Il Manifesto e la crisi dell’immaginario progressivo dello sviluppo

1. Il Manifesto e il marxismo di Marx

Di “decomposizione del marxismo” aveva già parlato all’inizio del XX secolo Georges Sorel, per il quale, tuttavia, essa sarebbe dovuta diventare la premessa d’un vero e proprio ritorno a Marx, reso possibile dal fervore e dall’effervescenza sociali del sindacalismo rivoluzionario.1 Ma a dire il vero, all’alba del nuovo secolo, l’unico possibile ritorno a Marx — illusorio e rassicurante come ogni asserito ritorno alle origini — è quello della lettura specialistica di un’opera monumentale e pluristratificata, ricca di aporie e tensioni interne, che però senza alcun dubbio deve il suo successo e la sua straordinaria penetrazione di massa non già alle raffinate sottigliezze di cui abbandona, ma all’eccezionale efficacia e all’estrema accessibilità della sua autodivulgazione. L’opera di Marx, infatti, è basata sul singolare amalgama di due elementi complementari: da un lato, una complessa e articolata “teoria scientifica” della società, fornita d’una solida base filosofica di stampo hegeliano, fecondata dalla passione politica d’uno studioso dal multiforme ingegno quale fu Marx, e bisognosa perciò di un’esegesi attenta, alla quale lo specialista rigoroso può senz’altro consacrare un’intera vita; dall’altro, un’esposizione semplice e popolare di questa teoria (di cui il Manifesto è uno degli esempi più efficaci), che saltando a piè pari passaggi ardui e controversi, riesce a suscitare l’appassionata adesione e il ragionato consenso dei lettori militanti.

Un ritorno dell’uno o dell’altro elemento dell’opera di Marx, da rileggere e interpretare come uno dei maggiori classici del pensiero filosofico e politico occidentale — e da liberare dalle sue successive incrostazioni ideologiche e sistematiche —, è senz’altro cosa necessaria e istruttiva, attraverso la quale si potrà render giustizia a un autore che alla fine della sua vita rifiutava, sia pur solo in privato, l’etichetta di marxista. E tuttavia è ben evidente che questo ritorno di Marx come classico del XIX secolo è tutt’altra cosa dal ritorno a Marx — magari proprio a quello del Manifesto — col quale taluni presumono di poter riesumare il modello d’interpretazione deterministica e d’intervento economicistico preconizzato e attuato dallo stesso marxismo e dalla sua catastrofica trasformazione in ortodossia.

Ma nonostante tutta l’attenzione che è giusto prestare alla diversità tra Marx e il marxismo, non si può ignorare il dato di fatto innegabile del rapporto di continuità tra l’opera del maestro e il plurivariegato movimento concreto e per lungo tempo vincente che le ha dato oggettività ed effettualità, attuandola nella pratica storica. Come dice lo stesso Marx nella II Tesi su Feuerbach,

la questione della verità oggettiva del pensiero umano non è una questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà del pensiero — isolato dalla prassi — è una questione meramente scolastica.2

In questo senso, la prassi è l’unico banco di prova e l’unico criterio di verità della teoria in quanto ne costituisce l’oggettivazione che efficacemente la applica e concretamente la realizza. Ed è proprio l’oggettività della prassi storica che ha reso puramente scolastica la disputa sul valore di verità della presunta teoria scientifica formulata dal pensiero di Marx, e lo ha fatto in maniera tanto più persuasiva quanto più efficacemente quel pensiero cedeva all’ambigua ma affascinante semplificazione della previsione e dello slogan. Valga come unico esempio la clamorosa, indiscutibile smentita che il corso storico effettivo ha apportato alle celebri e perentorie conclusioni del primo capitolo del Manifesto:

La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società […] Con lo sviluppo della grande industria, dunque, viene tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria dei suoi prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili.3

Fra le altre cose è qui postulata come necessaria un’articolazione automatica tra cambiamento sociale e incremento delle forze produttive, grazie alla quale si presume d’individuare la legge del movimento storico nella tendenza irresistibile — e naturalmente positiva — allo sviluppo da parte delle forze produttive. In tal modo, in questo come in innumerevoli altri passi, s’intende formulare una previsione esatta degli eventi storici fondata su un’analisi scientifica (vale a dire economica) della società capitalistica. Quest’analisi s’è rivelata globalmente falsa e insostenibile. Di essa però, tutto si può dire, tranne che faccia appello a elementi o motivi insondabili e inverificabili, che solo attraverso rarefatte argomentazioni e ardui ragionamenti potrebbero mostrarne la tenuta contro ogni apparenza. Un tale procedimento, forse legittimo nel caso di un testo sacro, si rivela in questo caso del tutto impraticabile. Per “salvare” la verità del testo, non si può tirare in ballo nessun accesso immediato all’inapparente. Infatti, l’unico banco di prova che l’opera stessa di Marx può accettare, non è certo la fede nella trascendenza, ma il corso degli eventi storici. Ed è proprio quest’ultimo che ha finito per trasformarla in un classico: un classico che forse non sarà marxista — che per certi versi potrà addirittura esser visto da Maximilien Rubel come una vera e propria critica del successivo marxismo4 — ma che, nonostante tutto, non può in alcun modo venir ritenuto estraneo al marxismo come movimento storico-sociale che ne è scaturito e che esso ha contribuito a generare, impregnando di sé un’intera fase storica oggi conclusa.

Insomma, proprio per evitare che la nostra diventi quella che Marx avrebbe chiamato una questione puramente scolastica, non si può separare il pensiero di Marx dal successivo marxismo. Come scriveva Castoriadis ben prima della caduta del muro di Berlino, riassumendo il senso della propria rottura col marxismo maturata negli anni di Socialisme ou Barbarie,5

se il marxismo è vero, allora secondo i suoi criteri, la sua verità storica effettiva si trova nella pratica storica che ha effettivamente animato — cioè, in fin dei conti, nella burocrazia russa e cinese […]. E se non s’ammette questa conclusione, allora bisogna rifiutarne la premessa, e accettare che il marxismo è solo un sistema d’idee tra gli altri. Sospendere, dinanzi all’opera di Marx come pensatore, il giudizio della storia effettiva, significa anzitutto trattare Marx da puro pensatore, ossia considerarlo proprio come ciò che non ha voluto essere […]. E non c’è forse, a guardar le cose da presso, un’arroganza senza limiti nel pretendere di salvare Marx da se stesso?6

Marx non è stato soltanto uno dei grandi pensatori della tradizione occidentale. È stato soprattutto l’ispiratore d’un movimento storico-politico che ha trovato nel suo pensiero il punto di partenza e la guida. Questo movimento lo ha trasformato in fondatore d’una dottrina e in punto di riferimento d’una ortodossia che i differenti gruppi di seguaci si sono reciprocamente negata. Tutto ciò ha reso il destino di Marx diverso da quello di un Kant o di uno Hegel, giacché da una parte, seguaci di Marx non sono stati soltanto degli studiosi, ma un numero sterminato di militanti, e giacché d’altra parte, in nome d’una maggiore o minore fedeltà alla presunta ortodossia marxista, venivano modificati in maniera molto concreta e sensibile i destini esistenziali dei seguaci, semplici militanti o sottili studiosi che fossero.

Tutto questo scenario oggi ha quasi esclusivamente un interesse storico. Il che significa che la storia stessa s’è incaricata di ridurre Marx al rango d’eminente pensatore e teorico (e non di ispiratore d’un movimento storico efficace, che s’incarica di mettere alla prova la verità della sua teoria). È tuttavia innegabile, come sostiene Claude Lefort, che, rispetto ai suoi epigoni marxisti, i quali possiedono “la definizione del modo di produzione, delle classi sociali, dell’ideologia, dei rapporti tra struttura e sovrastruttura” e via salmodiando, il caso di Marx che scrive la sua opera è ben diverso: per lui

il significato di questi concetti […] non è che la posta in gioco dell’interrogazione e del lavoro d’interpretazione. Questo significato da un libro all’altro o nell’ambito d’un solo libro — soprattutto nel più importante, Il capitale — si sposta; l’argomento non evita d’esporsi alla sua smentita; le digressioni imposte dall’esame di nuovi fenomeni reintroducono un’ambiguità che si riteneva dissipata… Per esempio, la nozione di modo di produzione è scossa dall’analisi del dispotismo orientale; l’immagine di un’unica storia retta dallo sviluppo delle forze produttive si sfalda al delinearsi di quella d’una rottura tra il capitalismo moderno e l’insieme delle forme precapitalistiche; l’idea del raggiungimento definitivo d’una trasparenza dei rapporti sociali nel mondo borghese è messa in crisi dalla descrizione dell’«universo stregato» del capitalismo.7

Sennonché, quest’impossibilità di ridurre l’opera di pensiero alle tesi che vi si affermano e vi si espongono, viene meno proprio nel caso del Manifesto, in virtù anzitutto dell’indiscussa e indiscutibile certezza scientifica della rivoluzione futura, in virtù inoltre della convinzione che questo esito necessario dischiuda il senso ultimo dell’avventura umana, in virtù infine della concezione del comunismo come risultato “naturale” d’uno sviluppo storico unitario. Beninteso, dicendo ciò in modo particolare, ma certo non esclusivo, a proposito del Manifesto, non si tratta affatto di “contrapporre un lato buono e un lato cattivo della dottrina” — una simile opposizione, infatti, sarebbe ancora tutta interna al dibattito propriamente marxista — ma si tratta invece di riconoscere che in molti casi Marx è assai più preoccupato d’attingere un sapere invulnerabile che di durar la prova del dubbio, dell’interrogazione e del pensiero. Nel Manifesto, scrive ancora Lefort, “si direbbe che Marx rinunci a pensare” e scelga di “limitarsi a designare le cose stesse e il corso della storia, i quali aspetterebbero solo d’esser nominati”. Abbandonando la settoriale parzialità del pensiero o dell’interrogazione filosofica, Marx s’insedia nel cuore della realtà per esporla e mostrarla così come essa stessa è, cioè così come si dà a vedere nell’intrinseca eloquenza della sua oggettività. Dotato d’una forza retorica e quasi illusionistica non comune, l’affresco del Manifesto avvince e ammalia, ma a dire il vero — come conclude Lefort — “invano vi si cercherebbe qualcosa di diverso dai segni d’uno stile e di un’epoca”.8

In tal modo è la stessa opera di Marx a porre le premesse del marxismo, nel quale rivive la pretesa ontologica del pensiero speculativo, cioè quella d’attingere il fondo stesso della realtà, quel livello in cui il reale, il dato di fatto, l’essere stesso non viene più interpretato o detto da un punto di vista determinato, ma si mostra da se stesso o si esibisce da solo nell’assoluta trasparenza della sua originaria verità, o di ciò che si presume sia tale. In questo Marx condivide e conferma il privilegio del teoretico-speculativo proprio dell’ontologia classica, al cui centro campeggia la tesi dell’accessibilità immediata dell’originario alla trasparenza della conoscenza filosofico-scientifica. Dal momento che poi nell’arché è già presente il telos, sia pure solo in forma potenziale, dall’accessibilità immediata dell’originario discende come sua inevitabile conseguenza l’approccio diretto e privilegiato, da parte della teoria e dei suoi garanti autorizzati, al senso ultimo del processo storico e al suo predeterminato traguardo consistente nello sviluppo delle proprie premesse, cioè nell’attualizzazione di potenzialità presenti fin dall’inizio.

Non basta, dunque, mostrare l’esistenza d’una contraddizione insolubile tra la specificità dell’opera di Marx — irriducibile a quella d’un puro pensatore — e l’aspirazione dei suoi adepti o apologeti, che sostituendo “la rivoluzione con la rivelazione e la riflessione sui fatti con l’esegesi dei testi”,9 pretendono di ripristinare la verità originaria della dottrina del maestro, sottraendola al destino e alla deriva delle sue contrastanti attualizzazioni. In altri termini, soprattutto all’indomani della caduta del comunismo e del marxismo-leninismo che ne è stato l’ideolgia, limitarsi a questo argomento significherebbe dare per scontata, e quindi implicitamente convalidare, l’idea d’una necessità razionale del corso storico quale ratifica ultima delle verità teoriche. Quest’idea, che Marx mutua da Hegel, trova la sua espressione privilegiata nella nota sentenza di Schiller ripresa nei Lineamenti di filosofia del diritto, secondo cui la storia del mondo è il giudizio universale, die Weltgeschichte ist das Weltgericht. Essa significa che il corso degli eventi è, nella sua effettualità necessaria, l’unico banco di prova della ragione, l’unica ratifica dei suoi successi e del suo progresso. Il dato di fatto della riuscita storica risulta così il solo criterio di giudizio valido, in quanto oggettivo ed efficace. Ad esso si subordina l’analisi e il significato d’ogni evento.

Certo, questo era il nucleo del pensiero di Marx. Ora, non basta dire che l’applicazione storica di quel pensiero è fallita. Bisogna metterne in discussione ed esaminarne l’intrinseca pretesa filosofica. Certo non è questa la sede per procedere a un’analisi accurata dei presupposti speculativi e ideologici alla base della concezione hegelo-marxiana della storia del mondo come giudizio universale. In essa ben si compendia l’immaginario progressivo della filosofia della storia ottocentesca, e il suo radicamento nel mondo di significati e valori del capitalismo nascente. È proprio nel carattere implicito e scontato della “verità” di quest’idea, nell’alone d’immediato consenso che suscita l’ottimismo “scientifico” (con tutto un immaginario della “dimostrabilità” delle proprie pretese) soggiacente alla sua propagazione e diffusione, che bisogna individuare uno dei punti nevralgici del successo e della tenuta del marxismo, una delle ragioni della sua enorme attrazione e del suo crescente fascino esercitato per più d’un secolo su milioni di militanti.

La conseguenza decisiva di tutto ciò ai fini del nostro discorso è che il determinismo economicistico e la filosofia della storia del Manifesto non vanno criticati e abbandonati solo in virtù del fallimento della pratica storica che hanno animato. La storia degli effetti non è un argomento né sufficiente né intrinsecamente valido per confutare una dottrina. Anzi, è proprio la riduzione del criterio di verità e di giudizio al successo storico e alla forza delle cose che dev’esser rimessa in discussione e interrogata nei suoi presupposti e nelle sue implicazioni. Insomma proprio perché — contro il privilegio razionalistico d’origine hegeliana dell’effettualità compiuta — si può aver ragione anche senza aver avuto successo (in quanto è solo nell’immaginario che la realtà, corrispondendo compiutamente alla realizzazione immediata del desiderio, dischiude un’intrinseca coincidenza di fatto e significato o valore), proprio perché non è necessariamente la victrix causa ad essere o esser stata la migliore, ebbene proprio per questo bisogna interrogare la verità e il senso delle implicazioni del pensiero di Marx indipendentemente dalla loro efficacia storica.

2. Il fantasma della teoria scientifica

Checché ne sia del rapporto tra il pensiero di Marx e la storia dei suoi effetti, l’eventuale ennesima lettura più fedele e più autentica delle fonti, lungi dal porre rimedio alla crisi del marxismo (che eccede di gran lunga la querelle tra gl’interpreti, e che perciò sarebbe risibile presumere di risolvere sul piano d’una migliore o diversa o più aggiornata lettura dei testi), avrebbe bensì un effetto rassicurante, ma finirebbe precisamente con l’eludere il compito e la responsabilità di pensare quella realtà concreta, di cui facciamo esperienza oggi.

Ciò che più ci allontana da Marx e dal suo tempo è infatti la crisi della pretesa conoscitiva della ragione universale, che non può più spacciarsi per una struttura logica intemporale e necessaria in virtù della quale ci sarebbe garantito l’accesso immediato all’origine del vero, ma che ci appare — anche grazie a una parte dell’insegnamento di Marx — solo come una delle forme concrete dell’esistenza umana, il cui tratto dominante, per citare un’efficace formula di Gargani, è stata la persistente e favorita attrazione nei confronti della referenza.10 Quest’amore, questa ossessione per la referenza è la pretesa di poter dedurre i significati capaci di mobilitare e organizzare la vita umana da un fondamento oggettivo, inteso come stabile struttura della realtà data. Il privilegio marxiano della prassi non è che la pretesa di mostrare o esibire nell’oggettivazione storica e nell’applicazione tecnica quella verità ultima del reale che solo la razionalità dell’autentica teoria scientifica dovrebbe esser capace d’attingere in maniera indiscutibile e assoluta. Presupposto d’una simile capacità della teoria scientifica, è ovviamente la coincidenza scontata tra ordine della realtà e ordine del senso o significato, posta come premessa originaria e traguardo finale del processo storico. Ben se ne capisce la grande funzione rassicurante, capace di fornire un riscontro oggettivo alla più profonda aspirazione della psiche: quella di ritrovare un parallelismo armonico tra il desiderio e la sua realizzazione, cioè tra l’esigenza d’un riscontro ultimo del significato e il suo soddisfacimento. Infatti, che l’ordine del senso possa trovare un aggancio esterno in uno strato irriducibile di realtà oggettivamente data, permette di fondare l’ambito della conoscenza, della verità e dei desideri sulla determinatezza del reale, sulla sua intrinseca permeabilità al senso, sulla sua trasparente esibizione scientifica. Il compito decisivo della prassi — concepita come tecnica dell’oggettivazione o messa in opera — sarà allora quello di dare consistenza storica e visibilità alla struttura originaria di senso che la teoria scopre al fondo dei processi reali.

I soggetti storici — cioè le classi sociali — sono dunque determinati ad agire indipendentemente dalle proprie soggettive rappresentazioni ed emozioni: infatti ciò che determina e addirittura costringe all’azione non è altro che il venir a galla dell’originaria struttura del reale, della sua invincibile tendenza allo sviluppo, così come essa viene scoperta e scientificamente disvelata dall’economia politica. Come si evince nell’analisi dell’origine della società capitalistica riassunta nel Manifesto, quando i rapporti feudali di proprietà non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate, finì che essi “inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate”.11

Quelle stesse ragioni che inducono Marx a celebrare appassionatamente i meriti storici della borghesia, sono alla base delle critiche radicali alla sua limitatezza e parzialità. La borghesia è osannata e denigrata relativamente al suo ruolo rispetto allo sviluppo delle forze produttive. In una prima fase la borghesia lo favorisce, in una seconda lo ostacola e ne viene perciò a buon diritto schiacciata.

Sarà dunque ancora una volta l’unica e medesima logica dello sviluppo delle forze produttive che presiede alle trasformazioni sociali a orientar le prime verso la rivoluzione proletaria e l’instaurazione del comunismo. Ciò accadrà quando i rapporti borghesi della proprietà si troveranno nelle medesime condizioni in cui si trovarono i rapporti feudali: e cioè non corrisponderanno più “alle forze produttive ormai sviluppate”, perché saranno divenuti “troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta […] A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa”.12

Da questo schema concettuale discende in modo particolare una fiducia ottimistica assoluta nel carattere razionale e progressivo dello sviluppo delle forze produttive, la cui espansione — che si presume scientificamente analizzabile e prevedibile grazie all’economia politica — condurrà inevitabilmente al crollo del capitalismo. Come si legge nel Capitale, “il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili con il loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati”.13 In questo processo che lo stesso Marx paragona a un processo di storia naturale,14 vige un rigido determinismo. Il quale, però, non solo non va disgiunto, ma fa corpo con l’attribuzione d’un ruolo decisivo alla teoria scientifica. Quest’ultima infatti non dev’essere intesa come l’espressione d’un punto di vista soggettivo, arbitrario e opinabile. In essa invece si realizza una vera e propria Darstellung, una presentazione o esibizione del reale, di contro a ogni soggettivistica e relativistica Vorstellung.15 Ecco perché — si legge nel Manifesto — “le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su principi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Essi sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di un’esistente lotta di classi”.16 Com’è noto, Marx aveva già scritto in un passo famoso de La Sacra Famiglia a proposito dell’attività rivoluzionaria del proletariato, che “non si tratta di sapere che cosa questo o quel proletario, o anche il proletariato tutto intero, si propone temporaneamente come meta. Si tratta di sapere che cosa esso è e che cosa sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo suo essere”.17 Questo sapere che va oltre l’apparenza dell’immediato per cogliere la struttura ontologica del processo storico in atto, non è specifica competenza né dei proletari né dei militanti come tali. Questo sapere è esattamente ciò che può esclusivamente attingere la teoria scientifica dello sviluppo storico: teoria che può e deve orientare la militanza a partire dal proprio accesso diretto all’essenza originaria del processo reale.

Che questa fiducia nelle capacità scientifiche di conoscere anticipatamente il senso intrinsecamente progressivo dello sviluppo storico, prevedendone ottimisticamente l’esito conclusivo, ci sia divenuta del tutto estranea, è il men che si possa dire. Senza dilungarci sul carattere illusorio d’una simile fiducia — al quale tuttavia non può ridursi il pluridecennale successo del totalitarismo comunista nel secolo XX18 —, limitiamoci a osservare con Pietro Barcellona che “con questo crollo del significato sociale dell’ottimismo progressivo si rifiuta di fare i conti chi continua a chiedersi come mai cresca lo scarto tra l’innovazione tecnologica, il progresso scientifico e le condizioni della vita quotidiana”.19 Ciò che ha perso affidabilità è la connessione automatica tra l’incremento delle forze produttive e il progresso, tra lo sviluppo economico e il benessere civile. Per citare ancora Barcellona, “c’è una perdita di credibilità dell’idea di progresso, cioè dell’idea che ci si possa affidare puramente e semplicemente a meccanismi automatici che garantiscono l’evoluzione progressiva delle società umane verso livelli sempre più alti di civilizzazione”.20 Piuttosto che verso un progresso sempre maggiore della razionalità e dello sviluppo, la società contemporanea sembra orientata verso quella mediocrità generale che, secondo un’acuta osservazione di Berman, “è forse l’unica cosa che Marx non riesce assolutamente a concepire”.21

3. L’immaginario progressivo dello sviluppo

Il marxismo del Manifesto si presenta anzitutto come la continuazione o per così dire il passaggio al limite dell’immaginario della modernità, in cui convivono e in fondo collidono e confliggono due istanze, ciascuna a suo modo emancipatrice e rivoluzionaria: l’una s’incarna nel progetto di emancipazione politica e democratica; l’altra nel progetto d’un illimitato controllo e dominio tecnico e razionale della natura e del mondo. Le due cose non coincidono, ed è falso ritenere che il processo di industrializzazione e modernizzazione realizzato dal capitalismo implichi necessariamente la diffusione del progetto e dei significati della democrazia. Ora, il marxismo in quanto movimento politico di emancipazione e di lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali è stato a lungo il solo movimento storico influente che sembrava opporsi al capitalismo, metropolitano o coloniale che fosse. Ma tale opposizione non era che un aspetto della sua profonda adesione ai significati immaginari e ai valori sociali preconizzati e realizzati dal capitalismo stesso, ai quali quest’ultimo alla lunga si sarebbe dovuto rivelare incapace di garantire efficace realizzazione storica, partorendo dal suo seno una nuova formazione sociale. Infatti il risultato quasi spontaneo, ancorché solo faticosamente raggiungibile, d’un processo di complicazione e crisi dei rapporti sociali di tipo capitalistico evoluto, sarebbe dovuto risultare l’avvento della società comunista.

Il motore del processo storico e del suo esito rivoluzionario sono dunque, perlomeno in termini marxisti, le forze produttive della società. La lotta di classe non è che un riflesso di queste ultime e della logica del loro sviluppo, il cui compimento naturale implica come sua conseguenza immediata lo scioglimento delle contraddizioni sociali.

Ma questo non è che lo scenario immaginario che avrebbe dovuto far da sfondo alla realizzazione storica della rivoluzione proletaria come esito conclusivo dello sviluppo capitalistico. Il marxismo ha avuto un’enorme forza di persuasione e d’attrazione grazie a questo sfondo condiviso d’un immaginario progressivo dello sviluppo, considerato come un processo naturale di accumulazione inevitabile. Questo è il punto di maggiore solidarietà fra l’immaginario capitalista della modernità e quello solo apparentemente antagonista del marxismo. In entrambi i casi agiva il fascino irresistibile d’una visione unitaria della realtà naturale e storica, nella quale lo sviluppo crescente dell’economia e della tecnica avrebbe sempre più efficacemente soddisfatto i bisogni degl’individui e realizzato il progresso.

Nonostante il carattere meramente strumentale dello sviluppo, come scrive Castoriadis in uno dei suoi ultimi testi, “l’ideologia capitalistica ha tuttavia, nei suoi momenti più filantropici, la pretesa di affermare uno scopo della «razionalità», che sarebbe il «benessere». Ma la sua specificità è data dal fatto che essa identifica questo benessere con un massimo — o con un ottimo — di tipo economico”.22 Il marxismo non se ne discosta quanto all’apprezzamento del benessere come obiettivo dello sviluppo, ma quanto alla convinzione che il capitalismo non sia in grado di realizzare ciò che promette, pur fornendone tutte le premesse.

La ragione del grande successo, presso generazioni di militanti anticapitalisti, dell’immaginario dello sviluppo e del benessere è stata la sua capacità di fornire appagamento immediato a una delle più profonde aspirazioni individuali e collettive, quella di poter esibire — innanzitutto a se stessi — la realizzazione compiuta e garantita d’una grande speranza storica: realizzazione compiuta nel processo reale tendente verso la società senza classi, realizzazione garantita dalla forza effettualmente vincente di questo stesso processo. Nei lunghi anni di ciò che con sublime espressione L.Breznev definì una volta “socialismo realmente esistente”, la forza delle cose era indiscutibilmente dalla parte dell’applicazione autorizzata della teoria. E l’attrazione della forza vincente risulta — com’è noto — irresistibile.

L’autentica unicità di Marx non consiste nell’esser stato uno dei massimi pensatori politici della modernità, ma nell’aver svolto un ruolo decisivo e incomparabile nell’effettualità del processo storico in virtù dell’efficacia applicativa della sua opera. La sua unicità è data dunque dalla strettissima continuità tra questi due momenti, dalla loro intrinseca solidarietà: una geniale opera di pensiero e un’altrettanto geniale opera di produzione di dogmi, ortodossie (inevitabilmente al plurale) e fanatismo. Si può quindi concludere con Castoriadis che

le riserve più forti, le critiche più radicali rivolte a Marx non annullano la sua importanza di pensatore né la grandezza del suo sforzo. Si rifletterà ancora su Marx quando si cercheranno a fatica i nomi dei vari von Hayek e Friedmann nelle enciclopedie. Ma non è per effetto di quest’opera che Marx ha svolto il suo ruolo enorme nella Storia effettiva. Marx sarebbe stato soltanto un altro Hobbes, Montesquieu o Tocqueville se dai suoi scritti non si fosse riusciti a ricavare un dogma, e se quegli scritti non vi si fossero prestati.23

Nel caso del Manifesto, ciò è in particolar modo visibile nella celebrazione della centralità della tecnica, della produzione e dell’economia come motori trainanti del processo storico emancipatore, che assicurano un progresso automatico della storia, al quale viene di fatto subordinata la stessa attività rivoluzionaria. La grande idea politica centro del movimento emancipatore e democratico degli operai inglesi nei primi decenni dell’Ottocento, l’idea d’un autogoverno dei produttori, invece di mantenere la sua carica eversiva rispetto all’andamento storico del capitalismo nascente, viene ritenuta realizzabile solo da un’evoluzione compiuta delle potenzialità tecniche presenti nel capitalismo stesso. Anzi, è l’insieme stesso della storia dell’umanità che viene interpretato — in linea con lo spirito del capitalismo — come un risultato dell’evoluzione delle forze produttive. La libertà futura è fondata sulla teleologia del processo, e sul carattere immaginario della sua natura progressiva.

Ne consegue come risultato paradossale che dall’analisi marxista è esclusa la rilevanza e il riconoscimento della portata decisiva dell’attività umana che è alla base del processo storico. Questo diniego è evidente proprio nella maniera con cui l’inizio del Manifesto presenta e concepisce la lotta di classe come motore per dir così naturale della storia. Indipendentemente dal banco di prova rappresentato dal corso degli eventi, questo modo di considerare il processo storico come frutto d’una logica inderogabile di rapporti di forza è una fantasia d’onnipotenza nella quale si manifesta una delle componenti più caratteristiche dell’immaginario capitalistico della modernità. Come scriveva Claude Lefort in un testo dedicato all’inizio degli anni Cinquanta a riscattare l’esperienza proletaria dalla sua subordinazione alla teoria scientifica, il marxismo

converte la teoria della lotta di classe in una scienza puramente economica, pretende di stabilire leggi a immagine e somiglianza delle leggi della fisica classica, effettua una deduzione della sovrastruttura e inserisce in questo capitolo, tra i fenomeni propriamente ideologici, lo stesso comportamento delle classi. Il proletariato e la borghesia, si dice, non sono che «personificazioni di categorie economiche» — l’espressione si trova nel Capitale —, il primo espressione del lavoro salariato, la seconda del capitale. La loro lotta dunque non è se non il riflesso d’un conflitto obiettivo, quello che si produce in alcuni periodi determinati tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione esistenti. Giacché questo conflitto è a sua volta il risultato dello sviluppo delle forze produttive, la storia nella sua essenza viene a ridursi a questo sviluppo, trasformandosi insensibilmente in un episodio particolare dell’evoluzione della natura.24

4. Il Manifesto e la crisi politica del moderno

In conclusione, a centocinquant’anni dalla sua pubblicazione, dopo il fallimento delle realizzazioni storiche che avrebbero dovuto convalidarne le argomentazioni e le anslisi, che cos’è per noi il Manifesto dei partito comunista? Il testo di Marx ed Engels ci appare come uno dei documenti più significativi dell’immaginario capitalistico della modernità, nella sua entusiastica celebrazione della fluidificazione frenetica degli antichi legami vigenti in un mondo chiuso e della forza inarrestabile e irresistibile dell’avanzata del progresso. D’un progresso, beninteso, di cui la borghesia non è che il provvisorio protagonista, destinato a esser sostituito dal proletariato, il cui avvento permetterà il pieno e radicale sviluppo di tutte le potenzialità dell’essere umano.

La borghesia — come recita con entusiasmo quasi ansimante una delle più note pagine del Manifesto — non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.25

Tutto questo processo trova il suo senso — la sua direzione e il suo significato — nelle logica stringente ed eloquente dello sviluppo economico come sviluppo delle forze produttive, cioè come espansione e realizzazione di quelle forze che producono e riproducono le condizioni reali della vita umana. Ed è proprio il carattere scontato e indiscutibile d’una simile logica dello sviluppo a costituire il punto di contatto del testo con l’immaginario progressista della modernità capitalistica, che esso vede penetrare l’intero globo terrestre, e di cui costituisce l’incantata celebrazione. Certo, questa celebrazione è finalizzata all’asserito autosuperamento del regime capitalistico, ritenuto incapace di garantire adeguata espansione alle forze produttive che lo sorreggono e che in definitiva dovrebbero condurlo a esplosione. Ma è pur sempre l’ambito del lavoro produttivo — del suo inesorabile sviluppo naturale — a esser la sorgente ultima del senso.

La modernità appare qui caratterizzata dalla esaltazione del Mutamento, che spazza via le tradizionali stabilità, e che annulla ogni assoluto. O meglio che rende gli assoluti — religiosi o filosofici, etici o estetici — non più collettivi ma privati. In questa esperienza di cui il XX secolo ha conosciuto la diffusione e l’espansione planetarie, v’è un grave pericolo messo in luce e denunciato con grande lucidità e altrettante sobrietà e misura da Octavio Paz all’inizio degli anni ’90:

Non possiamo sapere se le tensioni e i conflitti prodotti da questa privatizzazione delle idee, delle pratiche e delle credenze che tradizionalmente appartenevano alla vita pubblica, non finiranno per incrinare la struttura della società Gli uomini potrebbero venire nuovamente posseduti dagli antichi furori religiosi e dai fanatismi nazionalisti.26

Analoghe preoccupazioni aveva già espresse alla fine degli anni ’50 Hannah Arendt, segnalando che il trionfo ottenuto dal mondo moderno sulla necessità appare dovuto all’emancipazione del lavoro, “al fatto, cioè, che l’animal laborans [sia] stato messo nella condizione di occupare la sfera pubblica; e tuttavia, per tutto il tempo che l’animal laborans ne rimane in possesso, non può esistere una vera sfera pubblica, ma solo attività private esibite apertamente”.27 La modernità, insomma, malgrado l’esaltazione del lavoro, o forse proprio per questo, culmina “nella più mortale e più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto”.28

Come comprendere questo strano rapporto tra il trionfo dell’animal laborans e l’espropriazione della capacità di agire che subisce la maggioranza degli individui moderni? La crisi dell’immaginario della modernità nasce dal fatto che essa affida al lavoro produttivo e alla sua celebrata efficacia un compito paradossale e in definitiva impossibile: quello di produrre senso. Ma l’unica cosa che il lavoro produttivo può produrre è il funzionamento meccanico e automatico della società, il suo approvvigionamento, la sua ripetitiva riproduzione. L’ordine originale del senso, l’ambito dei significati eccede la funzionalità e la validità, eccede la logica dello sviluppo misurabile a cui soggiace la regolarità strumentale del lavoro produttivo. Si tratta cioè d’un ordine che oltrepassa indefinitamente il mero soddisfacimento dei bisogni funzionali alla sopravvivenza: ma sarebbe miope credere che una qualunque società possa funzionare senza tenerne conto.

L’ordine della cultura non deriva quindi dall’ordine della realtà determinabile e misurabile. L’ordine simbolico e l’ordine reale sono entrambi indeterminati e nel loro scarto riluce la non coincidenza con sé del sociale, la sua storicità. Quest’ultima “è sostenuta da tutto un sistema di significazioni immaginarie che valorizzano e svalutano, strutturano e gerarchizzano un insieme incrociato di oggetti e di mancanze corrispondenti”; in esso si può “riconoscere quella cosa tanto incerta quanto incontestabile che è l’orientamento di una società”.29

Il punto è che questa dimensione decisiva ma immateriale e impalpabile non può essere il risultato del livello di complicazione e crisi dei rapporti di produzione. Non è la posta in gioco d’una relazione economica ma d’un legame politico, attraverso il quale le donne e gli uomini agiscono di concerto entro condizioni date. La loro attività collettiva è politica poiché è la fonte dell’istituzione globale della società, e non può esser concepita secondo il modello puramente economicistico che resta all’orizzonte dell’«associazione di produttori» cui s’allude nel Manifesto. Nel celebre passo sull’associazione che deve subentrare all’antagonismo delle classi — “associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti”30 — il presupposto implicito è che il senso dello sviluppo, la sua libertà, si risolva nell’abolizione d’ogni intralcio all’attività economica, cioè produttiva, dei soggetti sociali. La dimensione politica — democratica e libertaria — d’una libera associazione di produttori è qui assente. Associandosi liberamente i membri d’una società comunista non fanno che sviluppare senza limiti le loro naturali potenzialità produttive. Il legame che, al culmine della modernità e oltre il capitalismo, può e deve unire i produttori che si sviluppano liberamente non è di tipo politico, non è dato da alcun progetto comune, non si realizza in nessuna attività collettiva generatrice di senso, ma irriducibile alla logica dell’autoriproduzione. Eppure, come conclude acutamente Berman, “il problema è che, considerata la matrice nichilista della moderna evoluzione privata e sociale, non è affatto chiaro quali legami politici possano stabilire gli uomini moderni. E così la difficoltà insita nel pensiero di Marx si rivela alla fine una difficoltà che attraversa l’intera struttura della stessa vita moderna”.31


  1. Cfr. Fabio Ciaramelli, “Georges Sorel e La decomposizione del marxismo”, in Figure dell’individualità nella Francia tra Otto e Novecento, a cura di M. Fimiani, Marietti, Genova 1993. ↩︎

  2. Karl Marx — Friedrich Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 188. ↩︎

  3. Karl Marx — Firedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, a cura di E.Cantimori Mezzomonti, nuova edizione con un saggio di B.Bongiovanni, Torino, Einaudi, 1998, p. 20. ↩︎

  4. Cfr. Maximilien Rubel, Marx critique du marxisme, Paris, Payot, 1974. ↩︎

  5. Tra il 1948 e il 1965, dalle pagine di Socialisme ou Barbarie, Castoriadis aveva elaborato e argomentato una critica radicale della burocrazia, dell’economia e dell’ambiguità teorica del marxismo, su cui mi sia permesso di rinviare al mio articolo “Una critica libertaria al marxismo: C.Castoriadis”, Il tetto, n. 120, 1983. ↩︎

  6. Cornelius Castoriadis, La société bureaucratique (1973), Paris, Christian Bourgois, 1990, pp. 45-46 (trad. it. G.Ferrara degli Uberti, La società burocratica. I rapporti di produzione in Russia, vol. I, Milano, Sugarco, 1978, p. 55). Questo stesso argomento è sviluppato e approfondito in uno degli ultimi testi di Socialisme ou Barbarie, divenuto poi il primo capitolo della prima parte, intitolata “Marxisme et théorie révolutionnaire”, di Cornelius Castoriadis, L’institution imaginaire de la société, Paris, Seuil, 1975, pp. 13-96 (non compresa nella edizione italiana da me curata, L’istituzione immaginaria della società, con Introduzione di Pietro Barcellona, Torino, Bollati Boringhieri, 1975). ↩︎

  7. Claude Lefort, “Relecture du Manifeste communiste”, in Id., Essais sur le politique. (XIXè-XXè siècles), Paris, Seuil, 1986, pp. 179-180. Sugli aspetti non marxisti del pensiero di Marx, in particolar modo evidenti nell’analisi dei modi di produzioni precapitalistici, Lefort si dilunga in “Marx: d’une vision de l’histoire à l’autre”, in Id., Les formes de l’histoire. Essais d’anthropologie politique, Paris, Gallimard, 1978, pp. 195-233. ↩︎

  8. Claude Lefort, “Relecture du Manifeste communiste”, pp. 181-2. ↩︎

  9. Cornelius Castoriadis, L’institution imaginaire de la société, p. 14. ↩︎

  10. Cfr. Aldo Gargani, Lo stupore e il caso, Roma-Bari, laterza, 1992, pp. 45-68. ↩︎

  11. Il Manifesto del Partito Comunista, p. 12. ↩︎

  12. Ibid. p. 12 e p. 13. ↩︎

  13. Karl Marx, Il Capitale, a cura di D.Cantimori, Libro Primo, Roma, Editori Riuniti, 1970 (terza edizione), p. 223. ↩︎

  14. Cfr. ibid., p. 34 (Prefazione alla prima edizione). ↩︎

  15. Riferendosi in modo particolare all’Ideologia tedesca — testo in cui si realizzerebbe l’inizio della coupure épistémologique di althusseriana memoria — Jacques Taminiaux in un articolo magistrale ha mostrato la persistenza in Marx dello scarto tra Vorstellung e Darstellung, che costituisce com’è noto il motore del movimento speculativo nella Fenomenologia hegeliana: cfr. “Empirisme et spéculation dans l’Idéologie allemande”, in Jacques Taminiaux, Recoupements, Bruxelles, Ousia, 1982. ↩︎

  16. Il Manifesto del Partito Comunista., pp. 23-24. ↩︎

  17. Opere scelte, p. 167. ↩︎

  18. Sull’insufficienza della categoria d’illusione per comprendere la portata della forza d’attrazione dell’esperienza comunista nel nostro secolo, cfr. Claude Lefort, La complication. Retour sur le communisme, Paris, Fayard, 1999. ↩︎

  19. Pietro Barcellona, Politica e passioni. Proposte per un dibattito, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 54. ↩︎

  20. Ibid., p. 52. ↩︎

  21. Marshall Berman, L’esperienza della modernità, trad. it. V.Lalli, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 166, nota 20. ↩︎

  22. Cornelius Castoridis, “La «rationalité» du capitalisme”, Revue Internationale de Psychosociologie, vol. III, 1997, n. 8, p. 32. ↩︎

  23. Cornelius Castoriadis, “Marxisme-léninisme: la pulvérisation” (1990), Idem, La montée de l’insignifiance, Seuil, Paris 1997, pp. 40-41. ↩︎

  24. Claude Lefort, “L’expérience prolétarienne” (originariamente apparso in Socialisme ou Barbarie, 1952), in Id., Eléments d’une critique de la bureaucratie, Paris, Gallimard, 1979, pp. 71-72. ↩︎

  25. Il Manifesto del Partito Comunista, p. 10. ↩︎

  26. Octavio Paz, “Che cos’è la modernità”, in Il Sole 24 ore, 10 gennaio 1999. ↩︎

  27. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), edizione italiana a cura di A. Dal Lago, Milano, Bompiani, 1990, pp. 94-95. ↩︎

  28. Ibid., p. 240. ↩︎

  29. Cornelius Castoriadis, L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, trad. it. R.Currado, a cura di F.Ciaramelli, Bari, Dedalo, 1998, p. 77. ↩︎

  30. Il Manifesto del Partito Comunista, p. 32. ↩︎

  31. Marshall Berman, L’eperienza della modernità, p. 162. ↩︎