Gerald Dworkin, Raymond G. Frey, Sissela Bok, Eutanasia e suicidio assistito, Edizioni di Comunità, Milano 2001.
Il termine «bioetica» compare ormai, con ritmo sempre maggiore, su articoli di quotidiani e riviste specialistiche, in pubblici dibattiti e nelle sedi deputate a districare le complesse tematiche da essa trattate (come i comitati etici). Eppure, la semantica di questo neologismo contemporaneo ha assunto sfumature e densità sostantive via via diverse: dalla sua coniazione, data negli anni Settanta dall’oncologo Van Renssealer Potter, di disciplina che avrebbe dovuto elaborare l’insieme delle obbligazioni morali al fine di preservare e garantire la biosfera, al più recente e ristretto significato di studio delle questioni etiche che sorgono dalle scienze mediche e biologiche,1 la bioetica rappresenta una frontiera dialettica di incontro fra ambiti di sapere differenti nonché un nuovo approccio culturale e dunque morale al sé, agli altri umani e al resto del vivente. La definizione dello statuto epistemologico di cui dovrebbe nutrirsi tale disciplina risulta, a distanza di oltre trenta anni dalla sua fondazione, ancora lungi dall’essere data in modo univoco ed uniforme. Esemplare di questa ricerca metodologica appare in tal senso il testo del pensatore cattolico Aramini,2 il quale ha dedicato una lunga sezione a questo problema, individuando quattro distinte modalità di percezione e comprensione del sapere bioetico.
Certamente, fra i vari approcci descritti, risulta degno di nota quello aperto in Italia da Scarpelli,3 per il quale la bioetica rappresenta non un’innovazione del pensiero e del ragionare filosofico, ma propriamente un suo campo di applicazione empirico, un’integrazione pratica che scava nelle viscere della complessa realtà fenomenica; realtà che spesso — come arguisce il filosofo analitico — sfugge all’omnicomprensiva attività logico-categoriale. Anche il filosofo tedesco Hans Jonas, tra i pionieri della riflessione sull’etica biomedica, viene ricordato da Aramini per l’attenzione che pone sull’ampliamento di orizzonti che si scorge dalla nascita della bioetica: essa arricchirebbe, secondo tale impostazione, le capacità di analisi del mondo contemporaneo, aprendo al contempo nuove forme di percezione culturale che si esprimono tanto nella sensibilità al trattamento degli animali non umani, quanto nella riflessione sulle questioni ambientali. Si inaugurerebbe così — secondo Jonas — una rinnovata stagione dell’etica, caratterizzata dalla vocazione morale alla responsabilità,4 ormai non più confinata negli angusti spazi della coscienza individuale, ma estesa alla presa in carico per ogni singolo dell’intero vivente.
Benché possa apparire marginale, la constatazione che l’era tecnologica caratterizzante il mondo occidentale industrializzato abbia indotto il bisogno, in un primo momento solo appannaggio dell’indagine accademica e in seguito di un vasto pubblico profano, di individuare regole di condotta morali, paradigmi e crinali attraverso i quali orientare il proprio e l’altrui agire, acquista una pregnanza antropologica. Quasi che l’ingresso preponderante della meccanizzazione abbia ristrutturato cognitivamente l’umano nel ritorno ad un sentire etico, decostruito dal feretro delle grandi ideologie politiche e obliato dalla progressiva secolarizzazione dei costumi culturali. Può apparire paradossale in effetti che quanto più si affida la quotidianità del vivere alla tecnologia e al solipsismo ad essa intrinsecamente connaturato — si pensi alla dimensione solitaria dello scambio epistolare tramite computer, o al tempo trascorso davanti a giochi elettronici e televisione —, tanto più si avverta la necessità di uscire dalla fisicità della téchne per riappropriarsi del linguaggio fondativo della socialità: quello morale.
Tale urgenza sociale di natura etica situa il filosofo in un’ottica privilegiata; lo rende, almeno apparentemente, depositario di un bagaglio intellettuale e di un repertorio teoretico tale per cui pretende di assurgere al rango di «esperto morale».5
La posizione teorica di Peter Singer, fra i più influenti bioeticisti mondiali, vuole indurre il filosofo a decostruire il mito del puro metodo del dubbio iperbolico, che pone solo domande e scava nell’incertezza, per ardire di giungere a proposizioni sostantive, a conclusioni definitorie che individuino la natura del bonum etico, nell’intenzione di guidare l’uomo comune nella prassi. Se ciò non fosse possibile — o per alcuni autori non auspicabile — conclude Singer: «dovremmo iniziare a nutrire seri dubbi sull’utilità della filosofia morale».6
Una tale impostazione speculativa implica che la — solo supposta — maggiore esperienza dell’eticista si traduca in una migliore o più efficace capacità concreta di discernimento dei concetti di bene e male, giusto e ingiusto. La presunzione singeriana appare però non tenere conto di un elemento centrale, elemento che pure costituisce uno dei nerbi teoretici dell’etica contemporanea: il fatto che ci si dovrebbe più onestamente attestare su un passo logico precedente all’assertività sostantiva; si è ben lungi dall’aver individuato categorie valoriali univoche che rendano universalmente intelligibile la sostanza di ciò che si dovrebbe definire «Bene» e la natura di quello che temiamo con l’espressione «Male». Non solo, ma la priorità in tal modo assunta dal ragionare etico-filosofico finirebbe col relegare la capacità morale dei non esperti, degli uomini comuni, a filiazione di dettami e prescrizioni comportamentali non individuali, ma imposte da altri o, in qualche misura, suggerite. Ciò confliggerebbe, se non ancora da un punto di vista di morale sociale, quantomeno con la contemporanea centralità del valore dell’autonomia personale, valore che si incarna propriamente nella possibilità di essere garantiti nell’esercizio della libertà di pensiero, coscienza e azione morale.
La tendenza a fare del sapere bioetico una materia prioritariamente appannaggio della filosofia e dei suoi cultori, rende tale sapere implicitamente meno fruibile da un pubblico profano. Tale presunzione filosofica rischia così di invalidare uno degli obiettivi che ha sostanziato e reso possibile la nascita stessa della bioetica: l’esigenza di costruire un nuovo sapere plurale e pluralista che potesse dare espressione alle infinite modalità concrete in cui si esplica la condotta umana. Se cioè da un lato la filosofia morale sta tentando di rinnovare il suo statuto epistemico per adeguarsi ad un’istanza di rivendicazione sociale per una diversa concettualizzazione della vita e della morte, della scienza e delle sue applicazioni, si rende ora d’altra parte complice di un’ulteriore forma di isolamento intellettuale: essere la detentrice delle diverse verità etiche per distribuirle sul mercato delle scelte pubbliche.
Prima ancora di poter avanzare una pretesa tale — ammesso che essa sia desiderabile —, l’etica filosofica si dovrebbe impegnare a rendere comprensibile il suo linguaggio specifico e le sue concettualizzazioni. Propriamente all’interno di questo orizzonte metodologico intende muoversi il testo di Gerald Dworkin, Raymond Frey e Sissela Bok, intitolato Eutanasia e suicidio assistito. Pro e contro. Gli autori consacrano la premessa del libro a questo progetto: costruire una collana di etica applicata e di bioetica che possa essere fruibile e divulgativa, adatta al pubblico dei «non esperti morali».
Il testo si articola in due macro sezioni di cui la prima dedicata all’analisi degli argomenti favorevoli al riconoscimento del diritto a morire e la seconda impegnata nella valutazione delle obiezioni a tale riconoscimento. Attraverso la contrapposizione — non ideologica, ma razionale — delle diverse impostazioni morali e dei loro rispettivi valori si esplica l’intento degli autori che è quello di mostrare come la filosofia morale possa assurgere a sapere concreto e pragmatico. Si individua così nel libro una duplicità di obiettivi: sul piano contenutistico presentare lo statu quo del dibattito intorno all’eutanasia e al suicidio assistito, sul piano metodologico e simbolico restituire alla filosofia un suo qualche ruolo di utilità sociale. In virtù della priorità assegnata dagli autori all’aspetto innovativo della metodologia insita nel testo, risulta opportuna una preliminare discussione sul contenuto, per dedicare successivamente maggiore spazio al commento del metodo.
L’arringa difensiva rispetto alla pratica eutanasica e a quella del suicidio assistito è affidata a Dworkin e Frey, mentre gli argomenti che si oppongono a tali prospettive sono esposti dalla Bok. I due autori che trattano i «pro» tendono a puntare l’attenzione sull’argomento che nega differenza morale fra i trattamenti eutanasici passivi (astensione o sospensione delle cure e terapia del dolore spinta) e quelli attivi (l’iniezione di una dose letale di farmaco), differenza che invece si sostanzia eticamente nello scarto che intercorre fra il lasciare che il paziente muoia e l’intervenire fattivamente per ucciderlo. L’altro classico perno dialettico intorno al quale ruota il dibattito sull’eutanasia verte sull’analisi del cosiddetto «pendio scivoloso»: tale timore si esprime nella difficoltà, da parte della società, di controllare gli sviluppi potenzialmente eugenetici della pratica eutanasica. Si ritiene che una volta garantito il primo passo — la legalizzazione del diritto a morire per chi ne fa esplicita richiesta — non sia possibile arrestare il processo di detrimento del concetto di dignità e sacralità della vita umana. Si tenderà ad esercitare il diritto a morire anche su pazienti che non lo desidereranno, ma che costituiscono un peso psicologico, assistenziale ed economico per la società. Tale argomento ha ben poco a che vedere con un problema etico in senso stretto, non si tratta di valutare infatti il portato morale di una condotta a livello individuale, ma di verificarne la liceità sul piano di un’estensione e applicazione pubblica. In tal senso, anche lo scettismo in merito all’eutanasia, interpretato dalle pagine di Sissela Bok, attiene prevalentemente al problema dello scivolamento verso il peggio, ad un dilemma cioè di etica pubblica e diritto penale. Non si menziona affatto nel testo uno dei cardini teoretici rispetto al tema della «buona morte»: il dramma della sofferenza, del dolore psico-fisico che motiva le istanze di una così radicale richiesta. In effetti, in molti testi che si occupano di questa tematica bioetica, il concetto di sofferenza e le diverse modalità storiche e individuali della sua elaborazione non viene mai affrontato. Rimane invece estremamente interessante l’excursus storico-filosofico esposto dalla Bok sulla questione del suicidio, su quanto si sia modificata nel corso dei secoli la percezione collettiva del porre fine alla propria esistenza, in particolare dalla versione di atto eroico tipica dell’antichità ellenistica alla visione di gesto disperato appartenente alla sensibilità dei tempi contemporanei.
Se la sostanza degli argomenti del testo non offre originalità speculative, poiché si passano in rassegna i nodi tradizionali dei temi in esame, l’analisi intorno all’obiettivo metodologico del testo risulta più feconda.
È evidente dalla lettura che la metodologia del libro, costituendo un intento pioneristico, soffra di quella deficitarietà teoretica tipica delle innovazioni epistemologiche.
Benché infatti, si voglia testimoniare l’applicabilità della disciplina etica al vivere quotidiano, non si comprende come ciò possa essere reso chiaro mediante la presentazione dello scontro fra differenti o antitetiche versioni normative.
Sembrerebbe quasi che gli autori rimangano prigionieri di un’aporia: da una parte sostengono che il confronto fra idee, argomenti, principi e valori costituisca «la linfa vitale della filosofia», dall’altra che, presentando ai lettori questo scontro, si possa illustrare l’efficacia della filosofia stessa per la vita concreta. Manca un passaggio logico-sostanziale fondamentale, quello di spiegare come sia possibile catturare lo scontro fra valori diversi affinché si riesca a pervenire ad una normatività se non universale, quantomeno utilitaristicamente condivisa. L’articolazione delle differenti impostazioni valoriali infatti, esposta secondo il modello del pro e del contro non giunge affatto a dirimere le questioni che tratta, piuttosto rischia o di paralizzare l’uomo comune costretto fra due manicheismi, o di radicalizzare le posizioni da parte di coloro che, in qualità di esperti morali, godono del privilegio retorico-dialettico.
Il progetto di tentare la costruzione di un sapere bioetico che esca dalle aule accademiche e che porti la riflessione laddove risulta realmente necessaria, ovvero nelle corsie degli ospedali, appare condivisibile e in qualche modo indispensabile. Non si può però ritenere che esso possa essere esaurito da un testo o da una collana editoriale: deve essere in prima istanza recepito unanimemente da quanti finora hanno contribuito all’edificazione dello statuto epistemologico della bioetica, statuto che, come analizzato precedentemente, appare ancora lungi dall’essere stato definito in modo univoco. Soltanto quando avremo assegnato alla disciplina della bioetica oltre ad un nome anche e soprattutto un contenuto specifico ed un apporto realmente interdisciplinare — non multidisciplinare che procede per giustapposizione senza integrazione — potremo attribuire ai dibattiti morali e ai valori che essi variamente sostengono un’identità significativamente organica e fruibile.
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Singer P., Kuhse H., Bioethics, edited by H. Kuhse, P. Singer, Great Britain. ↩︎
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Aramini M., Introduzione alla bioetica, Giuffrè, Milano 2000. ↩︎
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Per un approfondimento del pensiero bioetico scarpelliano, cfr., Id., Bioetica laica, Baldini & Castoldi, Milano 1998. ↩︎
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Il termine assurge a paradigma etico che accompagna una serie di scritti del filosofo: da Id., Principio responsabilità a Tecnica, medicina ed etica, pubblicati in italiano da Einaudi. ↩︎
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L’espressione di Singer P., in La vita come si dovrebbe, Il Saggiatore, Milano 2001, vuole essere provocatoria e in aperta polemica con quanto sostenuto dalla tradizione inglese morale contemporanea. Questa corrente di pensiero aveva relegato il filosofo a mero esperto di logica, a conoscitore eccelso della terminologia coinvolta nell’etica e a sofista stringente, ma per nulla depositario della scienza dei principi etici, né, per ciò stesso, esperto di virtù morali. Rinunciando a stabilire contenutisticamente e sostantivamente quale fosse la natura del bene e del male, l’etica di matrice analitica si limitava a prescrivere la correttezza formale dei diversi e possibili enunciati morali. ↩︎
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P. Singer, «Esperti morali», in La vita come si dovrebbe, op. cit., p. 24. ↩︎