Albert Camus, o della consapevolezza

Chi non dà nulla non ha nulla. La più grande sventura non è non essere amato ma non amare.

— Abert Camus, Carnets III, p. 51

Il 17 ottobre 1957 Albert Camus (nato a Mondovi in Algeria il 7 novembre 1913) venne insignito del Premio Nobel «per la sua importante opera letteraria, che mette in luce i problemi che si pongono ai giorni nostri alla coscienza degli uomini». Lo stesso giorno, il Dr Osterling aggiungeva alla radio svedese: «Esiste un impegno morale autentico che lo spinge a dedicarsi con arditezza e con tutta la sua persona alle questioni fondamentali della vita». L’ambasciatore di Svezia, venuto a felicitarsi con lui nel suo ufficio presso le edizioni Gallimard, precisava: «Come l’eroe di Corneille, lei è un uomo della Resistenza, un uomo in rivolta che ha saputo dare un senso all’assurdo e sostenere, dal fondo dell’abisso, la necessità della speranza perfino se si tratta di una speranza difficile, restituendo un posto alla creazione, all’azione, alla nobiltà umana in questo mondo insensato».

In Francia, ben lontani da una simile unanimità, si considerava il Nobel a Camus come «la sepoltura tra i fiori» di «un’opera sfiatata, ormai accademica». A destra gridavano: il re è nudo e a sinistra: «quest’uomo in rivolta non è altri che un borghese, predicatore da Croce Rossa». Altrove, Camus veniva annesso al moderatismo o allo spiritualismo.

Il quotidiano L’Humanité vide in quell’opera «il grido di disperazione di un mondo condannato» che traduceva «con perfetta chiarezza e grande forza — qui il suo merito letterario- l’angoscia dell’intellettuale che, legata la sua sorte a quella di una classe condannata, crede o finge di credere che l’umanesimo, la sua propria ragion d’essere intellettuale, è pure condannato a morte». Carrefour insinuò che la politica, non estranea alla scelta, aveva preferito «un partigiano delle soluzioni dette liberali in Algeria a un partigiano dell’Algeria francese…» e lamentava una tale strana e nuova «ingerenza nei nostri affari interni». Paris-Presse denunciava di quell’opera l’utopismo disfattista: «Cittadino del mondo, pacifista, firmatario di petizioni generose, avversario della pena di morte… Albert Camus non può certo spiacere a Stoccolma dove, come si è visto quando la Finlandia e la vicina Norvegia furono invase, l’amore ostinato per la pace prevale sempre su ogni altro sentimento».1

Camus, per un riflesso immediato, cercò rifugio nella propria infanzia e scrisse a M. Louis Germain, l’antico maestro che lo aveva fatto proseguire negli studi dopo le elementari, riuscendo a persuadere del bene di quell’impegno la terribile nonna materna del piccolo Albert. La lettera diceva:

Ho lasciato spegnersi un poco il rumore che mi ha circondato in tutti questi giorni prima di venire a parlarvi con tutto il mio cuore. Mi hanno appena fatto un ben troppo grande onore che io non ho né ricercato né sollecitato. Ma, quando ho appreso la notizia, il mio primo pensiero, dopo mia madre, è stato per voi. Senza di voi, senza quella mano affettuosa che voi avete tesa al bimbetto povero che ero, senza il vostro insegnamento e il vostro esempio niente di tutto questo sarebbe accaduto. Non do un’eccessiva importanza a questo genere di onori, ma almeno ciò è un’occasione per dirvi ciò che siete stato e siete sempre per me, e per assicurarvi che i vostri sforzi, il vostro lavoro e il cuore generoso che voi ci mettete sono sempre vivi in uno dei vostri piccoli scolari che, malgrado l’età, continua ad essere il vostro allievo riconoscente. (19 novembre 1957)

Con l’abituale semplicità gli toccò affrontare le festività ufficiali, ma anche qui non fu risparmiato: le cerimonie dettero pretesto ai settimanali illustrati di «celebrare la disinvoltura mondana del laureato, in cui altri videro un tradimento profondo» questo non rivelava forse il «gusto segreto di Camus per l’aristocrazia, lo smoking e i banchetti?» Le maligne insinuazioni toccavano un uomo già ferito dal dramma algerino, stanco e inquieto riguardo al proprio genio. Fisicamente e moralmente spossato da tutto quel turbinìo di serate mondane, riuscirà a tranquillizzare l’amico René Char con una lettera del 1° gennaio 1958: «Non state in pensiero… Sostenuto dai medici che ho visto, prenderò misure per ritrovare distensione e gaia scienza». Gli ci vorranno due anni per ritrovare la potenza e la gioia di creare. Alle soglie della morte, che avverrà per incidente automobilistico il 4 gennaio 1960.

Intanto, il Nobel gli ha permesso di acquistare la casa di Lourmarin in Provenza, dove sognava di installare la madre, che invece non potrà adattarvisi, lasciare Parigi e la vita faticosa che stenta sempre più a sopportare e che descrive a Char in altra lettera come «una specie di sciagura che beviamo giorno per giorno e contro la quale diventa così difficile e stremante lottare quando la giovinezza si allontana e con lei la forza d’insolenza o d’indifferenza». (18 marzo 1959)

L’adattamento e la regia dei Demoni di Dostoevski ai quali si è dedicato senza risparmio malgrado violenti attacchi di stanchezza, lo prostrano. A lungo è ossessionato dalla paura della sterilità. Spera in Lourmarin; il 4 novembre 1959 dichiara, sempre per lettera: «voglio lasciare Parigi, dove soffoco sempre più». Il 1° dicembre scrive a numerosi amici fra i quali Roger Quilliot, che ha curato l’opera camusiana da cui traggo queste notizie: «Per me che non sopporto più Parigi, mi sono ritirato nel Midi per qualche tempo e vi lavoro».2

1. Il segreto di un impegno

Lo troviamo nella risposta di Albert Camus alla motivazione del suo premio, risposta che è una professione di fede e un’affermazione di fedeltà al «mestiere di scrivere» in quegli anni. Questa onesta focalizzazione che si svolge in due discorsi, il primo alla fine del tradizionale banchetto di chiusura per la consegna dei Nobel al Municipio di Stoccolma il 10 dicembre 1957, dedicato al suo antico maestro, M. Louis Germain e il secondo, una conferenza dal titolo L’Artista e il suo tempo.3 Prima reazione: «una sorta di panico».

Come un uomo quasi giovane, ricco dei suoi dubbi e di un’opera ancora in cantiere, abituato a vivere nella solitudine del lavoro o nei ritiri dell’amicizia, avrebbe potuto apprendere senza una sorta di panico una decisione che lo portava di colpo, solo e ridotto a se stesso, al centro di una luce cruda? Con che cuore poteva egli ricevere tale onore all’ora in cui, in Europa, altri scrittori, fra i più grandi [p. es. Pasternak, al quale la giuria del Nobel aveva pensato] sono ridotti al silenzio e nello stesso tempo in cui la sua terra natale [l’Algeria] conosce una sciagura incessante?4

La necessità di «mettersi in regola con una sorte troppo generosa» lo ha fatto ricorrere al sostegno che lo ha aiutato nelle «circostanze più contrarie lungo tuta la sua vita: l’idea che mi faccio della mia arte e del ruolo dello scrittore». Chiede ora il permesso di dirla, questa idea, nel modo più semplice possibile, «in un sentimento di riconoscenza e di amicizia». «Non posso vivere senza la mia arte.» Ma: «L’arte non è un tripudio solitario.»

È un mezzo per commuovere il più gran numero offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie comuni. Essa obbliga dunque l’artista a non isolarsi; lo sottomette alla verità più umile e universale.

E, ben presto imparando che la sua «differenza», da lui pensata come radice prima della sua «arte» in realtà può trovare nutrimento solo nel suo riconoscersi «somigliante a tutti».

L’artista si forgia in questo andirivieni perpetuo da sé agli altri, a mezza strada dalla bellezza di cui non può fare a meno e dalla comunità alla quale non può strapparsi. Ecco perché i veri artisti non disprezzano nulla; essi si obbligano a capire invece di giudicare. […] Nello stesso momento il ruolo dello scrittore non si separa da doveri difficili. Per definizione, oggi, egli non può mettersi al servizio di coloro che fanno la storia; egli è al servizio di coloro che la subiscono.5

Altrimenti, sarà «solo e privato della sua arte», soprattutto se si metterà al passo delle armate della tirannide. Basterà tuttavia «il silenzio di un prigioniero sconosciuto abbandonato alle umiliazioni all’altro capo della terra» per trarlo dal suo esilio almeno ogni volta che, lui privilegiato della libertà sappia pensare a quel silenzio e riesca a farlo «risuonare con i mezzi dell’arte».

Con la sua connaturata umiltà, Camus pensa che «nessuno di noi è abbastanza grande» per trovarsi all’altezza di una simile «vocazione»; tuttavia, in qualsiasi circostanza si trovi, imprigionato dalla tirannide o provvisoriamente celebre e libero di esprimersi, «lo scrittore può ritrovare il senso di una comunità vivente che lo giustificherà» purché egli accetti i due compiti che fanno la grandezza del suo mestiere: «il servizio della verità e quello della libertà».6

In un’intervista concessa a Demain (24-30 ottobre 1957) prima del Nobel, aveva detto:

«Lo scopo dell’arte, lo scopo di una vita non può essere che di accrescere la somma di libertà e di responsabilità che è in ogni uomo e nel mondo». Non la si può «né diminuire né sopprimere» mai, nemmeno provvisoriamente. Per questo trova «senza valore» sia le opere che vogliono piegare l’uomo e convertirlo a regole esterne, oppure altre che vogliono «asservirlo a ciò che di peggiore vi è in lui, al terrore o all’odio».

Nessuna grande opera è mai stata fondata sull’odio o sul disprezzo. Al contrario, non esiste una sola opera d’arte vera che non abbia in definitiva aumentato la libertà interiore di ciascuno di coloro che l’abbiano letta e amata.

Allora, l’artista che, al termine della sua lunga fatica, potrà dire di avere «alleviato o diminuito la somma di servitù che pesa sugli uomini […] potrà, in certa misura perdonare a se stesso».7

I due impegni in cui si radicherà la sua opera saranno «il rifiuto di mentire su quello che sappiamo e la resistenza all’oppressione». L’opera andò maturando fin dalla giovinezza attraverso l’avventura collettiva del teatro che già fin dal 1936 (e nel 1930 ha i primi attacchi della tubercolosi che lo intralcerà tutta la vita, vietandogli l’accesso all’Università dopo il suo ottimo liceo, impedendo il suo arruolamento nell’esercito nel 1939, e obbligandolo a periodi di ricovero o ad altri impegni di cura) egli vive creando con un gruppo di amici il Théâtre du Travail («con il popolo e per il popolo», da militante comunista allora — lo fu tra il 1934 e il 1937 —, da pioniere culturale e da artista-regista, attore, adattatore di testi — in questo eleggendo a suo «maestro» Jacques Copeau (1879-1949), per lui il solo vero «riformatore» della scena in tutti i suoi aspetti), passione profonda che resterà fino in fondo uno dei motori della sua esistenza. Attraverso la sua forte attività di giornalista nei vari ruoli di un quotidiano; per es. nella cronaca letteraria, dove trovo due esempi significativi della sua concezione della scrittura. Su Alger républicain, uno del 20. X. 38 su La Nausée di Sartre; pur apprezzando molto il romanzo, da questo momento si distacca dall’estetica di Sartre e «gli rimprovera di insistere sulla bruttura umana per fondare il tragico dell’esistenza». Afferma: «Senza la bellezza, l’amore o il pericolo, sarebbe facile vivere». Una critica analoga gi rivolge il 12. III. 39 sullo stesso giornale a proposito della raccolta di racconti Le Mur, dicendo: «Constatare l’assurdità della vita non può essere una fine, ma soltanto un inizio».8

L’indomani della Liberazione (1944), Sartre lanciò la tesi dell’engagement letterario (Situations II). L’opinione associò Sartre e Camus nello stesso atteggiamento impegnato. In realtà Camus non accettò mai che certe verità dovessero essere taciute perché disturbavano tal movimento o tale causa politica e si rifiutò di giudicare un’opera sulla base della sua «situazione» storica. Due anni dopo, la posizione è la stessa, ma traspare la stanchezza: «Che tentazione però, in certi momenti, di distogliersi da questo mondo tetro e scarno! Ma quest’epoca è la nostra e non possiamo vivere odiandoci». (1948) In questo periodo Camus combatte contro lo stabilirsi della guerra fredda, contro tutti i totalitarismi e per una democrazia internazionale; partecipa a numerose manifestazioni per la difesa della libertà.

Bisogna riferirsi alla sua prefazione per la Ballata di Reading Gaol di Oscar Wilde, dal titolo L’Artiste en prison, per sentirlo definire la sua posizione. Né estetismo né dandysmo o farisaismo nell’arte.

Perché creare se non è per dare un senso alla sofferenza, anche solo per dire che è inammissibile… Se l’artista non può rifiutare la realtà, è perché ha l’incarico di darle una più alta giustificazione. Come giustificarla se si decide di ignorarla? Ma come trasfigurarla se consentiamo ad asservirci ad essa?9

2. Mettersi alla prova per «essere un uomo»

Albert Camus non rifiutò la realtà delle sue «situazioni più contrarie» né si asservì ad essa. Ne sia una prima riprova la lettera che il 3 gennaio 1944 egli, reduce dal periodo più crudo della sua malattia, la tubercolosi, dodici anni di frequenti internamenti in sanatorio, scrive a Guy Dumur, critico letterario e uomo di lettere, che ha le sue stesse noie. Leggiamo:

Condivido le vostre noie e so per esperienza personale ciò che può significare questo escludersi che ci imponiamo con un desiderio di vita intatto. Ma credo che bisogna accettare. E non per una ragione superiore, ma per l’idea che si ha di se stessi. […] Per un uomo che ha qualcosa da fare, un buon corpo è il primo utensile. Fate in modo di poter avere il vostro ben saldo fra le mani. […] Vi dico questo paternamente, come uno che vorrebbe farvi condividere un’esperienza della quale non parlo mai, ma che sento potrebbe servirvi. La vita interiore non è che una parola, in fondo. Ma è bene darsi delle discipline e trovare così l’occasione di mettersi alla prova — di sapere fin dove si può andare. […] Poiché io credo che c’è una risposta nell’uomo (non dico l’individuo), nella sua rivolta, nel suo sforzo per affermarsi contro la propria condizione: […] è a questo che voglio dare una forma. E in fondo cosa vuol dire questo, se non che non esiste niente che valga là dove non c’è niente da vincere.10

Una tale fierezza faceva parte del suo temperamento «castigliano», ereditata dall’ascendenza spagnola della madre, di Majorca, e mascherava la sua vulnerabilità, impedendogli di accogliere con piacere il suo professore di filosofia al «gran liceo» Bugeaud di Algeri, Jean Grenier che, preoccupato della sua assenza e per la sua salute, nell’autunno del 1930 era andato a trovarlo nel quartiere operaio di Belcourt, dove «l’ostinato e molto promettente giovane» viveva in tre stanze con la madre, la nonna, il fratello e uno zio sordo, senza elettricità né acqua corrente. «L’orgoglioso Camus, certo imbarazzato di esser visto in tale povertà era rimasto senza parole di fronte a Grenier e a un suo compagno che lo accompagnava.» In una lettera sui dieci anni dopo (esiste fra il maestro e l’allievo una bella corrispondenza — 235 lettere fra il 1932 e il 1960) Grenier scriveva: «Ai vostri occhi io rappresentavo la SOCIETA’, ma per me voi non siete mai stato “Lo Straniero”.» [E qui io vedo un’allusione al romanzo eponimo pubblicato nel luglio 1942 da Gallimard, che dette a Camus fama immediata.] Albert Camus rispondeva: «Sì, ricordo la vostra visita a Belcourt. Perfino oggi ne posso ricordare tutti i particolari. Forse, in senso assoluto, rappresentavate la Società. Ma veniste, e quel giorno io mi sentii di non essere così povero come avevo pensato.» E da quella visita, «ebbe inizio la lealtà verso di voi che ho mantenuta per venti anni e che non verrà meno.»11

Per il giovane Camus, il «maestro» simboleggiava libri, conoscenza, occasione di nuove scoperte e il più sicuro legame con la Francia e l’establishment letterario francese. Grenier, che spesso usciva dal curriculum di studi per parlare agli studenti di Dostoevski e Gide, di Nietzsche e di Bergson… di religione, Taoismo, Induismo; e poi, da appassionato ammiratore della Grecia classica, li introdusse alla letteratura greca, sperando soprattutto di condurli alla scoperta di sé. Questo, perché:

Ciò che mi faceva affezionare ai giovani che mi erano affidati, era ciò che potevo insegnar loro di se stessi, più di quello che avevo l’incarico di insegnare. Credevo che questo fosse il solo modo di riuscire ad assolvere il mio compito.12

Jean Grenier favoriva la pubblicazione degli scritti dei suoi allievi sui giornali locali perché a suo modo di vedere la pubblicazione era uno stimolante e anche «un rivelatore perché non ci si conosce fino a quando non ci siamo espressi». Intanto egli scriveva e fu seguendo il suo esempio che il giovane pensò che si poteva «scrivere», avere «l’arditezza» di parlare di se stessi. Il catalizzatore principale fu il romanzo di André de Richaud La douleur (1931), credo l’unico del suo autore [lo trovo un vero classico per il pathos misurato] uno dei primi che Grenier gli dette. Il giovanissimo Albert, che ancora niente aveva potuto distogliere «dalle spiagge, dagli studi distratti e dalle letture oziose» e dalla vita difficile che era stata la sua, trovò in quel libro la povertà, la bellezza delle sere, una madre.

I miei silenzi testardi, quelle sofferenze vaghe e sovrane, il mondo singolare che mi circondava, la nobiltà dei miei, la loro miseria, i miei segreti infine, tutto questo poteva essere detto! C’era una liberazione, un ordine di verità in cui la povertà, per esempio, prendeva d’un tratto il suo vero volto, quello che sospettavo e riverivo oscuramente.13

Al 1932 risalgono alcuni scritti giovanili significativi per tutto il suo cammino di ricerca per una unificazione, la conciliazione fra due tendenze: la passione della verità e della felicità e la ricerca di una indifferenza metodica. Intuitions: «… stanco di fissarmi regole di condotta che non seguo… Non sono forte. Voglio essere indifferente.» Retour sur moi-même, in forma di dialogo romantico: «Vedi, l’unità che io cerco nel mio pensiero non esiste». Ma: «In verità io credo all’unità. E credo in molte cose». Souhait che è dialogo con «il pazzo»: «Come vorrei amare la vita… Ho paura della morte. Mi acceca. È triste toccare la meta.» E: «Vorrei anche non amare la vita. È qualcosa di troppo vicino e di troppo tangibile». Infine, in Délire (ottobre 1932): «Rifiutare di sapere è un affrancarsi, un definitivo passo in avanti e una liberazione dell’anima.» Il desiderio di banalità lotta in lui con il desiderio di esprimere la propria originalità, già molto presente: «Soffro di questo, come soffro di ogni contraddizione. In me, io concilio tutto…» E, per non isolarsi «in un perpetuo desiderio del sacro», per non abbandonare l’uomo: «La terra, il cielo, il sogno, l’azione, Dio, tutto è oggetto d’amore. Amare la vita sotto le sue molteplici forme». In definitiva, accettare la contraddizione e i suoi tormenti come realtà stessa della vita.14 Un pensiero dei Carnets I, Maggio 1936 mi sembra confermare il punto d’arrivo precedente.

Non separarsi dal mondo. Non si manca la propria vita se la si mette nella luce. Tutto il mio sforzo, in tutte le posizioni, le sventure, le disillusioni, sta nel ritrovare i contatti. E perfino in questa tristezza in me che desiderio d’amare e quale ebbrezza alla sola vista di una collina nell’aria della sera. Contatti con il vero, la natura per prima, e poi l’arte di coloro che hanno capito, e la mia arte se ne sono capace. […] L’essenziale: non perdersi, e non perdere ciò che, di sé, dorme nel mondo.15

3. La passione e la misura

Sono a mio avviso le due grandi forze del cuore e della mente che lo guidano nella scrittura dei romanzi e delle novelle, dei drammi e degli articoli (penso qui ai suoi editoriali di Combat). «Per ben capire Camus, bisogna vedere che cosa c’è di semplice e di diretto nella sua adesione alla vita — e anche di assoluto», ha scritto Jean Grenier e mi pare che questa affermazione sia la passione, decisione di una fedeltà, e sia insieme la misura con cui la passione vuole esprimersi, senza compiacimenti né rigidità.16 Riguardo alla sua prima opera, L’Envers et l’Endroit (1937), Albert Camus ha scritto:

È allora che ho cominciato ad amare l’arte con quella passione violenta che l’età, lungi dal diminuirla, ha reso sempre più esclusiva… Questa malattia aggiungeva altri ostacoli, e i più duri, a quelli che furono i miei. Ma in definitiva ha favorito quella libertà del cuore, quella lieve distanza riguardo agli interessi umani che mi ha sempre preservato dall’amarezza e dal risentimento.17

In queste pagine brevi dove la tensione non viene mai meno, la passione è testimoniata senza parole, segreta, celata nei gesti (la vecchia inferma che i suoi stanno per abbandonare per andare al cinema e che si aggrappa alla sua mano di visitatore: «la più orrenda sventura che avesse mai conosciuto»: L’Ironie); (nel riemergere di antiche ore «placide e gravi» in cui per colui che torna risuonano frasi: «È così difficile vivere.» E: «Ma l’errore peggiore è quello di far soffrire»:

(Entre oui et non). E soprattutto il silenzio della madre che, una sera assalita da un uomo si sviene. Commozione cerebrale, il figlio viene chiamato a vegliarla. Sul letto, accanto a lei finisce per addormentarsi, portandosi dentro «l’immagine disperante e tenera di una solitudine a due.» E, molto tempo dopo, «quel momento in cui aveva sentito i legami che lo attaccavano alla madre, come se ella fosse l’immensa pietà del suo cuore, sparsa intorno a lui, divenuta corporea…»: (Entre oui et non). Il silenzio della madre diverrà insegnamento della misura nel dire la realtà.18

Nei saggi lirici di Noces (pubblicati da Charlot ad Algeri nel 1939) da Noces à Tipasa traggo il suo sì alla vita.

Mare, campagna, silenzio, profumi di questa terra, mi riempivo di una vita odorosa e mordevo nel frutto già dorato del mondo sconvolto dal sentire il suo succo zuccherino e forte colare lungo le mie labbra. No, non ero io che contavo né il mondo, ma soltanto l’accordo e il silenzio che da lui a me faceva nascere l’amore.19

Dai suoi editoriali di Combat, fondato nel 1941da animatori cristiani e laici che vogliono farne «un giornale d’informazione e di riflessione», e che si presenta come l’organo dei movimenti uniti di Resistenza e poi del Movimento di Liberazione nazionale, voglio trarre un esempio in cui la passione e la misura sono espressione di una onesta responsabilità civile.

21 agosto 1944. Dalla Resistenza alla Rivoluzione.

Sono stati necessari cinque anni di lotta ostinata e silenziosa perché un giornale, nato dalla volontà di resistenza, pubblicato senza interruzione sfidando tutti i pericoli della clandestinità, possa finalmente essere pubblicato alla luce del sole in una Parigi liberata dalla propria vergogna. […] Questi anni non sono stati inutili. I francesi che vi sono entrati per il semplice riflesso di un cuore umiliato ne escono con una consapevolezza superiore, che ormai fa loro anteporre a ogni cosa l’intelligenza, il coraggio e la verità del cuore umano. E sanno che esigenze tanto evidenti creano loro degli obblighi quotidiani sul piano morale e politico.20

Queste espressioni, che vogliono ispirare una politica nel senso più nobile del termine, mi risuonano come un preludio all’Enracinement, il primo libro di Simone Weil che Camus vorrà pubblicare nella sua collana «Espoir» presso Gallimard, nel 1949.

4. La Peste (1947)

«Albert Camus non si sbagliava sulle proprie forze, era, per un’eccezione infinitamente rara, giudice esatto del proprio valore.»21 Così, in meno di cinque anni, ha pubblicato L’Étranger (juillet 1942) romanzo e Le Mythe de Sisyphe (octobre 1942), saggio, messo in scena la tragedia Caligula (1944) che, insieme al romanzo e al saggio sull’Assurdo nella condizione umana, «costituisce il primo stadio di quella che ora non ho paura di chiamare la mia opera. Stadio negativo e difficile da riuscire ma che deciderà di tutto il resto».22 E pure, in precedenza, Le Malentendu, «tragedia moderna», teatro di «situazione» tratto da un atroce fatto di cronaca (un’albergatrice, aiutata dalla figlia, uccide per derubarlo un viaggiatore sconosciuto; egli era in realtà suo figlio, che tornava in patria dopo vent’anni; accortesi del tragico «malinteso», madre e figlia si uccidono). Era caporedattore di Combat, di cui abbiamo detto e aveva fondato la collana «Espoir» presso Gallimard dove, accanto a poeti come René Char, a una romanziera come Violette Leduc, il settore della filosofia sarà soprattutto dedicato a Simone Weil.

Ora, nel 1947, l’avventura del primo Combat si chiude, la squadra d’inizio si disperde, Camus lascia il giornale il 3 giugno. Il 10 giugno esce La Peste. Il romanzo ha un successo immediato e immenso, ottiene subito il premio dei Critici, Sartre che si trova negli Stati Uniti per una conferenza ad Harvard, «rinuncia al soggetto previsto per improvvisare entusiasta sull’opera». Raggiunge in due anni le 161. 000 copie. Fin dal 1948 è tradotto e pubblicato in numerosi paesi: Argentina, Danimarca, Finlandia, Austria, Inghilterra, Italia… . Nel 1950, in Giappone. Nel 1953 in Israele, per non dirne che alcuni.

Qual è stato il progetto de La Peste? «Sviluppare un mito basandosi su un mondo concreto molto reale.» Roger Grenier cita il Camus dei Carnets, che si definisce «non un romanziere nel senso in cui lo si intende. Ma piuttosto un artista che crea dei miti sulla misura della sua passione e della sua angoscia…».

Moby Dick era per lui libro maggiore in quanto «uno dei miti più sconvolgenti mai immaginati sulla lotta dell’uomo contro il male». E, come «la grande balena bianca, la Peste sarà il simbolo del male». La storia, realistica nello scenario, nella descrizione clinica della malattia, nella varietà dei personaggi, «racconta come la malattia si dichiari non in una città immaginaria ma ad Orano, come la città sarà tagliata fuori dal mondo e consegnata alla sua sventura. E come alcuni uomini sapranno opporsi al male con la loro rivolta» che ha aspetti diversi secondo la diversità del loro carattere.

La maturazione del romanzo è stata lenta. Se ne trovano appunti di preparazione nei Carnets fin dal 1938. La guerra scoppia nel settembre 1939 e «apporta al simbolo un senso più preciso». Seguono poi la disfatta, l’armistizio, l’esilio forzato di Camus a Orano, che durerà dalla fine del 1940 all’estate 1942. La città, guardata senza indulgenza, fornirà lo scenario.

Si può dire che con La Peste comincia nell’opera di Camus la fase della Rivolta. Se fin qui l’uomo Camus era impegnato nelle sue attività e nei suoi articoli da una reale coscienza politica di adesione alla Resistenza, lo scrittore Camus non l’integrava né ai suoi saggi, né alla sua narrativa né alle sue opere teatrali. Proprio mentre viveva e lottava nella storia, certo per «preservare quella parte dell’uomo che non gli appartiene», scrive;23 tuttavia pensava (già in una nota del maggio 1939) che: «L’attualità offre materia al creatore solo nella misura in cui suscita problemi “inattuali” che le danno il suo senso».24 E diffidava «troppo del dogmatismo e della letteratura a tesi per non diffidare della letteratura impegnata».25

Camus, che in un pensiero dei Carnets I [1935-1937] scriveva: «Non è di essere felice che mi preoccupo ora, ma solo di essere cosciente», in Remarque sur la révolte del 1945 all’epoca della redazione de La Peste scrive:

Ecco un primo progresso che lo spirito di rivolta fa fare a una riflessione dapprima penetrata dall’assurdità e dall’apparente sterilità del mondo. Nell’esperienza assurda, la tragedia è individuale. A partire dal movimento di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva. Essa è l’avventura di tutti. […] Il male che fin lì un solo uomo provava diventa peste collettiva.26

La guerra, «per ignobile che sia», quando è scoppiata, «non è permesso restarne al di fuori».27 Così la peste diventa «la faccenda di tutti» una volta chiuse le porte della città posta in quarantena. Tutti «nello stesso sacco» compreso il narratore, e bisognava arrangiarsi. Fu così che «un sentimento tanto individuale come la separazione da un essere amato divenne d’un tratto, fin dalle prime settimane, quello di tutto un popolo e, con la paura, la sofferenza principale di quel lungo tempo d’esilio». La separazione che dapprima era apparsa provvisoria a madri e figli, sposi e amanti, quelli che restavano «distratti appena per quella partenza dalle loro preoccupazioni abituali, si videro in un sol momento allontanati senza soccorso».28

Fra i «prigionieri della peste» tutti significativi in quanto attori di un dramma che «spesso prendono immediatamente la parola entrando in scena»29 ne scelgo due: Jean Tarrou e Bernard Rieux, di solito chiamati solo per cognome, perché mi appaiono più chiaramente i portavoce di Camus e due figure interiori di lui stesso.

Tarrou30: Il suo esilio è volontario, s’impegna pienamente nella lotta contro la peste fino a rimetterci la vita, eppure della vita rimane ai margini; non è un separato. È il solo a non essere sorpreso dalla peste, dato che per lui essa è soltanto la manifestazione esterna di un microbo «naturale» che portiamo in noi. Con lucidità cosciente afferma che:

Nessuno al mondo ne è indenne, e bisogna sorvegliarsi senza tregua per non essere portati, in un minuto di distrazione a respirare in faccia a un altro e a rifilargli l’infezione. Cosa naturale, è il microbo. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza […] è un effetto della volontà e di una volontà che non deve mai arrestarsi. L’honnête homme è colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha la minor distrazione possibile. E ce ne vuole di volontà e di tensione per non essere mai distratti!31

E sulla base di questa non distrazione, tanto affine all’attenzione weiliana, che Tarrou passa dalla morale della convinzione alla morale della responsabilità. Tarrou sa bene che «dal momento in cui [ha] rinunciato a uccidere [si è] condannato a un esilio definitivo. Sono gli altri che faranno la storia». Egli, solitario che ama l’amicizia, fonda su «la comprensione» o «la simpatia» quella che chiama la sua morale e insieme la sua ricerca della pace interiore.32

Rieux: È un vero medico, che oppone all’angoscia e all’impotenza di fronte alla peste due «virtù modeste, orientate alla vita quotidiana»: la modestia stessa per cui dice della malattia «non sappiamo nulla di tutto questo» e ammette spesso la propria ignoranza e l’onestà, della quale dà una definizione «apparentemente restrittiva, ma in realtà molto ricca»: «nel mio caso consiste nel fare il mio mestiere».33

Mestiere di medico: allontanare la sofferenza, salvare i corpi, guarire, e «mestiere d’uomo» che coincide con il primo, anzi ne rappresenta l’evoluzione trasformandolo in vera e propria ascesi, regola di vita, ricerca di «vederci chiaro» nella notte in cui si trova, confrontato allo scandalo della morte che gli appare sempre inaccettabile. Come Camus stesso, «le verità relative sono le sole che [lo] commuovono».34

Troviamo testimonianza di questo suo ideale tutto umano nel dialogo rivelatore fra lui e Tarrou, che sfocia nella decisione di fare insieme un bagno di mare nella notte, per il quale potranno esibire i loro lasciapassare e che segnerà l’inizio della loro amicizia. Il dialogo esprime in sintesi le loro due visioni della vita.

— Insomma, disse Tarrou con semplicità, è sapere come si diventa un santo.

— Ma voi non credete in Dio.

— Appunto. Si può essere un santo senza Dio, è il solo problema concreto che io conosca oggi.

Bruscamente, […] giunse ai due uomini un clamore oscuro. [Poi] grida d’uomini. […] Tarrou si era alzato e ascoltava. Non si udiva più nulla.

— Si sono ancora picchiati alle porte.

— Ora è finita, disse Rieux.

Tarrou mormorò che non era mai finita e che ci sarebbero state ancora vittime, perché questo era nell’ordine.

— Forse, rispose il dottore, ma sapete, io mi sento più solidale con i vinti che con i santi. Non credo di avere il gusto dell’eroismo e della santità. Quello che m’interessa è essere un uomo.

— Noi cerchiamo la stessa cosa, ma io sono meno ambizioso.35

Tarrou morirà di peste in casa di Rieux, assistito fino alla fine dal dottore e da sua madre che si alternano. Ma l’ultimo giorno, il dottore decide di farsi sostituire all’ospedale e rimanda le consultazioni. Come Tarrou gli ha chiesto, dirà sempre la verità su tutte le fasi della malattia. È tanta la calma e la tenerezza che emanano da Mme Rieux, «piccola ombra raccolta su una sedia vicino a lui», che Tarrou non potrà smettere di guardarla.

Alla fine, quando quella «forma umana che gli era stata così vicina, trafitta ora dai colpi di spiedo, bruciata da un male inumano» naufragherà nelle acque della peste, Rieux dovrà restare sulla riva, «le mani vuote e il cuore attorto, una volta di più senz’armi e senza soccorso contro quel disastro». Le lacrime dell’impotenza gl’impediranno di vedere lo spirare dell’amico.

La notte della liberazione dalla peste che non era poi «così diversa» da quella del loro dialogo sulla terrazza, dal porto oscuro «salirono i primi fuochi dei festeggiamenti ufficiali, [salutati] da una lunga e sorda acclamazione» della città.

Cottard, Tarrou, quelli e quella [sua moglie, morta lontana in un sanatorio] che Rieux aveva amati e perduti, tutti, morti o colpevoli, erano dimenticati. [Il suo vecchio malato] aveva ragione, gli uomini erano sempre gli stessi. Ma [nella] loro forza e nella loro innocenza, al di sopra di ogni dolore, Rieux sentiva di raggiungerli.

E fu allora che, nel levarsi sempre più fitto nel cielo degli «zampilli multicolori», Rieux «decise di redigere il racconto» della peste, per non essere uno «di quelli che tacciono, per testimoniare in favore di quegli appestati» e

dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli, che esistono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare.36

Scopriamo dunque alla fine che Bernard Rieux, medico e uomo, è anche il nostro consapevole narratore.

5. Albert Camus — Simone Weil: un’amicizia sub specie aeternitatis

Nei suoi sentiti ricordi del discepolo e amico, Jean Grenier scrive: «Esistono due chiavi [per l’opera di Camus]: il mito di Moby Dick e il pensiero di Simone Weil». Sempre secondo Grenier, «sopra ogni cosa» Camus ha stimato in lei «ch’ella abbia fatto fino in fondo l’esperienza di una vita conforme a un ideale, […] una esigenza e una tenacia (che facevano pensare alle sue)».37

Inoltre viene subito da pensare a Simone Weil, leggendo, in una lettera di Camus a Jean Grenier: «Gli uomini come me, che sognano un’impossibile sintesi, che rifiutano la violenza e la menzogna senza dover giustificare il loro contrario, e che tuttavia non possono trattenersi dal gridare, sono nella follia».38

Questa lacerazione di Camus ricorda altra analoga lacerazione della Weil, che così si esprime sui matti di Shakespeare nell’ultima sua lettera ai genitori: «L’estrema tragicità è che, non avendo i matti titolo di professore o mitra di vescovo, nessuno essendo avvisato di far qualche attenzione al senso delle loro parole […], la loro espressione della verità non viene nemmeno udita». E, dandole il nomignolo affettuoso di Mime, interroga la madre: «Darling M[ime] non senti tu l’affinità, l’analogia essenziale fra questi matti e me?»39

Albert Camus entra in contatto con il pensiero weiliano negli Stati Uniti, dove ha ottenuto l’incarico di dieci settimane di conferenze sulla Costa Est nel 1946, tramite l’amico italiano Nicola Chiaromonte, giornalista e filosofo esiliato a New York, che lo introduce subito nella cerchia della rivista radicale indipendente politics, animata dal redattore Dwight Macdonald. La rivista aveva appena presentato L’Iliade ou le poème de la force, saggio capitale di Simone Weil consigliato a Macdonald da Chiaromonte, che lo aveva letto nel 1941 sui Cahiers du Sud, l’ardita, ampia e profonda rivista di Marsiglia, dove Simone Weil aveva potuto pubblicare il saggio, impedito dalla censura nella Parigi occupata, con lo pseudonimo di Émile Novis. L’americana E. Jane Doering vede subito «la convergenza di idee fra i due militanti» comparando giustamente il saggio dove Simone definisce la forza come «la forza che è maneggiata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae» e quello che Camus dice in una sua conferenza negli Stati Uniti dal titolo «La crise de l’homme»:

Siamo sempre strangolati dal nodo scorsoio della violenza. […] La diffidenza, il risentimento, la cupidigia, la sete di potere costruiscono un universo oscuro e disperato.40

Come Camus, Simone Weil provava compassione («dal suo sguardo si percepiva che lei era cassa di risonanza per i mali del mondo», diceva Malou David, una sua più giovane amica di Marsiglia; collaboravano nella distribuzione della rivista Cahiers du Témoignage chrétien); per lei il compatire alle miserie altrui era «la pietra angolare di ogni fondazione della giustizia e dell’amore. Per Camus, questo esige immaginazione, di cui troppi soffrono la carenza». E, mentre Simone enumera gli imperativi: prima di tutto «sapere che nulla è mai al riparo dalla sorte, non ammirare la forza, non odiare i nemici e non disprezzare gli sventurati», per lei «la base stessa dei Vangeli», Camus «costruisce la sua visione sulla ragione in un mondo sprovvisto della grazia e della giustizia: “si è un assassino perché si ragiona male”». Chiamare le cose con il loro nome, «bandire la violenza e la menzogna e costruire una morale della libertà e della sincerità». Giudicare un paese in termini di potere rafforza e sostiene «una concezione dell’uomo che inevitabilmente porta alla sua mutilazione, incoraggia la sete di dominazione e infine legittima l’assassinio. Chiunque dica o scriva che il fine giustifica i mezzi, e che la grandezza è questione di potere, è radicalmente responsabile dell’orribile accumularsi di crimini che sfigura [il nostro] mondo contemporaneo.» Questa era la conclusione del suo discorso.41

Queste parole, che in Camus erano innestate in tutta la sua vita cosciente d’uomo e di artista «solitario e solidale» come recita il titolo dello splendido album che ha composto su di lui la figlia Catherine,42 bastano da sole a spiegarmi l’impeto di ammirazione entusiasta che lo portò a pubblicare subito nella collana da lui inventata presso Gallimard, «Espoir» (lanciata nel 1946, dapprima pensata con il titolo Prométhée, che già era un programma di coraggio e di fraternità umana, ma che non fu accettato da Gaston Gallimard,43 quel Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain (Nota Bene: «doveri verso l’essere umano» e non «diritti» né «doveri di» — Mazzini) che, dalla ricchezza sconvolgente di altra vita cosciente, avrebbe parlato di pienezza versus mutilazione, di «vera grandezza» versus «falsa grandezza», considerando quest’ultima una dei quattro ostacoli alla formazione di una «civiltà degna di questo nome».

6. Un’amicizia necessaria

A differenza della carità, che è «indiscriminata», l’amicizia presuppone una «preferenza personale», quindi una scelta: al tempo stesso essa è «la fonte d’ispirazione più potente e più pura che si possa trovare fra le cose umane»44 purché sia vissuta rispettando il fatto che «non esista alcuna contraddizione fra il cercare un bene accanto ad un essere umano e bene volere per lui».45

Tentando di esercitare il mio ascolto interiore in amicizia di fronte all’amicizia fra Albert Camus e Simone Weil, trovo che essa è nata e cresciuta dando frutti palpabili (la pubblicazione da parte di Camus dell’opera più comunicativa di Simone Weil in quanto «filosofa, storica e mistica»).46 Frutti buoni da gustarsi per diverse generazioni, a partire dalla prima fra il 1949 e il 1960 (per limitarsi alle date in vita di Camus); in quanto ai frutti invisibili, il loro maturarsi è illimitato.

Il loro fu un dialogo necessario che fece loro esprimere la coscienza che avevano della tragicità della nostra epoca. Più ancora: due esseri assoluti com’erano, moralisti appassionati, innamorati della lucidità, angosciati in modo inguaribile dal male e dalla sofferenza diffusi sulla terra, essi appartengono alla dimensione tragica. Questo il punto centrale della loro sintonia di sostanza. Una sintonia che si traduce anche in virtù analoghe, come la fedeltà all’onore interiore che desiderano entrambi formare e rispettare dentro di loro, grazie a delle analogie di sofferenza e di aspirazione etica, un’aspirazione che in entrambi ha la priorità.

Per Albert Camus rimando lettrici e lettori alla sua lettera (1944) di risposta incoraggiante a Guy Dumur, internato in sanatorio (Camus, forte di un’esperienza simile per dodici anni dopo i primi attacchi della tubercolosi a diciassette anni).47 Per Simone Weil, citerò una frase in una sua lettera dalla fabbrica (1934-1935) all’amica Albertine Thévenon preoccupata per la sua salute. Le spiega con affetto la propria motivazione, a cui obbedire malgrado ogni insopportabile fatica: «Concepire la propria vita intera davanti a sé e orientarla tutta in un senso determinato con la volontà e con il lavoro».48

E ora penso a due immagini di loro nei loro corpi terrestri che, a mio avviso, possono esprimere quella prossimità d’anime. Una ci è data dal ricordo di Nicola Chiaromonte che «accolse Camus a braccia aperte sulla banchina del porto di New York, il 25 marzo del 1946». Così lo descrive: «Mi sembrava uscito da un campo di battaglia; fui colpito dalla tristezza e dalla fierezza che si leggevano nel suo viso».49

L’altra è il ritratto in parole che ho dipinto io nel meditare sulla foto di Simone Weil in uniforme da miliziana, in Spagna al ritorno dal fronte nel 1936, quella che Camus teneva sulla sua scrivania.50

Il volto, come investito dal vento, sprigiona sotto il sorriso buono e intrepido, un po’ folle, un’accoratezza inguaribile. I lineamenti nudi, incorniciati casualmente dai capelli, sono ben disegnati e piacenti, leali. Gli occhi, privi di lenti e un poco strizzati, sembrano più neri. La vulnerabilità è quello che più ci colpisce in questo viso: la vulnerabilità che esprime una completa fusione fra l’essere e il sembrare.51

7. La scelta

Se, nel caso dell’amicizia di Simone per il padre domenicano Joseph-Marie Perrin e per Gustave Thibon, vignaiolo, la sua scelta fu esplicita (viste le loro date di nascita, Thibon 1903, Perrin 1905 si tratta anche di amicizie generazionali) e vissuta in circostanze vitali per quella che Simone considerava la sua «vocazione» (con Perrin il dialogo sul battesimo per lei ebrea agnostica, eppure cristiana di ispirazione nelle azioni e nei pensieri; con Thibon il lavoro di vendemmiatrice che desiderava per avere un vero contatto con la natura attraverso il lavoro dei campi), per Albert Camus la sua scelta fu implicita, ma ugualmente voluta dalle circostanze, al di là del tempo e dello spazio (Simone era morta il 24 agosto 1943 in un sanatorio di campagna ad Ashford, nel Kent) e con conseguenze ugualmente vitali.

Cominciai a vederlo fin dal mio primo contatto con la loro amicizia, fin allora presagita (per esempio nella mia prima lettura del romanzo La Peste, contemporanea al mio primo accostare il mondo di Simone Weil, quando trovai quel libro di intonazione weiliana) come possibile fra due sensibilità vicine per la loro esigenza e vulnerabilità. Un tale contatto ebbe luogo grazie alla lettera che Gilbert Kahn, oggi scomparso, amico della Weil fin dal 1937 e suo fine studioso, mi scrisse da Cérisy-la-Salle in data 29 giugno 1979. Insieme ad altre informazioni utili per la mia biografia weiliana, mi apprendeva questo: «Dato che Mme Weil si trovava in Svizzera, avevo portato alcuni testi di Simone Weil a [Brice] Parain e a Camus. In primo luogo “Conditions premières d’un travail non servile” [articolo del 1941-42, che comparirà in La Condition ouvrière nel 1951] … Poi il manoscritto al quale Parain ha dato il titolo “L’Enracinement”. Era il tempo in cui Camus fondava “l’espoir” [sic]».52

Il manoscritto era «Prélude à une déclaration envers l’être humain»: Simone Weil l’aveva scritto negli ultimi mesi della sua vita, facendosi rinchiudere negli uffici delle Forze francesi libere anche la notte per non interrompere la scrittura. Fu il primo dei suoi scritti che Camus pubblicò nella sua collana «Espoir». L’aveva fondata per farne «l’inventario» del male del secolo, il nichilismo: inutile ignorarlo o far finta che non esista; nominarlo invece e, «in fondo alla malattia trovare la guarigione». Le opere, diverse per volontà o ispirazione, ora volte a consacrare il nichilismo ora a superarlo, dovevano «formare una coscienza comune, testimoniare di uno stesso sforzo per definire e superare la contraddizione mortale in cui viviamo».53

Nel suo Discours de Suède per la ricezione del Premio Nobel, il 10 dicembre 1957, egli dirà: il rifiuto del nichilismo porta a «forgiarsi un’arte di vivere in un tempo di catastrofe, per nascere una seconda volta, e poi lottare, a viso aperto, contro l’istinto di morte all’opera nella nostra storia».54

L’attenzione a L’Enracinement ebbe certo questa motivazione profonda, che ci è rivelata nella presentazione che dell’opera pubblicò Albert Camus con la sua firma nel Bulletin del giugno 1949, nº 24 della nrf, p. 2. La cito per intero. Il suo titolo: Simone Weil.

Ella non era prevenuta contro nulla se non contro la crudeltà e la bassezza, il che equivale. Non disprezzava nulla se non il disprezzo stesso. E, a leggerla, ci diciamo che la sola cosa di cui fu incapace la sua sorprendente intelligenza era la frivolezza. Nel 1942 le si domanda un rapporto sulla situazione morale della Francia e lei scrive il libro pubblicato oggi con il titolo L’Enracinement, vero trattato per una civiltà. Questo è il personaggio che andava sempre, e come fosse cosa naturale, all’essenziale. L’Enracinement contiene molte delle chiavi che permettono di capire Simone Weil. Ma questo libro, uno dei più importanti al mio sentire, che sia comparso dopo la guerra [nel suo diario del 19 ottobre 1949, Alain scriveva: «Leggo un libro importante… L’Enracinement di Simone Weil. Importante per tutti e per me importantissimo. Conosco questa ragazza, l’ho educata, ho deplorato la sua morte, ma la deploro meno pensando ch’ella lascia questo grande libro…55», getta anche una luce potente sull’abbandono in cui si dibatte l’Europa. E ci voleva forse la disfatta, l’ebetudine che l’ha seguita e la meditazione taciturna perseguita da tutto un popolo negli anni oscuri, perché idee così inopportune, giudizi che rovesciano tante idee acquisite, che ignorano tanti pregiudizi, potessero trovare infine presso di noi la loro esatta risonanza. «La storia ufficiale», dice Simone Weil, «consiste nel credere alla parola degli assassini». E più avanti: «Chi può ammirare Alessandro con tutta l’anima se non ha l’anima bassa? » Nel tempo della potenza e nel secolo dell’efficacia, queste verità sono provocatorie. Ma si tratta di una provocazione tranquilla! Sono le certezze dell’amore. Immaginiamo soltanto la solitudine di un simile spirito nella Francia tra le due guerre. Chi si stupirebbe che si sia rifugiata nelle fabbriche, abbia voluto condividere la sorte dei più umili? Quando una società corre irresistibilmente verso la menzogna, la sola consolazione di un cuore fiero è di rifiutarne i privilegi. Si vedrà nell’Enracinement quale profondità avesse raggiunto tale rifiuto in Simone Weil. Ma lei portava fieramente il suo gusto, o piuttosto la sua follia di verità. Poiché, se è questo un privilegio, è di quelli che si pagano per tutta la vita, senza mai trovare riposo. E quella follia ha permesso a Simone Weil, al di là dei pregiudizi più naturali, di capire la malattia della sua epoca e di discernerne i rimedi. In ogni caso mi pare impossibile immaginare per l’Europa una rinascita che non tenga conto delle esigenze definite da Simone Weil in L’Enracinement. È tutta l’importanza di questo libro. In verità, quest’opera tutta consacrata alla giustizia, una giustizia l’attende che la porterà poco a poco a quella prima fila che il suo autore rifiutò ostinatamente tutta la vita. «La conquista», diceva, «è l’ersatz [surrogato] della grandezza» e lei non ha cercato di conquistare nulla. Ma, dall’istante di quella rinuncia, eccola che persuade. È così, suppongo, che la vera grandezza, sulla quale Simone Weil ha detto tante cose profonde, si ottiene. Grande per un potere onesto, grande senza disperazione, tale è la virtù di questo scrittore. È così ch’ella è ancora solitaria. Ma questa volta si tratta della solitudine dei precursori, carica di speranza.

La pagina del Bulletin, tutta sola in un fascicolo, era ingiallita e l’ho ricopiata con emozione a mano con il lapis, com’è buona regola per i documenti in una Biblioteca.56 Questa presentazione è il solo scritto di Camus su Simone Weil. Penso ch’egli vi ha colto gli aspetti essenziali del suo pensiero civilizzatore e li ha descritti con un calore e uno slancio persuasi e fermi, che scaturiscono dal suo spirito combattivo per amore della giustizia e della giustezza, questa volta felice di constatare delle affinità. Moti che non sono considerati frequenti in lui «che raramente si distaccava [da una] cortesia un po’ distante».57 In quanto al contenuto, mi sembra che questo passo di L’homme révolté presenti delle affinità profonde con il pensiero politico che si esprime in L’Enracinement.

In arte, la rivolta si compie e si perpetua nella vera creazione, non nella critica o nel commento. Dal canto suo, la rivoluzione non può affermarsi che in una civiltà, non nel terrore o nella tirannide. Le due domande che ormai il nostro tempo pone a una società in un vicolo cieco: la creazione è possibile, è possibile la rivoluzione, ne formano una sola, che riguarda la rinascita di una civiltà.58

Al momento della pubblicazione di La Condition ouvrière59 Camus scrive a Mme Selma Weil, la madre di Simone, con la quale, dalla pubblicazione di La Connaissance surnaturelle (1950) lavorerà sempre di concerto:

[Riguardo ai dettagli di pubblicazione] Mi sembra che tutto si risolva per il meglio e me ne rallegro. Me ne rallegro ancora di più dopo essere venuto a conoscenza di questi ammirevoli testi sulla condizione operaia. Simone Weil, ora la sento ancora meglio, è il solo grande spirito del nostro tempo e mi auguro che coloro i quali lo riconoscono ne traggano sufficiente modestia per non provarsi ad annettere tale sconvolgente testimonianza. In quanto a me, sarò pago del tutto se potessero dire che al mio posto, e con i deboli mezzi di cui dispongo, ho servito a far conoscere e diffondere un’opera della quale non si è ancora misurata tutta la capacità di risonanza. Mi creda che non parlo qui per il desiderio di farle cosa gradita, dico soltanto una piccola parte della mia riconoscenza verso colei che rimpiangerò sempre di non aver conosciuta.

La lettera, da Cabris (Alpes Maritimes) è datata 11 febbraio, ma dal contesto, chiaramente alle soglie della pubblicazione per La Condition ouvrière si è potuto aggiungere [1951] . In quanto alla parola «solo», è in corsivo nel testo. Sognava le Opere Complete negli anni ’50; la loro edizione è iniziata invece nel 1988 ed è ancora in corso. Per ora conta dodici volumi; prevista in sedici.

L’edizione curata da Camus è espressiva del suo modo di capire Simone Weil; mi riferisco in particolare a La Connaissance surnaturelle, che comprende Cahiers d’Amérique e Notes écrites à Londres. Ormai introvabile, uscì nel 1950 ed è stata la testimonianza di quell’epoca della vita di Simone fino all’edizione critica del 2006 (VII tomo delle Œuvres Complètes, Cahiers vol. 4). L’organizzazione complessiva dei testi è di Mme Weil, che insieme a suo marito ricopiò tutti gli scritti della figlia, entrambi finché ne ebbero le forze, ossia finché il Dottor Bernard non diventò cieco e finché Mme Weil non perse tutta una parte del corpo. Il titolo è di Camus, che lo spiega in una Note de l’éditeur iniziale. Io lo trovo molto adatto perché spesso questa espressione ritorna sotto la penna di Simone, come segno di una dimensione di «lettura del reale» da lei raggiunta in cui le azioni, i sentimenti, i pensieri di questo mondo sono sempre più imbevuti dalla luce dell’altra realtà. Inoltre, all’apertura dell’opera troviamo il Prologue, quel misterioso testo poetico di «due pagine staccate in mezzo a un quaderno», evocazione di uno stato d’animo, cronaca di giorni vissuti? Quello che è certo è che esse vogliono ritrovare una realtà e fedelmente descriverla. Resoconto di quella che nel I tomo delle sue Œuvres Complètes è considerata la sua «Prima esperienza mistica, nel novembre-dicembre 1938».60 Soltanto Selma Weil ha potuto consigliare a Camus di aprire i Quaderni d’America con questo testo ch’ella amava molto e di cui domandò la lettura all’Abbé Ostier prima di lasciare la vita terrestre. (Dal mio colloquio con l’Abbé Ostier, a Parigi nel 1972.)

Altra notizia che mi colpisce per la comprensione di Camus nel suo dialogo segreto con Simone Weil riguardo il cristianesimo, la trovo nel libro autobiografico del padre Perrin, Comme un veilleur attend l’aurore. Scrive Perrin:

La pubblicazione delle Lettere di Simone [in Attente de Dieu] risvegliò un immenso interesse. Con l’accordo dei genitori concepii allora insieme a un editore il progetto di suscitare un dialogo del tipo di quello che avevo avuto con lei su questioni controverse. Persone di orientamenti diversi dovevano esprimersi su un tema determinato; la sola condizione posta era quella di non mentire mai, di mai affermare qualunque fosse il tema cosa di cui si dubita o di cui non si è informati a sufficienza; in una parola, un dialogo di piena trasparenza. Il progetto prendeva corpo. Avevo ricevuto l’adesione di Paul Claudel, Claude Mauriac, Albert Camus; intravedevo già temi come l’Inquisizione, le crociate e le certezze metafisiche [in quaderni…] . Pensavo a un dialogo fra cristiani e non cristiani, obiettivo e trasparente come quello che era stato possibile con Simone. […] Ho ancora la cartolina in cui Camus, allora in casa di cura, accettava di entrare nel dialogo, a condizione vi fosse totale trasparenza e totale rispetto gli uni per gli altri.

Cose molto possibili con padre Perrin. Invece, per un «malinteso, un totale voltafaccia dei genitori di Simone timorosi di un’annessione di Simone alla Chiesa», dato del resto anche il suo atteggiamento complesso in tal senso, «tutto fallì».61 Un episodio molto commovente, che io trovo come il coronamento di questa amicizia, viene a noi da Madame Weil, attraverso Eugène Fleuré a lei presentato da Albert Camus.

Il giorno stesso della sua partenza per la Svezia, al momento in cui le cerimonie per la sua incoronazione avrebbero potuto inebriarlo o assorbirlo in numerosi preparativi, il laureato aveva tenuto a raccogliersi in tutta semplicità in rue Auguste Comte.

Nella camera di Simone, di fronte al pensiero di colei che avrebbe sempre «rimpianto di non aver conosciuta». L’indomani della morte di Camus (4 gennaio 1960), Madame Weil disse a Fleuré, per telefono, il suo immenso dolore. «Lei non può immaginare com’era sincero e diritto, com’era chic. Sono smarrita.»62

Questa amicizia ha una storia: un inizio con una scelta da parte dei due amici, una realizzazione, una durata al di là del tempo e dello spazio, grazie all’esistenza fortemente voluta da Camus delle opere weiliane. Nata da una sintonia di sostanza fra i due amici, si manifesta con atti che vogliono il bene dell’amico con ammirazione e tenerezza (nel nostro incontro breve ma intenso del settembre 2004, la figlia di Albert e attenta responsabile delle sue opere, Catherine Camus, che ha il sorriso di suo padre, mi ha detto: «Le voleva tanto bene; teneva la sua foto in uniforme da miliziana sulla scrivania»), è libera da ogni avidità interessata. Ne cito qui a riprova una frase da una lettera di Camus ad André Weil, del 24 febbraio 1959:

Mi interesso soltanto alla pubblicazione delle opere di Simone Weil e alla diffusione del suo pensiero, sia che questo avvenga tramite la mia mediazione, o no.

Camus dimostrava così il suo distacco da ogni egotismo personale e da ogni spirito di possessività verso l’altro. L’elemento di coesione che ha permesso la durata dell’amicizia è stato la fedeltà.

Ho la chiara coscienza di trovarmi solo all’inizio della comprensione di questa amicizia, «necessaria» al cammino di questi due destini. «Necessaria» sì, in quanto io credo questo: Albert Camus e Simone Weil hanno combattuto fino in fondo la loro battaglia (sono due compagni d’armi) per una guarigione del mondo fondata sulla giustizia e la giustezza del pensiero e dell’azione. Per questo è potuto sbocciare e fiorire tra loro il dialogo e Camus ha saputo a un tempo ascoltare Simone Weil e darle voce nella volontà di continuare a farla vivere attraverso i suoi scritti. Poiché egli aveva coscienza (e qui trovo altra prova della sua volontà di ascolto) che

il pensiero è un’avventura interiore che matura, che fa male o che trasporta — è una meditazione che si serve degli anni e dei giorni per prendere forma, per avanzare, per trovare le sue parole.63

In quanto all’anima (che mi sembra andare di pari passo):

Essa si crea qui, lungo tutta la vita. E vivere non è null’altro che questo lungo e tormentoso partorire. Quando l’anima è pronta, creata da noi e dal dolore, ecco la morte.64


  1. Albert Camus, Essais, ed. 2000, Gallimard, Paris 1965, pp. 1893-1894. Tutte le traduzioni dai testi stranieri, salvo dove altrimenti indicato, sono di Gabriella Fiori. ↩︎

  2. Albert Camus, Essais, cit., pp. 1894-1895. ↩︎

  3. Tenuta nell’aula magna dell’Università di Upsala il 14 dicembre 1957, offre una chiave di lettura per tutta l’opera di Camus e personalmente mi fa pensare ch’egli non è “artista” (filosofo-poeta-drammaturgo-uomo d’azione attraverso la pagina) da celebrare e congedare con una commemorazione, bensì artista da leggere, rileggere, meditare e prendere a esempio per il suo senso di responsabilità nella ricerca di una comprensione dei tempi. ↩︎

  4. Albert Camus, Essais, cit., p. 1071. ↩︎

  5. Albert Camus, Essais, cit., p. 1071-1072. ↩︎

  6. Albert Camus, Essais, cit., p. 1072. ↩︎

  7. Albert Camus, Essais, cit., p. 1900. ↩︎

  8. Albert Camus, Théâtre, Récits, Nouvelles, 1ª ed., Gallimard, Paris 1962, p. XXXI. ↩︎

  9. Albert Camus, Essais, cit., p. 1896. ↩︎

  10. Albert Camus, Essais, cit., pp. 1668-1669. ↩︎

  11. Albert Camus, Lettera a Jean Grenier [Paris] September 18, 1951 cit. in Albert Camus & Jean Grenier, Correspondence, 1932-1960 Translated and with an introduction by Jan F. Rigaud, 1ª ed., University of Nebraska Press, USA 2003, p. 152. ↩︎

  12. Jean Grenier, Albert Camus, souvenirs, 1ª ed., Gallimard, Paris 1968, p. 19. ↩︎

  13. Albert Camus, Essais, cit., p. 1169. ↩︎

  14. Albert Camus, Essais, cit., pp. 1170-1171. ↩︎

  15. Albert Camus, Carnets I — Mai 1935 - Février 1942, p. 37-38. ↩︎

  16. Jean Grenier, Préface, in Albert Camus, Théâtre, cit. alla nt. 8, p. XVIII. ↩︎

  17. Albert Camus, Carnets III Mars 1951 — Décembre 1959, 1ª ed., Gallimard, Paris 1989, p. 13. ↩︎

  18. Albert Camus, Essais, cit., p. 17, 23, 27. ↩︎

  19. Albert Camus, Noces suivi de L’été, ed. folio 1999, Gallimard, Paris 1959, p. 21. ↩︎

  20. Albert Camus, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947, 1ª ed., Bompiani, Milano 2010, p. 104 e 105. Traduzione di Sergio Arecco. ↩︎

  21. Jean Grenier, Albert Camus, cit.2, p. 13. ↩︎

  22. Albert Camus, cit. in Roger Grenier, Albert Camus soleil et ombre, 1ª ed., Gallimard/Lacombe. Paris/Canada 1987, p. 118. ↩︎

  23. Albert Camus, Essais, cit., p. 351. ↩︎

  24. Albert Camus, Essais, cit., p. 1400. ↩︎

  25. Jacqueline Lévi-Valensi commente La peste d’Albert Camus, ed. folio 2002, Gallimard, Paris 1991, p.19. ↩︎

  26. Albert Camus, L’homme révolté, in Essais, cit., p. 1685. ↩︎

  27. Albert Camus, Carnets I, cit.5, p. 167. ↩︎

  28. Albert Camus, La peste, ed. folio, Gallimard, Paris 2002, p. 67. ↩︎

  29. Jacqueline Lévi-Valensi commente, cit. alla nt. 25, p. 88. ↩︎

  30. Presentato per la prima volta in Albert Camus, La peste, cit. alla nt. 28, p. 28. ↩︎

  31. Albert Camus, La peste, cit. alla nt. 28, p. 228. Conservo il francese per il concetto di honnête homme, nato nel Seicento e di significato ben più ampio dell’italiano uomo onesto↩︎

  32. Albert Camus, La peste, cit. alla nt. 28, p. 229, 123, 229. ↩︎

  33. Jacqueline Lévi-Valensi commente, cit. alla nt. 25, p. 100. Cita la p. 58 e 151 del romanzo. ↩︎

  34. Albert Camus, Noces, p. 47, cit. da Jacqueline Lévi-Valensi commente, cit. alla nt. 25, p.102. ↩︎

  35. Albert Camus, La peste, cit. alla nt. 28, p. 230. ↩︎

  36. Albert Camus, La peste, cit. alla nt. 28, p. 261-262, 278-279. ↩︎

  37. Jean Grenier, Albert Camus, cit.2, p. 142 e 136. ↩︎

  38. Jean Grenier, Correspondance, 1ª ed., Gallimard, Paris 1981, p. 119. ↩︎

  39. Simone Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, 1ª ed., Gallimard, Paris 1957, p. 216. Traggo questo confronto da Robert Chenavier, …La solitude des précurseurs chargée d’espoir… in Cahiers Simone Weil, Tome XXVIII — nº 4, Décembre 2005, p. 325-326. ↩︎

  40. E. Jane Doering, Convergence d’idées à New York — Albert Camus et Simone Weil, in Cahiers Simone Weil, Tome XXIX — nº 1, Mars 2006, p. 13-25. Qui, p. 14. ↩︎

  41. E. Jane Doering, Convergence, cit. alla nt. 40, p. 21-22. ↩︎

  42. Catherine Camus, Albert Camus Solitaire et Solidaire, 1ª ed., Michel Lafon, Neuilly-sur-Seine 2009. ↩︎

  43. Olivier Todd, Albert Camus — Une vie, édition revue et corrigée, Gallimard, Paris, 1996, p. 723. ↩︎

  44. Simone Weil, Attente de Dieu, 5ª ed., Éditions du Seuil, Paris 1977, p. 51. ↩︎

  45. Simone Weil, Attente de Dieu, cit. alla nt. 44, p. 199. ↩︎

  46. Evoco qui il titolo del bel libro Simone Weil, philosophe, historienne et mystique, 1ª ed., Aubier Montaigne, Paris 1978, tratta dalla sezione weiliana del convegno «Vigueur d’Alain, rigueur de Simone Weil» che ebbe luogo sotto la direzione di Gilbert Kahn al Centre Culturel International de Cérisy-la-Salle, nella decade 21 luglio — 1° agosto 1974. ↩︎

  47. V. supra, p. 4. ↩︎

  48. Simone Weil, La Condition ouvrière, 2ª ed., Gallimard, Paris 1964, p. 23. ↩︎

  49. E. Jane Doering, Convergence, cit. alla nt. 40, p. 16. ↩︎

  50. V. supra, p. 17. ↩︎

  51. Gabriella Fiori, Simone Weil, 4ª ed. 2006, Garzanti, Milano 1988, p. 240. ↩︎

  52. Gabriella Fiori, Albert Camus et Simone Weil : une amitié sub specie aeternitatis, in Cahiers Simone Weil, Tome XXIX — nº 2, Juin 2006, p. 133. Brice Parain, scrittore, filosofo del linguaggio, stretto collaboratore di Camus da Gallimard e suo amico. Conobbi personalmente la sua vedova Éliane, pittrice che, amica anche lei di Camus, mi raccontò un suo sogno in cui lo incontrava ed egli le raccomandava con ansia di parlare di lui in rapporto con Simone Weil. ↩︎

  53. Nathalie Froloff, ESPOIR, collection, in Dictionnaire Albert Camus, 1ª ed., Robert Laffont, Paris 2009, p. 265. ↩︎

  54. Albert Camus, Essais, cit., p. 1073. ↩︎

  55. Cit. in André Sernin, Alain, un sage dans la cité, 1ª ed., Laffont, Paris 1985, p. 439. ↩︎

  56. Si tratta della Biblioteca Méjanes di Aix-en-Provence, dove sono stata autorizzata a studiare presso il Fondo Albert Camus nel settembre 2004. ↩︎

  57. Roger Quilliot, Introduction critique in Albert Camus, Essais, cit., p. XIII. ↩︎

  58. Albert Camus, Essais, cit., p. 675. ↩︎

  59. Nel 1951; l’opera, in 11.600 copie, fu la più venduta delle edizioni weiliane; in un’intervista a L’Express del 15 dicembre 1955 Camus la definì «il libro più grande e più nobile che sia uscito dopo la Liberazione», cit. in Guy Basset, Weil, Simone (1909-1943), in Dictionnaire Albert Camus, cit. alla nt. 53, p. 930. ↩︎

  60. Simone Weil, Œuvres Complètes I — Premiers écrits philosophiques, 1ª ed., Gallimard, Paris 1988, p. 38. ↩︎

  61. Joseph Perrin, Comme un veilleur attend l’aurore, 1ª ed., Les Editions du Cerf, Paris 1998, p. 151. ↩︎

  62. Testimonianza di Eugène Fleuré, operaio, autore di Simone Weil, ouvrière, libro che fu letto con «molto interesse» da Camus nel 1954, in Cahiers Simone Weil, Tome I — nº 2, Septembre 1978, p. 15. ↩︎

  63. Albert Camus, Lettera a sua moglie Francine Faure, datata: Cabris, 21 maggio 1959, cit. in Olivier Todd, Albert Camus, cit. alla nt. 43, p. 699. ↩︎

  64. Albert Camus, Carnets II (1948-1951), ed. 2001, Gallimard, Paris 1964, p. 284. ↩︎