Recensione a P. Marinetti, Spinoza, a cura di Francesco Saverio Festa, Castelvecchi, Roma 2017, 344 pp.
La nuova edizione dello Spinoza di Piero Martinetti propone, rispetto alla precedente edizione curata da Franco Alessio (Bibliopolis 1987), alcune modifiche in termini di aggiunta e sostituzione, motivate dalla precisa scelta di prediligere il manoscritto originale. Esemplificativa è la presenza, nel primo capitolo, dei paragrafi 35 e 36 (pp. 68-73), dedicati al Trattato teologico-politico, ritrovati nel manoscritto martinettiano e mancanti nella prima edizione, la cui aggiunta costituisce un importante punto d’avvio per capire quale Spinoza Martinetti fosse realmente interessato a proporre. Altro elemento da segnalare è la presenza di un’Appendice composta da due sezioni: nella prima, sono raccolte alcune recensioni a studi spinoziani, pubblicati da Martinetti sulla «Rivista di Filosofia»; nella seconda, in un saggio a cura di Alessio Lembo, si tenta di illustrare le ragioni della distanza assunta da Martinetti rispetto agli «studi italici sull’ebreo olandese», attraverso una ricostruzione di quel panorama filosofico. Un primo indizio dell’importanza di quest’opera nella riflessione martinettiana, va ricercato nel lunghissimo arco di tempo in cui la sua stesura si inscrive, che non consente di considerarla una semplice tappa o un momento isolato. La ricostruzione del suo travagliato processo di elaborazione giunge ad attestarne intorno al 1914 l’inizio, con la pubblicazione di un articolo su «Coenobium», in cui l’interesse per Spinoza si rivela nell’analisi del tema del conflitto tra religione e filosofia. Decisamente più significativa per la composizione vera e propria della monografia, la pubblicazione due anni dopo, sulla «Rivista di Filosofia», di cui assumerà informalmente la direzione nel 1926, di un articolo dal titolo La dottrina della conoscenza e del metodo nella filosofia di Spinoza e nel ’39, sulla stessa rivista, di Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza. Articoli che confluiranno, almeno in parte, nel testo dello Spinoza, costituendone omonimi capitoli. È infatti in quello stesso anno, come si legge in una lettera indirizzata a Nina Ruffini, che Martinetti cominciò la revisione e il completamento di un’esposizione su Spinoza il cui nucleo era stato composto «venti e più anni fa», tenuta sopita con alterni risvegli, strettamente legati alle possibilità materiali e alle condizioni storiche del suo autore. «Se sarà ancora lecito parlare di Spinoza e se potrò avere un editore, la pubblicherò», confessa in quella lettera. La differenza tra la lettura martinettiana di Spinoza e quelle precedenti e contemporanee, nel panorama filosofico italiano, va innanzitutto rilevata in un’essenziale diversità di riferimenti: è acclarato che in suo possesso vi fossero le edizioni critiche tedesche delle opere spinoziane e le traduzioni francesi dell’Ethica. In secondo luogo, va tenuto conto della notevole considerazione che egli riservò al dato storico-biografico, in qualche misura certamente collegata a un rispecchiamento, più che intellettuale, spirituale nel filosofo olandese. Ciò permise a Franco Alessio di scrivere, nella sua Introduzione, che l’esposizione della filosofia di Spinoza «è una esposizione indiretta del pensiero di Martinetti». Il compito dell’Ethica e il suo fine, la liberazione, non potevano essere per lui un indifferente campo di ricerca. Egli si sentiva soprattutto legato a Spinoza dall’idea della condivisione di un comune impegno: testimoniare l’inderogabilità della libertà di coscienza e di pensiero nel ripetuto confronto con tentativi di limitarli. Il significato etico e teoretico insieme del sistema spinoziano è preminente rispetto alla tendenza dominante nel ’900, riconducibile all’idealismo di Gentile e Spaventa, di intenderlo su un piano prevalentemente ontologico. Nel ricostruire le fonti e i riferimenti del filosofo olandese, poi, la posizione di Martinetti si rifà a una genealogia fino a quel momento poco considerata: «L’antecedente immediato della concezione fondamentale di Spinoza deve esser cercato nei filosofi ebrei del medio evo, specialmente in Maimonide, Chasdai Kreschas e nella Kabbala…» (p. 319). Nel metterne in risalto la singolare originalità di pensiero, egli ricusa l’interpretazione di coloro che «riducono lo spinozismo ad uno svolgimento del cartesianismo» (p. 322). Ma esiste una ragione più profonda dell’interesse di Martinetti per la Ethica spinoziana? A dispetto di quanto si potrebbe immaginare, avendo dedicato al volume sull’Ethica, nel 1928, una specifica Esposizione commentata (Castelvecchi 2014), lo scritto preso a riferimento da Martinetti per lo Spinoza fu il Tractatus teologico-politicus. Questo risulta essere il dato imprescindibile per scorgere la trama essenziale, il filo conduttore dell’opera e l’intento del suo autore: mettere in luce quella peculiare connessione tra filosofia religiosa e filosofia politica che scaturisce dalla consapevolezza che «l’uomo vive in una “esistenza sociale” […], che “si realizza nello Stato e nella fede nella religione rivelata”» (Introd., p. 10), e dall’esigenza di compiere, rispetto a tale condizione, una scelta decisiva di libertà attraverso la conoscenza delle cose e degli uomini. Il rapporto della religione positiva con lo Stato è infatti il «problema cardinale» del Tractatus. Ciò che gli preme sottolineare è la distanza, «l’abisso fra le religioni storiche con i loro dogmi e superstizioni e la religione dell’“abisso della solitudine”di “chi non ha dogmi, ma ragioni”» (Introd., p. 23), ragioni che aprono alla possibilità di concepire una politica liberata dal giogo della teologia. Per questa via si giunge, dunque, al Politico e alla necessità di ricostituire l’autonomia del suo ambito rispetto al teologico, divaricandoli e consentendo di coltivare quella razionale esigenza conoscitiva propria dell’umanità libera. Si può leggere in tal senso l’affermazione di Festa che vuole il percorso seguito da Martinetti, «punto d’approdo di quello innescato da Baruch Spinoza» (Introd., p. 24), come «alternativo al percorso teologico-politico che si snoda da Hobbes per approdare a Carl Schmitt» (ibid.). Martinetti pare, dunque, «comprendere lo spirito di una forma peculiare di “teologia politica”in Spinoza» (Introd., p. 23), che viene a coincidere con lo spirito di una libera repubblica cui, si legge nella prefazione al Tractatus, «ripugna il costringere in qualunque modo il libero pensiero dell’individuo» (p. 268). La monografia spinoziana fu intrapresa per esclusiva iniziativa dell’autore, ciò spiega l’inatteso modo di esprimersi in seguito alle sollecitazioni dell’editore Bocca affinché ultimasse la stesura del Kant (Bocca 1943), da tempo commissionatogli: infatti, scrivendo a Nina Ruffini manifestò la speranza di potersene presto sbarazzare per poter tornare al lavoro su Spinoza. Non essendo ascrivibile a nessuna delle due canoniche scuole neo-kantiane tedesche, quella di Martinetti fu una figura di neo-kantiano atipica. Ma restò isolata anche la sua lettura di Spinoza nel panorama filosofico italiano, e tale rimase, anche per via dell’avversa fortuna che l’opera incontrò: Martinetti non riuscì a vederla pubblicata e, dopo quasi venticinque anni di attesa e numerosi tentativi di riprenderla, la morte sopraggiunse prima che potesse realizzare il proposito di una sua completa revisione. Il testo che va sotto il titolo di Spinoza non si presenta com’era nell’idea e nella volontà definitive dell’autore: cogliere le intenzioni di Martinetti e restarvi fedele è l’intrinseca difficoltà per chiunque vi si avvicini. Ma se, come scrive Festa, «La Libertà o Gesù Cristo e il Cristianesimo appaiono come la ripresa della lotta spinoziana conto i falsi modelli “veritativi”delle ideologie antilibertarie» (Introd., p. 7), quale fu per lui il senso dello scrivere Spinoza? Oltre a fornirgli l’occasione di affrontare temi del suo presente sotto altra luce, lo Spinoza sembra proprio aver soddisfatto l’esigenza di riuscire a compendiare e suggellare sistematicamente l’unione, che sentì di aver raggiunto, col suo Spinoza.