Fragilità e divenire

1. La dialettica tra termini

I termini «fragilità, divenire» appartengono a tutte le culture e idiomi e ad ogni tempo. L’Oriente e l’Occidente, pur nella varietà della propria semantica, trovano punto comune nell’ermeneutica dei due termini: diverse le prospettive ma la riflessione derivante si orienta a traguardi apparentati tra di loro.

La tradizione religiosa fondata sulla Torah sembra possedere il punto mediano tra le tipologie dei due vissuti. Infatti il Salmo 92,26 (come Mt. 26,41) racchiude il binomio che è il nodo che apparenta culture e religioni: carne e cuore dialettica perenne tra la materialità delle stirpi, della tradizione, della parentela e delle alleanze etniche con il patto con Dio, con la sua rivelazione e con l’alleanza che lui ha stretto con il suo popolo. Per quanto il cuore sia anch’esso carne, tuttavia l’interpretazione lo considera come sede dello spirito, dell’anima, differenziata dalla materialità corporea.

Il teatro classico greco ha rappresentato i due elementi nella commedia, ora comica ora tragica, della vicenda umana. Esso ha introdotto l’elemento divino per celebrare l’eroicità o il disfacimento, il destino ineluttabile di Oreste e di Edipo, la giustizia e il disonore, come l’olocausto di Efigenia e l’astuzia vendicativa di Ulisse.Dante e Shakespeare conducono la loro introspezione, questo nell’amletico dubbio e il primo dall’ombra del perdersi esistenziale fino all’«amor che move il sole e l’altre stelle»: il dramma della quotidianità che ha suggerito a Freud la pista analitica da seguire per sfuggire alla catena dell’ansia e della depressione, per non restare nel pirandelliano relativismo che attribuirebbe senso alla doppia morale nelle scelte.In ogni caso si conferma la rappresentazione della ricerca del senso e delle sue attribuzioni: un’azione scenica che vuole riprodurre la vicenda umana tra raffigurazione dei vissuti ed istanze utopiche.La catarsi, nel dramma greco, è affidata al litanico linguaggio del coro, come si trattasse di voce fuori campo della coscienza, filo interpretativo di tutto il messaggio; essa, pur restando nello spazio scenico, se ne discosta dilagando sul proscenio, punto focale dell’intera cavea, che segue il divenire della vicenda drammatica sullo sfondo della natura, da cui giunge il sussulto del nunzio che dissipa il sipario delle parole con l’approssimarsi della tragedia.Da una parte la fragilità antropologica dei protagonisti, rappresentanti di tutto il mondo, dall’altra la prospettiva elegiaca tutta propria della rappresentazione teatrale.Quando la soluzione dei dilemmi è fuori dalla portata controllata della ragione allora il pensiero inventa il mito mentre il teatro ricorre al «deus ex machina», come a significare «lascia ed abbandona il rigore della logica probativa, accogli l’arcano che, non spiegando, risolve salvando dalla fragilità dei pensieri».

Fragilità e divenire possono cogliersi come elementi di positività? La filosofia, che non sia nichilista e pensiero derivato dallo shock della sconfitta e della resa, cerca il senso per costruire o ricostruire, per interpretare e tendere, per additare orizzonti inesplorati della tensione utopica.L’interrogativo esistenziale non è circoscrivibile solo nelle affermazioni sicure e neanche nelle antinomie. Pensare, infatti, non coglie solo criticità del senso negativo. Piuttosto è il «crino» greco, il vaglio del bene e del buono possibili. La pula, colta dal vento, va via permettendo all’essenzialità liberata di sottrarsi dalla sovrastruttura incapsulante: la verità esistenziale resta scarna ma autentica.Nel cristallo la fragilità è un dato positivo: purezza, sottigliezza e sonorità; viene sacrificata la capacità elastica del materiale e però lo si consegnano alla precarietà della frantumazione. L’infrangibilità, al contrario, ostacola la frattura ma sacrifica trasparenza e sonorità.

La fragilità antropologica è sinonimo di finezza e trasparenza spirituali? di duttilità e accomodamento mentali? Quanto della paidèia spartana è cura della forza, del coraggio e della fermezza nelle lotte contro la fragilità? quanto della flessibilità appartiene allo sviluppo evolutivo e si fa virtù dell’agire compatto, della capacità di contenimento e di perseveranza nel proseguire secondo il progetto per fini? La fragilità appartiene al genere dei limiti se provocata dalla riduzione della flessibilità come nel caso del cristallo le cui vibrazioni estese a grandi e veloci frequenze, mentre impreziosiscono l’oggetto, lo espongono alla frattura. La flessibilità è una dote quando presiede all’accomodamento mentale predisponendo alla capacità e all’iniziativa della resistenza nella ricerca dell’agire etico.

2. Sistema e libertà

La flessibilità nel lavoro, proclamata modernità dell’occupazione nel sistema globale, si è rivelata precarietà realistica: non si può convenire con l’assunto che cambiare ed essere disponibili alle novità del mutamento sia equivalente a maggiore sicurezza per il mantenimento dell’occupazione.Il termine però partecipa alla varietà dei tanti significati per cui risulta non univoco: nell’elaborazione mentale e sue funzioni è sinonimo di disponibilità alla ricerca e alla novità e quindi coefficiente fondante della creatività. In pedagogia, se l’evoluzione individuale è ispirata dal principio della positività per raggiungere l’autonomia, la flessibilità è il suo fine e, in base ad essa, declina i suoi interventi secondo la varietà degli individui. I sistemi sociali, invece, mirano ad uniformare flessibilità e divenire: questo, rivolto al modello antropologico a cui si vogliono indirizzare le persone; l’altra riferita alla struttura socio-politica con cui il sistema si autoreferenzia e si autoconserva difendendo i propri modelli per evitare, da parte di singoli e di aggregazioni, il sovvertimento e i cambiamenti in nome della libertà e della democrazia.

I due grandi sistemi, capitalismo e socialismo, sono indicativi di ciò; essi spesso si sono trasformati in dittature dure o dolci a seconda delle tendenze. Sicché ogni spazio di libera espressione è stato censurato o favorito a seconda che le sue finalità fossero allineate o di dissenso: letteratura, arti creative ed espressive, sistemi di comunicazione (dal giornalismo al web e alla TV) e religione, tutto soggiace al controllo palese o occulto affinché la flessibilità si allinei al divenire sancito e modellato dal controllo del potere. Capitalismo e socialismo di per sé non sono liberali e, di conseguenza, neanche la democrazia in assoluto. Ciò è causa degli attriti a cui soggiacciono le espressioni civili o le organizzazioni del lavoro con rappresentanza sindacale che, giustificata dal principio di partecipazione dei lavoratori, si muove secondo parametri che scaturiscono dalle ideologie partitiche di riferimento.Il problema nasce dal fatto che il divenire socio-economico raramente è lasciato al cosiddetto libero mercato. Ma esiste il mercato «libero», le sue leggi, i suoi fini, le sue regole? o piuttosto è più oggettivo parlare di «mercanti», di loro regole e loro leggi? Sono essi (e sono anche pochi) che attuano il variare dell’andamento di borsa, la ratifica di «indici A» (su e giù), i rapporti di forza, le alleanze e le concentrazioni, gli interessi del profitto.

Se fosse la sola domanda a motivare gli indici allora, di fronte alla grande richiesta del Sud del mondo e delle classi meno abbienti della società industrializzata, avremmo una risposta-guida sui bisogni primari e secondari. Ma invece è il profitto a dettare le regole del suo incremento in proiezione direttamente proporzionale alla domanda di consumo e non di bisogno: acquisto e consumi, binomio del benessere, per il quale le percentuali si stimano in modo disincantato rispetto alle necessità del bisogno. Infatti c’è una grande differenza tra «consumo» e «bisogno». Che il secondo necessiti di consumare non è dubbio, poiché la necessità esprime la richiesta ma questa si soddisfa quando ciò che si ottiene risponde all’invocazione manifestata, proclamata, difesa e, spesse volte nella storia, ottenuta con le rivoluzioni. Consumare, invece, è strettamente legato al produrre, tanto che si va in crisi, nell’impresa, quando il prodotto supera la domanda. Da qui la dialettica mai sopita tra «sollecitare la domanda» e la politica degli investimenti, la ricchezza dell’accumulo, la dilatazione della pubblicità e della propaganda. La scoperta dei meccanismi che presiedono a queste dialettiche diventa spesso atto rivoluzionario di contestazione e di opposizione ai poteri forti e costituiti. Nei loro gangli si introduce qualche volta il controllo giudiziario delle polizie o delle magistrature.

Sono i mercanti a provocare le trasformazioni, a dirottare la delocalizzazione e ad orientare le trasmigrazioni, gli esodi e le migrazioni. I mercati e le politiche egemoniche per il controllo e l’accaparramento delle fonti energetiche costituiscono la base determinante del fenomeno migratorio che diventa causa/effetto della volontà politica dei controlli, forza di mantenimento a basso regime dell’aspirazione dei popoli poveri alla prosperità. La storia dell’emigrazione italiana della seconda metà del ’900 è la fotografia di tal genere di rapporti tra mercanti e «merce» umana dello scambio. Siamo nel dopoguerra del 2° conflitto mondiale, nel 1948. Il Dipartimento di Stato USA esercita segretamente pressioni perché l’Italia progetti strategie di politica economica tali da indirizzare i suoi flussi migratori a favore di assetti egemonici favorevoli alla presenza americana nello scacchiere del Mediterraneo.1 Il Dipartimento di Stato era intervenuto affinché l’emigrazione, sia individuale che di massa degli italiani, venisse favorita con ogni mezzo verso i Paesi del nord Europa e fosse invece scoraggiata quella verso gli USA. I motivi sono dettati dalla nuova situazione di guerra fredda che registra l’agguerrita separazione tra URSS e USA, dopo la contingente pseudo-alleanza nella guerra contro il nazifascismo. La ricostruzione della Germania democratica, sostenuta anche dalla mano d’opera italiana, avrebbe favorito l’arresto dell’espansionismo sovietico.

Ugo La Malfa, nella sua famosa nota aggiuntiva presentata in Parlamento il 22 maggio del 1972, riconosceva che il progetto economico italiano era stato indirizzato verso la scelta da considerare «improvvida» per l’«affidarsi alle scelte del mercato […] lo sviluppo dei consumi […] come convenienze più immediatamente percepibili dagli operatori economici, linea senza rilevanti elementi di promozione».2 Il programma, infatti, aveva previsto di ottenere, dall’emigrazione germanica, flussi di denaro-oro in grande quantità (250 milioni di dollari oro) e quindi tale modello di emigrazione «sia individuale che di massa era da favorire con ogni mezzo». Quando, tra il ’79 e ’80, comunicai queste rivelazioni nei due Convegni Nazionali Tedeschi, condotti a Norimberga e a Francoforte, per i missionari cattolici che avevano in cura i gruppi sparsi degli emigrati italiani, fu grande la sorpresa dei partecipanti nello scoprire le vere cause dell’abbandono dell’agricoltura nel Mezzogiorno italiano.

Porsi adesso la domanda sulla flessibilità apparirà più chiaro: si configura il più evidente senso della fragilità dinnanzi al divenire, una domanda che nasce dalla radice stessa del problema. Non si tratta, infatti, del teorico quesito sui valori, sui caratteri e coefficienti rispondenti agli ideali antropologici; è, invece, questione ermeneutica dell’antropologia oggettiva, legata ai rapporti storici e culturali tra Occidente ed Oriente, tra nord e sud del mondo e, reciprocamente, tra questi stessi due blocchi o modelli. Ricercare le ragioni sulla base soltanto di modelli astratti non giova al raggiungimento del senso della domanda esistenziale contemporanea che si dibatte tra fragilità e divenire.

3. Essere e divenire

L’essere è il suo stesso divenire. La lingua ebraica antica, nel suo sistema di circa 600 radici semantiche, aveva la forma verbale del verbo «essere» uguale per i tempi presente e futuro: è = sarà. Così la dichiarazione biblica sull’identità divina consegnata a Mosè potrebbe tradursi sia «Io sono colui che sono» come «Io sono colui che sarà». Il perdurare nel tempo dell’Essere supremo, pseudo-definizione dell’eternità, conforta il patriarca e il popolo: «il nostro Dio è oggi e per sempre e per sempre sarà la sua Alleanza». L’alleanza posta da YHWH proietta la certezza ebraica sine die, nonostante il susseguirsi delle generazioni, concetto che nei Salmi si esprime con la dizione «di generazione in generazione», quasi una riduzione dell’eternità alla indefinitività del tempo: niente male in un tempo ed in una cultura in cui non si era ancora riflettuto sull’eternità. L’essere, per il fatto stesso di porsi in presenza continuativa, si affranca dal tempo che scorre. L’essenza dell’essere coincide con il divenire, perché l’essere per sua stessa ontologia si estende lungo tutta la sua sequenza temporale, prolungamento della costanza esistenziale, una variabile indefinita. L’essere che diviene si avvia dal suo nulla come inizio e poi durata e diverrà fino alla conclusione dell’essere. L’essere pensante è la più evidente forma del divenire: pensiero, centralizzazione dell’oggetto pensato, riflessione analitica ed intuizione del flusso di finalità, opzioni delle medietà e poi memoria delle acquisizioni, richiamo del bagaglio mnemonico, proiezione ipotetica, ecc… La speranza, il desiderio già pregustato del non-ancora, dà ragione del divenire e dell’essere. Essa comunica all’attesa la sensazione della piacevolezza ed il tempo, lungi dal costituire peso sovrastante che alimenta le paure, può ancorare al vissuto la capacità di «bene-stare» e di escludere l’angoscia e la noia. Se entrassimo per un solo attimo nel folto gruppo compatto di migranti nei barconi alla deriva tra le onde del Mediterraneo, coglieremmo la rivelazione di occhi che vanno oltre le onde, al di là dell’orizzonte, agognanti la terra ospitale e, nel loro rivivere il variare delle dune nell’alternanza delle onde, scopriremmo silenzi che dicono al tempo inesorabile, lento a scorrere, tutta la voglia di essere, capace di imporre alla coscienza la certezza di un futuro di albe e tramonti vissuti in pace. I nostri perbenismi, vissuti tra pagine bianche e fogli scritti, i nostri pensieri inforcati come lenti di lettura del bene e del giusto, del male e della cattiveria, le nostre paci stilate su tavoli di calici colmi di spumante da brindisi, i nostri passi tracciati su carte geografiche odoranti di recente tipografia, i nostri viaggi costellati di voli supersonici, i nostri accordi stampati su pergamene dalle copertine preziose, esposti in archivi a perpetua memoria… non dicono nulla di quante drammatiche morti sono alimentate gli jalons che scandiscono le nostre epoche di civiltà, divenire in pantofole e grandi uniformi in contrasto con lo sfondo della povertà e dell’indigenza che sono la scena vera del teatrino della falsa riappacificazione.

Essere e divenire: il problema è chi e che cosa «è», chi e che cosa «diviene»! Può la nostra indagine spaziare nella disquisizione di concetti astratti e comunque teorici, alla ricerca di riflessioni capaci di offrici sentieri di razionalità e di fiducia in noi stessi, quando l’essere addirittura di popoli interi vaga attraverso itinerari sconosciuti ed agogna a porti spesso negati, rigettati nel marasma turbolento delle separatezze e delle appartenenze? È come chiedere ai novelli israeliti circoncisioni, usufruire dell’accoglienza e della cittadinanza del diritto di base, quello di vivere e divenire a prezzi esistenziali durissimi! Negli anni ’70 a Norimberga potevi incontrare siciliani, calabresi, pugliesi, lucani, campani e sardi stipati in baracche di legno, allineate a schiera; nella pallida luce notturna dei lampioni offuscati dalla nebbia, già a novembre, presagio delle imminenti gelate, quelle costruzioni evocavano i modelli abitativi della sofferenza, forse eretti sullo stesso terreno, campi per concentrare i nemici del dilagante potere hitleriano. Sul volto dell’emigrato di Marsala, immerso nel suo silenzio nostalgico, appariva appena il sorriso di una speranza alimentata dall’immaginetta, incollata alla sua cuccetta, di papa Luciani. L’agognato ritorno alla sua isola era la riflessione sull’essere e sul divenire: itinerario non filosofico, ma di esistenzialismo reale e speranza religiosa! Gramsci, in un altro esistere coatto, vibrava la sua riflessione sulle ali dell’uccellino mirato oltre le sbarre e, da quella forza-debole capace di volare, narrava il suo messaggio ai figli del tempo.

4. Oltre la rigidità

Se il divenire è rigido ed immobile, al modo di Sartre, dove possiamo collocare le radici della libertà? Un pessimismo radicale nega anche alla siepe la funzione riparatrice di nascondere l’«oltre»: non dico che solo alla speranza si neghi l’accesso, ma anche all’immaginazione e alla fantasia, barattando il tutto con un ottimismo del nulla l’anelito finale dell’essere.

Lo streben o grande inquietudine, che caratterizza molta parte del secolo passato, si estende ancora oggi a molta cultura mentre, di contro, eserciti giovanili di volontari dichiarano la non-violenza, l’accoglienza, il soccorso in una molteplicità di doni. Possiamo qui affondare le radici della positività? Agostino l’accarezzava, come cammino verso l’Assoluto, derivandola addirittura dall’inquietudine. La ricerca esistenziale deve oggi prodursi nello sforzo della disincapsulazione, della trascendenza dalla banalità e dal contingente: un itinerario permesso a tutti, a chi crede e all’agnostico, all’uomo di qualsiasi fede religiosa e all’ateo.Royce ha proposto il suo ragionamento,3 sostenuto dalle teorie psicologiche della positività, come quelle di Tallent e Maslow4 e, alla ricerca filosofica, contrappone quella dell’interiorità e della mente, sulla linea delle iniziative psico-analitiche finalizzate alla quiete e all’equilibrio esistenziale dei soggetti.

Il variegato romanzo delle vite che si dispiega sul web viaggia tra finzione e sincerità della rivelazione del sé come appello all’esserci. Non si tratta di scuole di pensiero ma di confidenze ontologiche della rabbia e del narciso. Gli itinerari più profondi del divenire, più rivoluzionari, amano il silenzio, il deserto e l’esplodere poi della solitudine contro la fuga, un grido dell’opzione per l’autorealizzazione e il rinnovamento. Psicologia e pedagogia della salute sono canali utopici delle possibilità di itinerari costruttivi e ricostruttivi contro le ferite imposte dai sistemi, dai poteri, dalle violenze anonime diffuse e gratuite. È la strada del tutto occidentale, potremmo dire, certamente differente dallo Zen. Non puoi dire di amare il bonsai perché ornamento di tenerezza in miniatura. Il microcosmo dello Zen ti proietta, ti conforta per affidarti al cosmo intero ma deve essere lungi da noi credere di vedere la realtà quando invece si tratta della finzione mitica della caverna e della prospettiva sbalorditiva di ciò che sta fuori. L’uomo piccolo e povero riproduce nella miniatura vegetale il desiderio della foresta, il suo divenire ostacolato. La tenerezza per l’albero nano è simile al dialogo spontaneo che intessi quando, senza figli né nipoti, conversi per strada con il tuo cane al guinzaglio: surrogato del dialogo e della reciprocità non provati. Camuffiamo di fedeltà la sua risposta condizionata al cibo ed alla soddisfazione istintuale attesi. L’alimentazione della reciprocità richiede ben altre cure ed alimentazioni, l’aristotelico accogliere l’essere dell’altro per come è e sarà; non dà solo senso all’amicizia, ma proietta l’essere verso il divino come affermava lo Stagirita: il futuro agognato e la sperata immortalità. Chiediamo al comportamento il salto molto impegnativo: amare il divenire. Ma come sostanziare l’incognita? La teologia ha dato da secoli la sua risposta: «amor de non visis»; ma per quanti varrà questa definizione della speranza?

Il concetto di speranza, agli albori della riflessione occidentale in Grecia, è naturalmente collegato a quello dello stato ideale. Neanche Socrate e Platone possono applicare il parametro utopico alla divinità, a cui essi stessi non potrebbero assegnare comportamenti più definiti e virtuosi di quanto si possa riuscire ad attribuirli agli umani. Così lo Stato è una possibile proiezione ideale, nonostante la prassi politica non riesca, per sua precarietà, a raggiungere il modello che il pensiero invece può idealizzare. A Socrate che agogna lo Stato ideale Glaucone obiettava che in pratica non si realizza da nessuna parte un modello simile.5 Attraverso Socrate, Platone riconosce la relatività dell’utopia ma, se giustizia c’è essa è nell’obiettivo ideale a cui solo il pensiero riesce ad idealizzarne la speranza. Nel pensiero socratico e post-socratico si annida così un primo elemento dello sviluppo successivo occidentale moderno: il modello ispirativo dello stato etico. Come primo fondamento si assegnava la disposizione degli uomini ad impegnarsi per l’osservanza della legalità e dell’eticità come rispetto della norma. Il divenire politico, oltre che quello sociale, può essere divenire etico e speranza del bene comune quando quel principio sarà assunto dalla politica nel suo insieme. Nel 1921 Lewis Mumford (1895-1990) ritiene che la positività umana possa perseguire la perfezione:6 cose non da poco nel clima ancora rovente postbellico del primo grande conflitto mondiale, teatro della sconfitta di un grande impero centrale confinante con lItalia. C’è un parallelo, siamo nel 1959, in un tempo di ricostruzione dopo il 2° disastro bellico mondiale ed Ernst Bloch (1885-1977) inserisce il «concetto speranza» all’interno del movimento utopico delle prassi sociale e politica.7 L’esperienza di questo secondo grande conflitto è ancora dentro la prima metà dello stesso secolo; l’uomo ha distrutto non solo governi e stati ma ha degradato l’uomo stesso imprimendo il più terrificante attentato all’utopia, prima con la «soluzione finale» e poi con la disintegrazione atomica, seppure in vista e in nome della pace! Bloch ha origini ebraiche e nelle sue radici radica l’anelito verso l’utopia e la speranza quando, nel boom economico della ricostruzione, ripensava al «concetto di possibile futuro migliore» per un’utopia che aveva invaso le forze politiche progressiste e le parti sociali che agognavano a nuovi modelli di occupazione e lavoro. Poi il senso si è allargato a macchia d’olio ai movimenti sia di ispirazione cristiana che di radicamento ideologico a forte connotazione laica ed a-confessionale.

L’attenzione si sposta sugli scritti giovanili di Marx in cui c’è la presenza di un’utopia dal carattere quasi religioso, provocatrice del superamento della dicotomia tra le classi sociali ed ispiratrice di un modello dell’uomo oltre la dimensione del lavoro e diametralmente opposto alla concezione della mercificazione: è su questo terreno che si cominciano a registrare punti di contatto e di convergenza, sul campo, tra concezione marxiana ed ispirazione cattolica dell’impegno sociale e civile. Siamo ormai oltre il pessimismo collettivo e nel clima di ricerca di modelli di giustizia comuni con l’esistenzialismo cristiano. Il senso di un «ci sarà il tempo in cui…» appare possibile essere scritto a quattro mani: profetismo religioso e divenire democratico. In tale contesto nacque il movimento dei Preti-operai in Francia; risultò una sfida all’istituzionalismo ortodosso della Chiesa cattolica e fermentò fino al suo riconoscimento con il Concilio Vaticano II. La concezione piramidale della chiesa, infatti, che al primo comma del suo Codice riconosceva che solo il battesimo costituiva l’individuo come persona, al suo interno, cresceva ora il senso della chiesa come «popolo di Dio in cammino verso la casa del Padre». Ormai si estende il senso dell’utopia come divenire di una speranza vissuta come disincapsulazione. I due teorici dell’iniziativa evangelica nascosta, i due frati domenicani Congar e Chenu, furono addirittura nominati consulenti della storica assiste ecclesiale. Utopia!

Bloch ha spinto «oltre» l’utopia marxiana perché la concezione rivoluzionaria mira più che al sovvertimento delle classi al dischiudersi del futuro nel cambiamento: ciò è indicato nel segno della speranza, un divenire possibile nonostante l’inflessibilità sociale, la rigidità dei sistemi e la concezione produttivistica del nuovo benessere.Per Aristotele la potenza è inesistenza senza l’avvento della forma che dia avvio all’atto. Ora, nella riflessione di Bloch la potenzialità è tensione che porta in serbo, nel suo divenire, il senso e l’inizio della realizzazione. Il divenire è processo positivo e, in esso, la speranza è il non-ancora che sta già qui ed ora.

Inizio anni ’60 e, in America, si viaggia ormai contro il behaviorismo, con Tallent e Maslow che diventano antesignani della concezione della positività che rinnoverà la psichiatria, la psicologia e la pedagogia: a fondamento l’essere di per sé positivo, volitivo e operativo. Di conseguenza maturava il senso della partecipazione e il valore dell’accoglimento. Anche il sistema di recupero della psicologia clinica conosceva adesso la novità di K. Rogers con la «Terapia fondata sul cliente».8 È interessante mettere in relazione la possibilità della disincapsulazione indicata da Royce con la Trascendenza in assoluto. Dall’uomo incapsulato e dalla disincapsulazione trascendente squisitamente antropologica possiamo immaginare un divenire oltre la religiosità naturale con avvio della proiezione verso l’Assoluto. È il primo gradino dell’ascesa, non è trasformismo cristiano né aggancio indispensabile alla Torah come avrebbe potuto ideare Bloch; solo che se c’è la speranza c’è già religione; ma solo in una speranza confermata dal credo, il traguardo reale è oltre lo stesso divenire e raggiunge l’Assoluto. Se il divenire è storia e, in essa, la successione, nella religione sorretta dalla fede cessa la successione, sfuma lo stesso divenire e si conferma l’irruzione dell’Assoluto che colma ogni desiderio e bisogno insoddisfatto e l’attesa si modifica nell’incommensurabile. L’io, piccolo, disperso e intramondano, si trasfigura non più nel micro-cosmo, non sarà neanche un super-ego; esso acquista il valore del’infinito, perché senza termine, pur restando un io che ha avuto l’incipit e quindi circoscritto «a parte ante»; ora è infinito «a parte post», accolto nell’Assoluto. Un duale che conosce la trasfigurazione partecipata dallo stato caduco all’Infinità. La disincapsulazione, come indicata da Royce, modella una trascendenza puramente antropologica, che ci chiama fuori dal pessimismo della prassi ma non sempre dal relativismo; tuttavia sembra sufficiente per rispondere al bisogno utopico di anti struttura e liberazione dell’uomo dalle pastoie dei poteri. La Teologia della Liberazione è stato uno slancio di disincapsulazione che, partendo dalla speranza di alternativa contro l’incapsulazione capitalistica, affermava la Speranza non solo dell’annunzio ma anche dell’«anticipazione-del-non-ancora» come fondamento della giustizia nuova e delle cose nuove. Con il sopraggiungere del papa Giovanni XXIII e del rinnovamento conciliare, nella Chiesa cattolica e con essa nel mondo, il coefficiente de «i segni dei tempi» avrebbe stuzzicato la riflessione teologica e la prassi delle chiese locali ad accogliere il divenire oltre il perbenismo buonista compromesso con interessi, privilegi e politiche funzionali al sistema; l’essere stesso delle comunità di fede veniva coinvolto fino all’affermazione del «credere contro ogni speranza».

Qui il ragionamento lascia il posto alla contemplazione, poiché il sillogismo e le sussunte accusano tutta la loro capacità di poter illustrare solo i contorni della novità. Il «templum», spazio circoscritto e minuscolo, si fa spazio e centro da cui, come novelli aruspici, consideriamo. Scrutare le stelle interpretandone luce e movimenti, bellezza e futuro. Per il credente all’appannarsi della ragione si fa spazio l’incanto della visione. Ma non solo terra e cielo, finito ed infinito: nell’immensità il divenire si dilegua, il futuro quasi balza al presente, qui ed ora, e l’io inizia ad immergersi nell’Infinito. Ciò frastorna e quieta allo stesso tempo, poiché il bere di quest’acqua produce il non-più-sete con appagamento, mentre si scopre di essere giunti, forse, alla fine del percorso.


  1. Nel 1975 viene reso noto negli Stati Uniti, edito dal Dipartimento di Stato, il piano di accordi fino a quel momento segreto tra USA e Italia. Lo comunica, per la prima volta in Italia, Gaetano Volpe, fondatore della Federazione Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglia (FILEF), durante la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione di Roma, 24 febbraio - 1 marzo 1975. ↩︎

  2. Ministero del Bilancio, Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano. La programmazione economica in Italia,vol. 2°, Roma 1967. ↩︎

  3. J. R. Royce, L’uomo incapsulato, Roma 1970. ↩︎

  4. N. Tallent, Prospettive psicologiche sulla persona, Roma 1970. ↩︎

  5. Platone, Repubblica. ↩︎

  6. L. Mumford, Storia dell’utopia, Roma 2008. ↩︎

  7. E. Bloch, Il principio speranza, Milano 2005. ↩︎

  8. C. R. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, Firenze 1970. ↩︎