Nome, definizione e conoscenza nella VII Lettera e nel Politico di Platone

1. La VII Lettera

Una prova decisiva del fatto che Platone concepisce il nome come qualcosa di fondamentale ai fini della conoscenza e dell’apprensione dell’idea è contenuta, a nostro modo di vedere, nella VII Lettera.1 La questione è strettamente legata al problema delle cosiddette «dottrine non scritte»; l’excursus riguardante il concetto di epistéme nel quale viene fatta menzione dell’ónoma (342a 8-344d 2) è infatti utilizzato da Platone per mostrare la necessità di non mettere per iscritto la dottrina dei principi:

Per ciascuno degli enti, tre sono le cose attraverso le quali è necessario passare per giungere alla conoscenza (epistéme), quarta è la conoscenza stessa (áute), come quinta cosa bisogna porre ciò che è conoscibile e che è veramente essere (ho de gnóston te kai alethós estin ón). La prima cosa è il nome (ónoma), la seconda è la definizione (lógos), la terza è l’immagine (éidolon), la quarta infine è la conoscenza (epistéme) (342a 8-b 4).

Per spiegare quest’affermazione il filosofo propone l’esempio del cerchio. Per conoscere il cerchio ci serviamo anzitutto del nome «cerchio», in secondo luogo della definizione «quella figura i cui estremi distano egualmente dal centro» — la quale, dice Platone, è definizione di ciò che ha nome «cerchio» ed è composta di nomi e verbi —, in terzo luogo del disegno materiale di un cerchio. Il quarto stadio è quello della scienza, intesa come intuizione e opinione vera: scienza, intuizione e opinione vera sono considerate un’unica cosa perché non risiedono nei suoni, come i nomi, né nelle figure, come le immagini, ma nelle anime. La conoscenza, intesa da Platone in questo modo è considerata la più vicina a ciò che è quinto in questo percorso ascensivo, ossia all’idea.

In questa scala anagogica della conoscenza, come si è visto, il nome occupa il primo posto.2 Da un certo punto di vista questo primato si traduce in una maggiore distanza, rispetto agli altri tre elementi, del nome dall’idea (342d 1-3);3 d’altro canto non si può ignorare che tale primato del nome, in quanto avviamento agli altri stadi e inizio assoluto del processo conoscitivo, finisca per identificare il nome con l’argine entro cui necessariamente deve muoversi la dinamica dell’acquisizione della conoscenza. Scrive infatti Platone: «Se qualcuno non comprende, in un modo o nell’altro, le prime quattro, nemmeno sarà partecipe, alla fine, della conoscenza della quinta» (342e 1-2). I brevi passi citati contengono forse ciò che stiamo cercando. Nome e idea, come inizio e fine del processo conoscitivo, si richiamano l’un l’altro come gli estremi che segnano i limiti della conoscenza. Il nome, nel momento in cui viene imposto, è già un movimento in direzione dell’idea; l’idea, fino al suo coglimento tramite l’intuizione sovradialettica della nóesis, continua ad essere identificata con un nome: il nome, infatti, continua a determinare segnando l’individualità propria del nominato. Sembra niente, ma il nome è il binario da percorrere per raggiungere l’essenza del nominato, il primo punto di riferimento, ciò che permette l’orientamento nell’ambito conoscitivo.4

L’impossibilità di scrivere sui principi deriva dall’inadeguatezza dei nomi e dei discorsi definitori rispetto alle idee. Tale inadeguatezza è dovuta al fatto che i nomi rimangono legati alla materia sonora, essa riguarda anche le immagini, contaminate dalla materialità delle figure corporee. Ancor più legati alla materia, dunque ancor meno adatti ad esprimere la verità, sono i discorsi scritti, inficiati sia dalla materialità propria del nome sia da quella che è propria delle immagini. La prossimità del nome all’idea non si risolve mai in identità. In due passi del Cratilo Platone istaura un parallelismo molto significativo fra ónoma e phármakon,5 in base a tale corrispondenza si può affermare che il potere del nome di giungere alla cosa porta nelle vicinanze dell’idea, questa vicinanza però non si risolve mai in un pieno possesso. I nomi, come i farmaci, sono armi a doppio taglio: il loro potere ambiguo può danneggiare nel momento stesso in cui viene utilizzato per dare giovamento.6 Il nome, in tal senso, è considerato strumento fondamentale, ma pur sempre umano, dunque fallibile, di conoscenza.

Sicuramente connesso a questa messa in evidenza della debolezza del linguaggio è l’arbitrarismo espresso nell’epistola:

Quanto ai nomi, diciamo che nessuno di essi ha alcunché di stabile, e che nulla impedisce che le cose che ora sono dette rotonde vengano chiamate rette e che le rette vengano chiamate rotonde, e che le cose non sarebbero meno stabili per coloro che ne mutassero i nomi e le chiamassero in modo contrario (Epist. VII 343a 9-b 4).

Secondo la nostra lettura, nel Cratilo7 viene proposta una posizione di conciliazione fra convenzione e natura in riferimento ai nomi correnti, di pieno naturalismo, invece, riguardo ai nomi originari; il passo citato, a nostro avviso, deve essere inserito in questo modo di vedere le cose: i nomi a cui si riferisce Platone nell’epistola sono i nomi dei quali si è dimenticata la storia, i nomi usati dai parlanti che si comunicano i significati senza riflettere sull’originario legame fra nome e cosa. L’esperto dei nomi, l’onomastikós di cui si parla nel Cratilo, sa rintracciare nel nome corrente la traccia omofonica che riporta al nome originario, e da qui all’idea, ma il semplice utente del linguaggio vede nel nome un segno perfettamente sostituibile. Infine, il passo citato deve essere messo in sinossi con l’argomento socratico, sempre esposto nel Cratilo, dell’uomo-cavallo,8 in base al quale chiunque, in qualunque momento, può cambiare nome ad una cosa ed ottenere una nominazione altrettanto corretta della prima: Socrate usa quest’argomentazione per mettere in ridicolo il convenzionalismo di Ermogene. Perché Platone dovrebbe sostenere una posizione sulla quale, in precedenza, aveva ironizzato manifestatamene?

2. Il Politico

Contemporanea, o di poco posteriore, a quella della VII Lettera dovrebbe essere la stesura del Politico.9 È dunque strano che il metodo diairetico esposto in questo dialogo appaia, in alcuni luoghi, meno maturo10 che nel Sofista, quasi sicuramente precedente all’epistola in questione. Il fatto è che le divisioni condotte nel Politico appaiono in certo modo «critiche»: si ragiona molto sul metodo e sulla sua validità. Il legame fra ricerca dei nomi e possibilità di definire appare qui molto più vincolante che in altri luoghi.11 La correttezza del nome, come era già avvenuto nel Sofista, prende qui la forma della correttezza della divisione:

Socrate il giovane: Come mi spieghi che non abbiamo agito bene poco fa facendo quella divisione?

Straniero: In questo modo: come se uno volendo intraprendere la divisione in due parti del genere umano, dividesse come molti di qui dividono, e cioè la stirpe dei Greci come un’unità separata da tutte, mentre, per quanto riguarda tutte le altre stirpi che sono infinite di numero e non hanno relazioni di nessun tipo e che non s’intendono le une con le altre per la diversità della lingua, le chiamano con un unico nome di ‘barbaro’, e credono che si tratti anche, in virtù di quest’unica denominazione, di un unico genere. […] Dividerebbe meglio e in maniera più attinente alla divisione, secondo le specie e per due, chi separasse il numero in pari e dispari, e la stirpe umana in maschio e femmina, mentre separasse i Lidi o i Frigi o alcuni altri popoli opponendoli a tutti gli altri, allorquando fosse nella difficoltà di trovare che l’uno e l’altro dei termini che ha separato costituiscono un genere e una parte nello stesso tempo (262c 8-263a 1).12

Nome e divisione, cioè nome e definizione possono raggiungere un alto grado determinativo nei confronti dell’essenza: per ottenere una buona definizione bisogna utilizzare nomi che individuano bene le realtà cui si riferiscono. La divisione del genere umano in greci e barbari non divide bene il genere umano, mentre la divisione degli umani in maschi e femmine è corretta. Nel passo che segue viene mostrata la piena dipendenza della definizione dai nomi impiegati, inoltre fra nome e definizione viene fatta intercorrere una piena sinonimia:

Straniero: Riguardo a quest’arte in un certo senso abbiamo sbagliato: non siamo stati assolutamente in grado di comprendere in essa l’uomo politico né di assegnargli un nome, ma si è celato alla nostra vista sfuggendo alla definizione (onomasían) che volevamo assegnargli.

Socrate il giovane: Come?

Straniero: Sono tutti gli altri pastori che prendono parte all’allevamento delle singole mandrie, mentre l’uomo politico non vi prende parte: ma noi gli abbiamo comunque assegnato il nome da ciò, mentre gli si doveva assegnare il nome di un qualcosa comune a tutti questi.

Socrate il giovane: Dici la verità, se mai esisteva un tale nome.

Straniero: Perché non si vedeva che il prendersi cura era un’attività comune a tutti, quando non si delineasse né come allevamento né come un’altra attività? Ma se l’avessimo chiamata ‘arte del prendersi cura del gruppo’ o ‘arte di prendersi cura’ o ‘di averne premura’, in base a tutte queste definizioni ci sarebbe stato possibile comprendere anche il politico insieme agli altri, dal momento che questa è l’indicazione che ha fornito il discorso (275d 4-e 7).

È dalla scelta dei nomi, dunque delle specie indicate, che deriva in toto la buona riuscita della definizione;13 la definizione è infatti una sorta di percorso le cui tappe sono i nomi, sbagliare una tappa significa imboccare una strada che allontana dall’essenza ricercata. Infine, come si vede, nome è, in questo passo, sinonimo di definizione e «nominare» di «definire»: il termine onomasía è, dal punto di vista semantico, a metà strada fra nome e definizione e conferma che Platone intendeva le definizioni come macro-nomi e i nomi come micro-definizioni. Ancor più che nel Sofista, nel Politico il nome sembra decisivo per il raggiungimento dell’essenza, e l’essenza è nel nome perché il nome diviene, oltre che mezzo, risultato del percorso definitorio: «E se uno, anziché servirsi della persuasione, impone con la violenza qualcosa di migliore, rispondi, quale nome avrà questa violenza? Non rispondere ancora; prima rivediamo quegli esempi che abbiamo fatto in precedenza» (269b 1-3). L’attribuzione del nome diviene un compito arduo perché con essa si procede all’identificazione dell’essenza, allora la conoscenza di una cosa corrisponde all’ottenimento di un nome,14 perché «le cose incorporee, che sono le più belle e le più importanti, sono indicate con chiarezza da nient’altro se non dal discorso (lógo)» (286a 6-7); si tratta ancora del lógos definitorio, la connessione di nomi che trova nel definiendum un unico nome come controparte.

Il Politico però è il dialogo nel quale lo Straniero dice al giovane Socrate: «Bene, Socrate: se eviterai di occuparti troppo seriamente dei nomi, apparirai più ricco di intelligenza man mano che ti avvicini alla vecchiaia» (261e 4-6). Questa espressione ironica di diniego del valore conoscitivo, e più generalmente filosofico, dei nomi è da avvicinare a quei luoghi del Sofista nei quali il valore del nome viene svalutato rispetto all’essenza cui il nome rimanda.15 Questo modo di esprimersi da parte di Platone, apparentemente in contrasto col nostro punto di vista, deve essere inteso alla luce del diniego, alla fine del Cratilo, del valore conoscitivo dei nomi.16 La nostra interpretazione di quel diniego però può conciliare queste puntate scettiche col nostro modo di vedere la questione: il potere conoscitivo del nome viene infatti svalutato da Platone rispetto alla verità ideale che l’anima accoglie in sé in una dimensione prelinguistica. L’idea si rispecchia nell’anima prima di divenire nome, e il divenire nome dell’idea impressa nell’anima segna una caduta decisa del suo potere determinativo. È comunque nei nomi che bisogna cercare la traccia sbiadita dell’idea: la lunga confutazione di Ermogene nel Cratilo e la pratica diairetica nel Sofista e nel Politico provano che Platone credette nel valore gnoseologico dei nomi molto più di quanto espressioni come quella ora citata possano indurre a credere.


  1. L’autenticità della VII Lettera è stata messa in dubbio diverse volte: cfr. P. Shorey, The Unity of Plato’s Thought, Chicago 1903; H. Cherniss, Studies in Plato’s Metaphysics, London-New York 1965; ma è stata rivalutata altrettanto autorevolmente: cfr. U. Wilamowitz-Möllendorf, Platon, 2 voll., Berlin 1919, I, p. 641 sgg., II, p. 282 sgg.; J. Stenzel, Über den Aufbau der Erkenntnis im VII. Platonischen Brief, in «Jahresbericht des philol. Vereins» 1921, p. 63 sgg; E. Howald, Die Briefe Platons, Zürich 1923, p. 34. Sull’autenticità della VII Lettera, scrive Cassirer: «Nella costruzione e nel graduale procedere del sapere dialettico la parola mantiene un posto ed un valore ad essa propri. Gli incerti confini, la stabilità sempre soltanto relativa del significato delle parole diventano per il dialettico uno sprone per elevarsi in contrapposizione e in lotta con esso, all’esigenza dell’assoluta stabilità del contenuto significativo dei concetti puri, alla bebaiótes, del mondo delle idee. Ma solo la filosofia platonica delle opere della vecchiaia portò, in senso sia positivo che negativo, a pieno dispiegamento questa intuizione fondamentale. L’autenticità della VII Lettera platonica probabilmente da nulla è dimostrata in maniera più evidente che dal fatto che essa, sotto questo riguardo, si ricollega direttamente al risultato del Cratilo, portandolo per la prima volta ad assoluta chiarezza metodologica e a compiuta fondazione sistematica». E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, I, Die Sprache, Oxford 1923; trad. it. Filosofia delle forme simboliche, I, Il linguaggio, trad. it. di E. Arnaud, Firenze 1987, p. 72. ↩︎

  2. Questa inizialità del nome nel processo conoscitivo è qualcosa che Di Cesare nota anche in altri passi platonici: «La necessità di muovere dal nome, che nella sua fissità è l’unico appiglio della ricerca, è presente fin nei primi dialoghi, dove in qualche caso (Fedone, 99 d) viene persino teorizzata. Gli esempi in tal senso, già qui numerosi, si moltiplicano nei dialoghi dialettici. Talvolta il nome, oltre ad aprire la via della ricerca, finisce addirittura per guidarla (Menone, 74 d-e, Repubblica, 470 b)». D. Di Cesare, Linguaggio e dialettica in Platone. Riflessioni sui fondamenti linguistici della ricerca filosofica, in «Annali dell’Istituto di filosofia di Urbino», 1987, p. 348. ↩︎

  3. Scrive Cassirer: «Quattro sono i gradi della conoscenza che la VII Lettera distingue e che nel loro insieme conducono all’intuizione del vero essere, […]. I gradi inferiori sono dati dal nome, dalla definizione linguistica dell’oggetto e dal suo riflesso sensibile, […]. Nessuna di queste rappresentazioni date nella parola, nella definizione e nel modello raggiunge e coglie la vera essenza del cerchio: infatti esse tutte appartengono non già al dominio dell’essere, bensì al dominio del divenire». E. Cassirer, Op. cit., pp. 72-3. ↩︎

  4. Anche Cassirer riconosce il valore fondamentale del nome nel percorso ascensivo della conoscenza delineato nella VII Lettera: «E tuttavia solamente mediante questi gradi preliminari [il nome, la definizione e l’immagine], di per sé insufficienti, vengono raggiunti il quarto e il quinto grado, la conoscenza scientifica e il suo oggetto. In questo caso il nome e l’immagine, […], restano separati nella maniera più netta dalla conoscenza razionale, dall’epistéme; e tuttavia, d’altra parte, sono da annoverare fra i presupposti di essa, fra i veicoli e gli strumenti mediante i quali solamente noi possiamo elevarci con un progresso graduale e continuo alla conoscenza». E. Cassirer, Op. cit., p. 73. ↩︎

  5. Crat. 394 a1-c8: «Infatti dal re nascerà il re, dal bene il bene, dal bello il bello, e tutte le altre cose allo stesso modo, da ciascun genere nascerà un individuo simile al genere stesso, se non si verifica una nascita mostruosa: ebbene, gli individui appartenenti ad uno stesso genere bisognerà chiamarli con nomi identici. È comunque possibile ricamare con le sillabe, tanto che al profano potranno sembrare diversi gli uni dagli altri pur essendo gli stessi. Allo stesso modo a noi i farmaci dei medici, modificati nei colori e negli odori, appaiono diversi pur essendo gli stessi; al medico invece, poiché considera il potere del farmaco, appaiono identici e non rimane sorpreso delle possibili aggiunzioni. Così, in modo analogo, anche colui che conosce i nomi ne considera la potenza e non rimane sorpreso se qualche lettera si aggiunge, si sposta o si toglie, o se la potenza del nome viene espressa tramite lettere completamente diverse. Come dicevamo poc’anzi, Astyánax e Héktor non hanno alcuna lettera in comune eccetto il tau eppure significano la stessa cosa. E Archépolis in quali lettere è comune a quelli? Eppure ha lo stesso significato; e ce ne sono molti altri che non significano altro che “re”. […] E probabilmente ne troveremmo molti altri, discordanti nel suono delle sillabe e delle lettere, ma che per potenza semantica esprimono alcunchè d’identico». L’altro passo è Crat. 424b 7-e 1: «Socrate: […] Ma quale sarà il criterio per distinguere i mezzi onde l’imitatore comincerà ad imitare? Poiché l’imitazione dell’essenza è fatta per mezzo di sillabe e di lettere, la cosa più giusta non sarà forse di distinguere prima di tutto gli elementi, come coloro che si accingono ad imitare coi ritmi distinguono prima di tutto il valore degli elementi, poi delle sillabe, […] E una volta distinti gli elementi, bisognerà classificare bene tutte le cose alle quali si debbono attribuire i nomi, […]. Esaminate bene tutte queste cose, dovremo essere capaci di riferire ciascun elemento a ciascuna cosa secondo un criterio di somiglianza, sia che ne basti uno solo, sia che ne occorrano molti mescolati assieme per ciascuna cosa, così come fanno i pittori, i quali, volendo ritrarre un oggetto usano talvolta la porpora, talvolta un altro qualsiasi colore (állo ton pharmákon)». ↩︎

  6. Su questo argomento cfr. il celebre saggio di J. Derrida, La farmacia di Platone, in La dissémination, Paris 1972; trad. it. La Disseminazione, trad. di S. Petrosino e M. Odorici, Milano 1989. ↩︎

  7. Cfr. G. Licata, Teoria dei nomi e teoria delle idee in Platone, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», gennaio 2002, <https://mondodomani.org/dialegesthai/gaetano-licata-01>. Questa posizione è in pieno accordo con quanto sostenuto in G. Genette, Mimologiques. Voyage en Cratylie, Paris 1976. ↩︎

  8. Crat. 385a 2-b1: «Socrate: […] Tu affermi che il nome che uno dà a ciascun oggetto, questo è il suo nome? Ermogene: A me almeno così pare. Socrate: Tanto se glielo dia un privato, quanto una città? Ermogene: Precisamente. Socrate: Oh che? S’io chiamo con un certo nome una qualche cosa; se, per esempio, quello che ora chiamiamo uomo, io lo chiamo cavallo, e quello che ora cavallo, uomo; avrà esso pubblicamente nome uomo e privatamente cavallo? e, viceversa, privatamente uomo, pubblicamente cavallo. È questo ciò che dici? Ermogene: A me pare così». Trad. it. di E. Martini. ↩︎

  9. Per la cronologia degli scritti platonici seguiamo F. Adorno, Introduzione a Platone, Roma-Bari 1998. ↩︎

  10. Mi riferisco agli errori commessi nelle divisioni e ammessi dai dialoganti: cfr. Pol. 275d 4-6; 283b 1-3. ↩︎

  11. Cfr. Pol. 260e-261a. ↩︎

  12. Trad. it. di E. Pegone. ↩︎

  13. Pol. 276c 11-d 2: «Straniero: Innanzitutto, ed è quel che stiamo dicendo, bisognava modificare il nome, orientandolo verso la cura piuttosto che verso l’allevamento, in secondo luogo potevamo dividerla: e non di poco conto potrebbero ancora essere queste divisioni». ↩︎

  14. Pol. 269c 5-7: «Straniero: E allora che cos’è per noi quello che viene chiamato “errore contro l’arte politica”? Forse “ignominia”, “malvagità”, “ingiustizia”?». ↩︎

  15. Cfr. Soph. 218c 4-5. ↩︎

  16. Cfr. G. Licata, Op. cit.↩︎