica e dialettica al binomio éros/ophelía, essa, insomma, si sostanzia a partire da una declinazione di volta in volta sempre più complessa di éros e da una caratterizzazione della ophelía intesa come crescita integrale, e dunque sostanziale, dell’uomo. E non è ancora un caso che proprio alla fine di una tale ammissione Socrate dica: «non posso più farne l’encomio a questa maniera: non ne avrei la forza. La verità, invece, se volete sono disposto a dirvela, ma a mio modo, e non in gara con i vostri discorsi, per non far ridere a mio svantaggio» [ivi, 199a], dove svantaggio è ophéilo, dal verbo ophliskáno, devo, sono debitore, che ha in comune con l’epico ophéllo, accresco, aumento, rinvigorisco, la medesima radice, e che indica, proprio in virtù di una simile assonanza, il rimando socratico a un vantaggio che deve pur sempre venire dai discorsi. Nella sua monumentale etimologia, Platone dice di ophélimon che è un nome straniero [ophélimonè insieme a sophía e algedón uno dei soli tre nomi del Cratilo ad essere indicato come straniero], di cui fa uso Omero [non è un caso che venga proprio in questo caso richiamato il poeta], e che indica, nella sua derivazione da ophéllein, lo áuxein e il prássein, ovvero il divenire grande e l’agire [cfr. Crat., 417c]. Si può certamente agire in modo da accrescere la propria fama [questo è il senso principale dello ophéllein e dello áuxein che ben si addice ai retori e a Gorgia], ma si può altresì agire in modo da divenire grandi, e dunque in modo tale da accrescere e svolgere nella sua interezza l’uomo interiore. ↩︎
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È proprio necessario smascherare il sapere socratico, poiché è lo stesso Socrate a mascherarsi. Lo smascheramento mira a svelare un’intenzione sotterranea, che è tanto più occulta quanto più l’ironia la fa da padrona. La doppiezza, implicita nel mascheramento, non riguarda tuttavia esclusivamente Socrate, ma è un’arma che il dialettico usa contro i suoi stessi interlocutori. Il gioco del mascherarsi, come è stato suggestivamente messo in luce da Hadot, è però simultaneamente gioco dello sdoppiarsi e dello sdoppiare l’interlocutore: «Socrate si sdoppia» — fingendo di non sapere — ma sdoppia anche il suo interlocutore, tagliandolo a metà. «Nel suo fingere di non sapere, infatti, Socrate pretende l’assoluto e incondizionato consenso delle sue affermazioni. Alla fine del discorso un generale interrogato sul suo mestiere non saprà più in cosa consista, e dovrà di necessità convenire con Socrate». E se il mascheramento socratico lascia apparire in prima istanza ciò che non è vero, il mascheramento dei suoi interlocutori dice, al contrario, ciò in cui essi credono davvero, e che alla fine del dialogo dovranno logicamente abbandonare. Cfr. P. Hadot, Elogio di Socrate, op. cit., p. 45. ↩︎
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Gorg., 449a-466a. ↩︎
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Ivi, 466a-481b. ↩︎
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Cfr. ivi 449b. ↩︎
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Ivi, 449d-e; 453c-d. ↩︎
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Arrivati Socrate e Cherefonte a epidissi conclusa, Callicle invita i due a recarsi in casa sua, dove Gorgia è ospite, qualora vorranno sentire una lezione del retore [cfr. Gorg., 447b]. Da questa affermazione si è ritenuto di potere collocare la scena del dialogo in casa di Callicle. La Canto mette in evidenza come non soltanto il tono mostrato da Callicle sia prova del suo statuto di ospite [cfr. Gorg., 485c-d], ma che la stessa finale estromissione dal dialogo del padrone di casa suggerisca una presenza di Callicle che appare tanto paradossale quanto minacciosa [cfr. M. Canto (tr. et édite par), Gorgias, Flammarion, Paris 1987, p. 47]. Reale, pur evidenziando che l’accenno di 447b 8-9 «potrebbe far pensare che il dialogo sia immaginato a casa di Callicle», ritiene tuttavia che «ciò che segue [nel corso del dialogo] non autorizza questa conclusione». L’accenno rivelerebbe, invece, secondo lo studioso, l’affinità e la vicinanza personale e ideologica tra Callicle e Gorgia [G. Reale (tr. it. e a cura di), Gorgia, p. 313]. Per Reale quindi il luogo è indeterminato. Indeterminato è il luogo anche secondo la Nonvel Pieri, la quale sottolinea come tutti gli elementi iniziali rimanderebbero ad un interno. D’altra parte era proprio dei sofisti svolgere le proprie lezioni in case private, contrariamente all’abituale muoversi all’aperto proprio di Socrate. E però l’interno, cui Platone rimanderebbe attraverso l’uso reiterato del termine éndon, non sarebbe, a parere della commentatrice, «né piazza, né casa», quanto piuttosto, e con molta probabilità, «interno negli argomenti» [S. Nonvel Pieri, Gorgia, op. cit., p. 28]. Interno equivarrebbe, dunque, a interiorità, a quel luogo metafisico in cui si gioca la partita fondamentale del Gorgia. Il luogo del dialogo potrebbe, allora, non essere fisico, ma metaforico, cosi come, ad esempio, è senz’altro metaforico il luogo in cui il Socrate di Aristofane passa per lo più il suo tempo: una cesta sospesa a mezz’aria [Nuvole, 217 ss.]. L’atopía di Socrate, insomma, oltre a costituire un carattere della sua ambigua e bizzarra personalità, potrebbe anche indicare quel porsi fuori dai luoghi abituali della politica e della pubblica discussione, e si trasformerebbe, perciò, a conclusione del dialogo, in una utopia, insieme non-luogo [se si lascia derivare il termine da óu-topos] della politica e bel-luogo [se invece lo facciamo discendere da éu-topos] dell’anima. ↩︎
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Quello del Gorgia non è l’unico caso in cui Socrate è áchronos. Al principio del Simposio [174d-175e], dopo aver invitato Aristotedemo a seguirlo a cena da Agatone, Socrate resta indietro lungo la strada, assorto in una intensa meditazione. Gli schiavi che lo avevano veduto dicevano che stava davanti l’uscio di una casa immobile e assorto. Allo stupore di Agatone, «strano davvero» [Simp., 175a 9-10], ribatte però Aristodemo richiamando la natura abituale di una simile atopía, («appartiene al suo costume»), [175b 1-2]. L’essere áchronos del Simposio è, dunque, per i convitati alla cena segno di atipicità, ma per i discepoli caratteristica peculiare e dunque abituale, come rivela l’uso del termine éthos, di Socrate. Tanto è abituale che nel Gorgia il personaggio di Socrate può anche scherzare sull’argomento rimettendo al fedele Cherefonte la responsabilità di questo ritardo. Ora, l’essere áchronos di Socrate può essere interpretato anzitutto, e giustamente, come il segno dell’appartenenza a una pratica di vita e di verità che non segue i tempi abituali della comunità, ovvero quell’essere da un lato latore del dio, il cui tempo si misura in modo diverso da quello umano, e dall’altro portavoce della filosofia, che in un sempre fuori dal tempo dice le stesse cose [Gorg., 481e]; in questo senso, quindi, l’acronia indicherebbe il modo «intrinseco alla filosofia» che consiste nel «non interrompere la catena di discorsi in atto per discrezione temporale o d’altro genere» [S. Nonvel Pieri, Gorgia, op. cit., p. 3]. Reale, nel suo commento al testo, interpreta invece il ritardo di Socrate come una trovata drammaturgica di Platone volta a rivelare, attraverso l’uso di un modo proverbiale, un’intenzione ironica. Che Socrate arrivi a battaglia finita significa in realtà che la vera battaglia comincia proprio nell’istante in cui il filosofo entra in scena [cfr. G. Reale (tr. it. e a cura di), Gorgia, p. 313]. Della stessa opinione è la Canto, traduttrice di un’inedita versione francese del Gorgia, la quale però aggiunge che l’essere áchronos può anche significare l’essere liberi dal tempo, ovvero non essere imbrigliati nella contingenza del kairós che se, da un lato, richiede l’impellenza della decisione, e quindi anche la fretta, dall’altro vincola ogni decisione alla simultaneità dell’istante rendendola certamente appropriata ma pur sempre contingente. A tal proposito è interessante notare che, se letta seguendo le suggestioni della Canto, l’a-cronia di Socrate nel Gorgia tiene il passo a quella dell’omonimo personaggio nel Protagora, in cui Socrate invita l’irruente Ippocrate al non avere fretta [euthýs], rimandando il principio della discussione al giorno che sta per sorgere, e dilatando, perciò, il tempo della decisione a un non ancora [mépo] che richiede meditazione e riflessione [cfr., infra cap. I, 1.3, Il Socrate educatore]. Proprio perché sganciato dalla contingenza delle opportunità, il tempo dell’intrattenimento dialettico, che mira nel Gorgia a fondare su solide basi un sapere la cui azione sembrerebbe orientata alla salvezza eterna più che alla decisione etico-politica e quindi contrariamente al tempo sofistico o retorico volto al conseguimento di un risultato immediato, «dipende invece spesso dalla libertà dei tempi, e dunque dalla possibilità di disporre di una durata che non sia misurata» [M. Canto (tr. et edite par), Gorgias, op. cit., p. 48]. A tali interpretazioni possiamo aggiungere una ulteriore chiave di lettura. Se l’essere áchronos di Socrate significa, in un certo senso, disporre di un tempo libero per il pensiero, e in un altro, dilatare quei tempi che erano consentiti a una normale discussione o un saggio del sapere, esso può d’altro canto anche indicare l’essere fuori tempo, ovvero estraneo al proprio tempo. Quest’ultima indicazione parrebbe corroborare la tesi di quei tanti che vedono nel Socrate del Gorgia colui che propugna una morale non conforme al proprio tempo e dunque sovversiva rispetto a esso. Ma un filosofo, e più in generale un uomo, si dice estraneo al proprio tempo in due fondamentali significati: è estraneo al proprio tempo sia colui che rimanda a una dimensione di ulteriorità futura, sia chi rintraccia, al contrario, nel passato il proprio tempo. Ovvero dei conservatori e degli utopisti si può dire, a buon diritto, che siano estranei al loro tempo. Che Socrate sia estraneo al suo tempo è un fatto indubbio, dubbia è semmai la determinazione del modo in cui egli è áchronos . ↩︎
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Gorg., 447a 1-5. Il divertissement di Callicle nella partecipazione al dialogo è significativo non solo in se stesso, ovvero per la comprensione del personaggio, ma in riferimento all’atteggiamento di Socrate che, al contrario, appare contraddistinto da una certa atipica gravità. Torneremo più avanti su questo tema, laddove mostreremo la peculiare struttura dell’ironia socratica nel Gorgia, un’ironia che difficilmente può essere interpretata come severe ludens. ↩︎
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Ivi, 447b 1-5 ↩︎
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Ibidem. L’invito di Socrate a non pronunciare lunghi discorsi non è affatto in contrasto con l’ipotesi sopra accennata secondo la quale la dialettica richiede tempi lunghi. Il nostro filosofo, in effetti, non sprona i convenuti a prendere velocemente posizione sui temi che si dovranno discutere, ma li invita piuttosto a non prendersi troppo tempo per l’esposizione dei loro punti di vista. Non è dunque la durata della discussione a essere limitata, ma lo sono, piuttosto, le singole argomentazioni della discussione stessa. La fondazione del sapere di Socrate, ovvero il momento conclusivo e dimostrativo del metodo dialettico, richiede infine il tempo più lungo, ovvero, rispetto alla brevità dei tempi richiesti, essa è sganciata da tali vincoli e tutta proiettata verso quel tempo non cronologico in cui ne va della salvezza delle anime. ↩︎
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Ibidem. È tra l’altro interessante notare come Gorgia non vanti affatto la propria sapienza, rispetto a quello che di lui si potrebbe credere; al contrario l’elegante retore lamenta l’insufficienza altrui nel porre delle domande nuove. ↩︎
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È estremamente significativo che il Gorgia, come già il Protagora, si apra con la domanda «chi sei?» — per altro suggerita in modo decisamente artificioso da Socrate a Cherefonte. E tuttavia, mentre nel Protagora la risposta alla questione darà luogo a un aporia, nel nostro dialogo si perverrà a un dato certo. ↩︎
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Tra le due determinazioni della retorica esiste, indubbiamente, una gerarchia che trova la sua ragion d’essere nella concezione politica che Socrate pronuncerà alla fine del dialogo. Se infatti il primo risultato del dialogo e, dunque, il primo domandare socratico verterà sullo statuto interno della retorica, il secondo momento dell’interrogazione avrà come tema privilegiato l’effetto socio-educativo dell’insegnamento retorico. Quasi a voler dire che l’effettualità di una disciplina è automaticamente causata dalla sua stessa costituzione ontologica. ↩︎
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È impossibile definire la retorica nella sua essenza attraverso determinazioni qualitative; in questo senso quanto più il domandare socratico mira all’essenziale, tanto più i suoi interlocutori fraintendono o, più esplicitamente, glissano le sue domande. Polo si limita a qualificare la retorica [Gorg., 448b-e], e lo stesso Gorgia, laddove indica in maniera esclusivamente qualitativa gli oggetti intorno ai quali verte la retorica [Gorg., 451d], non fa che reiterare l’errore di Polo. ↩︎
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Che la retorica non sia né epistéme né téchne è un’anticipazione abilmente messa in campo da Platone nell’uso sinonimico che ne fa al principio del primo confronto tra Socrate e Gorgia. Posto che la comune traduzione di téchne con arte è già di per sé fuorviante — possedendo il termine italiano una componente creativa e indiscutibilmente soggettiva estranea all’originale greco —, e che il termine scienza, di fatto, non traduce epistéme — se non per una assonanza storiografica —, dobbiamo risalire alla loro etimologia, che il comune uso greco conserva, per potere ravvisare la distanza che intercorre tra le due. Se l’epistéme indica un tipo di sapere su cui tutti non possono che trovarsi d’accordo, e che coordina dall’alto le conoscenze raggiunte, fissandole nella stabilità della máthesis, la téchne denota, al contrario, un insieme di cognizioni apprendibili e insegnabili, supportate dall’esperienza [Gorg., 448c] e organizzate secondo una regola, e capace, proprio per questo, di conoscerne la ragione degli oggetti di cui fa esperienza [Gorg., 465a; 501a]. Il sapere della téchne è rivolto al particolare che l’esperienza offre, quello dell’epistéme non può che rivolgersi al generale. ↩︎
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Un primo degradamento della retorica è, dunque, già ravvisabile nel passaggio da epistéme a téchne, ma un suo definitivo inabissamento avverrà soltanto alla fine del dialogo con Gorgia, laddove Socrate pronuncerà, non senza un certo imbarazzo, la sentenza definitiva sulla natura della retorica. Il sapere in cui Gorgia è maestro non potrà, infatti, nemmeno essere annoverato tra le téchnai, poiché il suo è solo un apparente sapere, le sue ragioni sono infondate e, soprattutto, gli oggetti di cui esso si occupa non hanno quella consistenza ontologica tale da poter pervenire a un contenuto di verità. ↩︎
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«È necessario che chi vuole imparare l’oratoria venga da te solo dopo avere imparato queste cose [il bene, il male, il giusto e l’ingiusto], se no tu come maestro d’oratoria, di queste cose non insegnerai nulla a chi viene alla tua scuola, in quanto non è compito tuo, ma lo renderai capace di sembrare di sapere queste cose anche se non le sa, e di sembrare di essere buono anche se non lo è?», ivi, 459e 1-6. ↩︎
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Ivi, 460a 3-4. ↩︎
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Si badi bene che l’accusa che Socrate muove alla retorica non è tanto rivolta alla sua strutturazione formale, e dunque al primato da essa assegnato alla persuasione, quanto piuttosto all’assoluta mancanza di fondazione scientifica dei suoi contenuti. Socrate non mostra una particolare attenzione riguardo all’enfatico discorso di Gorgia sulla potenza persuasiva della sua arte; anzi il filosofo attenua la pretesa gorgiana che la persuasione sia prerogativa unica della retorica, evidenziando come, laddove vi sia sapere e insegnabilità, necessariamente si dia luogo a una forma di persuasione. Qualsiasi sapiente, essendo in possesso di ciò che sa e insegnandolo, persuade l’allievo [Gorg., 453a-454c]. È, piuttosto, sulla mancanza di rigorosità scientifica, e dunque sulla incapacità di fondare gli assunti, che verte la differenza basilare tra dialettica e retorica. La mancanza di rigorosità propria della retorica — mancanza che indica anzitutto il crollare di qualsiasi oggettività — si riscontra sia nella credibilità assegnata alla potenza argomentativa e persuasiva del singolo uomo, sia nel primato attribuito al verosimile sul vero dall’argomentazione retorica. Sintetizzando potremmo dire che la battaglia tra dialettica e retorica è uno scontro tra il vero, posseduto dal maestro Socrate, che non è mai oggetto d’opinione, e il verosimile, imperante nei discorsi gorgiani, che manifesta tutta la flebilità e la fuggevolezza del possibile. ↩︎
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La formulazione aristotelica per genus proximum et differentiam specificam trova verosimilmente nei discorsi socratici una sua antesignana attestazione. Il che cos’è dell’oggetto o del concetto ricercato risultava essere la somma della generalizzazione di caratteristiche specifiche e la differenziazione rispetto ad altre, rivelando come tutti gli elementi messi in campo nel corso del ragionamento siano già conosciuti dal cercante nell’atto stesso di pervenire a una stabile determinazione. ↩︎
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Se, come sembra, è il consenso uno degli elementi discriminanti per la determinazione di un principio come morale, allora la natura del sapere, attribuita al dialettico, deve essere osservata sotto una prospettiva differente. Laddove si propongono interpretazioni che evidenzino il carattere eticamente rivoluzionario del sapere socratico, affiancato a un presentimento della spiritualità cristiana, sarebbe opportuno appurare se la supposta rivoluzione-conversione socratica sia di natura morale, o se piuttosto, nelle sue linee essenziali, non sia di matrice logica. Una rivoluzione che sia autenticamente morale non ha affatto bisogno della pratica del consenso, o meglio non è strettamente dipendente dal principio morale la persuasività logica e comune dello stesso. ↩︎
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Quella di Gorgia è in realtà una non-confutazione. L’argomento su cui Socrate, infatti, fonda la contestazione e la conseguente demolizione della tesi dell’avversario è l’impossibilità che il retore non sia responsabile della formazione data al suo allievo, avendo Gorgia stesso dichiarato che sarebbe in grado di dargliela qualora non la avesse già. Questa tesi sarebbe lecita e, dunque fondamento di una reale confutazione, laddove la retorica fosse davvero in grado di formare gli individui. Ma per formare gli individui sarebbe necessario che la retorica possedesse quel tipo di conoscenza ragionevole esplicantesi attraverso la persuasione rivolta al sapere, e non al credere, che Socrate ha dimostrato non possedere. Insomma tra le due l’una: o la retorica può formare i cittadini di Atene, e allora essa possiede un sapere che realmente indaga la realtà e non la pura apparenza del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo, o la retorica è incapace di assolvere a questo compito, e quindi la sua conoscenza si muove sul piano delle pure apparenze. Ma Socrate ha affermato che la retorica non è né un’epistéme, né una téchne, piuttosto essa è mera empeiría, e quindi procedura di mera parvenza gnoseologica, e per questo incapace di fornire alcunché sul piano conoscitivo, ma proprio per questo non responsabile della cattiva formazione dei cittadini. ↩︎
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Sull’interpretazione del messaggio socratico nella direzione della metaetica cfr. Rossetti L., Socrate e il ruolo della dissimulazione nel processo educativo, in «Pedagogia e vita», 36.1, 1974-75; e ancora dello stesso, I valori etici propugnati da Socrate, in Il dibattito etico e politico in Grecia tra il V e il IV secolo, La Città del Sole, Napoli 2000. ↩︎
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Cfr. Gorg., 461d 8-9. ↩︎
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Cfr. ivi, 462a-b. ↩︎
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Cfr. ivi, 462c 1. ↩︎
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È lo stesso Socrate ad avvertire Polo che finché non dimostrerà falsa l’ipotesi di partenza per cui la retorica è annoverata tra le pratiche non potrà in alcun modo confutarlo. Cfr. ivi, 467a 1-2. ↩︎
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Sembra sgomberare il campo da questo tipo di accusa, ma in verità l’obiezione non viene realmente abbattuta. Affinché Socrate possa presentarsi come l’unico che nell’Atene del suo tempo eserciti la vera arte politica, dovrà infatti mutare la stessa concezione della politica che i partecipanti al dialogo conoscono. Ma una simile operazione di conversione dei termini chiave del dialogo regge, e può essere realmente la base di un autentico confronto, solo se i partecipanti conoscono la svolta teorica in grado di direzionare il discorso verso quella che sembra l’autentica novità del Gorgia: ovvero l’indebolimento della pratica politica come dimensione dell’eccellenza dell’uomo, e il rafforzamento dell’intellettualismo etico come luogo atopico della realizzazione del cittadino. ↩︎
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Cfr. P. Accattino, Società e valori del pensiero greco, Loescher, Torino 1980. ↩︎
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Sulle convergenze e le divergenze tra il pensiero socratico e quello sofistico si veda W.K.C. Guthrie, Socrate, Il Mulino, Bologna 1986. Sulla rivalutazione filosofica della sofistica, e sul conseguente ridimensionamento delle novità apportate da Socrate rispetto a tale movimento, cfr. W.K.C. Guthrie, The Sophists, vol. 3, Cambridge University Press, Cambridge 1969. Sulle condizioni storiche all’interno delle quali matura il pensiero sofistico M. Untersteiner, Le origini sociali della sofistica, in Studi di filosofia greca in onore di Rodolfo Mondolfo, a cura di V.E. Alfieri e M. Unterstainer, Laterza, Bari 1959. ↩︎
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In favore dell’ipotesi di una valenza speculativa, e quindi filosofica, della retorica gorgiana, Nestle, Gigon e Calogero, i quali ritengono che Gorgia sia stato il primo nel mondo antico a elaborare una posizione nichilista. Contrari, invece, il Gomperz [H. Gomperz, Sophistik und Rhetorik, Leipzig-Berlin 1912]e il Maier, che ne riducono il pensiero a un esercizio linguistico e sofistico. Sostiene come i primi una valenza filosofica, ma ne respinge il titolo di nichilismo Martano, che preferisce piuttosto parlare di problematicismo [cfr. G. Martano, L’antinomia in Gorgia, in Contrarietà e dialettica nel pensiero antico, Napoli 1972, pp. 245-282]. Per una panoramica del dibattito si veda il recente L. Montoneri-F. Romano (a cura di), Gorgia e la sofistica, «Atti del Convegno Internazionale tenutosi a Leontini-Catania 12-15 Dicembre 1986»; e ancora A. Levi, Storia della sofistica, D. Pesce (a cura di), Morano, Napoli 1966. Infine, per una visione d’insieme degli aspetti retorici e filosofici, e per una rivalutazione del sofista, cfr. G. Mazzara, Gorgia. La retorica del verosimile, Accademia Sankt Augustin 1999. ↩︎
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Il principio assiomatico che lega insieme le virtù etiche propugnate da Socrate è certamente la psyché. Vedremo più avanti, nel confronto con l’etica naturalistica ed elitaria di Callicle, che la presunta rivoluzionaria etica socratica si muoverà proprio a partire da un rovesciamento del concetto omerico di anima. Operando non tanto un tradimento dei valori epici, quanto una spiritualizzazione degli stessi e una reductio ad unum di quel molteplice valoriale, Socrate porterà a compimento una lenta trasformazione linguistica e culturale dell’etica arcaica. Cfr. sulla trasformazione socratica del concetto di psyché n. 164. ↩︎
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Cfr. Gorg., 466b-c. ↩︎
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Sul dialogo tra Socrate e Polo rilevanti sono le annotazioni di Santas [G. X. Santas, Socrate. La filosofia dei dialoghi giovanili di Platone, op. cit., pp. 243-335], il quale compie una dettagliata spiegazione del confronto tra il dialettico e il retore, dalla quale emerge con nettezza come al fondo della preoccupazione socratica vi sia più la correttezza del ragionamento che non l’incitamento etico a scegliere una determinata condotta di vita. Quando Polo cita a esempio di azione volontaria l’operato del tiranno Archelao, e domanda a Socrate se crede che egli sia felice, il dialettico ribatte di non poterlo dire con certezza poiché non conosce personalmente Archelao; ma subito dopo, sollecitato da Polo, si sbilancia asserendo che per lui la felicità consiste nel commettere giustizia e che si può agire in modo giusto solo se si è ottenuta una buona educazione [cfr. Gorg., 470b-471a]. Ora è evidente che la contrapposizione tra Polo e Socrate non sia la discrasia tra massimi sistemi della morale, quanto, piuttosto, la differenza tra un ragionamento insufficiente e un ragionamento complesso, dettagliato e perciò persuasivo. ↩︎
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L’ipotesi di una lacuna documentaria in riferimento a un personaggio storico appare decisamente improbabile. In effetti se davvero fosse esistito un personaggio storico del calibro di Callicle, ossia una personalità politica così travolgente e teoreticamente forte, è improbabile che non ci fossero pervenute su di lui delle notizie. Se Callicle, dunque, fosse realmente esistito non poteva non restare nella memoria collettiva, e dunque nelle stesse fonti documentarie, la notizia di una tale dirompente personalità. ↩︎
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All’inizio del nostro secolo uno degli studiosi che più ha insistito nell’affermare il celarsi di Platone dietro la maschera di Callicle è stato K. Hildebrandt, Platone. La lotta dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino 1947. Anche W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, op. cit., considera l’adombramento di Platone dietro Callicle una possibilità, sebbene, al contrario di Hildebrandt, ritiene che sia soltanto la parte più irrazionale dell’anima di Platone a parlare attraverso le parole del retore. Sulla scia di Jaeger è anche G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, op. cit., il quale addirittura suggerisce che l’intero scontro Socrate-Callicle possa essere letto come una disputa in interiore dello stesso Platone, a conferma, tra l’altro, della sua ipotesi iniziale di lettura del Gorgia come dialogo nel quale il pensiero di Platone si sia già interamente sostituito a quello di Socrate. ↩︎
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Gorg., 481d. ↩︎
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Gorg., 489 e 2-3. ↩︎
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In un solo passo del dialogo Callicle sbandiera dinnanzi a Socrate il vessillo della condanna a morte, e lo fa in maniera davvero particolare. In effetti, egli non dice a Socrate che potrà rischiare di essere accusato per la sua condotta morale o politica, né richiama l’accusa di ateismo, o quella di corruzione dei giovani; Callicle non dice nemmeno che Socrate rischia la vita per una grave colpa commessa; al contrario il retore prevede che Socrate possa essere accusato di un’ingiustizia non commessa. Il fulcro del discorso di Callicle, e la conseguente minaccia che sbandiera, non è di natura etico-politica, ma logico-formale. Socrate rischierebbe di morire a un processo contro di lui intentato per ignavia dialettica, ossia per mancanza di persuasività retorica: «sappi — dice Callicle — che non sapresti come cavartela, ma resteresti a bocca aperta e smarrito, senza sapere che cosa potresti dire», Gorg., 486b. Sull’avvertimento di Callicle a Socrate cfr. infra 2.6. Sull’inutilità e il danno della filosofia per la vita. ↩︎
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È questa un’ipotesi che tendiamo, quasi da subito, ad abbandonare. La maggior parte dei dialoghi di Platone vertono su temi della massima importanza per l’uomo, eppure il loro tono non è conseguentemente grave. Basti ricordare la leggerezza dei toni del Protagora, che pure tratta uno dei temi più cari a Socrate; il Simposio, sebbene presenti nel discorso finale di Alcibiade l’amarezza del non essere corrisposto e l’umiliazione, presuntuosa, dell’esser respinto, si svolge in un clima ludico. L’amarezza e la gravità entreranno a far parte dello stile platonico nel momento in cui il filosofo vedrà frantumarsi qualsiasi possibilità di attuazione concreta del suo programma politico e concentrerà la sua attenzione sulla carenza teoretico-conoscitiva del monismo classico. ↩︎
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Cfr. Gorgia, G. Reale (a cura di), Bompiani, Milano, p. 332. ↩︎
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Gorg., 481b 6. ↩︎
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Cfr. ivi, 481c 1-6. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. ivi, 481d-e. ↩︎
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Ivi, 482e 3-4. ↩︎
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Ivi, 482d 4. ↩︎
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«[…] mentre affermi di cercare il vero, trascini gli altri a fare affermazioni di questo genere, grossolane e demagogiche, che non sono belle per natura, ma soltanto secondo la legge», ibidem. ↩︎
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Cfr. ivi, 483a 4-6. ↩︎
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«Al fine di piegare i migliori e i più forti di noi, prendendoli da giovani come si fa con i leoni, incatenandoli e seducendoli, li sottomettiamo, dicendo loro che bisogna essere uguali e che questo è bello e giusto», ivi, 483e 5-6; 484a 1-2. ↩︎
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È estremamente suggestiva l’immagine proposta da Callicle del sovvertimento della morale corrente: «Sono convinto, se nascesse un uomo dotato di una natura adeguata, allora essa scuoterebbe da sé, spezzerebbe e respingerebbe tutte queste cose, calpesterebbe le nostre scritture, i nostri incantesimi, i nostri sortilegi e le nostre leggi, che sono tutte contro natura, e, così ribellatosi, il nostro schiavo risulterebbe essere il nostro padrone, e allora rifulgerebbe il giusto secondo natura», ibidem. ↩︎
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Cfr. Res., V, 473d 1 ss. e ancora ivi, VI, 488a ss. e infine VI, 503d ss. ↩︎
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Cfr. Gorg., 484c-d. ↩︎
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Per supportare la sua affermazione significativamente Callicle ricorre a un verso di Euripide: «dedicando a essa la maggior parte del giorno poiché in essa si trova a essere superiore a se medesimo», ivi, 484e 5-6. ↩︎
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Ivi, 485b 1-3. ↩︎
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Ivi, 485d 3. ↩︎
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Ivi, 485d-e. ↩︎
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Cfr. ivi, 485e ss. Il Gorgia venne composto dopo l’accusa e l’ingiusta condanna a morte di Socrate. Rispetto alla drammaticità delle parole di Fedone al suo maestro in punto di morte nell’omonimo dialogo, parole che sembrano pronunciate da un Platone che dalla distanza guarda a un dolore che si è ormai consumato, avvertiamo nell’ammonimento che Callicle dà a Socrate tutta l’amarezza di Platone che non riuscì a persuadere il suo amato maestro della possibilità di sottrarsi a quella morte ingiusta. Platone seppe magistralmente coniugare in se stesso l’abilità politica e la verità della filosofia e, quando fu lui stesso a trovarsi sul punto di essere catturato e condannato, escogitando ogni mezzo per sottrarsi a un infelice destino, fuggì da Siracusa. Sono i fatti della vita di Platone che ci obbligano, in qualche modo, a rileggere queste pagine del Gorgia, estremamente drammatiche nella crudezza con cui la condanna di Socrate viene richiamata, come un tardivo ammonimento al maestro. ↩︎
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Cfr. ivi, 491b. Questo è l’unico passo del dialogo in cui compare il termine anima non sulla bocca di Socrate. ↩︎
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Cfr., Eraclito, DK 22 B 45. Certamente quello di psyché non è un concetto d’invenzione socratica, né un termine comparso nella lingua greca a partire dalla filosofia di Platone. Esso, al contrario, ha alle spalle una lunga gestazione storica e teorica, e in questa s’innesta la novità, se vogliamo, della posizione socratica. Se Burnet [cfr. La dottrina socratica dell’anima, op. cit., p. 140] riteneva che la parola non era mai stata usata in senso filosofico o religioso e che addirittura «non era mai stata concepita l’esistenza di quello che Socrate aveva chiamato con questo termine», di contro, Guthrie [cfr. Socrate, op. cit., pp. 245-246] richiama l’attenzione sui molteplici significati che il termine assunse nell’Atene del V secolo, significati afferenti alla dimensione intellettiva, sentimentale, religiosa e perfino etica. Per una storia ascensionale del concetto, dall’anima-fantasma di Omero, passando per l’anima-materia dei filosofi naturalisti, sino ad arrivare all’anima-spirito di Socrate, cfr. G. Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Raffaello Cortina, Milano 1999, in particolare i cap. IV, IX e X. È certamente condivisibile che Omero usi il termine psyché per riferirsi al fantasma che abbandona il corpo al momento della morte dipartendosi per l’Ade. Esso non dice l’essenza dell’uomo, semmai rimanda un’immagine sbiadita e infiacchita dello stesso, e perciò rende in taluni casi irriconoscibile l’uomo che in vita la conteneva. La psyché non è, dunque, certamente il luogo ideale che contiene le virtù, né la scintilla che permane e continua a significare il singolo uomo dopo la morte. E tuttavia, che l’uomo omerico non possieda l’anima nei termini in cui Socrate si riferisce ad essa, non significa che l’eroe omerico non abbia uno spessore etico e morale irriducibile a un mero materialismo. Le virtù omeriche sono, infatti, molteplici, e se la maggior parte di esse ha un significato prevalentemente concreto, non viene mai esclusa una dimensione intellettiva, deliberativa e impulsiva. Nella sua monumentale etimologia Platone mostra come tutti i termini chiave dell’etica omerica rivelino nell’etimologia una connessione alla psyché. A nostro parere Socrate non intende affatto negare quel complesso di virtù che la tradizione patria aveva “codificato” nei poemi, semmai egli da un lato spiritualizza le areté omeriche, e dall’altro le riporta tutte a quel luogo ideale in cui di fatto divengono determinazioni qualitative del luogo stesso. Insomma thymós, phrén e nóus convergono all’unisono nella psyché, e da organi separati quali erano nella tradizione omerica, divengono in Socrate funzioni di uno stesso organo che, a sua volta, da fantasma, ovvero da immagine sbiadita o apparenza, diviene éidolon, e dunque forma ideale dell’essere umano. ↩︎
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Gorg., 489b 8-9. ↩︎
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«Usami un po’ più di delicatezza nel darmi i tuoi insegnamenti, se non vuoi che ti abbandoni, mirabile Callicle», ivi, 489 d 9-10. ↩︎
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Ivi, 489e 6-7. ↩︎
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Ivi, 490a 7-10. ↩︎
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Ivi, 490a-d. ↩︎
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Il termine autologo non trova nessuna rispondenza nella letteratura critica su Socrate ma è da noi utilizzato perché capace di superare i limiti delle parole monologo e soliloquio. Se infatti il monologo è un discorso pronunciato da soli, come quello dell’attore davanti al suo pubblico, il soliloquio è un discorso pronunciato tra sé, senza bisogno di un interlocutore. L’autologo ha in comune con il monologo la presenza degli spettatori e con il soliloquio la dimensione relazionale; compone la pubblicità del primo con la relazionalità, seppur interiore, del secondo, divergendo però, da entrambi per l’estrema autoreferenzialità — come la stessa etimologia rivela — e la necessità di ascoltatori che assentano. ↩︎
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Gorg., 521d. Reale, dinnanzi alla spiazzante autoproclamazione politica di Socrate, scrive che «quest’orgoglio non è per nulla socratico, ma tutto platonico», intendendo con ciò rimarcare la sua teoria interpretativa che vede nel Gorgia il definitivo sorpasso del discepolo sul maestro. Eppure, a ben guardare, la concezione politica che si agita dietro l’affermazione socratica non è per nulla platonica. Basterebbe fermarsi a osservare come sia democratico l’ideale che muove Socrate per comprendere quanto lontano possa essere dall’elitarismo naturale platonico. Ma c’è di più. Per Socrate il vero politico, l’autentico politico, è l’etico, colui che occupandosi delle questioni massimamente importanti per l’uomo, ossia le questioni morali, ed esercitando esclusivamente quell’attività contemplativa che appartiene, nella concezione classica del sapere, alla filosofia, sa di avere raggiunto il massimo della propria esistenza. All’immagine dell’etico-politico presente nel Gorgia, Platone sostituisce nella Repubblica quella del politico-etico. Un politico che è sì massimamente filosofo, ma che non ritiene l’attività contemplativa il fine supremo per l’uomo. Quando il personaggio Socrate della Repubblica, nel dialogo con Adimanto, restringe a pochissimi il numero di coloro che «praticano degnamente la filosofia» [Rep., VI, 496 d-e], immagina quell’uomo, illustre e filosofo che, nel tentativo di modificare lo stato di cose, s’imbatte nelle brutture e nei vizi della società, come «in un branco di belve». A quel punto egli è quasi costretto a restarsene «tranquillo in disparte, pensando ai fatti suoi, come chi, in una bufera, quando il vento infuria con turbini e polveroni ripara sotto un muricciolo; egli si ritiene soddisfatto se potrà in qualche modo vivere la sua vita terrena puro da ingiustizie e da azioni empie e se potrà andarsene da questa vita sereno e tranquillo, animato da una bella speranza». Ad Adimanto questa appare come una magnifica conclusione di vita, ed esclama: «e non avrebbe certo ottenuto poco!». Ma l’entusiasta, irriducibile, uomo politico Platone chiosa: «ma nemmeno il massimo». Ecco, si racchiude forse in quest’ultima affermazione la differenza più eloquente tra Platone e il suo maestro Socrate: nell’intendere la filosofia non solo come anelito utopistico all’elevazione morale ma, più radicalmente, come concreta messa in opera di una reale trasformazione dello stato di cose. La conclusione del dialogo con Adimanto potrebbe essere confrontata con l’epilogo del Gorgia, laddove un Socrate socratico, illustrando la vita beata che consegue all’esercizio della virtù, ammonisce misticamente i suoi interlocutori: «Per quanto è in mio potere esorto tutti gli uomini e anche te a questa vita e a questa lotta, che per me è superiore a tutte le lotte di quaggiù […].Seguiamo, dunque, questo tipo di vita ed esortiamo anche gli altri a seguirla, e non già quello in cui hai fiducia tu e al quale mi inviti: poiché esso, Callicle, non ha alcun valore», Gorg., 526e-527e. Per Socrate, insomma, non vi è nulla di più importante della salvezza dell’anima, non vi è nulla che abbia maggior valore della conversione interiore ed intellettuale. Corsivi nostri. ↩︎
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Rep., VII, 519c-d. Riferendosi all’inazione dei sapienti conclude: «Spetta a noi fondatori dello Stato obbligare a volgersi a questo apprendimento che abbiamo definito or ora il più alto di tutti, a vedere il Bene e a compiere quell’ascesa e, poi, […], non concedere loro[…] il restare lassù e il non voler di nuovo ridiscendere tra i prigionieri, né dividere le loro fatiche e i loro onori, meschini o degni che siano», ivi, 519, VII c-d. ↩︎