Alice Gonzi, Jules de Gaultier: la filosofia del bovarismo, Le Càriti Editore, Firenze 2008, pp. 262.
A rendere più urgente e profondo il tema filosofico affrontato da Alice Gonzi in questo ricco volume è, oltre il suo intrinseco significato, l’attuale rapporto dell’uomo con se stesso, con l’immagine che nutre di sé. Il «bovarismo» è la lente scelta non soltanto per osservare e interpretare la complessa opera di De Gaultier, ma anche per restituire all’autore l’indiscutibile indipendenza di pensiero, distante da qualsiasi ambiente filosofico ufficiale. Non di meno, la Gonzi trova il modo di guidare il lettore, da questa consapevole e studiata prospettiva, alla sorgente di un malessere metafisico più generale che sembra attanagliare l’umanità moderna: la sostanziale incapacità di essere ciò che si è e il desiderio d’essere altro da sé. Ciò vale, evidentemente, anche per la visione della realtà, alla quale l’uomo presta attributi e significati ad essa niente affatto pertinenti.
Il bovarismo — suggerisce la Gonzi — è il «filo conduttore» di tutta l’opera gaulteriana, ma nasce, prima ancora che come problema di natura prettamente estetica, da un dilemma morale molto attinente alla biografia del pensatore: «Questi ha l’impressione che ogni esteriorizzazione della propria attività interiore sia colpita da una sorta di esibizionismo che tende a sottrarre energie all’attività medesima» (p. 18). L’inquietudine gaulteriana è tutta nella consapevolezza che un’azione — morale o no — non possa avere una perfetta autonomia ontologica, stretta com’è dall’atto conoscitivo che costantemente ne controlla, deformandolo, il corso. La vicinanza assillante della conoscenza sull’agire finisce, fatalmente, per inficiare l’agire e la coscienza medesima dell’operato. Il «cortocircuito», dunque, è l’unica cosa davvero in atto; la conoscenza deforma la conoscenza perché la conoscenza non può essere, ma solo rappresentarsi. Si dà il caso, tuttavia, che proprio tale ineludibile dislivello tra la conoscenza e l’esistenza sia scaturigine del «bovarismo», un male, certo, ma prima ancora, scientificamente, un meccanismo determinato al quale mondo e uomini obbediscono.
Vari sono i livelli di tale obbedienza. Nel caso degli artisti, essa comporta un noto «disgusto verso l’atto» e un’estraneità alla vita che, paradossalmente, permetteranno la piena realizzazione artistica; non senza limiti, tuttavia, che Gaultier sa riconoscere quali impedimenti per l’arte stessa. È infatti dalla critica letteraria gaulteriana che la Gonzi prende lo spunto iniziale per la descrizione in un primo tempo filologica e in un secondo tempo filosofica della nozione di «bovarismo». Attraverso l’analisi dell’arte di Edmond e Jules de Goncourt, di Ibsen, di Tolstoj, di Flaubert, infine, compiuta da Gaultier, emerge gradualmente l’abisso illimitato che disgiunge in modo irrimediabile l’azione dalla conoscenza-rappresentazione. Il dramma di questa lontananza è tutto ascrivibile alla «coscienza», che «crea un miraggio, una serie di finzioni rappresentanti il mondo fisico» (p. 34). La coscienza, dunque, corrompe il mondo fisico e quello morale: «A partire dall’apparizione della coscienza — sottolinea la Gonzi — l’ambito morale si trasformerebbe […] in un insieme di finzioni che, attraverso il prisma menzognero della coscienza stessa, raffigurerebbero, deformandola, la semplicità del fenomeno fisico».
Sarebbe un errore, tuttavia, riferire la nozione di «bovarismo» all’influenza di Nietzsche, dal quale Gaultier rivendica indipendenza storica e filosofica. Il problema gaulteriano è di natura mistica e chiede fondamentalmente ragione circa la legittimità di esternare un atto di coscienza, dove per «legittimità» si deve forse intendere la certezza che un’azione di natura morale, una volta giunta alla soglia della conoscenza, possa realmente conservare la propria originaria natura ed autenticità. Una morale che osservi se stessa, entrando dentro il corso della storia, si ossifica in una precisa eredità che finisce per rientrare nell’educazione. Ciò che poteva apparire come un’esigenza lodevole si trasforma in una via da altri decisa, sulla quale vitalità ed energia naturali smarriranno interamente nerbo. Là dove vi sarà coscienza, dunque, non potremo cercare energia, la cui fonte «risiede altrove». Se non saremo mai testimoni di un impossibile superamento dei limiti rigorosi, all’interno del mondo fisico, il mondo morale ha lo strumento del «bovarismo», che li rimuove artificialmente quanto in maniera immaginosa, col suo peculiare potere di «concepirsi differenti da quel che si è». Questo artifizio è per Gaultier simbolo della disperazione umana, di una lacerazione che trova in Tolstoj un paradigma perfetto: lo scrittore avrebbe sviluppato una forza artistica che non ha retto alla successiva analisi della coscienza. I due periodi esistenziali che caratterizzano generalmente l’uomo — e sopra tutto gli artisti — sono l’energia indifferenziata verso il mondo esterno e l’oggettivazione che, subito imprigionandola, ne devierebbe il corso, depauperandola a suon di suggestioni illusionistiche. La fuoriuscita da questo chiuso campo di forze avrebbe, per Gaultier, una sola conseguenza logica: il «disinteresse verso la personalità individuale».
Nell’ultima parte del primo capitolo la Gonzi s’addentra maggiormente nel significato filosofico del «bovarismo» gaulteriano, senza tuttavia abbandonare i riferimenti letterari del pensatore. Si ricava l’idea che Flaubert, quale punto di riferimento imprescindibile per cogliere la nozione, non l’esaurisca. Come più sopra si accennava, quella tendenza naturale e non del tutto consapevole dei personaggi flaubertiani viene scoperta quale struttura di base della conoscenza del mondo, dell’oggetto in genere. E il perno teoretico fondamentale, per Gaultier, coincide con la sua stessa denuncia dell’illusione per la quale il pensiero precede l’esperienza, invece di assoggettarvisi. Si tratta di un morbo, né più né meno, che Flaubert ha il merito di aver scoperto: «Il bovarismo si configura, così, come una malattia il cui germe è, sì, insito nel fenomeno umano generale, ma che si esplica in modo specifico nelle società fornite di più alto bagaglio culturale e civile: sembra, quasi — conclude la Gonzi — il tarlo nascosto delle società più avanzate o, comunque, ne è il contrassegno caratterizzante» (p. 57). Nel far propria un’eredità, infatti, è implicito il pericolo di agire per «imitazione», vale a dire di costituire una duplicità tanto poco originaria e autentica quanto non più rimovibile all’interno della personalità umana. Gaultier approfondirà la «normale fisiologia del meccanismo bovaristico, fino a fare di questa tara una legge essenziale delle specie umana» (p. 60), come suggerisce la Gonzi. Il «misconoscimento» delle tendenze originarie, delle energie primitive, porterà l’uomo al fallimento del suo stesso progetto di imitazione, poiché i suoi “passi”, sotto il profilo fisico, non sono in grado di seguire le orme di pensieri meramente dettati dal mondo esterno e imposti alla sua persona. Solo obbedendo a questa suggestione gli individui, in special modo quelli deboli, evitano di essere ciò che per loro natura sarebbero, un nulla. Nell’analisi dei personaggi flaubertiani, che la Gonzi riporta con estrema precisione, Gaultier sospetta sino alla certezza che dolori e suicidi siano nient’altro che «vendette della vita nei confronti della menzogna» (p. 66). Così, poiché il «bovarismo» incide su tutti i lati della vita umana, esso ha molteplici impronte e nomi, per Gaultier: vi è un «bovarismo intellettuale», un «bovarismo della volontà», un «bovarismo del sapere», un «bovarismo politico» e via dicendo. Tulle le idee che alimentano i diversi generi di «bovarismo» altro non sono che idoli, un illecito baratto tra cose e parole. La verità assoluta è un puro mistero e l’immaginazione di un al di là è quella suggestione che nasce dal pungolo di un male che offusca pensiero ed immaginazione. Non vi è posto per un autentico destino, o per la vocazione vera. Destino e vocazione sono soltanto simulacri, per l’uomo, finché lo suggestioni il mondo esterno e la coscienza del proprio ruolo in esso stabilito dalla cosiddetta cultura. Quest’ultima, tuttavia, è solo una conseguenza ingrandita di un meccanismo effettivo studiato da Gaultier con acribia filosofica: si tratta della dicotomia tra «istinto vitale» e «istinto di conoscenza», il quale ultimo è visto come un istanza nichilista, una minaccia alla vita. Secondo una linea niciana, ma con peculiari elaborazioni, Gaultier prospetta che l’«istinto di conoscenza» entri in scena allorché l’«istinto vitale» subisca una fase decadente. L’epoca della debolezza si indirizza alla conoscenza. Tra i filosofi dell’«istinto vitale», coloro che ribadiscono l’inarrestabile illusione del mondo per garantirne la sopravvivenza stessa, Gaultier annovera Platone. La conoscenza, impotente di fatto nella creazione dell’essere, inventa, suggestionata da se stessa, ulteriori piani dell’essere. Aristotele, poi, non farà altro che istituire ufficialmente la dottrina delle illusioni. I dogmi della teologia razionale saranno un semplice retaggio di un’impostazione sbagliata a priori, una finzione che mette «al servizio della vita» (p. 83) strumenti della conoscenza «dopo averli deformati». La «mitologia razionalista», non fa che sostituire al termine «Dio» il termine «ragione», stirnerianamente, e confermare la menzogna. Ogni oggettivazione, d’altronde, è per Gaultier un’esigenza illecita di «deificare», un attributo di assolutezza imposto su di una realtà prettamente ed evidentemente relativa. Tutto ciò fa parte, come rammenta la Gonzi, delle svariate «seduzioni assolutistiche» cui l’uomo soggiace (p. 87). Non che Gaultier misconosca il valore — non soltanto in termini di sopravvivenza — delle morali nate dalla finzione bovaristica, egli è consapevole della loro intrinseca necessità sociale (Palante ricorderà un «uso empirico» positivo del bovarismo, p. 123). Esse, seguendo le orme della finzione teologica, unificano attraverso il processo del pensiero tutto ciò che in natura non è unificabile, dacché la natura è costitutivamente differenziante. Come stabilire altrimenti un tessuto di valori comune o, se si voglia, diverso di popolo in popolo, se non unificando i frammenti di una realtà differenziata? Solo con l’illusione essi potranno essere radunati su di un comune «piano di coesistenza» (p. 105). Quello descritto è l’apparato teoretico cui poggia la teoria dell’evoluzione di Gaultier. L’evoluzione risulta essere, dunque, un continuo sforzo di mantenimento culturale dello status quo, un arresto di natura immobilistica posto a bastione contro il pericolo di un altrettanto continuo mutamento perfettamente fisiologico di tutta la realtà naturale e antropologica. Dentro questo quadro Alice Gonzi analizza il «determinismo della forza», l’«affermazione delle leggi di costanza», il «bovarismo metafisico», un bovarismo, quest’ultimo, secondo il quale, per usare l’espressione gaulteriana, «ogni attività che ha coscienza di sé e della propria azione si concepisce necessariamente altra rispetto a quello che è». Secondo questa prospettiva, la metafisica conduce imprescindibilmente al nichilismo, perché è una segreta «aspirazione al niente» (p. 115).
La Gonzi offre un interessante confronto tra l’idealismo di Berkeley e quello di Jules de Gaultier, ponendo in rilievo, sotto il profilo gnoseologico, le implicazioni di idealismo e bovarismo gaulteriani, sullo sfondo dei quali si situa e si comprende anche la nozione di «contemplazione spettacolare». Dopo aver adeguatamente preparato il campo, la Gonzi affronta, in una più stretta sintesi della teoria della conoscenza gaulteriana, il ruolo della filosofia per il pensatore, che si configura come «puro idealismo», un «monismo del pensiero» dove la posizione agnostica primeggia, legittimamente, sulle posizioni assolute delle illusioni conoscitive. Quindi si passa alla prospettiva gaulteriana sulla scienza e sulla storia, all’insegna di un onesto e consapevole relativismo, sia pure con il riconoscimento di talune posizioni che individuino la costanza in base alla «persistenza» di fenomeni e ritmi di pensiero adeguatamente certificabili (p. 158). Si affronterà la critica gaultieriana al principio di identità e ai suoi sostenitori, in primis Hegel. Cultura e storia, inoltre, devono essere al servizio della vita — secondo l’insegnamento niciano — e appartenere, dunque, ad un «sistema vivo» (p. 168). Nessuna delle due, tuttavia, risparmierà l’uomo da quella «trasposizione» illusionistica e da quell’«istinto di finalità» che Gaultier registra in ogni genere di «messianismo», metafisico così come religioso. La conoscenza, di per sé, non dovrebbe avere altro fine che la contemplazione. La Gonzi esplora a fondo il ruolo della percezione, della sensazione, della vista e dell’intelligenza nella filosofia di de Gaultier. L’evoluzione si indirizza per lui verso una reductio ad unum che sopravanza illegittimamente, e tuttavia istintivamente, le dette facoltà per conservare se stessa. «Vedere il reale», per contro, è la vera consistenza della felicità, una filosofia scientifica, rigorosa e un’arte nel contempo (p. 178). L’optique de l’artiste è tale presa di coscienza, ma anche il misticismo obbedisce, per Gaultier, ad un’accettazione del mondo visto «alla luce della perfezione» e non reinventato nella distorta creazione di valori, secondo quanto sostenuto anche da Nietzsche. La contemplazione pura del mondo è, in quest’ottica, l’autentica «redenzione del mondo» insegnata dal Cristo. Gesù rompe con la morale.
Negli ultimi due capitoli, il V e il VI, la Gonzi approfondisce ulteriormente i rapporti di Gaultier con la filosofia più eminente, da Spinoza a Kant, da Hegel a Schopenhauer, senza trascurare precisi richiami alle filosofie orientali e, cionondimeno, i dissensi gaulteriani con gli esiti schopehnaueriani. Per ovvi motivi, la sezione più estesa è dedicata a Nietzsche e all’interpretazione critica che ne offre Gaultier (pp. 206-225), alla fine della quale il lettore giungerà ad un altrettanto dettagliato quadro dei rapporti (distanze e vicinanze teoretiche) con Bergson, questione frequentemente dibattuta dalla critica, alla quale la Gonzi aggiunge una consapevolezza più accentuata del «determinismo gaulteriano» e del suo effetto sul supposto rifiuto bergsoniano della realtà per il tramite di un intuizionismo che «sopprime il fatto della conoscenza» (p. 229).
Con il VI capitolo la Gonzi risale sino a René Girard, passando in rassegna i luoghi gaulteriani all’interno di Mensonge romantique et vérité romanesque, l’apprezzamento girardiano della teoria di Gaultier sullo snobismo e il «bovarismo puerile». La studiosa, tuttavia, insiste opportunamente sulla differenza sostanziale tra il bovarismo girardiano e quello gaulteriano, quest’ultimo avendo un’imprescindibile valenza metafisica, contrariamente al primo (p. 233). Inevitabili, dunque, sono i riferimenti a ciò che i due autori intendono per «modello» e per «imitazione». La differenza sostanziale è, forse, la diversa valutazione sulla possibilità di autenticità per l’uomo in cerca del divino: se Girard prospetta una possibile «trascendenza verticale», qualora il desiderio sia di natura rettilinea, e quindi una concretezza ontologica della ricerca religiosa che si situi fuori dagli umani e ipnotizzanti campi di forza, Gaultier vede nell’uomo un irrisolvibile esperimento divino di autoconoscenza fallita, fin dal primo momento in l’Essere si sdoppia per riflettersi nell’attività conoscitiva.
In questo contesto Alice Gonzi fornisce compiutamente gli elementi per intendere la «valenza metafisica» del bovarismo gaultieriano, cui prima si è fatto un breve cenno, in contrasto con quello girardiano. A questo proposito sia sufficiente e paradigmatica l’interpretazione girardiana di Proust, per la quale il «tempo ritrovato» è la ricerca dell’impressione autentica, lo “scavo” archeologico che permette di rimuovere le opinioni altrui stratificate. La possibilità di autenticità — rileva la Gonzi — è invece aspetto problematico in Gaultier. Se per Girard si dà, a condizione che lo si ricerchi, un desiderio «rettilineo» che rompa quello «mimetico», o «triangolare», Gaultier, risolutamente, interpreta il bovarismo alla stregua di un «principio del movimento dell’umanità», un dinamismo, dunque, che anima la storia e l’evoluzione umana. Le sue formule di «bovarismo psicologico» e «bovarismo essenziale dell’umanità» fanno parte di un «meccanismo» generale evolutivo, un processo necessario quanto inevitabile. Quindi Gaultier, come la Gonzi suggerisce, non vede nel bovarismo uno «stato patologico» da cui poter guarire. Là dove Girard, più ottimisticamente, coglie una possibilità di riorientamento, un cambiamento di vettore nell’ambito dei desideri umani, Gaultier nel desiderio stesso scorge riflessa una drammatica volontà di «conoscersi» che, se non soddisfatta, si tradurrebbe in una immobile incoscienza. Ciò è perché l’«Essere primordiale» «deve concepirsi diverso da sé», se debba avere un qualche inizio il principio di indistinzione tra soggetto ed oggetto (p. 233). Che valore avrebbe, stando così le cose, l’«autenticità metafisica»? Essa non farebbe che comportare «la caduta nell’inconsapevolezza» — suggerisce la Gonzi analizzando la prospettiva gaultieriana — dacché i termini della conoscenza, soggetto e oggetto, ssarebbero riuniti nuovamente in unità indistinta. In tal modo, e soltanto sotto un profilo prettamente psicologico, la sola autenticità che possa dimostrare una certa coerenza è «la consapevolezza del carattere fittizio, illusorio e menzognero della vita» (p. 234). Si sarebbe tentati, a questo punto, di pensare che la contemplazione, il carattere del contemplatif, sfuggano alla menzogna; non è così. Persino l’intellettuale, o «uomo estetico», non può sottrarsi al carattere menzognero del teatro esistenziale, perché anche il suo intellectualisme ricade nei «modi» d’essere (si potrebbe aggiungere, per sottolineare le probabili radici mistiche delle valutazioni gaultieriane, che non a caso uomini come S. Giovanni della Croce desideravano «uscire dai modi»). René Girard, per contro, l’uscita dai modi è possibile, anzi necessaria al fine di raggiungere la sola possibile salvezza. E questa è, ricorda la Gonzi, l’affrancamento dal desiderio mimetico-triangolare, che ha reso e rende la terra, per chi non lo fugga, un «paradiso inaccessibile». L’inautenticità girardiana, quindi, è tutta nel tremendo «sottosuolo» del desiderio mimetico che impone i ceppi all’uomo sulla via della risalita «verso la superficie della terra». per Gaultier, invece, la prigione è di natura ontologica: «ciò che autenticamente siamo, è ciò che via via ci illudiamo di essere».
L’esigenza più profonda di Gaultier, insomma, pare più mistica e drammaticamente sincera della stessa elaborazione filosofica che implicitamente la confessa. Il volume della Gonzi, con estrema sensibilità critica e acume teoretico, nonché con grande rigore storico, dà certamente conto di una lacerazione particolarmente attuale e ardua da indagare.