Ernst Bloch critico del presente: ideologia, teologia, eresia in rapporto a speranza e utopia

1.

Quale è il senso, il filo rosso che unisce e lega le varie «forme categoriali» del pensiero di Ernst Bloch, ossia l’intima motivazione della ricerca blochiana nell’accogliere la religione im Erbe? A parte la complessità della vicenda e dei nodi da sciogliere, Bloch si inoltra nel suo insonne lavoro con un «metodo analitico e investigativo» teso a un’intricata operazione di derubricazione e disvelamento dei testi biblici, da far invidia a un Bultmann o a un Käsemann, per scorgervi le manipolazioni «sacerdotali» e far riemergere una verità biblicamente alternativa, a cominciare dalle vicende dell’esodo degli ebrei dall’Egitto e dalle figure dei profeti.

Se la critica della religione è il presupposto d’ogni critica, in quanto non si può dare un’autentica immagine dell’umanità che non emerga dalla critica delle religioni storicamente effettive, allora per Bloch la critica della religione è un momento indispensabile e una condizione necessaria per la critica dell’economia politica, e quindi per la stessa costituzione della teoria e della praxis rivoluzionarie. Se vi è ancora una presenza diffusa e massiva della divinità, ciò pare legato al fatto che l’uomo non è ancora se stesso e infinita è la regione del non-ancora divenuto, del non-ancora conscio, consapevole. Giova ricordare infatti che in un primo momento Bloch intendeva titolare Geist der Utopie con Sistema del messianismo teoretico. Esso infatti annunciava un progetto di «sistema del messianismo teoretico» cui resterà fedele sino ad Atheismus im Christentum e a Experimentum Mundi. È una visione esplicitamente apocalittica della storia, rivolta a una «fine di questo mondo», che è «fine nel tempo» e compimento assoluto nell’eternità del «presente ultimo». In Spuren Bloch condivide con Benjamin l’idea della discontinuità come cardine del tempo e della storia; infatti secondo un’immagine della «leggenda ebraica» l’attesa messianica è attesa di una prossimità interrompente e sorprendente.

La chiesa aveva trionfato in quanto mezzo utile a placare la vecchia plebe e come potenza mondiale feudale, poi capitalistica ed anche apertamente fascista ha preparato eccellentemente alla «venuta del regno di Cristo». L’intreccio con l’interesse borghese dello Stato, una nuova situazione costantiniana, unifica in fondo nel tratto anticomunista la chiesa cattolica con quelle protestanti; e tuttavia la loro tensione antighibellina con lo Stato fu comunque profondamente giurata, ma riguardava solo la concorrenza per il profitto e il dominio e non voleva negare entrambi sulla base dell’evangelo.1

Il celebre investigatore Philo Vance, che si muove col medesimo «metodo analitico e investigativo» blochiano, in La fine dei Greene sostiene che

c’è una fondamentale differenza tra un buon quadro e una fotografia, […] esiste un abisso incolmabile tra le due cose […] In che modo, ad esempio, il Mosé di Michelangelo differisce da uno studio fotografico di un vecchio dall’aria patriarcale coi favoriti e una tavola di pietra? Dove sono le discrepanze tra il Paesaggio con lo Château de Stein di Rubens e l’istantanea di un castello del Reno scattata da un turista? Perché una natura morta di Cézanne rappresenta un progresso su una fotografia di un piatto di mele? La differenza tra un buon dipinto e una fotografia è questa: il primo è costruito, composto, organizzato, la seconda è solo la casuale impressione di una scena, o uno spezzone di realtà, così come esiste in natura. In breve, il primo ha una forma; la seconda è caotica. Quando un vero artista esegue un quadro, dispone tutte le masse e le linee secondo un’idea prestabilita della composizione; cioè piega tutto, nel quadro, a un progetto fondamentale ed elimina ogni altro oggetto o particolare che si opponga a quel progetto, o lo sminuisca. In tal modo raggiunge un’omogeneità di forma, per così dire. Ogni oggetto nel quadro è inserito a uno scopo preciso e dislocato in una certa posizione perché si accordi con il sotteso disegno strutturale. Non ci sono elementi inutili, né particolari incongrui, né oggetti isolati, nessuna combinazione arbitraria dei singoli valori. Tutte le forme e le linee sono interdipendenti; ogni oggetto, anzi ogni colpo di pennello, prende il suo posto esatto nell’insieme e assolve a una determinata funzione. Il quadro è ben riuscito, è una unità. Ora, dall’altro lato, una fotografia è priva di un progetto e perfino di un ordine compositivo in senso estetico […] . A un fotografo è pressoché impossibile comporre l’oggetto della sua immagine secondo un progetto prestabilito, come al pittore.2

Ora «l’immagine della realtà il banale meccanismo di una macchina fotografica può registrarla; ma solo una intelligenza creativa altamente sviluppata, con una profonda introspezione filosofica, può produrre un’opera d’arte». La fotografia registra la realtà così com’è, mentre la composizione pittorica di un quadro è tesa a ricomporre le singole tessere al proprio posto secondo un preciso filo logico: «Dietro ogni atto c’era un calcolo premeditato, una composizione sottile e attentamente miscelata, per così dire. E tutto discende da quella forma centrale. Tutto è stato modellato da una idea strutturale alla base».

Qui sta il punto: dove sta il filo conduttore dell’opera blochiana, il senso più autentico del suo «quadro»? Se un quadro è un momento «costruito, composto, organizzato» della realtà, com’è stato «combinato» il progetto del quadro blochiano? Se l’ars combinatoria è montaggio e narrazione, per Bloch in Spuren compito dell’uomo è riconoscere e «leggere le tracce di diritto e di traverso, per sezioni che delimitano solo il quadro». Per dirla con l’«incomparabile» detective-esteta Philo Vance: «Tutti gli aspetti e gli eventi del caso, presi insieme, formano un’unità, un tutto coordinato e interagente. In breve, il caso Bloch è un quadro, non una fotografia. E solo dopo che avremo scoperto il criterio di fondo di questo quadro, sapremo chi è veramente il suo creatore».

2.

La verità religiosa, che all’inizio dell’epoca moderna non era separata dalle verità oggettivo-scientifiche, avendo perciò un carattere universalmente vincolante e pubblico, si ritira ora, nel ’900, nella sfera privata e intima, ove ogni prova e ogni confutazione paiono venir meno. Se Gregorio XVI, in un’enciclica del 1832, affermava che «è follia pensare che a ogni uomo convenga la libertà di coscienza», la religione ora viene tollerata sul piano politico e sociale: essa tende a divenire sempre più esperienza religiosa o convinzione religiosa. Ma Bloch, per quanto curioso e paradossale possa apparire, pone ancora il problema della verità religiosa. Egli tenta di liberare la «verità religiosa» dalla chiusura nell’intimo, rendendola di nuovo rilevante per l’interesse pubblico. Risorge allora il «pathos attivo della verità» e riprende quindi la disputa sul senso dell’intiera realtà. Ritorna «ciò che sta nella speranza, ciò che viene e riguarda il “volto disvelato” e l’umana salvezza nella sua essenza». Ma che cosa ha a che fare il Cristianesimo con le utopie sociali? Eppure la chiesa cristiana sin dalle sue origini ha avuto così tanto e così poco a che fare con le intenzioni utopico-sociali.

Già dall’esodo dalla schiavitù d’Egitto la Bibbia ha un tono fondamentale in tal senso, che poi non ha mai più perduto. Le beatitudini del Discorso sulla montagna (Mt 5, 3-12) proclamano un diritto escatologico per i senza-diritto, per i paria della storia, per gli oppressi e per i perseguitati. Da qui Bloch desume la convinzione che né la scienza moderna, né la socialdemocrazia, né il bolscevismo possono mai riuscire a fare della critica della religione il quadro entro cui costruire la propria prospettiva.

La frase dell’inganno dei preti è divenuta più abituale e più naturale di quella che tutti i poeti mentono, rimasta ormai appannaggio delle menti rilassate. La lotta antireligiosa, invece, ha operato con violenza e con un preciso mandato politico, intervenendo proprio come lotta della verità in senso assoluto contro qualcosa che non doveva esser nient’altro che tenebra.3

Ora l’eresia messianica è innanzitutto la risposta alla storia delle eresie come la Chiesa egemone le ha tramandate, secondo i principi dominanti del suo autoergersi e del suo autoriprodursi. Contro ogni sorta di nostalgia, quale ricordo d’una intesa passata, ora occorre liberare la chiesa dal machiavellismo. «Strada senza meta quella del compromesso machiavellico perché la tecnica dell’astuzia, perfezionandosi, ha a sua volta prodotto la seduzione dell’astuzia. L’uomo nuovo è l’astuto. Il sapere: strumento d’abilità. Lo scopo: mettere con le spalle al muro il prossimo, avvalendosi dell’incontrovertibile. La virtuosità diventa sinonimo d’abilità incontrovertibile». In tal senso la guerra dei contadini è l’evento paradigmatico che permette a Ernst Bloch di contrassegnare di nuovo la storia dell’eresia. È insieme la sfida al mondo borghese e all’«astuzia» dei principi e della chiesa luterana, che «ideologizza il fatto compiuto, associa l’ordine giuridico stabilito alle inaccessibili irrazionalità soggettive del puro volere divino». Ma la critica è rivolta pure al calvinismo, che «non solamente abusa del Cristianesimo, ma in fin dei conti lo distrugge completamente giungendo fino a introdurre gli elementi di una nuova “religione”, quella del capitalismo eretto al rango di religione e divenuto la chiesa di mammona». In fondo Adam Smith è il Lutero dell’economia politica. «Sulla spada di Floriano Geyer, il grande combattente della guerra dei contadini fu inciso: nulla crux, nulla corona. Tale potrebbe essere il motto di un Cristianesimo libero da alienazioni».4

«Il Nuovo nella Bibbia si identifica nella più forte eresia dello stesso figlio dell’uomo, che si pone in posizione messianica all’interno di ciò che un tempo aveva il nome di Dio». Fino a poter sostenere con Moltmann: «Soltanto un ateo può essere un buon cristiano, e anche solo un cristiano può essere un buon ateo; come avrebbe potuto in altro modo il figlio dell’uomo dirsi identico a Dio?». Religion im Erbe «non significa ereditare un cadavere, ma recare alla luce un bambino», ovvero l’espressione «eritis sicut deus» non significa forse la dualità della natura umana? Non rappresenta forse «l’esodo dell’uomo da Dio»? Ernst Bloch introduce un elemento nuovo, e per taluni versi paradossale, cioè un elemento di critica alla religione presente all’interno della religione stessa. La funzione di Paolo sta nell’accentuare l’al di là nelle parole di Gesù. Ma Paolo dà un’interpretazione mistificante, adatta e comoda alla classe dominante. È questa la «teologia politica negativa» di Paolo.5

Gesù stesso non apparve affatto così intimo e così volto all’al di là, come lo vuole, a partire da Paolo, un’interpretazione mistificante sempre comoda alla classe dominante. […] Gesù Cristo non ha mai detto «il regno di Dio è interiore in voi»; la frase ricca di conseguenze (Lc 17, 21) suona piuttosto testualmente «il regno di Dio è in mezzo a voi»; essa era detta ai farisei, non ai discepoli. Essa significa: il regno vive già fra voi farisei come comunità eletta in questi discepoli; il significato è quindi sociale e non interiormente invisibile. Gesù non ha mai detto «il mio regno non è di questo mondo»; questo passo è interpolato da Giovanni (Gv 18, 36) ed esso doveva servire ai cristiani dinanzi a un tribunale romano. Gesù stesso non ha tentato di darsi un alibi davanti a Pilato con un vile pathos dell’al di là. […] «Questo mondo» è sinonimo di quello ora sussistente, dell’eone presente, al contrario «quel mondo» dell’eone futuro (così Mt 12, 32; 24, 3). […] «Quel mondo» è la terra utopica, con il cielo utopico sovra di essa; in coincidenza con Isaia 65, 17: «Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra; e le cose di prima non saranno più rammemorate e non verranno più alla mente». Ciò a cui si aspira non è un al di là dopo la morte, dove gli angeli cantano, ma il regno dell’amore terrestre e sovraterrestre di cui la comunità primitiva doveva costituire già un’enclave. Solo dopo la catastrofe della croce il regno di quel mondo venne interpretato come al di là, soprattutto dopo che i Pilato, anzi i Nerone stessi erano diventati cristiani; infatti per la classe dominante tutto consisteva nell’allentare nel modo più spirituale possibile il regno dell’amore.6

Per l’apocalittico Gesù la predicazione escatologica (Mc 13) ha il primato su quella morale, altrimenti è vano chiedersi il senso del Discorso sulla montagna. «Il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17, 21) significa che l’eone presente è giunto al termine, travolto catastroficamente dalle fondamenta. Allora, solo allora, «noi dobbiamo diventare come Dio», per poter tentare di rifare tutto dalle fondamenta. Non è un caso quindi che all’ideologia, sia nelle vesti del bolscevismo sia in quelle della socialdemocrazia, sfugga il ruolo rivoluzionario della religione. Perché il bolscevismo ne considera solo l’aspetto alienante, mentre la socialdemocrazia riduce la religione ad affare privato (Religion als Privatsache), come è tipico di un’eresia interna al protestantesimo dominante quale sembra esser la natura stessa della socialdemocrazia.7

Su tali questioni Bloch intende misurare i due vizi capitali della società borghese:

  • aver chiuso la ragione al popolo mediante la separazione dell’agire dal pensare, ossia mediante la ferrea distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale.8
  • aver costruito una scienza interessata soltanto all’aspetto quantitativo della realtà naturale, e quindi priva assolutamente di sensibilità per l’aspetto qualitativo, con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Mentre la «sciagura» della socialdemocrazia, a detta di Benjamin, consiste nel fatto che l’idea messianica della società senza classi è stata elevata al livello di un ideale irraggiungibile, nei Paesi del «socialismo realizzato» la stessa ideologia serve a nascondere, a velare con l’identificazione tra partito-guida e coscienza del proletariato, le aspirazioni autentiche delle masse, come pare avvenire persino in Lukàcs, con la degenerazione dell’utopia stessa in mera ideologia di potere.

La vicenda di Thomas Müntzer ha significato la sfida lanciata sul piano teorico e sul piano pratico a Lutero, Calvino, ai gesuiti e al machiavellismo. È una sfida che riprende la definizione polemica di Anselmo d’Aosta: iustitia come rectitudo voluntatis propter se servata, cioè propter ipsam rectitudinem. Tale definizione è contro la «Ragion di Stato» e la sua concezione del diritto, che qualifica l’uomo come malvagio e astuto, e compendia la saggezza nella massima machiavellica della necessità/opportunità di attaccare/offendere l’Altro prima. Se Lutero ha concretizzato il nesso di teoria-praxis in un nesso conservatore, invece sin dall’inizio Müntzer lo ha fatto in senso rivoluzionario. È questo il «copernicanesimo» di Thomas Müntzer; infatti la sua critica al luteranesimo religioso ufficiale è, secondo Taubes, insieme politica e messianica. Müntzer aveva compreso che per poter approdare alla speranza deve esserci la religione dell’esodo, che unifica in sé il dominio interiore dell’utopia e la mistica del Regno di Dio. È qui in gioco un Cristianesimo che, riscoprendo sino in fondo la verità dell’eresia messianica, il «senso profondo del suo ateismo», supera la polemica tra le chiese che data dai tempi del concilio di Trento e, facendosi erede di bisogni e desideri del popolo, riscopre l’utopia concreta: l’apocalisse come «rivelazione» di una sua dimensione metapolitica e metareligiosa. Thomas Müntzer rappresentava il tentativo di ricomposizione rivoluzionaria del mondo contadino, che veniva diviso fra i futuri proletari dell’industria e gli emarginati, dai mendicanti ai servi della gleba. Oggi dunque la prospettiva müntzeriana, proprio nella sua tensione apocalittica, serve a denotare la frantumazione/divisione del mondo del lavoro tra occupati, disoccupati ed emarginati, tra mondo industrializzato sempre più ricco e mondo «in via di sviluppo» sempre più povero.

Forse si può parzialmente concludere che Bloch tiene al significato profetico e utopico della religione nel suo momento eretico-popolare esplicito e anche implicito, quasi a sottolineare di aver eretto l’eresia a «sistema aperto» proprio in quanto «eretico». Peraltro «non è più la non-conformità alla chiesa “effettiva”, alla sua tradizione storica e dottrinale, ma il modo di rapportarsi di fronte al novum, al futuro utopico, che definisce l’eresia».9 Se per Martin Buber la rivoluzione di tipo messianico sarebbe stata recata a compimento solo se la creatività dello spirito ebraico avesse raggiunto la sua massima espressione, non si dimentichi che per Taubes l’Apocalittica nega il mondo nel suo complesso, ma non così il messianismo, che trova la sua scaturigine nel rapporto passato-futuro.10

Ora «la Bibbia non ha esposto alcuna utopia sociale e non si esaurisce certo in essa o non ha in essa il suo valore decisivo; credere questo sarebbe sopravvalutare insieme falsamente e piattamente la Bibbia. Il cristianesimo non è solo un grido contro il bisogno, è un grido contro la morte e il vuoto […] Ma se la Bibbia non espone nessuna utopia sociale, indica tuttavia nel modo più appassionato, tanto nelle sue negazioni quanto nelle sue affermazioni, questo esodo e questo regno». Anzi «l’espansione totale della speranza dell’umanesimo venne al mondo solo nella Bibbia».11 «Bloch dice chiaramente ciò che nella religione interessa il marxista: il reale divenire dell’umano, e di questo problema il cristiano non può non farsi carico. Un rifiuto del marxismo non abolisce il problema che esso pone, mentre l’accettazione del problema posto dal marxismo non permette neppure di pensare a risolverlo indipendentemente dal marxismo».12 Vi è in Bloch una saldatura tra illuminismo e messianismo, che è l’autentico cuore della critica della religione blochiana. Ma qual è il tipo di nesso stabilito tra i due? A un «primo atto di illuminismo» contro il ruolo «oppiaceo» della religione operato da Marx e Engels, ma che aveva rischiato di travolgere e compromettere ciò che di vivo e valido vi è nell’esperienza religiosa, doveva seguire un «secondo atto di illuminismo», che rischiarasse stavolta nella religione anche «le regioni più vicine al regno della libertà».13 Infatti, scrive Bloch in Geist der Utopie «è necessario qualcosa di più di un illuminismo parziale, che allontana da sé gli antichi sogni eretici della vita migliore, invece di vagliarli ed ereditarli». Se è vero con Hölderlin che «chi ha pensato il più profondo, ama il più vivo», «nel corso della Riforma i principi protestanti confiscarono i beni ecclesiastici e dal 1803 gli Stati moderni secolarizzarono il resto. Il pensiero filosofico, dal tempo dell’idealismo tedesco, riporta sulla terra i problemi religiosi e secolarizza gli aspetti trascendenti».14 Quindi «la vita è com’è. Questo tipo di illuminismo, di demitizzazione e di secolarizzazione sul sepolcro della religione, ci è ben noto». Invece Religion im Erbe significa ora «riscattare un diritto e adempiere una speranza». Dal Gesù dei Vangeli al Gesù Cristo dell’Apocalisse (apokálypsis — «ecco, io faccio tutte le cose nuove» (21, 5) non avviene un compimento meccanico, ma attraverso una duplice decostruzione teologico-storica e biblica, uno scoprimento-rivelazione o disvelamento del volto nascosto di Dio e dell’uomo al fine di scoprirvi il nocciolo autentico messianico. Per Bloch quindi non v’è conflitto tra apocalisse e messianismo; essi paiono quasi incastrarsi e delucidarsi l’una con l’altro.

Dalla mediazione reale tra speranza e possibilità emerge l’intreccio, nel segno di una trasformazione totale, tra le categorie di futuro e novum, come spazio assoluto e materia di salvezza: una «nuova Gerusalemme». Müntzer incarna una teoria che nega radicalmente quella luterana, perché legge la Bibbia con gli occhi eretici della coscienza popolare rivoluzionaria, senza per questo trasformare il proletariato e i contadini poveri nel Messia, ma insegnando come tutti «noi dobbiano diventare come Dio»: Eritis sicut Deus.

Bloch intende far emergere il «filo rosso» ereticale della contraddizione insolubile tra servo e padrone entro la falsa coscienza delle istituzioni politiche e ecclesiastiche nonché entro la «falsa coscienza» della stessa società civile. Tutto ciò ancor prima di passare alla critica dell’economia politica e alla critica dell’ideologia, poiché Dio è l’ideale utopicamente ipostatizzato dell’uomo sconosciuto, l’homo absconditus, che sta oltre la dialettica servo-padrone, oltre la critica della religione e oltre la critica dell’economa politica, affondando le radici nell’eredità mistico-eretica. Sinora la teologia evangelica l’ha affidato soltanto all’elezione della grazia divina, entro il rapporto uomo-natura, entro la dialettica soggetto-oggetto, dalle diatribe quotidiane su fino all’identità apocalittica del novum e dell’extremum (ultimum): il «non-ancora» del presente con la «tendenza-latenza del processo universale». Infatti «questo “non ancora” manifesta insieme la tendenza (l’elemento soggettivo, l’eidos) e la latenza (l’elemento oggettivo, la sostanza)» di una possibile forma di oggettivazione. Il novum, ossia il «non-ancora» del presente, si manifesta nella «tendenza-latenza del reale o del processo universale, ovvero la latenza del contenuto utopico finale che non è ancora manifesto, ma opera nella sua verità entro il presente».15

Ma quale è il carattere di tendenza del mondo? In effetti la critica dell’ideologia religiosa deve essere accompagnata da una critica dell’ideologia del «socialismo realizzato», per poter ereditare da entrambe, in quanto critiche della datità del presente, quanto è ancora allo stato latente e pertanto non-ancora compiuto: la prospettiva utopica del Wohin (verso dove) e del Wozu (a-che-scopo). Come nel don Giovanni di Mozart, in cui convivono il vecchio che non vuol saperne di morire e il nuovo che stenta a nascere, si dà una sorta di cammino storico dell’umanità nel processo del «mondo incompiuto». L’uomo si caratterizza per il fatto di essere «qualcosa di tipicamente incompiuto», «una forma inautentica che per il momento è da considerare provvisoria», che «usa artifici, ma va pur sempre avanti, verso il fronte», una sorta di zona di confine tra presenza e assenza, tra futuro e novum, tra utopia concreta e speranza, in cui si esprime il non-ancora-cosciente e il non-ancora-divenuto della realtà. Misurando l’ideologia, Ernst Bloch attacca un marxismo assolutamente privo di utopia concreta, ossia quello del cosiddetto «socialismo realizzato». «Non è forse vero che il marxismo si è trasformato e ha potuto trasformarsi nello stalinismo fino a diventare irriconoscibile? E non si è anche trasformato a tratti fino a rendersi conoscibile?».16 «Il socialismo che giunge soltanto se tutti gli ospiti si sono seduti a tavola e si possono sedere, si troverà sempre dinanzi, in un paradosso particolarmente difficile, alla tradizionale inversione di questo paradosso: è più facile nutrire l’uomo che redimerlo».17

In Geist der Utopie Bloch ha scritto che il marxismo si presenta come «una critica della ragion pura, per la quale non è ancora stata scritta una critica della ragion pratica».18 Ogni esclusione della critica della religione comporta l’esclusione della critica dell’economia politica, che resta «il teatro della vita inferiore», come della critica dell’ideologia, che si limita a spazzar via i vecchi miti del «socialismo troppo arcadico ed astrattamente utopico». La cifra dell’utopico è necessaria a una critica della religione. Infatti «non si deve mai dimenticare che se non ci si fosse mai volti prima a un esame della religione e alla sua critica conseguente la dottrina dell’alienazione e la critica della merce di Marx sarebbero difficilmente apparse». Va però respinta l’ideologia di un socialismo utopico «come forma secolarizzata del regno millenario, e spesso ridotto a un inessenziale drappeggio, a un’ideologia caratteristica di particolari fini di classe e rivoluzioni economiche molto fredde», come è accaduto nei Paesi dell’Est, del blocco sovietico, ove il marxismo è stato ridotto a mera ideologia e terrorismo di Stato e «l’economia è stata eliminata, eppure mancano l’anima e la fede, a cui si doveva far posto».19

È dunque senza alcun dubbio proprio della corrente fredda del pensiero marxista il penetrare la storia precedente e le sue ideologie con sguardo investigatore; ma l’«a-che-scopo» cercato, ovvero lo scopo lontano in cui è insita l’umanità di questo penetrare, è sicuramente proprio della corrente calda del marxismo originario, e dunque del testo fondamentale del «regno della libertà» che si manifesta primariamente nella forma Cristo. […] Ma esiste pur sempre una corrente calda, e le conseguenze della sua omissione si possono notare nel troppo grande progresso dalla utopia alla scienza. Anche la corrente calda ha bisogno della sua scienza: e non come assenza di utopia, ma come utopia finalmente concreta.20

Ora, dato che «allegorie e simboli di carattere religioso» non scompaiono affatto, Bloch spiega che la religione non è un mero momento dell’irrazionale, ma è saldo mito teocratico, è negazione della ragione, ma insieme un suo emergere fantastico, essa è espressione utopico-fantastica dell’essenza umana nella fantasia popolare. «Il mio pensiero ha profonde radici nel Cristianesimo, il quale non può venir liquidato né come mitologia, né come poesia popolare». Ernst Bloch pare presentarsi proprio come il filosofo del «salto nell’immaginario», nel senso che egli ha cercato di teorizzare quello che, seppur confusamente, si esprime nel nostro sognare a occhi aperti, cioè chiarificare «l’oscurità dell’istante-vissuto» nel «divenire altro nella possibilità». È l’immaginario che diviene, in quanto potenza tendenziale della storia, coscienza utopico-rivoluzionaria. Da qui viene sulla scena la presunta unità tra essere e coscienza che, annunciata dal marxismo, è stata rinviata sine die.21Nell’aura tragica della fine d’ogni ottimismo illuministico dopo la tragedia della prima guerra mondiale «l’utopista getta la sua ancora sul fondo della notte più profonda e terribile che si sia mai vissuta».22 Infatti, nota Bloch, è un tempo «in cui il disperato tramonto di Dio è già sufficientemente presente nelle cose».

3.

Dopo aver decretato la fine di un «dio despota» mitologico, un dio che aveva utilizzato la presenza in eterno del male nel mondo per poter continuare a essere dio, mentre invece il Dio dei cristiani ha annunciato che intendeva vincere il male col bene, per poter alfine «restaurare» un mondo di giustizia dopo la liberazione dal male, ecco quali sono le domande che aprono Das Prinzip Hoffnung (1953): in fondo, chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Che cosa ci attende e che cosa invece ci attendiamo? Ma cosa mai contrassegna un cristiano nell’agire? Come si può quindi riconoscere un cristiano? E un marxista? In Das Prinzip Hoffnung l’autore, volendo esorcizzare il «dio despota» d’ogni possibile teodicea, pone in campo l’alternativa radicale e capitale aut Christus aut Caesar, dopo che per il tramite della Bibbia «è entrata nel mondo la coscienza escatologica». Per Bloch l’ebreo, l’esule in senso proprio, ha ora una possibilità: entrare alfine, attraverso il Cristianesimo, nella totalità del mondo religioso e politico-sociale che per primo ha intravisto. In effetti secondo Moltmann «l’ebraismo va considerato la prima e originaria religione escatologica».23 «’Date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio’ venne detto da Gesù per disprezzo contro lo Stato e con lo sguardo volto al suo prossimo tramonto e non come l’intese Paolo nel senso del compromesso».24 Infatti

si aspirava a qualcosa di totalmente altro, di totalmente nuovo e infine, nella competizione delle salvezze, vinse il cristianesimo paolino utilizzando politicamente questa realtà nuova. Gesù aveva richiesto il salto, ma non un salto fuori dall’al di qua verso l’intimo e l’al di là, ma con giovane forza verso una nuova terra. Il desiderio cristianamente utopico della comunità si costituì intorno al nocciolo Gesù spostandolo sempre più nell’al di là in un raccoglimento e una consolazione intimamente trascendenti. Al posto dell’al di qua che bisognava rinnovare radicalmente appariva un’istituzione dell’al di là: la chiesa che legò a se stessa l’utopia sociale cristiana.25

«La filosofia di Bloch è un fermento utile per dissolvere compromessi equivoci. Essa riporta la religione e la rivoluzione alla loro origine comune e le indirizza verso una possibile meta parallela per il futuro.26

Ora però per Bloch all’inizio della Bibbia non sta la mera creazione, ma forse proprio l’Eritis sicut Deus. Alla fine non sta il Dio divenuto uomo, che muore per il riscatto dell’umanità, ma l’uomo divenuto Dio, capace di autoriscattarsi. Dunque la filosofia della religione di Bloch — come hanno sottolineato Moltmann e Mancini — non può intendersi, nello stesso tempo, come religiosa e irreligiosa, atea e mistica insieme? Nasce forse un tertium genus al di là di atei e religiosi (ebrei e cristiani)? Un terzo tipo di Messia, quello del Tertium Testamentum? «Oltre a ebreo e cristiano: il messianismo e il Tertium Testamentum», come ha scritto nella seconda edizione (1923) di Geist der Utopie? È forse qui in gioco un éschaton assoluto, secondo l’assunto «dov’è speranza, là vi è religione»?

Quanto più giustamente in verità se ne sono andate le ideologie, le illusioni, le mitizzazioni, le teocrazie del cristianesimo ecclesiastico, con la loro altissima essenza fissata nella trascendenza stanziata nell’al di là del malessere. Non ciò prende sul serio l’autentico marxismo, ma il cristianesimo autentico, e non si instaura un semplice dialogo tra punti di vista senza nerbo e pieni di compromessi; ma se il cristiano ancora pensa all’emancipazione degli oppressi e degli affaticati, se per il marxista la profondità del regno della libertà permane e realmente si identifica nel contenuto sostanzializzante della coscienza rivoluzionaria, allora l’alleanza fra rivoluzione e cristianesimo nelle guerre dei contadini non sarà stata l’ultima.27

Il messianismo è più antico di qualsiasi esplicita «fede nel Messia». Il messianismo è «l’impulso all’esodo di Mosè» che costituisce «l’utopia nella religione, la religione nell’utopia». Ora in Das Prinzip Hoffnung il messianismo viene messo in luce anzitutto come essenza escatologica e «trasgressiva» della religione. «Se vale il principio, dove c’è speranza c’è religione, allora il Cristianesimo, col suo potente punto di partenza e con la sua storia ricca di eresie, sembra lasciar qui emergere finalmente una essenza della religione. Non cioè mito statico, e quindi apologetico, bensì messianismo umanistico-escatologico, e quindi esplosivo». Dopo che l’ebraismo rabbinico ha esplicitato in modo peculiare l’idea messianica e la gnosi ha dato vita a una sorta di «antisemitismo metafisico», «il messianismo è nella religione l’utopia, che permette al Totalmente altro del contenuto religioso di mediarsi in una forma in cui non contenga più alcun rischio di consacrazione di signori e di teocrazia». Messianismo significa allora impulso all’esodo fuor d’ogni condizione di asservimento, e insieme un protendersi verso il regno della libertà assoluta. La peculiarità del messianismo di Bloch consiste nell’aver ricavato dall’a priori messianico la necessità di elaborare una concezione teoretica coerente con questo, quindi una filosofia utopico-escatologica segnata dal binomio redenzione-liberazione e incentrata sul tema dell’attimo inadempiuto e sulle categorie del non-essere-ancora. È certo la critica di quel presente nel quale Simmel auspicava la fusione in «un terzo polo» di ebrei e tedeschi, ma è altresì l’accettazione di quel «tempo riempito dell’adesso (Jetztzeit)» di cui tratta Benjamin. Forse Bloch condivide con Benjamin un trasparente destino messianico della storia, inscritto nella tradizione giudaico-cristiana e nella sua escatologia apocalittica.

Sembra allora che al «dio despota», quel Dio della Genesi che il settimo giorno, contemplando la sua opera, esclama compiaciuto «ecco, è cosa molto buona», competa una sorta di «verità come epifania» (o di «anamnesi della verità»). Egli sembra a Bloch quel Dio «totalmente altro» della teologia dialettica di Bultmann, Barth, Gogarten, che si compiace dello status quo, mentre al «Dio dell’Esodo» da lui evocato, che proclama «ecco, io faccio ogni cosa nuova», compete la «verità come apocalisse». Egli è quel dio «totalmente prossimo» che ha rivelato in Gesù Cristo il volto nascosto dell’uomo. È forse questo una sorta di tentativo blochiano di «appropriazione utopica» del Deus absconditus barthiano?

In ogni caso qui il Messianismo viene a coincidere con il «principio-speranza» e con l’«utopia concreta». Si tratta di nuove forme categoriali che finalmente riescono a «significare» l’oltrepassamento di tutto quel che sinora ha caratterizzato il pensare, l’agire e l’esistere umano. «Il messianico è il rosso mistero di ogni illuminismo che si mantenga rivoluzionario e carico della propria pienezza», ossia realizza alfine «un’idea-limite messianica». Bloch sembra avere in mente, proseguendo radicalmente la direzione messianica impressa dall’ebraismo e dal Cristianesimo, di andar oltre queste due religioni verso un Tertium Testamentum, un «regno di Dio senza Dio» ove, come in Das Prinzip Hoffnung, «l’intenzione religiosa del regno implica l’ateismo, finalmente compreso». È la speranza della realizzazione dell’utopia di un regno di Dio ove l’umano viva il suo «esser presso di sé» come propria «naturalizzazione» in un mondo non più alienato, bensì «umanizzato». Si tratta di «naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura», proprio come la sintesi operata dalla musica, l’arte utopica per eccellenza, che per Bloch ha il compito di manifestare l’incondizionato, poiché essa è per eccellenza il luogo della ricerca e dello stupore, «singolarmente aperto e incompiuto», pur essendo il suo linguaggio «costruito geometricamente ed elaborato tecnicamente». «Marxismo e sogno dell’incondizionato si uniscano nello stesso corso, nello stesso piano di battaglia. L’humanum non più alienato e il presagibile ancora intronato del suo possibile mondo, vivono entrambi (e non li si può comprare) nell’esperimento futuro, nell’ experimentum mundi».28

Il «principio-speranza» diviene allora il principio ermeneutico-trascendentale che dà vita all’ experimentum mundi, e il mondo diviene a sua volta un immenso laboratorio (laboratorium possibilis salutis), ove il senso della storia sta in una sedimentazione di tracce (spuren) che guidano il cammino del viandante verso il novum. L’immagine mitico-religiosa dell’esodo è trasformata da Bloch nel principio centrale del suo sistema aperto: la speranza. L’utopico s’intreccia sempre con la speranza produttiva della storia umana. Ma speranza non vuol dire certezza; infatti se non fosse possibile deluderla, non sarebbe speranza.29 L’utopia concreta è quindi rivolta radicale contro tutto ciò che lacera e spezza questa tensione all’utopico, e in particolare, «rammemorando» (eingedenken) con Benjamin la celebre espressione di Hegel: «Ma la filosofia deve ben guardarsi dal produrre edificazione», contro quell’«astrazione da sé» che par ipotizzare un al di là dopo la morte «dove gli angeli cantano», mentre invece ciò a cui si dovrebbe aspirare è «il regno dell’amore terrestre e sovraterrestre, di cui la comunità primitiva doveva già costituire un’enclave in questo mondo». «Gesù si scioglieva nella comunità nella stessa misura in cui l’abbracciava. “Quello che voi avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me” (Mt 25, 40): questa frase fonda l’utopia sociale intesa nel cristianesimo primitivo nel suo comunismo dell’amore e nell’internazionale di ciò che porta il volto povero dell’uomo».30

Scoprire il mondo quale storia aperta al futuro, al non-ancora-cosciente (antropologia) e al non-essere-ancora (ontologia): è questo un éschaton presentito come nuovo «settimo giorno della creazione», ove simultaneamente saranno svelati il «volto nascosto di Dio» e il «volto nascosto dell’uomo». In tale visione escatologica dell’avvenire dell’umanità Arno Münster vede intrecciarsi «le motif de l’attente du messianisme juif avec le motif de la rédemption finale de la christologie et l’espérance sécularisée du marxisme de l’avènement du Royaume de l’égalité, de la justice et de la fin de l’aliénation».31

Secondo Bloch la Bibbia è attraversata da due principi contrari, quello della creazione e quello dell’apocalisse. Il testo biblico difatti è segno di contraddizione: «Un tipico dualismo in cui il “concetto di cosa creata” è totalmente diverso dal “concetto di cosa salvata”. Un dualismo che nella Bibbia dai tempi del serpente del paradiso è latente e represso: “non ci sono vermi nella mela; è davvero la mela dell’unica conoscenza”. Di pari passo avanza anche il sogno messianico che non è il sogno inviatoci da qualcuno, dal Dio della creazione e dei signori, ma che aleggia dinanzi a noi sin dai tempi dell’Esodo, della fuga dal potente Egitto, dall’opera mal riuscita di un mondo ormai compiuto». Da una parte quindi per la verità professata dalla scienza il mondo diviene privo di Dio, dall’altra per la verità proclamata dalla religione Dio diviene privo del mondo. Bloch ha elaborato una serie di categorie attraverso cui l’uomo può far emergere, al di là dell’aspetto quantitativo della natura, il suo aspetto qualitativo corrispondente all’immaginazione produttiva della funzione utopica, non degradata a un’impressione dell’oggetto scaturita dalla sensibilità del soggetto. La sua dialettica della natura, al contrario di quella di Engels, privilegia il quantum qualitativo. Questo non è altro che la possibilità di uno scopo determinato della natura emergente da una mediazione col livello quantitativo, grazie alla creazione di forme nel mondo materiale che salvano ciò che al sorgere della modernità è stato bandito come proprietà secondaria, quasi come un’impressione aggiunta all’oggetto «quantitativo» dalla sensibilità del soggetto.

Se «la Bibbia non ha esposto nessuna utopia sociale», tuttavia essa «indica nel modo più appassionato, tanto nelle sue negazioni quanto nelle sue affermazioni, questo esodo e questo regno», ossia le fondamentali categorie del futuro e del novum. Ernst Bloch ne è stato l’interprete più «completo» e interessante. Alla tradizionale critica della religione ha fatto seguire un lavoro di dis-velamento volto a dissotterrare «nel campo religioso tanto ricco di problemi, quel tesoro della Bibbia che non è stato divorato dalla ruggine e dalla tignola». Ma a tale proposito si rende necessario tornare alla chiave del giallo per tentare alfine di risolverlo: cosa ha voluto veramente dire sul nesso verità-religione Ernst Bloch? Uno che ha letto la Bibbia sub specie della storia degli eretici, e che, commentando gli esiti del comunismo in URSS, ha detto: «grazie per averci provato». L’usuale casistica definitoria lo risolve in un filosofo della praxis e/o teorico dell’utopia, ove sola pare esprimersi «l’irrisolta ambiguità» del suo pensiero. È forse un «filosofo eretico e sincretico» (Arno Münster)? Un «filosofo/teologo della speranza» (Jürgen Moltmann), scaturito dalla «mediazione reale tra speranza e possibilità inesauste dell’uomo»? Eppure la speranza può ben andar delusa, anche in modo atroce. E allora non è piuttosto uno capace di elaborare una filosofia mistico-pratica? Allora ha ragione Italo Mancini a sottolineare che paradossalmente Bloch afferma l’esigenza di un’utopia di natura religiosa nel marxismo e insieme l’esigenza di un materialismo ateo nella religione.32 O la sua originalità consiste proprio nel paradossale tentativo di formulare un’«ontologia utopica»? In maniera più completa e più profonda rispetto agli altri marxisti, questo «ebreo apocalittico-cattolicizzante» riscopre vaste riserve di speranza utopica non solo nell’autenticità del marxismo, ma anche nell’eterno sottosuolo eretico della Bibbia e della storia del Cristianesimo. E allora come non rammentare la celebre frase di Rudy Dutschke: «Se Heidegger è espressione della controrivoluzione in cui l’angoscia è di casa, Bloch è rappresentante della filosofia rivoluzionaria in cui la speranza è diventata una categoria irrevocabile»? Ha forse ben ragione Karl Löwith che «la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico»? Eppure Bloch ha forse tentato di andar ben oltre una eretica «filosofia della storia». Infatti, combinando originalmente passato, presente e futuro, ha rimescolato — hegelianamente — le tappe di una sorta di sicura marcia evolutiva verso le «magnifiche sorti e progressive» del cosmo, e ha tentato un’inusitata identificazione di temi e figure scaturite dall’intersecarsi variegato della praxis: un originale e mai prima tentato Experimentum Mundi.

E allora Bloch è ancora definibile come un marxista, e di quale tipo, o non è piuttosto uno che ha inserito il marxismo nel suo «sistema del messianismo teoretico»? Ora la prospettiva messianico-radicale non reca forse «al di là di Dio stesso», verso una divinità che alla fine coincide misticamente con il tutto della comunità escatologica? Come dimenticare che, quando Bloch morì nel 1977, Walter Jens nell’orazione funebre a Tubinga lo ebbe a definire «un polistorico della filosofia che aveva fatto una sintesi unica di mistica ebraica, messianismo ebraico e materialismo dialettico»?

Il giallo s’inasprisce ancor più, si complica in maniera inestricabile. Da tempo ci vado pensando in maniera inesausta; ma confesso: non sono Philo Vance, non sono stato sinora capace di ritrovare, come lui ne La fine dei Greene, il «creatore» del quadro. Ma talora ripenso come in un sogno, cercando quel filo rosso del pensare blochiano che ancora mi sfugge. Ripenso a due sue frasi per me decisive e ancora in parte inesplicabili: in Geist der Utopie il marxismo si pone «come una critica della ragion pura, per la quale non è ancora stata scritta una critica della ragion pratica», quasi a voler dare ragione a che «la fede rossa fu sempre di più che una cosa privata, vi è un diritto fondamentale alla comunità, all’umanesimo, anche in politica e nel suo scopo. Per questo fine si muoveva il diritto che esige la eunomia del camminare eretti in comunione; la dignità dell’umanità non è affidata solo all’arte»?33


  1. E. Bloch, Religion im Erbe, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1959 (tr. it. a cura di F. Coppellotti, Brescia, Queriniana, 1979, p. 227). Cfr. l’ultimo libro che Bloch aveva «licenziato» pochi giorni prima di morire: Tendenz-Latenz-Utopie, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1978. ↩︎

  2. S.S. van Dine, La fine dei Greene, Roma, Newton & Compton, 1995, p. 204s. ↩︎

  3. Cfr. E. Bloch, Religion im Erbe, cit., p. 185, 227s. ↩︎

  4. E. Bloch, Atheismus im Christentum, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1968 (tr. it., Milano, Feltrinelli, 1971, p. 331). Cfr. pure J. Moltmann, Prefazione a Religion im Erbe cit.; ma anche sull’«autonomia» della politica dall’etico-utopico cfr. M. Tronti, Sull’autonomia del Politico, Milano, Feltrinelli, 1977. ↩︎

  5. «Bloch scopre falde eretiche non solo all’esterno della chiesa, cioè in correnti di pensiero o in movimenti protestatari espressamente condannati dalla chiesa, ma anche all’interno di essa, come per esempio in Paolo, Agostino, nei grandi mistici medievali, nel monachesimo, nel francescanesimo e gioachimismo» (T. La Rocca, Introduzione a Bloch, in Scritti marxisti sulla religione, antologia a cura di T. La Rocca-F. S. Festa, Brescia, Queriniana, 1988, p. 362). ↩︎

  6. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1959, p. 580s. Cfr. pure J. Moltmann, Im Gespräch mit Ernst Bloch, München, Chr. Kaiser V., 1976 (tr. it., Brescia, Queriniana, 1979, pp. 73-90). ↩︎

  7. La socialdemocrazia tedesca ne faceva una faccenda privata entro lo Stato e dentro il partito, restando nei limiti del soggetto borghese e della differenza tipica dell’ordine borghese tra società ideale e società reale, mentre invece per Lenin e i bolscevichi la religione è un affare privato per lo Stato, ma non lo è affatto per il partito, che come tale predica l’ateismo, mentre lo Stato socialista deve garantire il pluralismo religioso (Cfr. le parti che riguardano Kautsky, Antonio Labriola e Lenin in Marxismo e religione, cit.). Ben più complessa appare la posizione della socialdemocrazia austriaca di Viktor Adler, Otto Bauer e Karl Renner, come si evince dalla duplice recente edizione degli scritti inediti di Otto Bauer, Religion als Privatsache, apparsi nel 2001, sempre a cura di T. La Rocca, sia per l’editore austriaco Geyer sia per Cadmo di Fiesole. Un discorso a parte merita la straordinaria posizione di Max Adler, la mente filosofica dell’austromarxismo, per il quale rinvio anche qui all’edizione degli inediti di filosofia della religione apparsi, sempre a cura di T. La Rocca, addirittura prima presso Cadmo di Fiesole nel 1992 col titolo Filosofia della religione, poi in Austria solo nel 1997 presso Geyer col titolo Religion Privatsache, sia infine al recente volume di T. La Rocca, M. Adler e O. Bauer. Il fenomeno della religione nell’austromarxismo, Lecce, Milella, 2001. ↩︎

  8. Cfr. su tale nodo l’ormai classico A. Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale, a cura di F. Coppellotti, Milano, Feltrinelli, 1977. ↩︎

  9. T. La Rocca, Introduzione a Bloch, cit., p. 362. Ma su tale tema è decisiva la lettura di E. Bloch, Thomas Müntzer als Theologe der Revolution, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1969 (tr. it., Milano, Feltrinelli, 1980). Cfr. infine l’ottimo volume di T. La Rocca, Es ist Zeit. Apocalisse e storia. Studio su Th. Müntzer (1490-1525), Bologna, Cappelli, 1988. ↩︎

  10. Cfr. M. Buber, Profezia e politica, Roma, Città Nuova, 1996; M. Buber, La fede dei profeti, Genova, Marietti, 2000; J. Taubes, Martin Buber e la filosofia della storia, in Messianismo e cultura, a cura di E. Stimilli, Milano, Garzanti, 2001, pp. 123-143. Cfr. pure J. Taubes, Il prezzo del messianesimo, Macerata, Quodlibet, 2000. ↩︎

  11. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit., p. 582s. Bloch è influenzato dalle correnti mistico-esoteriche tardo-medievali (Meister Eckhart, Jacob Böhme, la Qabbalàh), dai movimenti ebraico-apocalittici, da elementi ripresi dal Sefer Bahir (sec. XII) e dallo Zohar, come dal messianismo giudaico durante e dopo la prigionia babilonese, dalla mistica russa, come da Tolstoj e da Dostoevskij, persino dall’induismo e dal buddismo (cfr. E. Bloch, Religion im Erbe, cit., pp. 138-140). Interessante il riferimento a Ivan e Aljòsa Karamazov (p. 124s). Tra l’altro Bloch scrive che la dottrina gioachimita del Terzo Regno del sec. XIII (cfr. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit., pp. 591-598) compare pure in Dostoevskij, tra l’altro tradotto in tedesco da quel Moeller van den Bruck, autore del noto Das dritte Reich). ↩︎

  12. G. Pirola, Religione e utopia concreta in E. Bloch, Bari, Dedalo, 1977, p. 97. ↩︎

  13. Cfr. T. La Rocca, op. cit., p. 361. ↩︎

  14. J. Moltmann, Prefazione a Religion im Erbe, cit., p. 53. ↩︎

  15. E. Bloch, Naturrecht und menschliche Würde, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1961, pp. 310-314, ora in E. Bloch, Religion im Erbe, cit., pp. 223-229. Ora «nulla può sedurre come l’inizio di qualcosa perché è la promessa assoluta e la consolazione contro il vecchio che non deve restare» (p. 134). ↩︎

  16. E. Bloch, Marx e la rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 12. Per Mannheim (Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino, 1999) sta nella concezione messianico-trasformativa della storia di Gustav Landauer la chiave per capire atei-religiosi come Bloch e Benjamin, ma aggiungerei pure nel socialismo etico neo-kantiano di H. Cohen e nella sintesi di socialismo rivoluzionario, messianismo e spirito dei profeti che anima la Roma e Gerusalemme di Moses Hess. ↩︎

  17. E. Bloch, Atheismus im Christentum, cit., p. 329. Per Bloch «nel Nuovo Testamento non ricorre alcun autore che non sia ebreo; sono ebrei tutti, compreso San Giovanni, autore dell’Apocalisse». Qui Bloch cerca di parafrasare una celebre frase di Yisrael Baal Shem, fondatore del chassidismo moderno: il Messia può giungere soltanto quando tutti gli ospiti si sono seduti a tavola, quasi in una sorta di «mistica politica», quale alleggerimento dello spirito, dato che la simbologia religiosa «non si esaurisce con la sparizione dell’ideologia». Cfr. infine G. Bouchard, Marx, Bloch e l’utopie, in «Philosophiques», n. 10, 1983. ↩︎

  18. E. Bloch, Geist der Utopie, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1964, p. 303. «Significa che la critica della ragion pura è una resa dei conti ed una determinazione del limite della pura ragione teoretica, del determinismo newtoniano. In Kant in quanto critica della legalità fisica, in Marx in quanto critica della legalità economica» (Gespräche mit Ernst Bloch. Über ungelöste Aufgaben der sozialistischen Theorie, a cura di R. Traub e H. Wieser, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1975, p. 65). ↩︎

  19. E. Bloch, Ibidem↩︎

  20. E. Bloch, Atheismus im Christentum, cit., p. 327. ↩︎

  21. «La rivoluzione non è una creatura che si riproduce, ma un creatore che crea del Nuovo chiamando nuovi uomini alla vita […], perché le loro creature siano figli e non servi» (E. Rosenstock-Huessey, Die europäischen Revolutionen und der Charakter der Nationen (1961), rip. da R. Strunk in nota a E. Bloch, Religion im Erbe, cit, p. 133n. . ↩︎

  22. Cfr. la recensione di Margarete Susman nel 1919 alla prima edizione del Geist der Utopie (1918), ora in Ernst Bloch zu ehren. Beiträge zu seinem Werk, a cura di S. Unseld, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1965, p. 384. ↩︎

  23. Cfr. M. Idel, Qabbalah. Nuove prospettive, Firenze, Giuntina, 1996. ↩︎

  24. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit., p. 581. ↩︎

  25. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit. p. 583s. ↩︎

  26. J. Moltmann, Prefazione, cit., p. 64. ↩︎

  27. E. Bloch, Atheismus im Christentum, cit., p. 331. ↩︎

  28. E. Bloch, Ibidem. Ma cfr. E. Bloch, Experimentum Mundi, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1975 (tr. it., Brescia, Queriniana, 1980). ↩︎

  29. Cfr. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit., pp. 585-598; pure E. Bloch, Spuren, Berlin, Paul Cassirer, 1930 (tr. it., Tracce, Milano, Garzanti, 1994). Descartes, ne Les passions de l’âme (art. 65), scrive che la speranza è una «disposizione dell’anima a persuadersi che ciò che si desidera avverrà», mentre Bultmann sostiene che «le attese e le speranze dell’uomo rispecchiano il concetto che egli si forma dell’avvenire […] La elpís contiene una rappresentazione del futuro che l’uomo stesso si forma». Cfr. infine L. Boella, Ernst Bloch. Trame della speranza, Milano, Jaca Book, 1987; G. Cunico, Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch, Genova, Marietti, 1988. ↩︎

  30. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit., p. 581. ↩︎

  31. A. Münster, Figures de l’utopie dans la pensée d’Ernst Bloch, Paris, Aubier, 1985, p. 65; cfr. pure A. Münster, Ernst Bloch, messianisme et utopie, Paris, PUF, 1989. Arno Münster, Michael Löwy, Emmanuel Lévinas hanno scorto in Bloch, sin da Geist der Utopie, un filone di pensiero tipico di «uomini ebrei assimilati, ateo-religiosi, anarchico-bolscevichi» con una profonda tensione messianica. Ma cfr. anche W. Hudson, The marxist Philosophy of Ernst Bloch, New York, 1982. ↩︎

  32. Cfr. I. Mancini, Teologia, ideologia, utopia, Brescia, Queriniana, 1974, pp. 541-651. Cfr. pure il numero speciale su Bloch di «Aut Aut», nn. 173-174, 1979. ↩︎

  33. E. Bloch, Naturrecht und menschliche Würde, cit., p. 314. Cfr. infine M. Riedel, Tradition und Utopie, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1994; R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, 1979; G. Cacciatore, Ragione e speranza nel marxismo. L’eredità di Ernst Bloch, Bari, Dedalo, 1979. ↩︎