Linguaggio, antropologia e sviluppo della società in Giambattista Vico e in Francesco Longano

1. Introduzione

Questo saggio si occupa di due filosofi italiani del Settecento, Giambattista Vico e Francesco Longano, entrambi meridionali, che si sono soffermati su problematiche di carattere linguistico, antropologico e sociale. Nel gioco di affinità e differenze che si possono notare analizzando le due speculazioni filosofiche — che si inquadrano, la prima all’inizio del secolo, l’altra nella seconda metà — emerge pure il processo di sviluppo della cultura italiana e con esso la consapevolezza che esiste, nel Settecento, un certo dinamismo culturale che caratterizza la penisola e, nella fattispecie, il Regno di Napoli.

2. Concezione del linguaggio e antropologia in G.B. Vico

Fra le problematiche che maggiormente caratterizzano la speculazione filosofica di Giambattista Vico una gran parte è sicuramente riservata all’attenzione per il linguaggio e per le costruzioni linguistiche. Nella fase giovanile — che raggiunge l’apice in opere come il De nostri temporis studiorum ratione (1708) e il De Antoiquissima italorum sapientia ex originibus linguae latina eruenda (1710) — tali interessi si sostanziano nello studio per le etimologie e nello stretto legame stabilito fra problemi teorici del linguaggio e prassi pedagogico-linguistica. Come ha ben intravisto Lia Formigari, in questa fase il pensiero vichiano è ancora concentrato sull’efficacia del discorso e sugli effetti che esso può avere sulla moltitudine.1 Il sapiente è colui che si pone nell’ottica della costruzione del senso comune, avendo bene a mente che il suo compito principale consiste nell’agire sulle menti del volgo, attraverso una logica comunicativa che sia in grado di catturarne l’attenzione. L’eloquio popolare, infatti, non si muove nella sfera dell’oggettività, ma in quella tortuosa delle contraddittorie soggettività, per combattere le quali non è possibile usare un linguaggio piano e volto alla chiarezza dei sostantivi, ma occorre rifarsi ad una capacità discorsiva che saggiamente sappia adattarsi alla varietà dell’uditorio, sintonizzandosi con essa quasi in modo empatico.

È a partire dagli anni ’20 del Settecento che la filosofia di G. B. Vico subisce una svolta decisiva. Il testo in cui comincia questo processo di revisione è il De Uno universi iuris principio et fine uno (1720); in esso si fa strada, sul piano metodologico, l’importanza di un punto di vista genetico. Agisce, in Vico, la convinzione che ogni fenomeno sia conoscibile veramente solo quando venga colto nel suo formarsi e questo introduce inevitabilmente un interesse per la dimensione della storia. La novità, rispetto alla concezione dominante a quel tempo, è rappresentata dalla convinzione che i primi popoli fossero caratterizzati dalla bestialità. Vico, inoltre, mette in evidenza: 1) che l’umanità non può essere analizzata prendendo come campione l’individuo singolo; 2) che l’umanità è un fatto complesso ed è irriducibile a qualsiasi tentativo di ingabbiarla all’interno di semplicistiche definizioni di stampo razionalistico. La nuova prospettiva nella quale Vico si pone rispetto agli anni precedenti produce cambiamenti pure nella analisi dei procedimenti etimologici, che non seguono più un modello «intellettualistico», ma ne inaugurano uno di tipo «fantastico».2 Questi cambiamenti conducono ad uno spostamento di interesse dalla sfera semantica a quella del diritto e della religione. Da questo momento in poi, per Vico, l’etimologia non si limita più a risalire alle parole originarie, ma diventa una chiave ermeneutica del processo storico, potendo ricostruire, attraverso le trasformazioni semantiche di un termine, le diverse fasi della civiltà.3 In definitiva, dal De Uno in poi il filosofo napoletano intende l’etimologia come un processo che segue il cammino diacronico delle parole, tenendo a mente che tale cammino deve procedere parallelamente al grado di sviluppo mentale degli uomini nelle diverse fasi storiche. Vico parte dall’ipotesi che, oltre un certo limite temporale, non esista più un linguaggio articolato simile al nostro, anche perché non esiste ancora una mente strutturata secondo procedimenti logico-discorsivi. L’etimologia, dunque, non deve fornirci la storia della parola come se l’originaria radice fosse passata da un significato all’altro fino a giungere all’attuale e ognuno di questi significati transitori potesse essere espresso da qualche altro dei nostri termini.4 Per quanto possa esservi, infatti, una naturale consequenzialità terminologica che si richiama ad una comune radice, nel passaggio da un periodo storico all’altro il divario fra il mondo moderno ed il mondo oscuro delle origini è tale da non permettere di azzardare ipotesi di continuità, sul piano etimologico, se per etimologia intendiamo un accostamento fra parole accomunate da una certa rispondenza fonica. La diversità sussistente fra il parlare prosaico dell’era moderna e il parlare poetico delle origini è così profonda che non può essere colmata con ipotesi riguardanti una comune radice fonetica.5

L’attenzione per le etimologie, a partire dal 1720, si potenzia pure in virtù della ormai acquisita necessità di ampliare la retorica, includendo in essa l’unione del vero col certo attraverso il gemellaggio fra filosofia e filologia. L’introduzione del certum, ossia delle manifestazioni storiche nella loro dinamica concretezza, produce proficue modificazioni anche sul piano linguistico. Soprattutto, nell’opera successiva al De Uno, il De Constantia (1721), Vico potenzia quella particolare ipotesi linguistica, secondo la quale lingua e poesia, originariamente, si identificano e non sono distaccate come voleva la tradizione.6 L’unificazione dell’origine delle lingue e dell’origine della poesia pone in risalto facoltà extra-razionali, come l’ingegno, la cui caratteristica essendo quella di stabilire somiglianze ed unificare ciò che è distante, consente di correlare il linguaggio con la spiegazione dei fenomeni e di far sì che espressione e spiegazione siano tutt’uno.

La principale innovazione della concezione vichiana del linguaggio consiste nel pensare che quest’ultimo sia una «attività formatrice».7 Nel momento in cui gli uomini primitivi vengono scossi dalla visione del primo fulmine e dal fragore assordante del primo tuono, essi non reagiscono percependo la realtà per come si era manifestata, ossia nuda e cruda, ma interpretandola come manifestazione di un’entità sovrannaturale. Anticipando, in un certo senso, la concezione cassireriana di «simbolo»,8 Vico sostiene che il linguaggio, unitamente al pensiero, sia una attività spirituale che dà luogo ad una autonoma configurazione simbolica della realtà. Ciò che chiamiamo realtà, infatti, non è qualcosa di semplicemente dato, ma è sempre il risultato di una complessa strutturazione simbolica e di conferimento di senso. La logica imperante al tempo di Vico, di stampo portorealista e cartesiano, viene sovvertita in quanto, nella speculazione del pensatore napoletano, la percezione di un «dato» non si limita ad una mera ricezione passiva di ciò che lo costituisce, ma si traduce in un’attività costruttrice di ampi significati. Detto in altri termini, la sensazione e la percezione si traducono in espressione.9

La teoria secondo la quale il linguaggio sia solo frutto di una convenzione sorta per scopi comunicativi viene in tal modo scardinata. Per poter affermare con forza tale idea, Vico deve presupporre che gli albori della storia vedano all’opera uomini dotati di scarsa razionalità e privi della capacità di porre delle convenzioni. Il linguaggio è attività vivente e storica, soggetta a mutazioni imperniate sui bisogni umani, non opera compiuta una volta per tutte. Il principio cardine del linguaggio non va pensato in modo statico, come se fosse un a priori invariante, ma va rintracciato nel processo attraverso il quale la funzione linguistica si manifesta e si arricchisce, percorrendo stadi via via più complessi di realizzazione del suo carattere simbolico e articolandosi attraverso diversi sistemi linguistici, da quelli primitivi a quelli più evoluti, ciascuno dei quali rappresenta un particolare punto di vista sul mondo.

Il processo linguistico si sviluppa in tre tappe fondamentali, rispecchianti la scansione in età degli dèi, età degli eroi, età degli uomini, in cui si passa da una massima aderenza al mondo sensibile, vale a dire da una fase «mutola»10 a una fase di più libera espressione dei significati. All’inizio di questa progressione si passa dal gesto imitativo11 al suono articolato e poi da un suono di tipo onomatopeico a un linguaggio che esprime, mediante suoni opportuni, rapporti di luogo, di spazio e necessità varie, fino a superare una dimensione puramente mimetica e analogica per conquistare una più libera funzione simbolica.

Soprattutto nelle prime due fasi della storia il segno e il significato del linguaggio sono strettamente uniti. Il segno sensibile non è un puro involucro esteriore, non funge da semplice veicolo di comunicazione di un significato autonomo: quest’ultimo può costituirsi solamente per il tramite del segno. D’altro canto, il segno non esiste indipendentemente dal significato, ma solo in quanto viene investito di un significato vero e proprio.

Il primo pensiero o linguaggio è l’«universale fantastico» che si configura come la realizzazione mentale di un’immagine potente che assorbe al suo interno altre immagini potenzialmente affini. La materialità dei significanti, cenni o corpi, unita alla peculiarità dei rapporti fra significanti e significati, da Vico definiti «naturali», fa sì che questa prima lingua risulta la più difficile da comprendere ed è al tempo stesso la più importante per capire la radice dei processi mentali umani.

I corpi sono oggetti già dati in natura, cui si attribuiscono precisi significati che consentono di erigere quei corpi al rango di segni.12 Il cenno, invece, è un movimento umano determinato da un indicare con le dita delle mani l’oggetto che richiama l’attenzione degli uomini.13 La lingua della prima età è anche sacra o divina, in quanto è fatta di dèi, nel senso che ogni elemento elevato a segno significativo, per i primi uomini, è una sostanza animata ritenuta divina. In questo senso essi colgono, spontaneamente e ingenuamente, il significato più autentico della religiosità,14 anche se la loro è una religione idolatrica e pagana.15 Un’altra caratteristica del pensiero vichiano, perciò, è quella di aver sostenuto che il primo linguaggio dell’umanità non solo è costituito da gesti e immagini, ma è pure strettamente congiunto col senso del divino.

Gli «universali fantastici» della prima età sono le dodici divinità delle genti maggiori, mentre le figure più significative della seconda età sono riprese dai poemi omerici. Achille ed Ulisse, soprattutto, sono i personaggi mitici che meglio esplicitano le caratteristiche della seconda fase, in cui le regole e le leggi sono stabilite da costumi «collerici e puntigliosi»16 e da un diritto «della forza, ove non sono, o se vi sono, non vagliono, le umane leggi per raffrenarla».17 Il più consistente cambiamento si ha nel passaggio dalla seconda alla terza età, nella quale la lingua «fu la lingua umana per voci convenute da’popoli, della quale sono assoluti signori i popoli, propia delle repubbliche popolari e degli Stati monarchici, perché i popoli dieno i sensi alle leggi, a’quali debbano stare con la plebe anco i nobili».18 Vico fa capire che, con l’avvento dell’età degli uomini, tutto cambia, a cominciare dal fatto che il mezzo privilegiato della comunicazione non è più l’occhio, ma la voce.19 Questo sconvolgimento causa il passaggio da un tipo di linguaggio espressivo-visivo ad un linguaggio articolato, in cui contano le parole più che le immagini. Il passaggio dalle prime due età all’ultima avrebbe determinato l’introduzione dei linguaggi arbitrari e convenzionali di stampo aristotelico-cartesiano. Vico, tuttavia, ritiene che la convinzione, ormai radicatasi nella tradizione, secondo la quale i linguaggi si sono costituiti in base ad accordi convenzionali, vada rivista e non sia del tutto giusta. Se si guardano, infatti, con attenzione le lingue volgari, si può intuire con facilità come in essi siano presenti quei procedimenti metaforici che i linguaggi convenzionali non hanno eliminato.20 Se è vero che i significanti delle lingue moderne variano da nazione a nazione, è altrettanto vero che alla radice vi sono le stesse necessità che hanno prodotto analoghi processi mentali.21 Se quindi si scava nella profondità dei linguaggi, si giunge alla conclusione che essi hanno avuto tutti una origine comune, di tipo metaforico-retorico. In base a questa comune origine si può ricavare un Dizionario Mentale Comune dell’umanità, costituente il fondamento dei procedimenti linguistici e cognitivi di tutta la specie umana.

Gli «universali fantastici» sono la quintessenza del Dizionario Mentale Comune dell’umanità e rappresentano il modo di esprimersi e di pensare dei primi popoli. Tuttavia, data la condizione, se così si può dire, trascendentale nella quale Vico si pone,22 gli «universali fantastici» costituiscono anche la radice del modo di esprimersi e di pensare di tutta l’umanità, uomini moderni compresi.23 Gli «universali fantastici» attestano, allora, la comune matrice «sematogenetica» dell’umanità, nella quale i processi mentali degli uomini sono determinati dalla fantasia, dall’ingegno e dalla memoria, cioè da quelle facoltà che sono connesse con la topica e con la retorica. In questo modo, Vico dimostra, ai detrattori della retorica, rappresentati in particolare dai sostenitori delle teorie cartesiane e portorealiste, quanto essa sia ancora valida e attuale. La retorica non è identificabile solamente con un ammasso di verbosità, ma è una disciplina di carattere antropologico, poiché essa consente di porsi alla radice del linguaggio e del pensiero umano. Non la ragione, quindi, ma la topica — a sua volta, parte integrante della retorica — si pone alla base dell’agire dell’uomo. Di conseguenza, l’ordine naturale del linguaggio non è quello della Grammatica Logica di Port-Royal, ma è quello del Dizionario Mentale Comune dell’umanità, ossia quello degli «universali fantastici» (o miti originari), espressione dei processi mentali dei tropi e della topica. È pertanto inutile tentare di dimostrare logicamente i processi linguistici, dal momento che essi, data la loro complessità, possono trovare una spiegazione plausibile se ci si cala nella profondità dei meccanismi mentali che nulla hanno a che fare con la sfera razionale e che per poter essere capiti necessitano della fantasia, dell’ingegno e della memoria, cioè di quelle facoltà che presiedono alla fondazione della retorica.24

3. Formazione del linguaggio e organizzazione della società nel pensiero di Francesco Longano

La figura di Francesco Longano si staglia sullo sfondo di una società napoletana e, più in generale, meridionale che nella seconda metà del Settecento è in cerca di una significativa trasformazione. Nato a Ripalimosani, in Molise, nel 1728, Longano si trasferisce a Napoli nel 1752 e qui, dopo aver intrapreso gli studi di logica, di geometria, di diritto e di teologia, avviatosi al sacerdozio, conosce Antonio Genovesi, dal cui magistero e dai cui insegnamenti rimane fortemente affascinato. In particolare, Longano eredita da Genovesi l’interesse per il mondo umano e per la società nei suoi risvolti concreti. La volontà di elaborare un pensiero capace di rispondere ai bisogni dell’individuo e della società non lo abbandonerà fino alla morte, che sopraggiunge nel 1796 a Santopadre, in Terra di Lavoro. Fra le opere più significative di Longano si ricordano: Piano di un corpo di filosofia morale (1764); Dell’uomo naturale (1767); Logica o sia arte di ben pensare (1773); De arte recte cogitandi lectiones sex (1777); Filosofia dell’uomo (1783-1786); Viaggio per lo contado di Molise nell’ottobre 1786 (1788); Viaggio per la Capitanata (1790). Vanno, inoltre, inserite nell’elenco una Autobiografia, la traduzione del saggio di Jean Françoise Melon, Essai politique sur le commerce, ampiamente annotato dallo stesso Longano e, infine, il trattato Sull’esistenza del Purgatorio, limitato ai lumi della ragione, sequestrato durante le stampe per motivi di censura e andato perduto.

Come Vico, Longano è convinto che qualsiasi analisi scientifica sull’umanità non possa prescindere da un’indagine sul linguaggio e sulla sua formazione. È, in particolare, il rapporto fra formazione del linguaggio e sviluppo dell’umanità ad interessare l’abate molisano.25 Per Longano le lingue nascono attraverso la gestualità e l’emissione delle voci e dei suoni; quando l’uomo è ancora un essere isolato, infatti, si esprime essenzialmente mediante segni, dal momento che non riesce ad articolare la voce e a modularla in maniera tale da pronunciare parole adatte alla comunicazione.26 Sarà in un secondo momento che, perfezionandosi la fisiologia dell’uomo e sviluppandosi le relazioni sociali, si formerà un linguaggio articolato che rispecchierà la maggiore complessità del vivere in collettività.27 Secondo Longano, lo sviluppo della mente e quello delle parole sono in perfetta sincronia; infatti, egli sostiene che vi è «uno scambievole aiuto fra gli sforzi della lingua e della mente. Perché l’uso dei segni ha disteso all’infinito il progresso degli atti mentali; ad all’incontrario il progresso della ragione ha mirabilmente servito a multiplicare e a rendere più comuni e più familiari i segni».28 Il costituirsi di un linguaggio articolato rappresenta, perciò, un momento di passaggio, per l’uomo, dalla sfera naturale e individuale a quella collettiva. Per quanto riguarda, poi, i motivi inerenti alla formazione del linguaggio, Longano mostra di allinearsi alle posizioni di Condillac, sostenendo che siano stati il bisogno di spiegarsi e l’aumentare delle necessità ad originare il linguaggio;29 in questo si nota una certa differenza rispetto a Vico, per il quale, invece, sono state la paura e la conseguente incapacità di comprendere razionalmente lo scatenarsi dei fenomeni naturali a produrre, come reazione, le prime forme linguistiche e di pensiero.30

Conformemente a quanto si afferma nei dibattiti linguistici del suo tempo, Longano mostra una certa consapevolezza nella presenza di una ragione fondante in opera nell’essere umano, che è linguistica e contribuisce fortemente a formare l’identità dell’uomo, distinguendolo dagli altri esseri viventi.31 La correlazione sussistente fra le lingue e le modificazioni di carattere antropologico è tale che, secondo il filosofo molisano, le lingue non solo subiscono cambiamenti in relazione alle variazioni sociali e politiche, ma esse evidenziano pure differenze in conseguenza di fattori climatici. L’indagine di Longano si spinge, inoltre, fino al punto di ritenere che la forma assunta dalle lingue sia concomitante con il grado di progresso raggiunto da uno Stato: in uno Stato libero, infatti, una lingua è nobile e forte, mentre in uno Stato dispotico essa è servile.

L’interesse per il linguaggio e per la società si legano, poi, ad una marcata attenzione per le questioni economiche, che si rafforza quando, nel 1778, Longano si cimenta nella traduzione dell’Essai politique sur le commerce (1734) di Jean Françoise Melon. Nel Discorso del notatore, nell’ambito del quale si occupa di annotare e commentare il saggio, il pensatore molisano fa risaltare la funzione determinante rivestita dal commercio per la crescita economica dello Stato. Partendo da un’analisi di tipo storico, Longano si sofferma pure sulle ripercussioni positive esercitate dal commercio nel campo artistico, in quello della conoscenza e in ogni forma di comunicazione fra i popoli.32 Per quanto il commercio sia fondato su criteri liberisti, pure sarebbe sbagliato abbandonarlo a se stesso, senza regole e disciplina da parte dello Stato, che dovrà intervenire non solo con mezzi finanziari, ma anche con una accorta politica amministrativa.33 Relativamente a questo aspetto, Longano evidenzia una forte consonanza col pensiero di Melon, il quale era sì un «liberista convinto ma non estremo, in quanto fu sempre primariamente accorto alle esigenze primarie della nazione».34 Lo sviluppo del commercio viene inquadrato sia da Melon sia da Longano come prioritario anche rispetto alle politiche monetarie che, in questo periodo, non godono più dell’importanza di qualche decennio prima.35

Longano, comunque, è ansioso di dimostrare la concretezza del suo pensiero e quindi, allineandosi all’indirizzo seguito da altri esponenti della scuola genovesiana, cerca di tradurre in pratica le sue teorie economiche e riformistiche per risanare la società meridionale del suo tempo. Nascono così opere come Viaggio per lo contado di Molise nell’ottobre 1786 (1788) e Viaggio per la Capitanata (1790), nelle quali l’intellettuale molisano si pone in mente di raccogliere il maggior numero possibile di notizie, al fine di cambiare la condizione di sottosviluppo di quelle aree geografiche. Ferme restando le differenze che le due aree presentano, è possibile individuare legami fra le due relazioni di viaggio, sia per quanto attiene alla metodologia utilizzata sia per ciò che riguarda la diagnosi relativa alle condizioni in cui si trovano i due territori. Il filosofo molisano descrive, in primo luogo, la geografia e i paesaggi, per poi passare ad analizzare le varie colture, i tipi di allevamento, le attività artigianali più diffuse. Più precisamente, egli scandisce le sue relazioni di viaggio nel modo seguente: descrizione fisica; descrizione economica; descrizione politica; consigli e rimedi.36 Essendo l’agricoltura l’attività economica che caratterizza maggiormente i due territori presi in esame, è su di essa che si concentra l’interesse di Longano. Un dato comune alle due regioni è quello legato all’inadeguatezza dei metodi di coltivazione, alla arcaicità degli strumenti di lavoro e all’ignoranza delle conoscenze agrarie.37 Ciò che però rappresenta il problema principale è, innegabilmente, il regime della proprietà fondiaria. Quest’ultimo aspetto si ripercuote sui rapporti di produzione e pone l’esigenza di confrontarsi con la secolare questione dei latifondi feudali, vera e propria piaga economico-politica che affligge l’Italia meridionale.

Longano propone il superamento del latifondo feudale, propugnando la realizzazione della piccola proprietà contadina; egli, infatti, individua fra le cause del sottosviluppo la concentrazione della proprietà terriera in poche mani, cui si unisce l’assenteismo da parte dei nobili e del clero, ossia da parte dei possidenti terrieri, unicamente preoccupati di ottenere i massimi ricavi possibili dalle coltivazioni, sfruttando una manodopera contadina ignorante e scarsamente specializzata.38 Al riguardo, il pensatore molisano sottolinea più volte che, fra le principali ragioni del degrado dell’agricoltura, vi è la disaffezione dei contadini nei confronti di terreni che, pur essendo coltivati da loro, non sono sentiti come propri. La situazione è poi ulteriormente aggravata dai numerosi vincoli e dalle numerose servitù e prestazioni d’opera che impediscono ai produttori di godere i frutti dei raccolti e delle eventuali migliorie introdotte. Ogni attività commerciale viene in tal modo bandita o resa di difficile attuazione, anche per la presenza dei gravami fiscali imposti dalla legislazione regia e dalla giurisdizione feudale. Sebbene sia un abate, Longano non risparmia critiche neppure al clero e ai Vescovi, rei di avallare i processi degenerativi della società, quando invece loro prerogativa sarebbe quella di esercitare una azione riformistica, anche dal punto di vista educativo, poiché gli uomini di chiesa dovrebbero essere un esempio per tutta la popolazione. Nello sviluppare gli aspetti più avanzati del riformismo di impronta genovesiana, Longano finisce col prendere le distanze sia dalla linea riformistica moderata e governativa sia da altri importanti allievi di Genovesi, come Giuseppe Maria Galanti; questi, infatti, sostiene che a fondamento di una riforma complessiva dello Stato vi sia un nuovo ed efficiente sistema giudiziario. Longano, invece, pensa che le leggi da sole non possano bastare per cambiare la società, in quanto esse devono essere integrate da una trasformazione profonda delle strutture socio-economiche che ne sono il fondamento.39

Le prospettive riformistiche di Longano vengono disattese negli anni successivi, quando, essendo venuta meno la disponibilità dei regnanti, dopo i tragici sconvolgimenti susseguenti alla Rivoluzione francese, viene imposto un freno a qualsiasi iniziativa atta a cambiare lo status quo. La difficoltà di rendere attuabili questi progetti getta nello sconforto l’abate molisano, che trova una valvola di sfogo nella riscrittura del Viaggio per lo contado di Molise (1796), in cui le speranze e i propositi ottimistici degli anni precedenti lasciano il posto all’utopia, rappresentata dalla città immaginaria di «Filopoli», nella quale, con qualche richiamo a Tommaso Moro e a Tommaso Campanella, Longano afferma i suoi valori di libertà e di uguaglianza, lasciando come testamento culturale il bisogno di realizzare una società istruita, operosa, priva di classi sociali ed economicamente fiorente.

4. Conclusioni

La filosofia meridionale nel Settecento è caratterizzata da un forte dinamismo, che si estrinseca nel pensiero di molteplici figure. Vico e Longano sono fra quelle che maggiormente attestano la floridità e la vivacità della cultura nel Regno di Napoli, soprattutto per il modo in cui essi si rapportano alla cultura internazionale, in special modo quella francese. Rispetto a quest’ultima, Vico mostra prevalentemente una sorta di insofferenza, derivante dalla riluttanza che i transalpini manifestano nei confronti della retorica e, più in generale, della cultura umanistica, inquadrata dai francesi secondo un’ottica parziale e fuorviante, che non tiene conto delle potenzialità che la retorica possiede, soprattutto se ci si concentra sull’uomo, sulla società e sulla dimensione storica. Longano, invece, pienamente inserito com’è nell’ambito dell’Illuminismo, si relaziona in maniera senza dubbio più positiva nei confronti della cultura francese. D’altro canto, la seconda metà del Settecento, alla quale Longano appartiene, si differenzia dalla prima per la ormai decisiva affermazione dell’Illuminismo. Longano subisce il fascino dei pensatori francesi, in particolare di Condillac, di Montesquieu, di Helvétius, di Rousseau e non ne fa mistero, anche se ha il merito di non appiattirsi sulla passiva accettazione delle teorie di quei pensatori, apportando dei correttivi nel campo filosofico che fanno di lui un pensatore interessante e problematico.

Ciò che accomuna i due filosofi italiani meridionali è l’interesse per la scienza dell’uomo e per la dimensione sociale. Vico si sofferma sull’uomo delle origini e mette in evidenza il fatto che le prime fasi della storia sono caratterizzate da un dinamismo dovuto al manifestarsi dei primi conflitti: quando una classe sociale subalterna prende coscienza della propria infelice condizione, si ribella e genera un processo di cambiamento, che ha riflessi immediati nel campo del linguaggio. Longano preferisce concentrarsi, invece, sulla contemporaneità e pone all’attenzione dei suoi lettori come la società del suo tempo, soprattutto nel Regno di Napoli, sia condizionata da un certo immobilismo, dovuto al persistere del regime baronale e feudale, che ostacola il progresso.

Entrambi i filosofi, pur da diverse angolazioni evidenziano il fatto che nella società, prima o poi, inevitabilmente si affacciano quei bisogni di libertà e di uguaglianza che rappresentano dei valori scolpiti nella mente umana, anche se per perseguirli gli uomini devono sottoporsi ad un duro lavoro di conquista.


  1. L. Formigari, Filosofia linguistica, eloquenza civile, senso comune, in L. Formigari (a cura di), Teorie e pratiche linguistiche nell’Italia del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 61-81; p. 63. ↩︎

  2. A. Battistini, La degnità della retorica. Studi su G.B. Vico, Pisa, Pacini, 1975, p. 107. ↩︎

  3. Ivi, pp. 109-110. ↩︎

  4. M. Papini, Arbor humanae linguae, Bologna, Cappelli, 1984, p. 335. ↩︎

  5. Su queste ed altre riflessioni contenute nel presente paragrafo ci si permetta di rimandare a G.A. Gualtieri, Giambattista Vico. La retorica come scienza e l’alternativa alla gnoseologia moderna, Lavis, La Finestra Editrice, 2016; Id., La concezione del linguaggio di Giambattista Vico e l’opposizione alla cultura francese, in «Bibliomanie», 37, settembre/dicembre 2014 (consultato il 30 settembre 2016), senza paginazione. ↩︎

  6. G.B. Vico, De Constantia philologiae, in P. Cristofolini (a cura di), Opere Giuridiche, Firenze, Sansoni, 1974, p. 450. ↩︎

  7. Ernst Cassirer sostiene che «la conoscenza, per quanto universalmente e comprensivamente possa prendersi il suo concetto, rappresenta pur sempre, in tutta la comprensione e interpretazione spirituale dell’essere, un singolo genere di attività formatrice. Essa è un’attività che dà forma al molteplice, ed è guidata da un principio specifico, ma al tempo stesso chiaramente e nettamente determinato in se stesso». E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. I, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 9. ↩︎

  8. «Ogni concetto singolo, ogni simulacro e simbolo particolare è simile alla parola articolata di un linguaggio in se stesso significativo ed espressivo, articolato secondo regole determinate». Ivi, p. 19. Relativamente alla possibilità di individuare nelle teorie di Vico delle anticipazioni di «simbolismo cassireriano», si veda, fra gli altri, G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, in J. Trabant (a cura di), Vico und die Zeichen. Vico e i Segni, Tübingen, Narr, 1995, pp. 257-269. ↩︎

  9. Nel mostrare le principali caratteristiche del linguaggio secondo Vico, Vittorio Hösle le sintetizza con le seguenti parole: «Mentre la filosofia tradizionale si concentrava soprattutto sulla funzione rappresentativa del linguaggio, Vico mostra un interesse particolare per la funzione espressiva e per quella appellativa […]. L’unità dell’uomo si fonda, per Vico, sul linguaggio: il linguaggio porta a espressione lo spirito e il cuore, anzi media tra lo spirito e il corpo». V. Hösle, Introduzione a Vico. La scienza del mondo intersoggettivo, Milano, Gensini, 1997, pp. 145-146. ↩︎

  10. Si veda quanto afferma Antonino Pennisi a proposito dell’espressione «lingue mutole» utilizzata da Vico; secondo Pennisi tale espressione, nel contesto della Scienza nuova, assume contemporaneamente un valore ontogenetico, filogenetico, morfogenetico, sociogenetico. A. Pennisi, L’ingenium e i segni muti, in S. Gensini, A. Martone (a cura di), Ingenium propria hominis natura, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Napoli, 22-24 maggio 1997), Napoli, Liguori, 2002, pp. 281-294; Id., Vico e i segni muti, in J. Trabant (a cura di), Vico und die Zeichen, cit., pp. 179-195. Sull’argomento si sofferma anche R.M. Zagarella, Le tre spezie di lingue nella Scienza nuova di Vico: interpretazione diacronica e funzionale, in «Laboratorio dell’ISPF», VI, 2009, 1/2, pp. 20-36. ↩︎

  11. Secondo Jürgen Trabant, Vico, sostenendo la tesi dell’unione di voce e gesti, attribuisce pure un primato cronologico alla scrittura. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 126. ↩︎

  12. «Ma essi poeti teologi, non potendo far uso dell’intendimento, con uno più sublime lavoro tutto contrario, diedero sensi e passioni, come testè si è veduto, a’ corpi, e vastissimi corpi quanti sono cielo, terra, mare; che poi, impicciolendosi così vaste fantasie e invigorendo l’astrazioni, furono presi per piccioli loro segni». G.B. Vico, Princìpi di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, (d’ora in poi Scienza nuova 1744), in A. Battistini (a cura di), Opere, Milano, Mondadori, 2007, pp. 586-587; cpv. 402. ↩︎

  13. «Così Giove, Cibele o Berecinzia, Nettunno, per cagione d’esempli intesero e, dapprima mutoli additando, spiegarono esser esse sostanze del cielo, della terra, del mare, ch’essi immaginarono animate divinità, e perciò con verità di sensi gli credevano dèi». Ivi, p. 586; cpv. 402. ↩︎

  14. Al riguardo, risultano particolarmente interessanti le riflessioni di Luigi Pareyson, il quale sostiene che «[l]a superba pretesa di attingere la divinità con puri concetti è controproducente, e allontana e respinge ciò che si vorrebbe cogliere e penetrare, mentre a tal fine riesce ad essere molto più efficace il fascinoso incanto dell’immagine e molto più captante la delicata concinnità del simbolo». L. Pareyson, Filosofia ed esperienza religiosa, in «Annuario Filosofico», 1, 1985, p. 20. ↩︎

  15. Cfr. G. Cantelli, Mente Corpo Linguaggio, Saggio sull’interpretazione vichiana del mito, Firenze, Sansoni, 1986, pp. 143-146. ↩︎

  16. G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., p. 861; cpv. 920. ↩︎

  17. Ivi, p. 862; cpv. 923. ↩︎

  18. Ivi, p. 439; cpv. 32. ↩︎

  19. Cfr. R.M. Zagarella, Le tre spezie di lingue nella Scienza nuova di Vico, cit., p. 34. ↩︎

  20. «Ma delle lingue volgari egli è stato ricevuto con troppo di buona fede da tutti i filologi ch’elleno significassero a placito, perch’esse, per queste loro origini naturali, debbono aver significato naturalmente». G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., p. 612; cpv. 444. ↩︎

  21. «La favella poetica, com’abbiamo in forza di questa logica meditato, scorse per così lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si sporgono molto dentro il mare e serbano dolci l’acque portatevi con la violenza del corso». Ivi, p. 592; cpv. 412. Cfr. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., pp. 84-86. ↩︎

  22. Giovano, in merito, le parole di Erich Auerbach, che afferma: «Qui il Vico progetta quello che, nella concezione di fondo, è il più profondo e ardito di quanti vocabolari universali furono ideati nell’epoca barocca: un’impresa che, muovendo da punti di vista filosofico-trascendentali, subordina le speculazioni etimologiche dell’epoca ad un nuovo grandioso contesto giustificativo e teleologico». E. Auerbach, San Francesco, Dante, Vico ed altri saggi di filologia romanza, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 473. ↩︎

  23. G. Modica, Sulla fondazione del linguaggio in Vico, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XVI (1986), pp. 335-344. ↩︎

  24. Vari sono i testi che evidenziano quanto in Vico la retorica abbia un ruolo generalizzante; fra questi si segnalano i seguenti: A. Battistini, La sapienza retorica di G.B. Vico, Milano, Guerini, 1995; Id., La degnità della retorica, cit.; M. Mooney, Vico e la tradizione della retorica, Bologna, Il Mulino, 1991; A. Sorrentino, La Retorica e la Poetica di G.B. Vico, Torino, Bocca, 1927; D.P. Verene, Vico. La scienza della fantasia, Roma, Armando, 1984. ↩︎

  25. G.A. Arena, La rivolta di un abate. Francesco Longano, Napoli, Liguori, 1971, p. 77. ↩︎

  26. «Finché gli uomini vissero isolati, furono sempre mutoli, e i loro segni naturali furono limitati a quelli della percezione e della coscienza: a quelli dell’attenzione colpita d’una maniera straordinaria: a quelli della reminiscenza prima di esserne distrutti i legami ed a quelli finalmente dell’immaginazione all’estremo vivace». F. Longano, Logica o sia arte del ben pensare, Napoli, Fratelli Raimondi, 1773, pp. 65-66. ↩︎

  27. «Nel tempo medesimo, che si travagliava a migliorare e a perfezionare i movimenti del corpo, si faticava altresì a distendere i gridi naturali, i quali furono perfezionati a segno ch’essi divennero suoni articolati. A questo modo si diede splendido principio ad un nuovo linguaggio, i cui primi progressi furono lenti, mentre l’organo delle parole era talmente inceppato ed inflessibile che a malappena potea articolare pochi e semplicissimi suoni. Ma a lungo andare, essendosi più uomini e più donne insieme addensati in un corpo civile, crebbero i loro bisogni, si accese tra essi un fuoco inestinguibile di passioni, per cui crebbero anche di numero e di forze i segni per ispiegarle». Ibidem↩︎

  28. Ibidem↩︎

  29. «l’origine delle parole si dee al conato di spiegarsi, il suo aumento al bisogno, e la perfezione alla cultura dello spirito e alla lunghezza del tempo». Ivi, p. 68. Cfr. E. Bonnot de Condillac, Opere, introduzione di C.A. Viano, traduzione di G. Viano, Torino, Utet, 1996², pp. 208-213. ↩︎

  30. «Con tali nature si dovettero ritruovare i primi autori dell’umanità gentil esca quando […] il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi […]. Quivi pochi giganti […], spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo». G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., p. 571; cpv. 377. ↩︎

  31. R. Pititto, La ragione linguistica. Origine del linguaggio e pluralità delle lingue, Roma, Aracne, 2008, pp. 13-14. ↩︎

  32. «Mediante un tale commercio gli uomini dappertutto si han comunicato le loro leggi, i loro usi e pregiudizi, le loro arti, i loro lumi, le malattie ed i rimedi, le virtù ed i vizi […]. Da tutto ciò è nata quella rivoluzione di costumi che tanto ammiriamo ai nostri giorni». F. Longano, Discorso del notatore, in J.F. Melon, Saggio politico sul commercio, Napoli, Presso Vincenzo Flauto, 1778, p. XXII. ↩︎

  33. «un gran Commercio non si può stabilire, e che stabilito non si può mantenere senza una validissima protezione del Governo, dal quale è di sua natura inseparabile». Ivi, p. XXVII. ↩︎

  34. S. Borgna, Francesco Longano, in «Rivista di storia finanziaria», III, 2000, pp. 23-47; p. 37. ↩︎

  35. Ivi, pp. 33-43. ↩︎

  36. F. Longano, Viaggio per lo contado di Molise nell’ottobre 1786, Napoli, Presso Antonio Settembre, 1788; Id., Viaggio per la Capitanata, Napoli, Presso Domenico Sangiacomo, 1790. ↩︎

  37. Sull’argomento si vedano le riflessioni di V. Masiello, Il Viaggio per la Capitanata di Francesco Longano fra riformismo compatibile ed utopia egualitaria, in «La Nuova Ricerca», XI, 11, 2002, pp. 325-340; Id., La Puglia di fine Settecento, relazioni di viaggio dei riformatori napoletani e altri studi settecenteschi, Bari, Palomar, 2007, pp. 9-34. ↩︎

  38. G.A. Arena, La cultura politica molisana nell’età dell’Illuminismo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990, pp. 14-24. ↩︎

  39. G.A. Arena, La cultura politica molisana nell’età dell’Illuminismo, cit., p. 6 e pp. 33-46. ↩︎