1. Un tema fondamentale nel pensiero di Del Noce
Il tema del male è certamente uno tra i più importanti nella ricerca delnociana e molti sono gli autori che ne hanno analizzato la portata.1 Sin dal primo grande convegno dedicato alla figura di Del Noce,2 Vittorio Possenti rileva l’importanza di tale questione nel suo pensiero, individuando tre linee di riflessione intorno a cui si diparte l’analisi delnociana intorno all’argomento in questione.3 Soprattutto, però, Possenti rileva la prima «biforcazione» nel resoconto delnociano sul tema, che viene considerato “talvolta come «male in sé», che colpisce la condizione umana, e talvolta come «male del secolo», ossia qualche cosa che concerne specificamente il Novecento”,4 rilevando la maggior rilevanza teoretica del primo versante della questione. Accanto a Possenti, anche Giuseppe Riconda sottolinea come sia precisamente a partire dalla riflessione sul male — tra la rilettura biblica del Genesi e quella del mito di Anassimandro, tra male morale o ontologico, — a permettere a Del Noce di elaborare la propria critica al razionalismo metafisico moderno e ai suoi esiti ateistici, vero e proprio fil rouge dell’intero percorso del pensatore torinese.5 Un altro studioso, Andrea Paris, ricostruendo il pensiero di Del Noce intorno alla questione essenziale del formarsi della persona attraverso l’esercizio della libertà e della conseguente «conquista di sé», indica come questo percorso — il cui fulcro l’analisi delnociana colloca nel pensiero di Cartesio6 — si dipani a partire dalla convinzione che saggezza e meditazione si hanno «in senso proprio solo nel riconoscimento che il male e il negativo hanno la loro origine nelle profondità del soggetto. In caso contrario — laddove il negativo è esteriorizzato e oggettivato — l’attività intellettuale si traduce […] in schema per l’agire, le idee perdono il loro spessore ontologico e si appiattiscono in una prospettiva pragmatista’.7 Anche Paris, dunque, evidenzia la priorità teoretica del tema «male», indicandolo anzi come il motore soggiacente all’intera costruzione speculativa di Del Noce.
D’altra parte, ciò che questi studiosi segnalano appare chiaramente a chi si accosti all’opera di Del Noce, al punto che si può sostenere che il male — e i radicali problemi che le diverse interpretazioni di esso sollevano — costituisce lo sfondo più o meno esplicito della ricerca delnociana sull’ateismo, sulla secolarizzazione, della sua analisi del marxismo, del razionalismo metafisico […] in pratica, della grande maggioranza dei suoi temi più significativi. Nel complesso processo di decostruzione perseguito da Del Noce per cogliere appieno il senso dei percorsi filosofici sfocianti nell’ateismo e nell’irreligiosità moderni, si può leggere in controluce il duraturo e spesso angoscioso confronto con la nostra questione. Tali itinerari speculativi, infatti, sono stati da lui presentati prioritariamente come più o meno espliciti tentativi di autoredenzione dell’uomo: potremmo dire, l’inverso di quel processo di acquisizione autocoscienziale di sé e dei propri limiti strutturali cui si faceva cenno poco sopra.8 E, dunque, come lo sforzo di operare una cancellazione definitiva del tema «male», letto come segno esplicito della finitezza e dipendenza dell’uomo rispetto alla trascendenza. In questo senso, addirittura, sarebbe ricostruibile, nell’orizzonte delnociano, l’intero processo della secolarizzazione — necessariamente innervato di ateismo — pur non esaurendone, evidentemente, il significato complessivo. Specularmente, e come attuando una forma di compensazione rispetto all’incoercibile spinta di una parte della modernità a procedere in questa direzione, Del Noce concentra la sua attenzione su autori che sono stati particolarmente sensibili al tema del male, ma nel cui pensiero tale argomento si trasforma in centro propulsore di una costruzione speculativa volta a un’inesausta — perché mai del tutto compiuta — ricerca religiosa. In questa linea, il lettore di Del Noce incrocia le sue straordinarie meditazioni su autori come Pascal e Kierkegaard, Lequier e Shestov, Simone Weil.9
2. Profili storici e teoretici del problema del male in Del Noce
Proseguire in direzione di una — sia pur schematica — ricostruzione della riflessione delnociana intorno al problema del male significa anche prendere consapevolezza che tale questione non verrà mai da lui affrontata nel perseguimento sistematico di un percorso teoretico. Questo avviene, al contrario, nel pensiero di un autore come Pareyson, a lui vicinissimo come epoca, ambiente, frequentazioni culturali, appartenenza religiosa. Se entrambi gli autori sono consapevoli che la sfida fondamentale per il pensiero cristiano è porsi fino in fondo la questione della libertà — centrale per ogni interlocuzione con il «moderno» — e, dunque, anche del suo assetto concettuale a riguardo del tema del male e del negativo,10 Pareyson farà dell’interconnessione di questa duplice questione il vero culmine teoretico della sua ricerca. I suoi ultimi scritti, infatti, — che concludono, non solo temporalmente ma anche concettualmente, un percorso filosofico prematuramente interrotto — sono tutti rivolti all’impostazione delle questioni prime, al cui centro è la sempre più radicale formulazione dell’assoluta libertà di Dio come sola possibilità di cogliere «la positività e l’esistenza» divina, capace di comunicare «una densità, una profondità che la metafisica dell’essere non può né prospettare né sondare’.11 Ma questa stessa libertà divina, mentre proclama la propria definitiva vittoria sul male, lascia emergere anche l’inestricabile presenza di «un aspetto se non notturno almeno vespertino e crepuscolare, una penombra di negatività» che «accompagna e lascia il suo segno» sul «glorioso splendore che s’irraggia dalla vittoria sul nulla» realizzata da Dio nel suo «venire all’essere’.12 Come si vede da queste pagine, la questione riveste, per Pareyson, un’originarietà assoluta, tale da costituire a un tempo il vertice e il fondamento del suo pensiero.
Non penso che la stessa cosa si possa dire per Del Noce, per il quale il tema è contemporaneamente più presente — in senso latitudinario — ma meno decisivo di quanto non la sia per Pareyson. Più presente perché, come vedremo, esso costituisce — per lo più nella sua formulazione indebolita di finitudine, soprattutto negata — la questione che interroga radicalmente il moderno, meno significativa perché mai veramente posta con la decisività teoretica con cui viene affrontata da Pareyson. Per quanto riguarda Del Noce, si può probabilmente dire che il tema, nella sua formulazione teoretica, è affrontato in modo più sintetico e indiretto, costituendo, tuttavia, la vera e propria trama — non sempre manifesta — soggiacente alla sua ricerca, tutta fortemente caratterizzata dalla problematica dell’ateismo e dell’irreligiosità.
Proviamo allora a individuare gli estremi problematico-teoretici entro i quali è collocato il suo «discorso» sul male. Il primo, come già si è detto, è individuabile nel tema della libertà, nodo fondamentale, sia perché intrinsecamente connesso alla questione «male», sia perché significativo indicatore della forte sensibilità delnociana per la prospettiva esistenziale, centrale soprattutto nella fase giovanile del suo pensiero.13 Tale sponda tematica viene poi trasformata — nelle grandi ricostruzioni filosofico-politiche della maturità, concentrate soprattutto sulla critica del razionalismo metafisico, trascendente e immanente — nell’individuazione di una linea di portata storico-teorica alla base del suo ampio percorso ricostruttivo della modernità. Il fulcro di questa è costituito dal «rifiuto senza prove» dello status naturae lapsae dell’uomo, e dalla negazione, altrettanto immotivata, della possibilità del soprannaturale.14 Da qui, i due esiti: o rifiutare, fino a normalizzarlo, il male nell’uomo e accettarne, appunto «come normale» ogni sua manifestazione, o tentare di «cangiarlo», superandone, attraverso la filosofia della prassi e l’impulso rivoluzionario, le storiche alienazioni, che del male sono la concreta manifestazione.15 Terzo punto, nel quale inevitabilmente la questione-male si ripropone, sia pure in modo più indiretto e in prospettiva ricostruttiva anziché decostruttiva, la riflessione ontologica individuata da Del Noce nella via di una modernità che, partendo da Cartesio, si muove verso Rosmini passando da Malebranche, Pascal, Vico e non, piuttosto, dirigendosi verso Nietzsche.16
Aver delineato i confini teoretico-problematici dell’interesse di Del Noce per l’argomento di cui stiamo trattando, ci consente di chiarificare anche la mappa dei suoi principali interlocutori filosofici, siano essi autori o grandi indirizzi di pensiero. Il tema della libertà cui tanto Del Noce è sensibile soprattutto negli anni della propria formazione lo spinge, infatti, a confrontarsi con quello che andava diventando uno degli indirizzi filosofici dominanti non soltanto nella sua Torino, ma anche nell’intero paese: l’esistenzialismo, e con gli autori che, all’interno di questo orizzonte speculativo, si erano rivolti con più ampiezza alla questione di cui trattiamo: prima di tutto, Pascal, poi, il padre di ogni esistenzialismo, Kierkegaard, per approdare ad autori come Shestov, Lequier, S. Weil.
Dall’altra, il suo continuo confronto con il pensiero medievale, con la prima scolastica — in particolare con il tomismo, grazie anche al suo fecondo rapporto con il p. Fabro — con la seconda scolastica — soprattutto de Vitoria e de Molina -, e con il «600 — con Cartesio e Malebranche -, è spesso orientato dal nostro problema. Ancor più manifesto, tuttavia, esso diviene nella lettura che Del Noce dà dei razionalismi moderni, dell’idealismo, del neoidealismo, del marxismo come inveramento di una filosofia che si fa prassi in una prospettiva di riscatto definitivo della storia.
Tuttavia, aver sottolineato quanto Del Noce si sia occupato del problema «male», non è sufficiente per spiegare i motivi per cui si può ritenere questo tema fondamentale nella ricostruzione del suo pensiero. La ragione più evidente — direi di superficie — che lo ha rivolto a tale ordine di questioni, è riconducibile al fatto che, chiunque voglia fare una filosofia cristianamente orientata, deve, prima o poi, rendere ragione — o tentare — di una questione che, da Giobbe in poi, ha tormentato e tormenta tutti i credenti e, ancora di più, coloro che, come i cristiani, credono in un Dio dell’amore più che in un Dio/potenza.
Scendendo un po» più all’interno delle motivazioni che andiamo cercando, tuttavia, ritengo che l’interesse di Del Noce per il tema del male sia riconducibile piuttosto alla forte vis teoretica che ispira la sua ricerca e che, a volte, sembra passare in secondo piano rispetto alla sterminata mole di conoscenze storico filosofiche che nutrono le complesse genealogie dei suoi percorsi intellettuali. La questione del male, in realtà, non è soltanto uno dei nuclei nascosti più importanti attorno a cui prende forma e si costruisce la modernità così a lungo indagata da Del Noce. Ancor prima e ancor di più, i temi del male, del negativo, del nihil, sono veramente centrali nella costruzione e adozione di qualsiasi prospettiva teoretica, perché coinvolgono ogni interpretazione ontologica, ogni lettura dell’idea di Principio — trascendente o immanente -, ogni visione etica e antropologica, e il fatto che acquistino — in superficie o in controluce — tanto rilievo nel pensiero delnociano è, come dicevo più sopra, dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, dell’inesausta vena teoretica che muove la sua ricerca.17
Connesso a ciò che manca, che non è perfetto e completo in sé, alla carenza — conoscitiva, ontologica — accostato dunque al tema del nulla,18 o distinto in male di pena o di colpa o ricondotto unicamente alle azioni compiute dall’uomo, il tema del male è sempre sullo sfondo del nostro pensare, precondizione di ogni impostazione metafisica, di ogni prospettiva esistenziale, di ogni opzione teoretica. E, dunque, per qualsiasi filosofo, sia esso teoretico, morale, politico, il modo in cui lo si affronta — esplicitamente o implicitamente, secondo un’opzione o un’altra — è discriminante per stabilire qualsiasi futuro assetto argomentativo.
Ora, non c’è dubbio che Del Noce sia stato un pensatore in cui entrambe le motivazioni — l’appartenenza cristiana19 e la forte sensibilità teoretica — fossero tali da porlo necessariamente dinnanzi al problema del male.
3. Lo scandalo del male innocente e il problema della teodicea
Delineati, dunque, i confini storici e teoretici entro i quali Del Noce affronta il tema in oggetto, non ci stupiremo di vedere che gran parte delle sue riflessioni giovanili, rivolte, come si è detto, alla questione del rapporto verità-necessità e degli spazi della libertà — nell’uomo e in Dio — lo portano a confrontarsi con gli interrogativi radicali sollevati intorno a queste tematiche da due autori come A. Spir e P. Martinetti. Dinnanzi allo scandalo del male nella natura e nell’uomo, infatti, entrambi gli autori sono indotti a rifiutare la possibilità di un Dio creatore e, dunque, di un ordine naturale che ne conservi traccia visibile, nell’intenzione dichiarata di preservarLo da ogni responsabilità — altrimenti non giustificabile — riguardo al dramma del negativo. Secondo Spir, il male presente nel mondo e nella storia sarebbe, addirittura, la prova dell’impossibilità di sostenere l’idea della creazione divina. Alle precoci suggestioni operate in Del Noce dal pensiero di questi due autori, si aggiunge in lui anche l’autonoma difficoltà di accettare lo scandalo del male innocente, a rivelare quanto questo argomento fosse determinante nel condizionare fin dalle origini il suo successivo sviluppo filosofico.20
La questione del male, perciò, si propone, in Del Noce, sin dagli inizi del suo itinerario speculativo, in tutta la sua radicale originarietà. Le ricerche di Spir e Martinetti, tematizzando l’insostenibilità di ogni teodicea, pongono in questione il principale schema ermeneutico che sta a fondamento di ogni pensiero cristiano: l’idea stessa di creazione come manifestazione gratuita della bontà e della libertà di Dio. I problemi che da queste prime suggestioni Del Noce si pone, finiranno per costituire una vera e propria struttura ermeneutica soggiacente, in modo più o meno evidente, alla sua opera, interrogandolo — praticamente per tutta la vita — sulla portata teoretica dell’opzione ateistica, la cui natura egli legge precisamente come tentativo di risposta definitiva al negativo. Gran parte della sua ricerca sarà d’ora in poi dedicata all’analisi delle diverse figure via via assunte dall’ateismo, teorizzando la periodizzazione della storia della filosofia in base al realizzarsi della novità dell’ateismo stesso.21
Di questo, Del Noce coglie da par suo manifestazioni e coloriture diverse evidenziandone le motivazioni nascoste: del razionalismo, la negazione postulatoria della trascendenza e della natura lapsa; del marxismo, la radicalità della negazione dell’idea di partecipazione, — «fondamento del pensiero cristiano» e «punto di eccezionale importanza» in quanto «nesso tra pensiero greco e pensiero cristiano» — che ne configura il materialismo «più radicale e autentico’.22 Di vaste aree del pensiero religioso, poi, egli coglie il sostanziale cedimento di fronte all’ateismo stesso, quando ne afferma la capacità purificatrice, a discapito dell’idea di un Dio leggibile «come ragione costitutiva’.23 Tutte queste posizioni, come rileva Del Noce, operano così in direzione di una dissoluzione degli elementi fondamentali dell’impianto metafisico classico-cristiano.
La negazione del male, che rappresenta il comun denominatore tra queste posizioni, rivela a Del Noce l’errore fondamentale della modernità nel rifiuto da parte dell’uomo della propria creaturalità e dell’accettazione della limitatezza della propria condizione antropologica. In questo senso, lo studio delle opere di Spir e Martinetti ha rivestito un ruolo importante, per Del Noce, consentendogli di avviare la messa a fuoco di quello che sarà uno dei leit-motiv della sua ricerca: la questione della portata teoretica inclusa nell’idea — assolutamente nuova — della creatio ex nihilo, in stretta connessione con il problema della continuità-discontinuità dell’ordine della trascendenza rispetto a quello dell’immanenza, e della dicibilità, indicibilità e significato del primo rispetto al secondo.24 Dalla constatazione dell’impossibilità di conciliare la bontà di Dio con il male, presente negli autori della sua giovinezza — e dalle problematiche risposte che a questo quesito angoscioso Del Noce tenta di formulare, anche attraverso la ricostruzione del pensiero di altri autori -, egli passerà poi all’analisi del materialismo e della questione cruciale dell’accettazione come ’normale’ della situazione di finitezza della natura umana, elemento caratteristico di un razionalismo che, prima di tutto, nega postulatoriamente l’idea di caduta.25 Da Sade a Lautréamont, da Nietzsche a Marx,26 i diversi materialismi condividono, nella sua ricostruzione, una prospettiva «dura» sul reale dal quale vengono così espunti — e come potrebbe essere diversamente? — ‘compassione» e «carità». Questi, sono atti e sguardi tipici del cristianesimo che, andando oltre ad un’accettazione neutrale della natura, aprono una prospettiva di possibile guarigione delle ferite materiali e morali che la finitudine dell’uomo e del mondo recano con sé e/o inevitabilmente producono. Guarigione, tuttavia, quella operata da carità e compassione, mai palingenetica, mai definitiva, posta piuttosto sotto il segno dell’impegno della libertà individuale, garantito dalla convinzione di portare interiormente impresso in sé — agostinianamente — il segno della verità.27
Le tematiche giovanili sopra segnalate, e le linee di ricerca che ne sono conseguite, pongono in luce un elemento tipico del modo di procedere della ricerca delnociana: quella interna ambivalenza che man mano si rivelerà sempre più come un tratto caratteristico del suo pensiero. Penso che questo si possa descrivere come stretto tra due versanti tematici sempre in tensione tra loro: da una parte nella critica al razionalismo metafisico del quale Del Noce vede, come si è detto, l’esito drammaticamente e necessariamente ateistico28 — e del quale, tuttavia, lo vediamo ricostruire le più minute articolazioni, in una sorta di fascinazione negativa -, e, dall’altra, nella constatazione dei limiti dello spiritualismo, dell’esperienzialismo e dell’esistenzialismo religioso nella loro pretesa di opporsi all’ateismo in modo risolutivo. Nei confronti dell’anelito di libertà e dello slancio di fede di questi ultimi, tuttavia, egli mostra chiaramente la propria costante ammirazione, che emerge dalle sue ricostruzioni del pensiero di Pascal, di Kierkegaard, di Lequier, di Shestov, di S. Weil.29 Potremmo ricondurre la continua ambivalenza del pensiero di Del Noce ai suoi temi principali: la critica all’ateismo da una parte e all’antiumanesimo di Pascal dall’altra, al razionalismo antimetafisico ma anche all’insufficienza della metafisica classica, l’interesse e la fascinazione per Shestov e, contemporaneamente, il riconoscimento a Rosmini e alla linea ontologistica. In definitiva, tuttavia, proprio lo studio del suo autore principale, Cartesio, è indicativo, nella ricostruzione che Del Noce ne fa, di un pensiero affascinato dalle contraddizioni e dal continuo e insolubile intrecciarsi di negativo e positivo. Oltre a questo aspetto della sua ricerca, anche l’indubbia adesione di Del Noce al cristianesimo dimostrata — se mai ce ne fosse bisogno — dalla sua lettura della storia del pensiero come divisa nei due blocchi contrapposti di trascendentalismo e immanentismo, rivela quanto il problema del male sia in lui veramente cruciale.
4. Le tre prospettive delnociane
Cerchiamo ora di ricapitolare le molte — forzatamente sintetiche -suggestioni avanzate sin qui nel tentativo di ricostruire l’influenza della questione del male nella ricerca di Del Noce. Come abbiamo appena evidenziato — certamente semplificando all’estremo — è possibile notare che gran parte del suo pensiero si svolge lungo le due principali direttrici precedentemente indicate.
La prima, come si è visto, si confronta con il razionalismo, metafisico e non, in un quadro ricognitivo che Del Noce va componendo durante tutta la propria vita di studioso. Tale quadro viene delineato soprattutto grazie ad un’opera di decostruzione delle aporie strutturali emergenti da tale impostazione filosofica. Il male che il razionalismo filosofico produce — precisamente nel contraddittorio tentativo operato di eliminarlo del tutto, naturalizzandolo pienamente — raggiunge, per Del Noce, il suo culmine teoretico nella filosofia della prassi marxista per realizzare poi, nella sua tarda declinazione gramsciana, il paradosso del suicidio della propria anima rivoluzionaria nell’incontro con l’attualismo gentiliano e il nichilismo borghese capitalistico. Del Noce — prima di Marquard e della sua ricostruzione della modernità come sottoposta dall’uomo a un processo di costante tribunalizzazione, nel tentativo di giudicarsi continuamente e continuamente assolversi del male realizzato nella storia e solo all’uomo attribuibile30 — coglie l’assoluta centralità di tale questione interpretando i grandi sistemi del razionalismo filosofico come grandiosi progetti di neutralizzare — naturalizzandolo — una volta per tutte il male dalla storia e dal pensiero. Ne sono massima dimostrazione la pretesa del completo assorbimento dell’irrazionale-negativo nel reale e la conseguente ipotesi del riscatto definitivo della storia, che una filosofia che si vuol fare prassi teorizza di poter raggiungere con terribile e ultimativa coerenza. Ma è evidente che questi e altri tentativi hanno ragion d’essere solo a partire da una radicale cancellazione della trascendenza da parte dell’ateismo moderno, il quale gioca tutto il proprio prometeismo per l’appunto sulla pretesa della piena realizzazione della propria autonomia e autosufficienza. Addirittura, come sostiene Del Noce, in una relazione tenuta a Gallarate,31 la costruzione stessa del sistema indica la volontà di sollevarsi dal finito, infinitizzandolo.
La seconda direttrice del pensiero di Del Noce, come si è visto, si confronta con lo spiritualismo cristiano e l’esistenzialismo — anch’esso nella sua versione cristiana — e con il dramma che li percorre dell’inspiegabilità/necessità del male e dell’impossibilità della teodicea. A queste due linee, in modo abbastanza evidente, va la sua simpatia più immediata, senza che, tuttavia, egli ne condivida mai pienamente gli argomenti speculativi, dei quali coglie l’insufficienza dinnanzi alle insidie dell’ateismo.32 Certamente, è l’attenzione al tema della libertà e il confronto diretto con il reale assunto nell’esperienza che — soprattutto negli anni giovanili — attrae l’attenzione di Del Noce sull’esistenzialismo, spingendolo spesso a declinare questi temi anche in rapporto alle questioni teologico-religiose e agli interrogativi personali che lo agitavano. Nello stesso senso, penso si possa dire che è la potenza e l’immediatezza della fede proposta da Pascal e dal suo pari a esercitare un forte fascino su Del Noce. A dimostrazione di questo suo coinvolgimento personale basterebbe citare il fatto che, leggendo Mazzantini, Del Noce sosteneva di averne ricavato una vera e propria illuminazione circa l’essere la vita criterio di validità della filosofia.33
Il confronto con pensatori come Shestov, Lequier, Renouvier, che assumono la questione del male come centro propulsore della loro indagine speculativa, rivela a Del Noce con sempre maggiore chiarezza l’errore del razionalismo metafisico e delle sue pretese sistematiche.34 Tanto da fargli proclamare che la tesi dell’inoggettivibilità dell’essere dimostra che “il problema filosofico si presenta in questo senso per me come un problema vitale, la riconquista del mio essere, la mia posizione nell’essere (e non la visione della mia posizione nell’essere) ”.35
E, tuttavia, nonostante l’evidente simpatia di Del Noce per l’approccio esistenzialistico, entrambe queste linee, come egli stesso percepisce, lasciano aperta e non soddisfacentemente spiegata la questione del male. Da parte del razionalismo metafisico, come si è visto, o negando la trascendenza, il ruolo di Dio creatore, o pretendendo di porsi dal punto di vista della totalità dell’essere per neutralizzare l’esistenza del negativo.36 Da parte dell’esistenzialismo, o sfociando in un personalismo incapace di fare i conti con il tema dell’essere37 o giungendo addirittura a elaborare — in forme diverse — un radicale separatismo tra fede e ragione, come per esempio avviene in Shestov, nella linea precedentemente aperta da Pascal.38
Se queste sono le due principali vie attraverso cui si elabora la speculazione di Del Noce a partire dagli interrogativi che il problema del male impone a chi abbia sensibilità etica e teoretica, vi è un terzo momento che segna gran parte del suo pensiero, in direzione di una sempre più approfondita elaborazione del medesimo problema. La ricerca di Del Noce, infatti, compie un passo decisivo grazie al suo incontro con Voegelin e all’assunzione del tema dello gnosticismo come chiave ermeneutica in grado di dar conto non soltanto della critica radicale dell’ordine dell’essere sviluppatasi nell’antichità, e, dunque, di una radicale dissoluzione dell’etica,39 ma, anche e ben di più, dello spirito di negazione rivoluzionaria del reale di quello postcristiano. Per Del Noce lo gnosticismo postcristiano, caratterizzato dall’aver introiettato l’idea cristiana della storia,40 o si risolve in un’attività prassistica, volta a modificarla in prospettiva rivoluzionaria, o in una sua accettazione indifferentisticamente nichilistica. Il tema costitutivo di fondo è sempre quello del rifiuto del mondo, ma la prospettiva immanentistica dello gnosticismo postcristiano porta a conclusioni autodissolutive. Come rileva Del Noce, infatti, ciò che si perde nell’imprescindibile spinta immanentistica che contraddistingue il nuovo spirito gnostico, è il dualismo che rimandava alla realtà «totalmente altra» della precedente versione. In questa sua seconda declinazione, invece, da una parte si aspira a un completo rivolgimento entro la storia, e, dall’altra, — dove secondo Del Noce si realizza in pieno la sua autoconfutazione — lo gnosticismo nella versione nichilistica arriva a una negazione radicale del male attraverso la sua piena e indifferentistica accettazione.
L’uso che Del Noce farà dello gnosticismo come di una vera e propria categoria ermeneutica, conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, l’importanza, nel suo pensiero, del tema del male, per lo più da lui letto come manifestazione di una sempre risorgente spinta ateistica, piuttosto che nella sua problematicità teoretica. Il tema che in questa prospettiva ricostruttiva emerge in modo particolare nelle pagine delnociane riguarda gli esiti drammatici che conseguono al rifiuto «dell’ordine dell’essere, della creazione, dell’immagine di Dio’.41 Ancora una volta e con sempre maggior chiarezza e penetrazione ermeneutica, Del Noce si fa interprete del tema del male come elemento strutturale del programma a-teistico progettante la ricostruzione dell’esistente. Ricostruzione, come già si è detto, destinata a rovesciarsi nel proprio suicidio.
5. Shestov: la finitezza ontologica come male
Ora, se questo è, in sintesi estrema, il quadro entro cui il tema-male viene affrontato da Del Noce a partire dall’analisi di pensatori e linee speculative diverse, di cui egli segue poi le complesse ricadute, vorrei ora soffermarmi su alcuni elementi più propriamente teoretici del problema, che costituiscono lo sfondo su cui le sue argomentazioni vengono costruite. L’intento è quello di indicare alcune possibili linee teoretiche in grado di evitare gli esiti contraddittori cui vanno incontro sia le opzioni immanentistiche, che la filosofia religiosa dell’esistenza. Le prime, come si è visto, concludendo il proprio itinerario con il suicidio nichilistico della rivoluzione, le seconde paradossalmente favorendo il processo di scristianizzazione con la tematizzazione della completa alterità tra Dio e il mondo.42 L’ipotesi che qui si propone è di ripensare il tema del male in prospettiva ontologica, esaminando la categoria — assolutamente centrale — della differenza, che non sia né separante o ubiquitaria come nella prima versione,43 né solo separante come nella seconda. Ciò consente di porre le basi di una critica ancora più decisiva delle diverse linee che «naturalizzano» il negativo, e di evidenziare l’errore delle posizioni dell’esistenzialismo religioso fondate sul «Dio nascosto», e di individuare indirizzi speculativi potenzialmente ricostruttivi.
Torniamo ora al confronto Del Noce/Shestov, dove la questione teoretica del male è posta con maggiore chiarezza. La riflessione condotta da Del Noce a partire da Shestov, si muove entro l’interpretazione del racconto biblico, da una parte, e del noto frammento di Anassimandro dall’altra; testi peraltro citati da Del Noce più volte, anche al di fuori del contesto shestoviano, per riassumere paradigmaticamente lo status quaestionis. Cominciamo dunque dall’ultimo, che suona così:
“Il principio di tutte le cose è l’illimitato; e ciò stesso che le fa nascere è necessariamente la causa della loro distruzione; perciò al tempo fissato esse subiscono, l’una per l’opera dell’altra, la punizione e la retribuzione della loro empietà”. Come commenta Shestov — e con lui Del Noce — il frammento significa che ogni realtà finita, proprio perché tale, deve subire l’annullamento della propria singolarità come castigo dell’emancipazione dall’universalità dell’essere: il male risiede dunque precisamente nella finitezza ed è ontologico, dunque irredimibile.44 In questa prospettiva, dunque, nella ricostruzione datane da Shestov e Del Noce, potremmo dire che il male non è altro che l’essere la singolarità differenza rispetto all’universale.
Per quanto riguarda il racconto biblico, invece, il male descrittovi non è ontologico come nel caso del frammento di Anassimandro, ma, com’è noto, morale. Tuttavia, come evidenzia Del Noce, Shestov lo interpreta in modo “molto differente da quelle (interpretazioni, N. d. A.) correnti, sia cattoliche che protestanti”.45 Egli, infatti, sostiene che il male del primo peccato non scaturisce dalla disobbedienza fatta a Dio, quanto nel mangiare del frutto della conoscenza, che fa scoprire all’uomo l’esistenza del male già nella creazione.
Per Shestov, infatti, dopo aver mangiato del frutto della conoscenza, necessariamente si rivela che la creazione, in quanto tale, non può non custodire il male: “L’uomo si lasciò tentare, gustò il frutto proibito […] e divenne sapiente. Che cosa gli apparve? […] Gli apparve ciò che poi apparve ai filosofi greci e ai saggi indiani: il valde bonum divino è ingiustificato, non tutto è buono nel mondo creato. Nel mondo creato e proprio perché creato, è impossibile che non ci sia del male, molto male, un male insopportabile, così come ce ne dà testimonianza con un’evidenza indiscutibile tutto ciò che ci circonda — i dati immediati della coscienza […] A partire dal momento in cui gli uomini sono diventati scientes, vale a dire col sapere, si è introdotto nel mondo il peccato e il male”.46 Prende corpo qui la radicale differenza shestoviana tra Atene e Gerusalemme, tra la ragione e la fede, differenza che identifica sfere del tutto divergenti, condannando la ragione a un’azione appunto separante, di cui «il padre della menzogna», il «divisore», ha fatto fare esperienza ai progenitori.47
Come Del Noce rileva, l’uso della ragione da parte dell’uomo nel giardino di Eden, dunque nel recinto delle cose di Dio, non significa altro per Shestov, che elevarsi dalla propria situazione esistenziale di singolarità e proiettarsi nell’universale della concettualizzazione, cercando di infrangere il proprio limite ontologico, ma, perciò stesso, compiendo il male.48 Secondo la ricostruzione di Del Noce, il pensiero di Shestov può perciò essere così sintetizzato: ’proprio nel (e per) voler raggiungere la universalità relativizzo e umanizzo la verità’.49 Perciò stesso singolarizzandola e asservendola a una situazione di male ontologico. Nell’interpretazione del racconto biblico, dunque, Shestov pone in primo piano, come vera espressione del male, il cercare di elevarsi idealmente, razionalmente, verso l’universale, senza abbandonarsi — con la im-mediata sottomissione della fede — al disegno di Dio e vivere così in piena sintonia con la Sua libertà. Il male, perciò, consiste, per Shestov, nella sostituzione alla «fiducia in Dio», della «fiducia nella ragione», trasformando il peccato da vizio della volontà a vizio teoretico.50 L’universale, insomma, si raggiunge con l’abbandonarsi a esso e non con il volerlo conquistare con le proprie forze.
Il discorso di Shestov, analizzato da Del Noce, mi pare riveli pienamente l’indirizzo speculativo del filosofo russo. Appare, qui, infatti, in modo evidente, quella che è una vera e propria costante del pensiero shestoviano e che Del Noce coglie anche nella ricostruzione parziale operata perfino nei suoi stessi autori di riferimento: Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche. Del pensiero di questi autori a Shestov sfuggirebbe, infatti, secondo Del Noce, la dimensione ontologica, concentrandosi egli soltanto sulla loro prospettiva esperienzialistica, risolta fondamentalmente nell’annichilimento della ragione filosofica.51 Tale mancato accoglimento, da parte di Shestov, delle implicazioni onto-antropologiche presenti nelle filosofie dei propri autori di riferimento, mi pare indicativa di una più generale incomprensione della portata del problema ontologico, soprattutto in riferimento alla questione del male.52 Shestov, infatti, come abbiamo visto, dice molto chiaramente che: “nel mondo creato, proprio perché creato, è impossibile che non ci sia del male”, riproponendo così con forza l’argomento ontologico del distacco come male del quale, peraltro, aveva respinto ogni possibile argomentazione teoretica. Questa convinzione, lungi dall’incentivare un’analisi della questione anche in prospettiva metafisica, produce in Shestov, come si è visto, una violenta critica riguardo l’uso della ragione nelle cose di Dio — tanto violenta che sembra sottintendere una condanna radicale dello statuto ontologico dell’uomo — e, più in generale, nella comprensione del reale, e ribadisce il tema esperienziale e fideistico che signoreggia su tutta la sua costruzione speculativa. In definitiva è possibile dire che, per Shestov, la vera libertà dell’uomo è precisamente il ripristinare «l’unione immediata» con Dio tramite l’atto di fede.
Il rifiuto della ragione filosofica in Shestov è così radicale53 da rivelare la sua profonda affinità con le posizioni di Lutero — al cui pensiero del resto egli si rifà largamente ed esplicitamente54 — e ci consente di interpretarlo, sull’esempio del Riformatore, come il filosofo della differenza abissale uomo-Dio, almeno dopo il peccato originale, dopo l’ingresso della ragione. Per il filosofo russo, dunque, se è vero che il peccato più evidente è quello della ragione e delle sue pretese, è vero anche che questo male va letto insieme all’affermazione della creazione, sorprendentemente piena di male «per il fatto stesso dell’essere creata». Non pare qui di ritrovarci dinnanzi ad una variante della la teoria di Anassimandro: il male è la separazione dall’universale? E, questo non ci riconduce forse al tema della radicale differenza uomo-Dio luterana, dove si manifesta il tema di un’onto-antropologia condannata in radice?55 Una condanna così totale della ragione, infatti, — in Lutero fondata su un’antropologia negativa, speculare addirittura a Dio — in Shestov si giustifica con il rifiuto della separazione dalla libertà divina, che la libertà razionale inesorabilmente mette in opera.56 Ma una simile posizione finisce per apparire autocontraddittoria, poiché il male morale evocato da Shestov nella sua interpretazione del racconto della Genesi si risolve piuttosto in una riformulazione della tematica anassimandrea del male ontologico, in cui si ripropone il tema di una differenza totalmente separante.
Per quanto riguarda Del Noce, in questa fase della sua ricerca ciò che emerge è un evidente interesse per la posizione antirazionalistica e antimetafisica, di Shestov — e non solo -, il che spiega la brevità dell’accenno critico sulla questione ontologica, che, pure, mi sembra il nodo non risolto dell’impostazione shestoviana. Tuttavia, è bene porre l’accento sul fatto che, in Del Noce, la questione dell’articolazione della ricerca filosofica a partire dall’essere — di cui continua a dichiarare l’insuperabile necessità — rimane sempre aperta ed imprescindibile.
6. Oltre Shestov e Del Noce: differenza e relazione
Proprio la contraddittoria sovrapposizione tematica presente nel discorso shestoviano, indica la necessità di individuare una possibile via d’uscita alla questione in oggetto, certamente di estrema complessità. Il problema che si pone è il seguente: come porre il problema del male ontologico — di fatto incomprimibile — in rapporto con il male morale, salvaguardando la bontà di Dio e la libertà dell’uomo, come uscire dall’alternativa Anassimandro/Genesi — che, come abbiamo visto, segna drammaticamente l’intero pensiero di Del Noce, e non solo, naturalmente — senza separare drasticamente la conoscenza intellettuale dalla fede, il rapporto costitutivo all’essere di una creatura irrimediabilmente ferita dalla propria limitatezza, dall’autonomia della dimensione individuale?
La via d’uscita più nota e articolata — alla quale si riferisce Shestov contestandola duramente come non risolutiva per salvare Dio dall’accusa di aver permesso il male nel mondo — è quella di Leibniz e della sua teodicea. Ma anche le posizioni ontologico-razionaliste di Spinoza e di Hegel sono del tutto respinte da Shestov,57 che si esprime invece in favore di un’opzione esistenzialisticamente modellata sulla finale risposta al male di Giobbe. Risposta che, come si sa, si fonda sulla apertura fiduciosa a Dio a partire dalla completa disperazione intorno alle risposte umane, conformemente al debito di Shestov nei confronti di Lutero e della sua posizione sul male.58 In questa questione, posta con nettezza da Shestov, si può cogliere una impasse nel pensiero di Del Noce. Da una parte, infatti, egli segnala, non riuscendo a condividerla, la radicale antimetafisicità della posizione shestoviana, mentre dall’altra non condivide neppure l’insuperabile ontologicità del male del frammento di Anassimandro né dei diversi tentativi di superamento da parte del razionalismo metafisico, teodicea di Leibniz in testa. La soluzione da lui prospettata — riduttiva rispetto alla vastità delle argomentazioni riportate — è quella, classica, del male morale come disobbedienza e come non accettazione della propria finitudine.
Per tentare di procedere oltre questo punto morto dell’argomentazione sulla questione male, vorrei proporre alcuni spunti di riflessione al di là del pensiero del maestro torinese, precisando tuttavia in quale direzione ritengo sia possibile procedere. Rispetto a Del Noce, infatti, ritengo che la via da percorrere, per poter dire qualche cosa sul male, sia quella della riflessione metafisica a partire da Platone, mentre la via ontologistica da lui indicata come la prospettiva teoretica più promettente da seguire — la via evocata più volte da Cartesio a Rosmini — lo lasci invece senza risposte al riguardo.
Gli spunti che vorrei proporre cercano una composizione tra le due linee — ontologica e morale — utilizzando uno schema ermeneuticamente forte e, mi sembra, in grado di delineare questo raccordo. Lo schema è quello che ci viene offerto da Platone e che affronta la questione partendo certamente da una prospettiva metafisica, ponendo come punto di partenza il tema fondamentale di ogni metafisica: il rapporto tra l’essere ed il non-essere, e, in immediata successione, dell’identità e della differenza.
Ricollegandoci al frammento di Anassimandro, potremmo porci la seguente domanda: è proprio vero che il peccato ineliminabile della singolarità è essere tale, separata dall’universale dell’essere? Platone in alcuni tra i suoi dialoghi più importanti, risponde precisamente a questa questione. Nel Sofista — dove il problema si rivela tutta la sua decisiva portata teoretica analizzando il rapporto essere/ente — Platone, come si sa, supera la posizione di Parmenide circa l’unitarietà dell’essere, evidenziando la necessità inderogabile, logico-ontologica, della conservazione del non-essere in vista di una più convincente lettura del tema ontologico, grazie all’abbandono del concetto di nulla «assoluto» e all’introduzione del nulla relativo, tematizzato come differenza. Il non-essere, infatti, viene letto da Platone come appartenente a ciascun ente nel suo non-essere un altro ente: appunto nella differenza che ciascun ente è rispetto ad ogni altro, e che consente ad ogni identità di porsi, precisamente grazie alla diversità che la individua e descrive, in relazione all’altro.59
Una tale conservazione del non-essere nella forma della differenza dà ragione della struttura di un essere non più monoliticamente unitario, ma percorso dialetticamente dalla diversità, e dal movimento che lo percorre: in questa prospettiva, l’essere sfugge alla totalizzante impenetrabilità che lo caratterizzava nel pensiero di Parmenide.60 D’altra parte, si sfugge anche al dilemma di Anassimandro, che vede la singolarità destinata ad essere inglobata nell’universale o scontare una situazione irrimediabile di male ontologico. Il tema del non-essere viene dunque accolto da Platone nella propria costruzione ontologica, per evitare la situazione di indicibilità in cui altrimenti cadrebbe. Secondo Platone, infatti, soltanto ponendo in relazione essere e non-essere, è possibile accostare il dato ontologico di ogni ente, elaborandone una corretta conoscenza, rinviante all’universale struttura dell’essere. Cito da Beierwaltes:
«se l’essere rappresenta ciò che è identico ed il non essere . . ciò che è differente, allora (ciò) rappresenta lo sviluppo primo, ed insieme ricco di conseguenze, del nesso di identità e differenza, l’identità (essendo) diventata una unità non più fissata in sé, (ma) un punto di riferimento di una relazione molteplice» (cit., p. 26).
Ciò che Beierwaltes evidenzia qui, del discorso platonico, è il fatto che ogni identità, sia nel proprio dato ontologico, sia nella propria conoscibilità, si presenta e si dice come intreccio strutturale di relazioni. Relazione all’essere — cioè all’elemento unitario e, perciò, identitario; — al non-essere nella forma della diversità — cioè alla partecipazione all’alterità, senza la quale l’ente non è dicibile; al movimento dialettico-partecipativo, grazie al quale tutte queste relazioni effettivamente si svolgono.
Due elementi emergono qui soprattutto. Il primo è che la direzione qui intrapresa da Platone non si limita alla descrizione del modo in cui l’ente può essere pensato, ma, ben di più, si proietta verso l’analisi della struttura stessa dell’essere, la quale — sciolta dalla immobilità parmenidea, resa dialettica in se stessa61 -, in questo suo interno articolarsi viene guidata e ricondotta da ciò e a ciò che l’ha tratta alla luce, l’Uno/Bene, origine e spiegazione di tutto ciò che è.62 Il secondo punto significativo, che Beierwaltes sottolinea e coglie come un nucleo essenziale del pensiero di Platone a questo proposito, è che la particolarità individuale solo in questo modo è, e può essere conosciuta, non più ’fissata in sé’, ma nucleo ontologico dinamico di relazioni. La particolarità di ciascuno, perciò, non solo si relaziona ad altro, ma è essa stessa alterità in riferimento a ciò cui si relaziona e riferisce. L’essere è dicibile precisamente nella dialettica di identità e alterità, attraverso la quiete e il moto. Beierwaltes sottolinea significativamente che la tesi platonica:
correttiva […] della tradizione parmenidea [fa sì che] escluso in precedenza dall’essere, il non essere non deve essere concepito come l’opposizione contraddittoria dell’essere, ma — in quanto si riflette sulla relazionalità verso un «altro» essere — solo come una cosa diversa dall’essere determinato, dunque un non essere relazionale o relativo, che è assolutamente connesso con l’essere identico del punto di partenza (Sofista, 257 b 3) . Dunque, il presupposto della possibilità di dire che il non essere è, è il concetto che la differenza determini del tutto ogni essere, nonostante l’identità di quest’ultimo. «In relazione a tutti, infatti, la natura del diverso, rendendo ciascuno di essi diverso da “ciò che è”, lo fa essere» (Sofista, 256 d 12 ss).63
Come si vede, in questa posizione platonica — e nella lettura che di essa compie un grande interprete come Beierwaltes — si stabiliscono alcuni punti fondamentali: il non essere, il nulla, ciò che, secondo Parmenide, non poteva neppure essere detto, non solo è dicibile, ma, anche, è. Anzi è del tutto necessario che sia, ed è ciò che rende comprensibile l’essere e ogni ente, nel suo essere relazione strutturalmente partecipativa. Con ogni altra alterità infatti, — il non-essere me che ogni altro ente è rispetto a me — ogni ente condivide, secondo Platone, e, in modo ancor più esplicito in Plotino, la medesima partecipazione all’essere-uno e la condizione di diversità da questo. Il male invece, — nella risposta affermativa data da Platone alla domanda dei sofisti circa la possibilità di un logos falso — è possibile quando “Il logos, nel senso di giudizio da interrogare riguardo alla sua qualità logica, deve essere determinato come logos «falso», […] (e) dice del (reale) non essere che è o dell’essere che non è”,64 contraddicendo così alla verità delle cose.
Ciò comporta che la singolarità, al contrario di quanto adombrato nel frammento di Anassimandro, non sia male — non possa esserlo — pur essendo diversa dall’universale, proprio perché la sua stessa diversità la rinvia ontologicamente a quello in una dialettica unità/molteplicità che è il modo stesso di pensare l’essere e la sua universalità. Il male è, piuttosto, legato alla possibilità di dire falsamente di ciò che è o non è. La differenza ontologica, evocata da Anassimandro, che ogni singolarità è, rappresenta piuttosto un elemento identitario, dialettico e relazionale imprescindibile all’interno della metafisica dell’essere.
Se questo primo ordine di riflessioni riscatta dunque la colpa ontologica della singolarità, non più separata ma relazionata, occorre ora rivolgere l’attenzione all’apporto dato dall’ebraismo-cristianesimo, dove con più evidenza si trapassa dal tema ontologico a quello morale, da Anassimandro al racconto biblico in un rapporto di continuità teoretica. Con il male, come problema speculativo fondamentale, il pensiero cristiano deve necessariamente confrontarsi, essendo la propria metafisica fondata sul presupposto di un Principio assolutamente buono e, dunque, anche, sull’analisi del rapporto tra tale Principio e tutto quanto vi si rapporta come differenza a quello partecipante. Ora, non è possibile in questa sede fare altro che offrire uno spunto in relazione allo svolgimento del tema in oggetto in una direzione che potrebbe presentarsi come raccordo tra le due riflessioni sul male ipotizzate da Shestov e Del Noce.
Lo spunto che desidero prendere in considerazione è offerto da Agostino, che compie un passo fondamentale nella costruzione di un pensiero della differenza relazionante e non separante, alla luce della innovativa prospettiva cristiana della libertà e compiendo un’elaborazione ulteriore sull’essenza e il senso del male, nel passaggio dal piano ontologico a quello morale.
Agostino, infatti, ponendosi nella linea platonico-plotiniana, declina il rapporto necessario essere e non-essere, identità e differenza, all’interno del legame costitutivo/creaturale dell’uomo a Dio, articolandone la struttura ontologica grazie alla chiave ermeneutica della differenza-relazione ed inserendola nell’analisi della creazione. La questione viene esaminata attraverso il prisma teologico-filosofico della natura della creazione nel suo rapporto con il Creatore, e Agostino descrive l’“esistere come modalità creaturale di essere, segnata indelebilmente da un debito ontologico”.65 Precisamente per questo motivo l’esser creatura è descrivibile con l’affermazione che gli enti sono caratterizzati dal fatto di aver ricevuto l’essere e di non essere l’Essere nella sua pienezza — Dio — dal quale, evidentemente, una differenza li separa e al quale una relazione, tuttavia, li lega necessariamente. Ancora Beierwaltes mostra come Agostino, interpretando la creazione come il risultato nel tempo dell’effusione d’amore dell’Inizio senza tempo,66 grazie all’intervento della Parola senza tempo67 in questo modo ponga la differenza dall’eternità della temporalità e la differenza — nella propria struttura d’essere — di ogni «altro» che inizia nel tempo.68
Questo comporta immediatamente il fatto che ogni cosa che è sia tratta dal non essere — l’ex nihilo del racconto biblico — e ne partecipi strutturalmente, appunto con ciò rivelando la propria carenza ontologica, di cui la temporalità di ogni creatura è manifestazione evidente. Anche per Agostino, dunque, come già avveniva in Platone, gli enti non possono essere né venir pensati altro che all’interno della relazione identità/differenza, partecipazione all’essere e al non essere. La processione creativa dal Creatore alla creazione, che da una parte comporta un salto senza mediazione — appunto l’avvento del tempo come posizione della differenza -, dall’altro, invece, istituisce in questa prospettiva una relazione necessaria tra l’assenza di tempo e la temporalità, tra principio e principiato.69 Questo perché, come ricorda Beierwaltes, il fondamento dell’ente creato è ciò che lo precede ontologicamente, cioè l’essere eterno, senza il quale la temporalità non può neppure essere nominata. La conseguenza che ne deriva è che la differenza che ogni ente è -in sé e rispetto alla propria origine- custodisce, necessariamente, un legame strutturale rispetto alla propria origine/fondamento. Per Agostino dunque, l’essere è, in Dio, pienezza ontologica dove si custodisce ogni senso e si garantisce ogni esistenza,70 e, nell’uomo che ne partecipa, luogo dove si articolano somiglianza71 e differenza. In questo modo ogni ente è in primo luogo, in quanto esistente, appartenenza e relazione ontologica all’eterno inizio, all’Essere.72 Tale appartenenza, nell’uomo, si manifesta sotto forma di strutturale somiglianza a Dio — l’’avere l’essere’-, mentre è nella sua appartenenza al non-essere — cioè alla carenza, al male possibile — che si rivela il suo essere differenza rispetto a Dio.73 Qui è particolarmente evidente il passaggio dal piano ontologico al piano assiologico, poiché l’essere, cui l’uomo è relazionato, è — nell’orizzonte agostiniano — l’Amore effusivo dal quale egli ricava la propria identità; questa egli può scegliere di accogliere o allontanare, seguendo o rifiutando la corretta dialettica dell’uti et frui.
Che conclusioni trarre, allora, da questa osservazione sulla metafisica agostiniana? Anche qui, come in Platone, ma in modo ancor più chiaro, possiamo osservare alcuni dati molto importanti: ciascun ente è descrivibile non in sé e per sé, ma come relazione strutturale all’essere e, contemporaneamente al non-essere/differenza. L’identità di ciascun ente si costruisce precisamente nella relazione all’unità dell’essere ed alla diversità del non essere, attraversando, come insegna Platone, le fasi della quiete e del moto. Questa struttura anzi, è la condizione necessaria di esistenza di tutto ciò che è. Platone legge la relazione all’essere come resa costitutivamente possibile dalla partecipazione di ogni cosa all’Uno, Agostino come partecipazione alla pienezza di essere che Dio è. Ma la partecipazione al non-essere/differenza che ogni ente ugualmente è e non può non-essere, per il santo non è male di per sé, anzi è, anch’essa, condizione di possibilità dell’esistenza di tutto ciò che è. Il male, dunque, non è ontologico, né può esserlo: ontologica è la dinamica relazionale di identità e differenza che ciascun ente è, buono nella propria esistenza, eppure, in quanto differenza da Dio, aperto alla possibilità del male.
È proprio nell’essere differenza ed identità, che si gioca la sempre aperta dinamica della libertà, molto più evidente che nel pensiero greco. Come evidenzia Agostino, accanto alla descrizione metafisica di ciò che l’uomo è — struttura ontologica relazionata alla bontà/pienezza ed alla carenza -, viene soppesata la considerazione di ciò che l’uomo fa. La somiglianza all’infinito, alla pienezza, a Colui che contiene in sé tutte le differenze e tutte le immagini,74 infatti, si rivela nel dato onto-antropologico di partecipazione dell’uomo — fattasi concretezza esistenziale — all’ordo amoris che struttura la creazione.
Posto in questa prospettiva, il tema del male non può essere risolto esclusivamente con la negazione della ragione ed il salto/rifugio nella fede, come sostenuto da Shestov. La continua opera autocoscienziale del ritorno in se stessi, là dove più profondamente abita la verità — come ricorda spesso anche Del Noce -, basta da sola ad escludere tale irrazionalismo fideistico.75 Nonostante la drammatica compromissione della volontà umana, la dinamica della libertà permette ad ogni uomo di scegliere tra il Bene e i beni, così come la creazione prima che «nascondere molto male», rivela il bene da cui è tratta e che la sorreggerà fino alla fine dei tempi. La libertà dell’uomo oscilla sempre tra l’attivare una dinamica di bene, nella comprensione ed adesione ad un ordo amoris, che altro non è che il frutto della dialettica relazionale trinitaria di cui la costituzione ontologica dell’uomo custodisce traccia e a partire dalla quale riesce a ritrovare in sé la verità che lo trascendente; di male, come si sa, con Agostino, nella possibilità di tralasciare il Bene maggiore scegliendo altri beni e assolutizzandoli nella loro singolarità non relazionale.
Il male, allora, appare configurarsi in questo modo: non come uso arrogante della ragione che ci distacchi dall’universale, né come male ontologico che definisca la natura umana. Neppure semplicemente come la disubbidienza dell’uomo all’imperativo morale. Prima di tutto esso appare come la possibilità, da parte dell’uomo, di porsi al di fuori della logica relazionale d’identità e differenza che lo costituisce, rifiutandone il contenuto di amore e verità, capace di porlo in rapporto con l’A/altro.
Il presente saggio è lo sviluppo di una conferenza su Il problema del male in Del Noce tenuto al Convegno La filosofia italiana del ventesimo secolo. I filosofi della «Sapienza», Montecompatri 2009.
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È praticamente impossibile citare tutti coloro che, in varie prospettive e a diverso proposito, hanno toccato questo problema nel pensiero di Del Noce, anche perché, in modo più o meno tangenziale, esso è stato ricordato dalla maggioranza degli studiosi della sua opera. Per rendersi conto della molteplicità degli apporti in questo senso, cfr. gli Atti del Convegno Internazionale in suo onore, tenuto nel 1995. Cfr. infra, nota 2. ↩︎
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Il convegno, organizzato nel V° anniversario della morte dalle Università di Roma La Sapienza, Tor Vergata e dalla Lumsa, fu tenuto nel novembre del 1995. Gli Atti, Augusto Del Noce. Essenze filosofiche e attualità storica, in due poderosi volumi, furono pubblicati a cura di F. Mercadante e V. Lattanzi e grazie ad uno sforzo collettivo de La Sapienza, della Fondazione Del Noce, del CNR e del Comune di Roma nel 2000, per le Edizioni Spes e Fondazione Augusto Del Noce. La relazione di V. Possenti qui citata è dedicata a Il problema del male in A. Del Noce (esistenzialismo religioso, razionalismo gnostico, pensiero tradizionale). ↩︎
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Possenti individua queste tre linee nell’analisi delnociana del tema «male»: la prima articolata intorno al razionalismo basato sulla separazione tra filosofia e religione, da una parte, e, dall’altra, su di «un clima gnostico»; la seconda sull’analisi delle varie filosofie della libertà; la terza sull’analisi della tradizione teologica cristiana. Cfr. V. Possenti, cit. p. 144. ↩︎
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V. Possenti, cit., p. 144. ↩︎
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G. Riconda, Tradizione e pensiero, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2009, p. 272 ss. e, anche, pp. 355-56. ↩︎
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Per valutare l’importanza del tema della libertà nella sua ricostruzione del pensiero di Cartesio, v, A. Del Noce, Riforma cattolica e filosofia moderna, vol. I, Cartesio, Il Mulino, Bologna, 1965, p. 43 ss. sulla questione della libertà divina, e, per quanto riguarda quella umana, p. 87 ss. Cfr. anche di A. Sabetta, Teologia della modernità. Percorsi e figure, S. Paolo, Milano, 2002, p. 311 ss. ↩︎
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Andrea Paris, Le radici della libertà. Per un’interpretazione del pensiero di Augusto Del Noce, Marietti 1820, Genova-Milano 2008, p. 19. ↩︎
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Cfr. A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1970, p.24 ss. ↩︎
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Il pensiero di Pascal — segnato tanto in profondità dal tema del male da essere percorso da un radicale e angoscioso antiumanesimo di stampo giansenista — è, tuttavia, e nonostante la critica di questo aspetto, una vera e propria costante nell’orizzonte delnociano: cfr. Il problema dell’ateismo, cit., pp. 467 ss. Per quanto riguarda l’analisi del pensiero di Lequier, Del Noce evidenzia soprattutto l’angoscia «orribile» nutrita dal pensatore francese nei confronti «della potenza dell’idea di necessità», portata alla sua «massima ampiezza» fino a farsi coincidente con un Niente che ha preso l’apparenza della vita e della realtà» (qui Del Noce cita un’interpretazione di Lequier di Lazarev) e di fronte a cui l’unica via d’uscita sembra essere quella di pensare fino in fondo la radicalità della libertà: dell’uomo e di Dio. Cfr., A. Del Noce, Introduzione a J.-L. Jules Lequier, Opere, Morcelliana, Brescia, pp. 47-51. Per quanto riguarda il pensiero di L. Shestov e quello di S. Weil, autori in cui il tema del male è particolarmente presente, cfr. di Id., L’esistenzialismo di Chestov, in: Filosofi dell’esistenza e della libertà, a c. di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, Milano, 1992 e Simone Weil interprete del mondo di oggi, in L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano, 1970. ↩︎
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Per quanto riguarda Del Noce e il nesso libertà-male, cfr. il testo di A. Paris già citato, per quanto riguarda il pensiero di Pareyson, cfr. la Prefazione a Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, di G. Riconda e G. Vattimo, Einaudi, Torino, 2000, p. XII. ↩︎
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L. Pareyson, cit., p. 267. ↩︎
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Ibidem, p. 268. ↩︎
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Cfr. Andrea Paris, Le radici della libertà …, cit., p. 59 ss. ↩︎
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A. Del Noce, Il problema …, cit., p. 356. Cfr. anche «Antiumanesimo di Pascal», in Id., Da Cartesio a Rosmini. Scritti vari, anche inediti, di filosofia e storia della filosofia a c. di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, Milano, 1992, p. 225, ss. ↩︎
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A proposito di questo secondo modo di risolvere la questione della natura lapsa, grazie ad una vera e propria metamorfosi dell’uomo, v. tra gli altri, le pagine conclusive di Id., Riforma cattolica e filosofia moderna. vol. I, Cartesio, p. 686 ss. ↩︎
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Cfr. Id., Da Cartesio a Rosmini…, cit., ma anche Riforma cattolica…, cit. ↩︎
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Pareyson, nel suo La filosofia e il problema del male, sottolinea con forza la necessità per la filosofia di confrontarsi con questo tema, sottolineando assai duramente quanto spesso essa sia stata inefficace e deficitaria in tale confronto, oscillando tra un presuntuoso ottimismo e una pigrizia colpevole. Pur legando strettamente e inevitabilmente la ricerca filosofica intorno a questo problema con quello di Dio, e sottolineando dunque la necessità di un suo continuo confronto con la religione a questo proposito, le pagine di Pareyson sono una potente monito rivolto alla filosofia a confrontarsi con un aspetto fondativo della sua ricerca. L. Pareyson, La filosofia e il problema del male, in Ontologia della libertà Einaudi, Torino, 2000. ↩︎
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Cfr. su questa connessione, l’Introduzione alla propria Storia del nulla di S. Givone, Laterza, Roma-Bari, 1995. ↩︎
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Quanto fosse importante per Del Noce l’adesione al cristianesimo, è dimostrato dalla sua affermazione che il cristianesimo è un’“attitudine totale” che si riverbera su ogni aspetto della vita, della conoscenza, del giudizio (A. Del Noce, Il problema dell’ateismo,p. 379, in Andrea Paris, Le radici della libertà…, cit. p. 88. ↩︎
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A testimonianza di quanto queste prime letture abbiano lavorato costantemente all’interno del suo pensiero, si veda il saggio molto più tardo, dove Del Noce riprende ancora le suggestioni ricavate dal pensiero di Spir, da lui definito «il vero maestro di Martinetti», che negano la possibilità per «il condizionato» di provenire «dall’incondizionato», a rischio di confondere «in ragione della comune discendenza dall’incondizionato», il male con il bene, falsificando così la coscienza morale e religiosa». A. Del Noce, Il problema filosofico della violenza, in AA. VV. Violenza. Una ricerca per comprendere, Contributi al XXXIV Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate, (19-20-21 aprile 1979), Morcelliana, Brescia 1980, p. 204. Cfr. anche, sul rapporto di Del Noce con Spir e Martinetti, il vol. citato di A. Paris, Le radici…, soprattutto alle pp. 124 ss. ↩︎
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Del Noce, Il problema…, cit., p. 347 ss. ↩︎
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Idem, p. 550, nota 2. ↩︎
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Vale la pena di riportare qui un brano più ampio da Il problema dell’ateismo, lasciando la parola allo stesso Del Noce: «La più grande parte delle forme di pensiero religioso […] è […] caratterizzata dall’idea […] dell’“ateismo purificatore” […] essenzialmente definito come “scoperta del male” e rivolta contro di esso in nome della “morale”; quindi, come distruzione degli idoli filosofici, del Dio inteso come anima del mondo, come natura naturante, come soggetto trascendentale, come spirito della storia, come assioma eterno, come ragione costitutiva […] è il riconoscimento lucido della realtà del male […] L’ateismo, insomma, rappresenterebbe il momento della «morte di Dio», preludio a quello della sua Resurrezione» cit., pp. 553-4. ↩︎
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Questo tema emerge, per fare un esempio, nel testo già citato «Antiumanesimo… », a proposito, appunto, del pensiero di Pascal e del suo rifiuto della metafisica in ragione del suo fortissimo antiumanesimo e della discontinuità tra gli ordini della trascendenza e dell’immanenza, per il cui tema Del Noce si rifà anche al pensiero di Gouhier. Cfr., cit., p. 226-27. L’elemento curioso, che credo vada sottolineato, è, che, di fronte all’estrema abbondanza di materiale mosso da Del Noce - secondo il suo consueto modo di procedere per filiazioni e rimandi genealogici assai articolati - per illustrare la tesi dell’antiumanesimo di Pascal e della conseguente profonda critica di questi ad una possibile prospettiva metafisica, Del Noce stesso non fa cenno alle vere radici di tale fondamentale prospettiva, individuabili - ben prima! - in quella che fu la posizione non solo più drastica in questo senso, ma anche più significativa e capace, indubbiamente, di condizionare tutto il pensiero moderno, da Pascal, a Hobbes e, in modo più indiretto, praticamente tutti gli autori del contrattualismo. Intendo riferirmi a quello che è stato l’antiumanesimo più radicale di tutti nella teorizzazione della specularità della natura umana rispetto a quella divina e nella costituzione ontologica dell’uomo nel male e nel desiderio: quella di Lutero. Su questo, mi permetto di rinviare al mio La nascita dell’individualismo politico. Lutero e la politica della modernità, Il Mulino, Bologna, 2002. Per quanto riguarda la critica di Del Noce a Pascal e al suo spiritualismo chiuso in se stesso e sfociante in un’oppositività - potenzialmente scristianizzante - tra l’indicibilità di Dio e l’immanenza, v. anche le importanti note di T. Perlini in Esistenzialismo religioso e teologia civile in Augusto Del Noce, in AA. VV. Percorsi e figure. Filosofi italiani del «900, a c. di S. Natoli, Marietti 1820, Genova 1998, alle pp. 194-5. ↩︎
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Su questo cfr. le sintetiche ma decisive analisi di G. Riconda, A. Del Noce e J. Lequier, in A. Del Noce. Essenze filosofiche…, cit., alle pp. 357-59. ↩︎
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A. Del Noce, Il problema…, cit., p. 560. ↩︎
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Cfr. Andrea Paris, cit., p. 92, dove si sottolinea il tema della libertà dell’uomo di far valere il proprio libero arbitrio per vincere sul male, accompagnato dell’agostiniano principio dell’inabitazione della verità. Cfr. anche le riflessioni molto significative di G. Riconda a proposito del nesso libertà/responsabilità dell’esperienza religiosa individuate da Del Noce nella figura di Lequier: G. Riconda, Tradizione e pensiero, cit., p. 347. A proposito dell’importanza fondamentale, in Del Noce, dell’impegno individuale della libertà, P. Miccoli individua qui un’indubbia eco agostiniana nei confronti della storia e del suo essere «banco di prova della fedeltà dell’uomo a Dio». P. Miccoli, La transpoliticità della storia secondo Augusto Del Noce, Augusto Del Noce, il pensiero filosofico, a c. di D. Castellano, ESI, Napoli 1992, p. 312. ↩︎
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Cfr. G. Riconda, Tradizione…, cit., p. 271. ↩︎
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Per cogliere l’affinità tra il giovane Del Noce e l’esistenzialismo religioso, si veda, p.e. la sua prefazione al testo di L. Chestov, Concupiscentia irresistibilis della filosofia medioevale, ora pubblicata con il titolo L’esistenzialismo di Chestov, in Filosofi dell’esistenza e della libertà, cit., p.31-52. ↩︎
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Odo Marquard, soprattutto in Entlastungen. Theodizeemotive in der neuzeitlichen Philosophie, in Apologie des Zufälligen, Reclam, Stuttgard 1986 e Der angeglakte und der entlastete Mensch in der Philosophie des 18 Jahrhunderts, in Abschied vom Prinzioiellen, Reclam, Stuttgard, 1981 entrambi in Odo Marquard, Alberto Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza 2008, Roma-Bari, pubblicati con i titoli Esoneri. Motivi di teodicea nella filosofia dell’epoca moderna e Imputato ed esonerato. L’uomo nella filosofia del XVIII secolo. ↩︎
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III° convegno di Gallarate, 1948. ↩︎
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Cfr. T. Perlini, Esistenzialismo religioso…, cit., pp. 195-6. ↩︎
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La frase esatta di Del Noce, appuntata a margine dei suoi appunti sul pensiero di Mazzantini suona così: “Il criterio della validità d’una filosofia è nella vita. È chiaro che da questo punto di vista la posizione della filosofia si presenta come un’opzione”. In T. Dell’Era, Augusto Del Noce filosofo della politica, p. 86 ss., Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000, in Andrea Paris, cit., p. 163. ↩︎
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Cfr., per es., Id., Léon Chestov, in Filosofi dell’esistenza, cit., là dove Del Noce sottolinea la differenza delle visuali di Shestov e di Spinoza su che cosa sia filosofia: p. 32, nota 1. ↩︎
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“Ma la totalità del reale potrà diventare oggetto di scienza solo a patto di sostituire a me l’io generico, la «categoria uomo»: col pretendere di farla oggetto di scienza si sostituisce alla totalità del reale una realtà astratta appunto perché astrae da me. È una tesi, questa dell’inoggettivibilità dell’essere […] oggi così nota che non è certo il caso di insistervi” (A. Del Noce, Razionalismo metafisico e punto di partenza, in III° Convegno di studi filosofico-cristiani tra professori universitari - Gallarate, 1947, Padova 1948, pp. 168-69) ↩︎
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“La figura del razionalismo metafisico è costituita dal collegamento tra l’idea della negatività del finito e l’ideale della comprensione. Di questo ideale della comprensione importa segnalare il carattere etico e la dipendenza stretta dalla tesi dell’ontologicità della colpa. Se il male sta nella finitezza, l’uomo conseguirà la libertà spirituale nel porsi dal punto di vista dell’essere considerato nella sua totalità (della necessità «compresa’); dunque nell’elevarsi con il pensiero a una tale universalità che gli diventi indifferente la sua esistenza o non esistenza nella vita finita […] la duplice contraddizione del razionalismo metafisico — tra la intenzione di ateologizzazione del finito e la teologizzazione di quel finito che è il sistema” (idem, 167-68) ↩︎
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È bene sottolineare, comunque, la diffidenza di Del Noce nei confronti del personalismo o, per lo meno, di un abuso di questa prospettiva, alla quale, egli sottolinea, si fa ricorso «in modo quasi magico» da almeno trent’anni (A. Del Noce, Introduzione, p. 100 a J.-L. Jules Lequier, Opere, Morcelliana) e che può contenere elementi di semplificazione o, addirittura di deformazione circa una corretta prospettiva antropologica. Tale punto è sottolineato da G. Riconda in questi termini: “io credo che Del Noce denunci qui chiaramente un pericolo, che il personalismo può contenere, e a cui spesso non ha saputo sottrarsi per il suo porsi innanzitutto come rivendicazione della persona nei confronti di un tutto naturalisticamente o idealisticamente inteso, esaurendosi quasi completamente in questa rivendicazione, sino a considerare sospetta l’idea stessa dell’essere o della verità, salvo poi recuperarne ecletticamente l’esigenza sul piano religioso, per evitare appunto che la rivendicazione della persona si tramuti in libertinismo ateo” (G. Riconda, A. Del Noce e J. Lequier: il problema della libertà, p. 354 in Atti del Convegno Internazionale Augusto Del Noce. Essenze filosofiche, cit., corsivo mio). Riconda qui sottolinea molto giustamente il legame che si fa sempre più stretto nel pensiero di Del Noce, del tema della verità con quello dell’essere e come, in definitiva, egli vada prendendo le distanze, dopo gli anni giovanili, non solo dall’esistenzialismo, ma anche da un personalismo non sufficientemente e chiaramente provvisto di substrato metafisico. ↩︎
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La critica di Del Noce all’esistenzialismo si potrebbe sintetizzare nella definizione fulminante che egli ne dà come di «una filosofia del Dio nascosto». V. Id., a proposito di una nuova edizione della «Teosofia» del Rosmini, in Id., Da Cartesio a Rosmini…, cit., p. 541. In modo più ampio T. Perlini dà conto della critica delnociana dell’esistenzialismo religioso in Esistenzialismo religioso e teologia civile, Percorsi e figure. Filosofi italiani del «900, a c. di S. Natoli, Marietti 1820, Genova 1998, p. 191 ss. . Perlini sottolinea come Del Noce rilevi l’insufficienza delle posizioni sia di Pascal che di Kierkegaard dinnanzi all’avanzare dell’immanentismo. Del primo evidenzia l’insufficienza dell’insondabilità degli abissi dell’interiorità cristiana a contrapporsi alla nascita dello Stato moderno, del secondo, l’incapacità di individuare il vero nemico cui contrapporsi e cioè non tanto l’universalismo hegeliano, quanto l’ateismo «come sbocco logico del razionalismo». ↩︎
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«La critica di Plotino rappresentava l’estrema difesa del pensiero classico, per il quale il compito dell’uomo era quello teoretico di contemplare e quello pratico di imitare l’universo, riflettendo in sé l’ordine dell’essere. L’idea di virtù era insomma inscindibilmente connessa con quella dell’ordine dell’essere. Ora gli studiosi del pensiero gnostico hanno visto nella rivolta contro l’idea dell’ordine cosmico il suo carattere essenziale. Gli gnostici non negano al mondo l’attributo di ordine, ma lo volgono a significare obbrobrio anziché lode. Non dicono che il cosmo è disordinato, ma che è retto da un ordine rigido e nemico, da una legge tirannica e malvagia» A. Del Noce, Il problema filosofico della violenza, in AA. VV. Violenza. Una ricerca per comprendere, Contributi al XXXIV Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate, (19-20-21 aprile 1979), Morcelliana, Brescia 1980, p. 11. ↩︎
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Voegelin spiega lo spirito gnostico con il desiderio di acquisire una comprensione più chiara e netta circa il trascendente di quanto non possa fornire la cognitio fidei, sottolineando come questa pretesa sfoci poi in una «inclusione di Dio nell’esistenza dell’uomo». Tale inclusione, secondo Voegelin, potrà spingere in direzione «di una penetrazione speculativa del mistero della creazione e dell’esistenza […] O essere soprattutto emozionale e assumere la forma di una inabitazione della sostanza divina nell’anima umana, […] O può essere soprattutto volontaristica e assumere la forma di una redenzione attivistica dell’uomo e della società, come nel caso degli attivisti rivoluzionari tipo Comte, Marx o Hitler». Cfr. E. Voegelin, La nuova scienza politica, Borla, Torino, 1968, p. 195-6. ↩︎
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Cfr. A. Del Noce, Violenza e secolarizzazione della gnosi, in Violenza. Una ricerca per comprendere, Contributi al XXXIV Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate, (19-20-21 aprile 1979), Morcelliana, Brescia 1980. ↩︎
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Cfr., p.e., A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, cit., p. 386 ss., dove l’Autore esamina il caso Pascal facendo riferimento al testo di L. Goldmann, Le Dieu caché. Anche qui, è opportuno ricordare che il tema dell’alterità di Dio e del suo nascondimento sono stati tematizzati, prima che da Pascal, da Lutero, con i medesimi — ma precedenti e ben più rilevanti quanto a capacità diffusiva — esiti di avvio del processo di secolarizzazione. ↩︎
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In una filosofia della prassi rivoluzionaria la differenza è separante poiché il salto rivoluzionario auspicato è in una dimensione totalmente altra; ubiquitaria, invece, è la differenza nella prospettiva nichilistica, dove la differenza è la categoria di riferimento; talmente assolutizzata e ubiquitaria, tuttavia, da rovesciarsi in un’assoluta uniformità. Per quanto riguarda invece le posizioni dell’esistenzialismo religioso, la differenza tra la bontà/libertà di Dio e l’uomo è tale da essere separante, in attesa della grazia, del «salto nella fede», e necessitante un pari. ↩︎
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“Ogni realtà finita deve, proprio perché finita, subire, con l’annullamento della sua singolarità, il castigo di essere emancipata dall’essere puro; il male sta nella finitezza stessa dell’esistente, la colpa è ontologica, scritta nella struttura stessa dell’esistente finito. L’uomo è colpevole in quanto esistente”, così Del Noce a proposito del frammento. V. L’esistenzialismo di Chestov, pp. 33-34, in A. Del Noce, Filosofi dell’esistenza e della libertà, a c. di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, 1992 Milano. Cfr. anche V. Possenti Il problema del male, cit., p.145 ss. ↩︎
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Idem, pp. 34-35. In realtà, invece, la posizione sul peccato di Shestov, qualora la si riconduca al suo nucleo teorico fondamentale, della condanna radicale della ragione, causa di separazione tra l’uomo e Dio rispetto allo stato di unione immediata originaria, è riconducibile all’insegnamento luterano di cui, d’altra parte, è noto che Shestov subì fortemente il fascino. ↩︎
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L. Shestov, Kierkegaard et la philosophie existentielle, 12-13, in A. Del Noce, idem, p. 34, corsivo mio. ↩︎
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Cfr. L. Shestov, Atene e Gerusalemme, Introduzione di Alessandro Paris, p. 75 ss., Bompiani, Milano 2005. ↩︎
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È appena il caso di ricordare qui la immediata consonanza di questa posizione con quella di Lutero, per il quale la ragione umana, nelle cose di Dio, è prostituta del demonio. V. infra, nota 55. ↩︎
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L’intero brano recita così: “Per «pensare» (elevarsi all’universale) si deve rinunciare a se stessi, alla propria sempre individualissima vita. Ma allora la verità che si ottiene è una verità che viene dopo un si deve: perciò non è la verità prima, ma un’immagine secondaria e derivata; proprio nel (e per) voler raggiungere la universalità relativizzo e umanizzo la verità”. In A. Del Noce, cit., p. 47. ↩︎
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Del Noce, cit., pp. 34-35. ↩︎
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Idem, p. 50. ↩︎
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Significativamente Shestov afferma che «l’etica ha preso il posto dell’ontologia» e che il problema sta nella sottomissione e nell’obbedienza. Cf. Alessandro Paris, Introduzione a L. Shestov, Atene e Gerusalemme, p. 36, Bompiani, Milano 2005. ↩︎
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Lo stesso titolo Atene e Gerusalemme è rivelativo del modo di pensare al riguardo di Shestov, che dissemina questo ed altri testi — per esempio L’Apothéose du Déracinement - di rilievi di questo genere. Tuttavia, mi pare particolarmente significativo il legame da lui istituito tra pensiero filosofico e quella che lui giudica una pietrificazione della realtà operata dalla ragione quando insegue una necessità veritativa che si manifesta poi come del tutto costrittiva. Ma, secondo Shestov, questa non è che la pretesa, profondamente violenta e radicalmente erronea del “pensiero (che) avrebbe preferito considerare l’Ananke come una creazione dell’essere, perché l’essere che per sua stessa natura è irrequieto, potrebbe ben ripudiare l’Ananke e dichiararla figlia del puro pensiero. L’essere non è, checché ne dica Parmenide, la stessa cosa del pensiero […] Abbiamo detto che la filosofia ha sempre significato e voluto significare: riflettere sich besinnen, guardarsi indietro […] «Guardarsi indietro» paralizza l’uomo. Colui che si volta […] deve vedere ciò che già esiste, cioè la testa di Medusa; e chi vede la testa di Medusa viene inevitabilmente pietrificato, come già sapevano gli antichi; il proprio pensiero sarà dunque un pensiero pietrificato, corrispondente, evidentemente, al proprio essere pietrificato”. Atene e Gerusalemme, cit., parte Ia, Parmenide incatenato, p. 227-229, corsivi miei. ↩︎
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Cfr. soprattutto, Shestov, Atene e Gerusalemme, cit., parte IIa, Nel toro di Falaride, p. 527 ss. ↩︎
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L’eco di questa antropologia si avverte anche in Kant e nella sua tesi del male radicale imprescindibilmente presente nell’uomo. ↩︎
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Cfr. Alessandro Paris, Introduzione a Atene e Gerusalemme, cit., p. 74 ss. che sottolinea come «Con la ragione entra dunque il limite nell’illimitatezza originaria della vita paradisiaca». ↩︎
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Cfr. Del Noce, cit., p. 36. ↩︎
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Per quanto riguarda il tema del male in Lutero, mi permetto di rinviare al mio La nascita dell’individualismo politico. Lutero e la politica della modernità, Il Mulino, Bologna 2002, soprattutto al cap. I. ↩︎
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Platone, Sofista, 258, e — 259 d. ↩︎
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Cf. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 1980, trad. it. cit., Identità e differenza, p. 46-47, Vita e Pensiero, Milano 1989. ↩︎
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Idem, p. 46. ↩︎
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Idem, p. 48. ↩︎
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W. Beierwaltes, cit., p. 49, corsivi miei. ↩︎
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Idem, cit., p. 51. ↩︎
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L. Alici, L’altro nell’Io. In dialogo con Sant’Agostino, p. 64 ss., corsivo mio, Città Nuova, Roma, 1999. ↩︎
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Agostino, Confessionum Liber XIII, 11, 8, 10; 11, 9, 11; 11, 30, 40. De Civitate Dei, libro XI, dove si tratta soprattutto del rapporto tempo-creazione. Cfr. anche G. Beschin, S. Agostino. Il significato dell’amore, Città Nuova, Roma, 1983, soprattutto alle pp. 30 e ss. ↩︎
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Cfr. Agostino, De natura boni, 26, e, soprattutto, Conf., 11, 6, 8; 11, 7, 9. ↩︎
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W. Beierwaltes, Identità e differenza, cit., p. 120. ↩︎
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W. Beierwaltes, cit., p. 121 e ss. V. anche, Beschin, cit., pp. 32-33 e L. Alici, L’altro nell’io, Città Nuova, Roma, 1999, alle pp. 64 e ss. ↩︎
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G. Beschin, cit., a questo proposito, si esprime così: «Ma allora è possibile pensare la coesistenza tra Dio e le cose solo se si concepisce l’essere e, quindi, prima di tutto l’essere divino, non come chiuso in sé, ma come infinitamente partecipabile. L’essere di Dio include in un certo modo le differenze che costituiscono le varie creature conoscendosi come infinitamente partecipabile», cit., p. 32, corsivo mio. ↩︎
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Agostino, De Trinitate, 7, 6, 12; 14, 14, 20. ↩︎
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Tale appartenenza è descrivibile, oltre che in termini di temporalità/eternità, anche in termini ontologici —partecipazione alla pienezza di essere che descrive la natura di Dio (v. nota precedente)- o assiologici —appartenenza di ogni cosa che è al Bene che Dio è. Cfr. su questo, Agostino, soprattutto in De natura boni, I, 17 «Non ergo mala est, in quantum natura est, ulla natura; sed cuique naturae non est malum nisi minui bono. Quod si minuendo absumeretur, sicut nullum bonum, ita nulla natura relinqueretur, non solum qualem inducunt Manichei, ubi tanta bona inveniuntur, ut nimia eorum caecitas mira sit; sed qualem potest quilibet inducere», corsivi miei. ↩︎
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Il tema è delicatissimo e veramente centrale per la comprensione di Agostino, della sua metafisica, antropologia, etica, poiché è il fondamento e la spiegazione della sua idea di male. L’uomo, infatti, partecipando all’essere che Dio è, partecipa anche alla bontà che Dio è. Essendo tuttavia differenza rispetto a Dio —se fosse uguaglianza non vi potrebbe essere partecipazione, e, d’altra parte che l’uomo sia differenza rispetto a Dio è dimostrato dalla sua appartenenza alla temporalità, al nulla da cui è stato tratto- ha la possibilità di scegliere i beni minori rispetto al Bene. Questo, appunto, è, per Agostino, il male. ↩︎
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Mi permetto di rinviare qui al mio Immagine, differenza, artificio. Prospettive sul problema del male, cap. I, Il male e i suoi simboli, soprattutto a p. 42, Franco Angeli, Milano, 2004. ↩︎
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Agostino, De vera religione, 39, 72. ↩︎