Francesco Botturi, La generazione del bene. Gratuità ed esperienza morale, Vita e Pensiero, Milano, 2009. pp. XVI-396.
Il libro affronta la questione fondamentale della natura del bene e dell’origine della normatività, proponendo una prospettiva realista, secondo la quale, però, il bene non esiste astrattamente, ma è il risultato di un processo generativo che dipende dalla struttura trascendentale dell’uomo. È così che il libro si divide in due parti: la prima analizza la struttura antropologica umana, la seconda si concentra sulla generazione del bene e sull’emergere della normatività a partire dal dinamismo esistenziale umano.
Il primo capitolo, «Pensiero e unità dell’esperienza», considera la modalità dell’apertura dell’uomo all’essere, che non avviene secondo la semplicistica schematicità del rapporto soggetto-oggetto affermata dalla filosofia moderna, bensì nella modalità di una domanda che interpella la realtà sensibile e costituisce l’esperienza attraverso l’unità di senso datale dal pensiero, con la formulazione del giudizio. Il giudizio si configura quindi elemento trascendentale dell’esperienza e costituisce con essa un circolo di reciproca implicazione, tanto che si può affermare che l’esperienza non sia passiva ricezione, ma sia ricezione e nel contempo generazione poietica e affettiva.
«Giudizio ed esperienza» è il titolo del secondo capitolo, nel quale sono approfonditi i rapporti tra i due elementi costituitivi dell’umano rapportarsi all’essere, in relazione alla nozione a cui entrambi tendono: quella di verità. Facendo propria l’analisi del giudizio di Heidgger, ma andando oltre ad essa, in dialettica critica con i suoi presupposti kantiani ed hegeliani, Botturi afferma che il giudizio non può mai essere mera rappresentazione di determinazioni, ma è sempre anche «predicazione ontologica verbale di ciò di cui dice» (p. 24). L’Autore giunge così ad affermare la struttura trascendentale del conoscere, in un dibattito critico con la fenomenologia e il kantismo, che supera i loro modi di intendere il trascendentale: facendo propri alcuni risultati di Lotz e di Lonergan egli mette in luce le conseguenze ontologiche della struttura trascendentale del conoscere umano.
Il terzo capitolo, «Verità ermeneutica», pp. 43-86, analizza la tradizione ermeneutica per mostrare che questa, nel suo tentativo di superare il soggettivismo moderno, senza tuttavia rinunciare alla «scoperta del soggetto» e quindi senza la tentazione di ripresentare la concezione oggettivista pre-moderna, fa emergere la portata ontologica del giudizio, confermando le conclusioni dei capitoli precedenti. L’analisi parte dalla considerazione di Luigi Pareyson, del quale si analizza la tesi per cui «della verità non c’è che interpretazione e non c’è interpretazione che della verità». Pareyson muoverebbe dall’esigenza di superare il soggettivismo, pur riconoscendo che la verità oggettiva non si dà che soggettivamente, senza che possa esistere un punto di osservazione assoluto su di essa: di essa ci sono solo interpretazioni. La posizione di Pareyson, però, rimarrebbe aporetica, aprendosi così agli sviluppi nichilisti — a lui sgraditi — dei suoi allievi, perché non si renderebbe conto che la formulazione della propria posizione presuppone due sensi di ‘verità’: verità come proprietà dell’interpretazione e verità come fonte della comprensione. Sotto questo profilo si rivela più fruttuosa la posizione di Gadamer. Questi riconosce l’assenza della dicotomia moderna tra soggetto e oggetto nel pensiero classico, ma si rifiuta di abbracciare la posizione classica che prevede un punto di osservazione assoluto, metastorico (sia esso Dio o lo spirito assoluto hegeliano). La sua proposta è quella di ricomporre soggetto e oggetto con la constatazione che i due poli si oppongono sempre sullo sfondo di un incontro che costituisce l’interpretazione: non c’è soggetto e non c’è oggetto se non nell’interpretazione. Questa posizione è suscettibile di esiti nichilisti, ma secondo l’Autore, può anche portare a sviluppi rispetto ai quali Gadamer e altri non hanno riflettuto: l’analisi gadameriana dell’interpretazione (che richiede comprensione del senso, visione della totalità, posizione iniziale di una domanda) rivela una struttura trascendentale che indica la componente ontologica presente in ogni giudizio linguistico. Lo stesso emerge anche dalla considerazione del tentativo nichilista di Vattimo di rifiutare una lettura trascendentale del progetto ermeneutico: il rifiuto di ogni fondamento per il giudizio, per porlo nello spazio in cui soggetto ed oggetto non si contrappongono, non fa altro che affermare, contraddittoriamente, l’originaria con-sonanza di pensiero ed essere.
L’esigenza del superamento del nichilismo viene avvertita da Apel il quale, ponendo l’accento sulla dimensione comunitaria della comunicazione vuole superare la tradizionale dicotomia soggetto-oggetto, nella prospettiva di un’ermeneutica intesa come riconoscimento di strutture trascendentali della comunicazione, piuttosto che come mera pratica empirica. Tuttavia, rileva Botturi, «l’ermeneutica trascendentale apeliana si viene a trovare stretta tra una riduzione nichilista, che ne elimina la trascendentalità, e una pretesa trascendentale, che ne elimina l’ermeneuticità» (p. 77). In chiusura di capitolo, prendendo spunto da Ruggenini ma soprattutto richiamandosi a Lonergan, Botturi considera che l’ermeneutica, mettendo in evidenza sia la dimensione interpretativa e comunitaria del linguaggio, sia il legame intrinseco tra linguaggio e pensiero, pone l’esigenza del riconoscimento di strutture trascendentali che diano conto della dimensione comunicativa e interpretativa della vita umana, ma mostra anche il suo limite in quanto tale esigenza non può essere soddisfatta ermeneuticamente, bensì solo riconoscendo che esistono strutture trascendentali del pensiero (il cogliere la realtà come narrazione di enti, il che presuppone il riconoscimento di unum, verum e bonum): queste sono condizioni della possibilità di qualsivoglia linguaggio.
Il quarto capitolo, su «Il desiderio trascendentale», muove dal riconoscimento che il domandare, che costituisce il punto di partenza del conoscere, non è spiegabile se non ammettendo l’originarietà di un desiderio da cui scaturisce la domanda, cosicché conoscere e desiderare non sono pensabili che congiuntamente. La fenomenologia del desiderio, però, mette in luce che il desiderare è innanzitutto una modalità trascendentale caratterizzante la condizione umana, che non può essere ridotta ai desideri che si riconoscono empiricamente: il desiderio umano si rivela inesauribile, eccedente qualsiasi soddisfacimento praticamente possibile, incolmabile da parte di un oggetto finito e quindi sempre sfuggente. Ecco allora che il desiderio umano, trascendentalmente, può configurarsi solo come desiderio di vedere Dio, come avevano diversamente colto Aristotele, san Tommaso e Kant. Non desiderio di essere Dio, come aveva affermato Sartre, perché divenendo infinito l’uomo si perderebbe. Nemmeno desiderio di Dio come totalmente altro eccedente ogni nostro interesse, come pensava Lévinas, perché in questo modo si perderebbe la specificità del desiderare che ci struttura trascendentalmente. Nel «vedere» Dio nella condizione beata, e solo lì, Dio rimane altro e noi non perdiamo la nostra soggettività. Contro il materialismo che ammette solo il bisogno e lo spiritualismo che contrappone il bisogno (fisico) al desiderio (spirituale), Botturi riconosce che bisogno e desiderio, pur opponendosi come contrari, in quanto il primo indica una carenza e il secondo testimonia l’esigenza di una sovrabbondanza, sono l’uno il fondamento dell’altro. «Il riempimento del bisogno è un momento profetico del sempre più ampio e mai uguagliabile movimento soddisfattorio del desiderio» (p. 104). La struttura aperta all’infinito del desiderio rivela la sua aporeticità: data la finitezza umana, o il suo desiderio rimane insoddisfatto o smette di essere umano. Nel tentativo di risolvere il paradosso, il pensiero umano ha dissolto il soggetto nei suoi atti (Gramsci), o nel cosmo (gnosticismo) o in una corrente priva di identità (buddismo). Ma solo la prospettiva religiosa è in grado di cogliere le istanze positive di questi approcci, secondo Botturi, senza perdere il soggetto che essi cercano di salvare: la religiosità e la possibilità ragionevole del legame con l’Oggetto infinito del desiderio umano insaziabile, possibilità che la ragione umana non può realizzare di propria iniziativa, ma può solo riconoscere, quando viene ad essa proposta, se ha saputo mettersi in attesa.
Il capitolo su «L’organismo dialettico della libertà», il quinto, muove dalla considerazione che la libertà dell’agire umano è un dato primo dell’esperienza che l’uomo ha del suo agire; scopo della filosofia può essere l’analisi delle condizioni che ne rendono possibile l’accadere, non la sua riduzione sulla base di una preconcetta visione deterministica, materialistica e psicologica. Su questa linea, l’Autore trova conferma nel lavoro dei sostenitori della agent causation (Chisholm, O’Connor, eccetera), ma va oltre interrogandosi sulla struttura trascendentale che rende il soggetto capace di iniziare catene causali. Un agente può dirsi iniziatore di una catena causale, se l’effetto della sua azione è da lui determinato scientemente; questo richiede che egli eserciti il proprio potere volontariamente e secondo ragione. È necessario quindi distinguere due facoltà dell’agente: ragione e desiderio. Questa strutturazione dell’agente ci dice della sua autonomia, della sua dignità e della sua possibilità di autorealizzazione, ma anche di come lui sia per così dire dato a se stesso — determinato tanto nella sua struttura trascendentale, quanto nella conformazione risultante dal momento storico, dalle condizioni sociali, dalla situazione familiare — cosicché la sua autonomia non è auto-genesi assoluta, ma scoperta di sé, delle proprie possibilità, del proprio collocarsi in relazione ad altre libertà. È quindi generata da altre libertà e genera altra libertà.
Il tema della condizione situata della libertà umana è sviluppato nei due capitoli successivi, il sesto e il settimo. Il primo di questi, «Identità e riconoscimento», approfondisce la natura relazionale della libertà: la filosofia contemporanea ha messo in luce come il soggetto si istituisca — pur non essendo così costituito: la sua costituzione di soggetto rimane presupposto di questo possibile sviluppo — nella sua individualità, che lo differenzia da quello degli altri, dalla possibilità di costruire una narrazione del sé, e sulla base del riconoscimento da parte degli altri. L’altro capitolo, «Il corpo degli affetti», discute l’intima, inscindibile relazione esistente tra la persona e il suo corpo, relazione che sarebbe stata analizzata adeguatamente nel pensiero contemporaneo, ma non nelle fasi storiche precedenti, nonostante il tentativo aristotelico di superare il dualismo platonico. L’analisi del corpo permette di evidenziare l’intima connessione tra desiderio e ragione, che emerge particolarmente dall’analisi dell’amore e del suo rapporto dialettico con l’innamoramento. L’amore, diversamente dall’innamoramento, non è solo desiderio ed epifania estatica dell’altro, ma è impegno razionale e deciso per l’altro, che porta al trascendimento, nell’agire del soggetto, del semplice cerchio dei suoi desideri.
L’ottavo capitolo, «La prospettiva morale», trae le prime conseguenze etiche dall’analisi antropologiche dei capitoli precedenti. Nell’azione, l’uomo realizza la propria libertà, rivelando così la propria soggettività, ma data la struttura razionale della libertà, così facendo realizza un modo di essere a scapito di altri, cioè sceglie un «aver-da essere», una delle possibili determinazioni dell’essere. Ed è in questa scelta che il soggetto percepisce una volontà più profonda di ogni sua decisione, che lo costituisce. Così ogni azione ha una dimensione morale: impegna il soggetto interamente nell’orizzonte dell’essere che a lui si dischiude, ma la questione morale è proprio relativa a quella della collocazione di ogni determinazione nell’essere intero. Il dover sceglier implicito in ogni azione è sempre un impegnarsi di fronte all’intero orizzonte dell’essere. Ma data la natura relazionale della libertà, l’impegno è sempre impegno nei confronti di altri, realizzazione di una possibilità di rapporto con gli altri nella prospettiva complessiva dell’essere. Ma se la ragione è puro riconoscimento di possibilità, come può scegliere razionalmente tra le varie alternative, senza divenire serva del desiderio? Si pone qui il problema della motivazione razionale, che Kant ha cercato inutilmente di risolvere ma che, una volta concessa la concezione «utilitaristica» del soggetto, introdotta almeno a partire da Hobbes, non ha soluzione. Solo abbandonando l’idea che la volontà sia assimilabile alla ragione pratica, e accettando per contro che essa ha una radice antropologica, si potrà superare la concezione utilitaristica del soggetto, facendo della sua ragione non uno strumento, ma una regola della volontà. Non può essere la ragione a farsi pratica, ma è necessario che la volontà stessa sia costitutivamente razionale, come afferma Tommaso d’Aquino.
Quest’ultimo tema è approfondito in «Bene e appetizione in Tommaso d’Aquino», il nono capitolo. Un’avvincente e convincente analisi di testi tomistici, mostra come per san Tommaso il bene, fine dell’azione, sia da considerarsi in modo trascendentale, ossia come relazione di ragione che predica qualcosa come percettivo di altro: in questo modo il bene è inteso realisticamente, ma non come schema finale esistente in sé indipendentemente e astrattamente rispetto alle cose. La tesi di Tommaso è un argomento trascendentale per l’esistenza di un telos di ogni ente: questo è il fine verso cui l’essere stesso dell’ente lo proietta e senza il quale si contraddirebbe, smetterebbe di essere. Il bene è dunque «convenienza che finalizza il divenire attivo degli enti secondo un criterio assoluto di affermazione (conservazione o incremento) degli enti stessi» (p. 297). L’analisi antropologica di Tommaso, che intercetta quella proposta nei primi capitoli, mostra la struttura trascendentale dell’inclinazione razionale umana come tensione al bene dell’uomo, che non è interpolazione dei desideri empirici, ma loro sottofondo motore, anche se spesso inconscio.
Il decimo capitolo, «Natura e cultura», discute la questione della plasticità della natura umana e dei suoi limiti, questione aperta dalla stessa affermazione della sua teleologicità. L’Autore critica la concezione moderna che intende la natura meramente come punto di partenza, confondendo, a causa di una visione statica della realtà, la meta-storicità del riferimento alla natura umana con la pretesa di una sua a-storicità. L’intero dibattito sulla natura umana, pertanto, nella modernità, sarebbe inficiato dalla sua pretesa a-storicità e dal suo preteso prescindere da ogni riferimento alle situazioni concrete di realizzazione. Ma l’illusione, covata da certo sapere tecnico, di poter programmare indefinitamente la natura umana in qualsiasi forma e direzione, non riconosce che la stessa struttura trascendentale del volere umana pone limiti e vincoli oltre i quali non si realizza una nuova forma di umanità, ma semplicemente si distrugge l’uomo: quindi, pur senza poter essere completamente definibile da un punto di vista contenutistico, la natura umana, così com’è colta dall’analisi antropologica, si rivela «dimensione dell’esistente, che consiste nel suo permanente principio di operazione/attività secondo finalità positiva» (p. 315). È per questo che, al di là di ogni deriva relativista, le diverse culture non dimostrano l’inconsistenza della natura umana, ma «il […] desiderio [dell’uomo] di stabilità nell’esistenza e insieme di novità creativa, di ordine e insieme di senso e di compimento del proprio essere», «di trasformare la realtà a misura della sua capacità spirituale» (p. 352).
Il capitolo conclusivo, l’undicesimo, riguarda la questione della «Legge morale fondamentale». Il vincolo fondativo della normatività, secondo l’Autore, va ricondotto ad una legge morale fondamentale, che, sulla scorta di san Tommaso e sulla base degli sviluppi operati da Maritain, ritrova nell’interazione di due «percorsi conoscitivi» complementari, in un’«idea circolare di esperienza a posteriori e ragione a priori»: il riconoscimento di avere un’inclinazione verso un fine, che l’uomo coglie a livello trascendentale, e la vita empirica delle inclinazioni e dei desideri, che richiedono il vaglio della ragione, in nome del primo principio pratico, «bonum faciendum et prosequendum, et male vitandum». La legge morale scaturisce quindi dall’inclinazione naturale ad un Bene trascendente rispetto all’esperienza (contro il naturalismo della Foot, la quale tra l’altro non distingue tra bene in senso ontologico e bene in senso morale): tale Bene, Dio, però, non deve per questo essere contenuto delle considerazioni soggettive con cui un agente giustifica la propria scelta pratica (contro Di Blasi), ma solo fondamento necessario per spiegare oggettivamente la disposizionalità naturale dell’uomo. È per questo che il raggiungimento della felicità umana perfetta non consiste in un’unione con Dio che annulla l’uomo, ma nella visione di Dio, ossia nella piena attuazione dell’intera struttura antropologica dell’uomo, possibile solo nell’incontro con l’Assoluto.
Il libro presenta una struttura teoretica robusta, cercando un confronto critico, ma sempre costruttivo, con tutte le grandi figure della filosofia contemporanea. Si rivela così espressione autorevole di un pensiero pienamente maturo, capace di porsi con sicura consapevolezza di fronte a tutte le questioni emergenti nella riflessione filosofica odierna e presentando quindi moltissimi aspetti di interesse, che meriterebbero di essere sottolineati ed approfonditi. Tra tutti, però, meritano di essere richiamati quattro aspetti.
Prima di tutto, va rilevato il ruolo fondante della trascendentalità, che sorregge tutta l’argomentazione del libro. Rileggendo l’analisi dell’esperienza proposta dalla fenomenologia e da Kant, l’Autore critica la chiusura del trascendentale sia nel fenomeno, sia nella ragion pura, riconoscendo che anche queste posizioni sono debitrici di una previa e ingiustificata contrapposizione tra soggetto e oggetto. Propone per contro il ritrovamento della posizione sorgiva dell’esperienza, nella quale soggetto e oggetto non si danno separatamente e possono così mettere in luce una struttura che accomuna entrambi. È così che il giudizio, strutturalmente possibile per l’incontro di un elemento soggettivo e uno oggettivo, si rivela apertura di una volontà conoscente, che è anche conoscenza volente, verso un essere che è intrinsecamente conoscibile. Si tratta, mi sembra di poter dire, di una riproposta della prospettiva metafisica classica, che cerca di superare, facendo propria la lezione della modernità, una lettura oggettivante di quella prospettiva, che era prevalsa storicamente.
La seconda questione è legata alla prima: la rilettura non oggettivante della metafisica classica fa propria la lezione della modernità anche per quanto attiene all’importanza riconosciuta al soggetto. È su questo punto, almeno a me pare, che il libro presenta gli aspetti più originali e ricchi di conseguenze teoretiche. Trascendentalmente, il soggetto non si ritrova nel flusso dei desideri o nella coscienza, ma nella possibilità che coscienza e desideri si diano, ossia in una tensione, in un’inclinazione, che il soggetto ritrova in sé, della quale non può, pertanto, disporre e nella quale si riconosce conoscenza volente e volontà conoscente. L’analisi della dinamica soggettiva rivela così come fondamentale per l’identità trascendentale l’apertura del soggetto all’altro, ad un altro soggetto di conoscenza e di volontà. Ma l’inesauribile dinamicità della volontà umana potrebbe essere appagata solo dall’incontro con un Soggetto infinito. Tutto questo nell’analisi antropologica esposta nella prima parte del libro. Queste considerazioni, però, alla luce dell’analisi dell’origine della legge morale esposta nella seconda parte, ove si afferma che la legge scaturisce dal vincolo che la struttura trascendentale della volontà-conoscenza soggettiva pone alla struttura antropologica empirica dei desideri, portano alla conclusione che la legge morale non è altro che l’essere inclinato dell’uomo verso l’incontro con una Persona. La legge morale non è quindi un mero elenco di enunciati prescrittivi, ma la necessità dell’incontro con un Altro che conosce e vuole assolutamente. Tutto questo getta nuova luce sulla nozione di normatività: la normatività nasce dall’incontro dell’uomo (che è conoscenza-volontà) con una realtà verso la quale è naturalmente inclinato e dal riconoscimento che tale realtà è conosciuta e voluta nel suo ordine dall’unico Altro che possa dare piena soddisfazione.
Veniamo così alla terza questione. Come abbiamo visto, l’Autore critica coloro (Di Blasi) i quali sostengono che la fondazione della legge morale stia nel riconoscimento esplicito che l’ordine naturale è voluto da Dio, poiché — sostiene — anche chi non conosce Dio può riconoscere l’ordine naturale e rispettare quindi la legge. Mi pare un’osservazione opportuna, che mette in luce la distinzione tra il riconoscimento (pratico) soggettivo del bene e dell’ordine, dalla spiegazione (metafisica) di perché il bene e l’ordine siano tali. Ci si può chiedere, tuttavia, se i due punti di vista debbano essere tenuti radicalmente distinti: in fondo il soggetto in questione è un soggetto razionale e quindi naturalmente «metafisico», un soggetto che, per quanto può, giustifica ciò che fa. Anche dal punto di vista soggettivo, quindi, ci potrà essere una piena consapevolezza del bene e dell’ordine solo quando il soggetto potrà capirne pienamente le ragioni, cioè solo quando li riconoscerà come opera di una Causa prima ottima e creatrice. Ciò non significa che chi non riconosce l’origine dell’ordine e del bene non può comportarsi moralmente o non è soggetto alla legge, ma solo che non sarà in grado di dare una giustificazione ultima di perché il bene e l’ordine sono tali e vanno rispettati.
Infine, una questione che il libro non affronta, offrendo però, mi pare, interessanti possibilità di sviluppo, è quella della possibilità e dei limiti della coercizione del soggetto. Infatti è parte della nostra esperienza della normatività che i soggetti che non riconoscono o non seguono l’ordine normativo che potrebbero riconoscere con la ragione e seguire con le azioni, possono (o anche talvolta devono) essere costretti: questo sia a livello individuale (morale) sia a livello pubblico (politica). Naturalmente variano i giudizi sull’estensione dell’ammissibilità dell’interferenza nelle due sfere e variano i modi di intendere il rapporto tra politica e morale: ma quasi tutti riconoscono l’ineludibilità di questo fatto dell’esperienza normativa, pena l’impossibilità di giustificare, per esempio, l’educazione o la giustizia penale. La metafisica tradizionale, oggettivista, aveva buon grado a parlare di ordine oggettivo, ma, pur riconoscendo che soggettivamente un atto umano non può dirsi tale se il soggetto non è in grado di conoscerne il fine e di valutarlo come buono, aveva difficoltà a stabilire il limite entro il quale un atto buono o doveroso non riconosciuto come tale dal soggetto potrebbe essere imposto al medesimo senza compromettere la sua natura di agente. Ciò che mi preme sottolineare è che l’approccio trascendentale di Botturi può indicare una via di soluzione a questo problema epistemologico: mettendo in luce la struttura antropologica trascendentale del desiderio umano, egli mostra la via soggettiva che conduce al riconoscimento della corrispondenza del bene alla struttura profonda del soggetto. Mi pare che questo approccio permetta di determinare limiti interni alla possibilità di scelta del soggetto, uscendo dai quali la sua azione comporterebbe la negazione della sua stessa soggettività, costituendo, quindi, criteri di coercibilità esterna in vista della salvaguardia dell’esistenza dello stesso soggetto.