1. La questione della realtà della società
Michel Henry ha scritto più volte che un errore molto diffuso nella modernità è quello di attribuire colpe o compiti alla società invece che ad individui singoli, dimenticando che la società non può essere soggetto di alcuna azione o di alcun lavoro; azioni e lavori non possono essere compiuti che da uomini. In proposito Henry si richiama espressamente alle critiche rivolte da Karl Marx a Pierre-Joseph Proudhon; Marx rimprovera infatti Proudhon di aver personificato la società, di averne fatto una società-persona anziché una società composta di persone.1 Contro tale ipostatizzazione della società si pone la critica marxiana, che secondo Henry avrebbe un valore autenticamente fenomenologico; essa, infatti, consiste in una riduzione:
Non potendo esibire una realtà che sia loro adeguata, una realtà la cui esistenza effettiva si attesti da se stessa e si faccia riconoscere come un’unità essa stessa effettiva e non formale, i concetti di storia e di società lasciano apparire il loro vuoto, si distruggono essi stessi come semplici concetti, rivelano di non essere che parole.2
La riduzione fenomenologica mostra dunque che la società, come la storia, non ha una realtà autentica; gli individui sono reali, non la società, ed è possibile ammettere rapporti effettivi solo tra gli individui, non tra individuo e società. Proudhon e tutti coloro che attribuiscono una realtà sostanziale alla società, dunque, fanno di una parola una cosa, per usare l’espressione dell’economista americano Thomas Cooper utilizzata da Marx stesso.3 Questo «fare di una parola una cosa» non è però semplicemente l’atteggiamento ingenuo di immaginare una realtà effettiva per ogni nostro concetto o per ogni parola che usiamo, ma è piuttosto il frutto di una metafisica dell’universale, secondo cui «l’universalità ideale dell’oggettività definisce la sfera dell’esistenza e della realtà»;4 questo significa non soltanto che, secondo tale metafisica, a un concetto generale come quello di società corrisponde una realtà anch’essa generale, ma anche e soprattutto che questa realtà generale è più autentica e più originaria della realtà degli enti singoli; la realtà generale è cioè il fondamento, il naturante della realtà degli enti singoli, i quali ne sono determinati, sono i prodotti di essa; l’individuo è dunque il prodotto o il figlio della società; non sarebbe allora la corruzione degli individui a far sì che la società sia corrotta, ma sarebbe piuttosto la società corrotta a generare individui anch’essi corrotti.
Tutte le concezioni che fanno della società una realtà autentica, anche più autentica di quella dell’individuo, vengono poste fuori gioco dalla riduzione fenomenologica operata da Marx; questi, però, non si limita alla critica distruttiva di tali forme di pensiero, ma mostra che delle idealità che si pretende di far valere come realtà sovraindividuali è possibile scoprire la genesi trascendentale a partire dall’individuo stesso e dai suoi bisogni; esse sono infatti prodotte dall’uomo per rappresentare aspetti della propria vita e per soddisfare grazie ad esse necessità vitali; particolarmente chiaro in questo senso è il caso del denaro o, in generale, delle idealità dell’economia, prodotte per rispondere alla necessità vitale di rendere possibile lo scambio dei prodotti di lavori diversi. I vari aspetti della vita dell’uomo presi in esame da Marx sono stati da lui intesi non soltanto come esclusivamente individuali, ma soprattutto come radicalmente soggettivi; è soggettiva l’azione dell’uomo, il suo lavoro, il suo sforzo; allo stesso modo sono soggettivi i bisogni che l’uomo prova e che cerca di soddisfare. Certo, ogni azione dell’individuo è descrivibile in termini oggettivi come il movimento di un corpo materiale che provoca effetti su altri corpi materiali, ma questa non è che una considerazione insufficiente dell’azione, come dimostra il fatto che sulla base di questa descrizione oggettiva l’azione umana non si distingue per nulla da un qualsiasi processo naturale.5 I lavori che l’uomo compie possono essere oggettivati e descritti anche in termini economici; abbiamo allora determinazioni oggettive qualitative e soprattutto quantitative del lavoro: parliamo di lavori pesanti, o di lavori qualificati, e soprattutto quantifichiamo il lavoro misurandone il tempo; eppure lo sforzo del lavoratore e il fatto che nel lavoro l’individuo viva una fatica opprimente oppure una gioiosa messa in atto dei suoi poteri sono vissuti soggettivi; l’autentica realtà del lavoro, ciò che lo distingue dal semplice operare di una macchina, rimane allora esclusa da una semplice descrizione di esso in termini economici. Allo stesso modo anche i bisogni sono vissuti solamente dall’individuo, non sono effettivamente afferrabili in una dimensione di oggettività: la fame di un individuo è provata solamente da lui e non può essere vissuta da nessun altro; io posso comprendere i bisogni dell’altro solamente sulla base dell’esperienza dei miei; per questo della fame e della sete non si può realmente parlare in modo oggettivo e generale. Quando si parla dei bisogni dell’uomo in generale, come del lavoro o dello sforzo in generale, ci si riferisce a rappresentazioni oggettive di realtà che tuttavia sono solamente soggettive. Queste rappresentazioni devono pertanto essere tenute in considerazione per quello che sono: non possono venire semplicemente respinte, in quanto permettono in qualche modo di parlare di certe realtà e sono indispensabili alla vita (per esempio, se non si potesse quantificare il lavoro, non sarebbe possibile alcuno scambio di merci e di servizi), ma è necessario ricordarsi sempre che esse non colgono effettivamente le realtà che parrebbero rappresentare. In questo senso anche l’organizzazione sociale, con le sue strutture in apparenza oggettive, non è che la rappresentazione esteriore di attività e di bisogni che hanno la loro realtà propria solamente in una dimensione radicalmente soggettiva.6
Di tutto ciò Michel Henry ha fornito una spiegazione fenomenologica rigorosa: egli, infatti, ha mostrato che, oltre all’esperienza dei sensi e dell’intelletto, i quali ci fanno conoscere sempre oggetti trascendenti, cioè (intendendo la parola «trascendente» in senso fenomenologico) esterni alla nostra coscienza, si dà un altro ambito dell’apparire, quello della vita che prova immediatamente se stessa nella propria affettività, nella propria certezza immanente e immediata di sé, dei propri poteri, della propria sofferenza e della propria gioia. Ogni descrizione dell’azione dell’individuo, del suo lavoro, del suo sforzo o dei suoi bisogni in termini oggettivi si riferisce solamente a processi oggettivi trascendenti, e non coglie dunque la fondamentale dimensione di immanenza dell’azione, del lavoro o del bisogno. Henry afferma che, nonostante l’incontrovertibile critica di Marx a ogni forma di pensiero che attribuisce autentica realtà alle idealità come la società e la storia, concezioni di questo tipo non soltanto sono sopravvissute, ma hanno avuto grandissimo successo. L’aspetto maggiormente paradossale della vicenda è che questo modo di concepire la società ha informato di sé l’ampio movimento di pensiero che da Marx prende il nome, il marxismo; è infatti convinzione di Michel Henry che il marxismo, lungi dal costituire uno sviluppo del pensiero di Marx, sia piuttosto il misconoscimento e la negazione totale degli stessi principi di questo, al punto che proprio nel pensiero di Marx si può ritrovare la critica più radicale dei fondamenti del marxismo.7 Proprio al successo avuto dal marxismo non solo tra i filosofi, ma anche tra uomini politici, insegnanti di ogni disciplina e di ogni tipo di scuola, giornalisti e persone di qualunque professione, è dovuto in massima parte il fatto che l’attribuzione di autentica realtà alla società abbia ancora oggi una grandissima importanza nel pensiero filosofico, nelle scienze umane, nella pratica dell’economia e della politica e in generale nelle categorie che strutturano la visione del mondo dell’uomo contemporaneo; la derivazione dell’individuo dalla società è divenuta un luogo comune ripetuto dagli insegnanti delle scuole di ogni grado ormai da decenni.8
Il successo di queste concezioni ha conseguenze tragiche sul modo in cui vivono gli uomini; in tali prospettive risiede infatti una forma gravissima dell’alienazione delle attività umane. Come si è visto, ogni lavoro o, più in generale, ogni attività è possibile solamente sul fondamento della prassi individuale, che è radicalmente soggettiva. Anche lo scopo dell’attività umana è radicalmente individuale e soggettivo; ciò che guida ogni azione dell’uomo è infatti la volontà della vita di conservarsi e di accrescersi; per questo lo scopo fondamentale delle attività dell’uomo è la soddisfazione dei bisogni: gli uomini producono, consumano, si procurano i mezzi per continuare a vivere e per vivere più pienamente; in questo senso gran parte delle attività degli uomini può essere rappresentata in termini economici. Anche le attività umane non interpretabili economicamente, tuttavia, sono sottoposte alle leggi della vita, alla volontà della vita di conservarsi e di accrescersi, di godere sempre più di se stessa; questa vita che vuole conservarsi ed accrescersi non è una realtà generale, cioè una vita universale che non sarebbe la vita di nessuno, ma esiste solamente come la vita dei singoli, non ha alcuna realtà al di fuori di essi; l’accrescimento della vita ha luogo pertanto solamente nell’individuo ed è il sempre più pieno realizzarsi delle potenzialità del singolo, il sempre più pieno dispiegarsi dei poteri di questo. Nelle attività dell’uomo è tuttavia presente la possibilità della loro alienazione, cioè la possibilità che esse vengano riferite a un fondamento e a uno scopo diversi dalla vita dell’individuo. Com’è possibile ciò? In realtà questa sostituzione di un diverso scopo e di un diverso fondamento a quelli originari non può essere che illusoria, come dimostrano da una parte la forza originaria dei bisogni vitali dell’uomo, che in modo bruciante impongono come ineludibile scopo delle attività umane la propria soddisfazione, e dall’altra lo sforzo provato da ogni singolo uomo nel compiere il suo lavoro, uno sforzo che è testimonianza incontestabile di come alla base di ogni attività ci sia sempre la prassi vitale dell’individuo vivente. Eppure questa illusione o questa follia, cioè questo scambiare per autenticamente reale qualcosa che è invece solamente una rappresentazione, è possibile, anzi, è reale e costituisce sotto diverse sue forme un aspetto importantissimo dei modi in cui concretamente si svolge la vita dell’uomo: idealità astratte vengono illusoriamente investite del ruolo di fondamento delle attività umane (al posto dell’individuo vivente e della sua prassi, del suo lavoro e del suo sforzo) e di loro scopo (al posto della conservazione e dell’accrescimento della vita individuale).
La forma in cui l’alienazione come asservimento delle attività umane a fondamenti e a scopi diversi dalla vita dell’individuo appare più chiara è quella economica, che si ha quando l’uomo non è considerato né il soggetto né lo scopo dei processi economici, ma solamente il mezzo di questi. Tuttavia sono possibili o, piuttosto, reali altre forme dell’alienazione: una di esse è proprio quella che si ha quando si pone a fondamento e a scopo delle attività umane un’idealità astratta di tipo politico, come la società, ma anche come la classe sociale, la storia, il partito, il popolo e così via. Se infatti si attribuisce alla società una realtà più autentica e più originaria di quella degli individui e si riconosce ad essa il ruolo di fondamento degli individui stessi, alla società spetterà anche di essere l’autentico soggetto dell’agire umano (e specialmente dell’agire politico, cui viene del resto ricondotto in questa prospettiva ogni agire in generale); anche gli scopi e i bisogni dei singoli individui, allora, non saranno più il vero fine di questo agire: lo scopo dell’agire sarà il fine stesso della società, sarà ciò a cui questa tende, il suo destino che si identifica con lo stesso svolgersi della storia. Di fronte al destino della società e al movimento della storia stessa il singolo, nella sua realtà secondaria e derivata, non sarà che qualcosa di piccolo, di misero, di meschino; egli potrà riscattarsi da questa meschinità solamente allineando la propria azione agli scopi della società; in questo modo l’agire dell’individuo si identificherà in modo quasi metafisico con il movimento della storia stessa (ecco dunque che in questa prospettiva l’impegno politico diviene per l’individuo l’unica autentica forma di vita). Se, al contrario, l’individuo, anche senza decidere di opporsi apertamente agli scopi della società, si limiterà a perseguire i propri obiettivi personali mediante la propria azione individuale, egli rimarrà confinato nella propria meschinità; per questo, dunque, non solo la società o la storia negheranno o schiacceranno l’azione di questo individuo, ma tale negazione dell’individualità apparirà anche giusta; se infatti solo la società ha una realtà autentica e originaria, mentre l’individuo non ha realtà che in ragione della società, la pretesa di questi di non conformarsi completamente agli scopi di essa, di conservare nel proprio agire una dimensione privata avente fini e principi autonomi rispetto a quelli della società, è propriamente senza fondamento ed anzi contraria al fondamento dell’individuo stesso. Alla luce di ciò appare legittimo che l’individuo venga portato o costretto, anche con la violenza, a rinunciare alla propria individualità in nome della società (o magari della classe sociale) e della storia. Si vede dunque come l’attribuzione di un ruolo di naturante degli individui alla società sia il fondamento del totalitarismo o fascismo (in questo senso, sostiene Michel Henry, il marxismo è una teoria fascista, anzi, è la teoria fascista per eccellenza).
Concezioni simili, oltre a implicare l’oppressione dell’individuo, nascondono un gravissimo pericolo per la collettività: infatti, come si è visto, la società non è in grado di fare nulla, e ogni lavoro deve essere svolto da individui; considerare invece la società come unico autentico soggetto significa negare dal punto di vista teorico il valore del lavoro dell’individuo, il che si traduce nel fatto che all’individuo che compie questo lavoro viene tolto ogni riconoscimento e ogni stimolo. Per questo il diffondersi di concezioni che attribuiscono alla società il ruolo di unico vero soggetto dell’agire porta le persone all’atteggiamento per cui esse si abituano ad aspettarsi dalla società tutto ciò di cui hanno bisogno e a non fare più nulla in prima persona; dove questo atteggiamento diviene generale nessuno si sente stimolato a lavorare, e pertanto è inevitabile la penuria; questo è quanto è accaduto in modo eclatante nei paesi dell’est europeo, ed è ciò che ha portato al crollo dei regimi totalitari che li governavano, ma è comunque un rischio possibile anche per le democrazie occidentali quando in esse ci si abitua a considerare la società come un autentico soggetto attivo (e magari come l’unico autentico soggetto). Si è detto come proprio la concezione secondo cui l’individuo è generato dalla società invece di essere a fondamento di questa abbia avuto un successo tale da divenire un luogo comune ripetuto dagli insegnanti delle scuole di ogni grado ormai da decenni; in questo senso alcuni elementi della visione marxista del mondo, come la precedenza della società sull’individuo e il primato della prospettiva politica rispetto a tutti gli altri punti di vista sulla realtà, hanno così profondamente impregnato la mentalità dei cittadini delle democrazie che anche in queste il totalitarismo non è soltanto un pericolo incombente sul sistema politico dall’esterno di esso, ma è piuttosto un elemento interiormente presente nel dibattito politico e nella prassi politica quotidiana.
2. Oggetto e possibilità della sociologia
Alla considerazione della società si lega la questione della sociologia; qual è infatti l’oggetto di questa disciplina? La risposta sarebbe semplicissima se si potesse dire che la società è un oggetto reale, avente proprietà o leggi proprie. Proprio su questa concezione della società si fonda infatti la possibilità della sociologia così come viene generalmente praticata; l’esponente paradigmatico di questo modo di intendere la sociologia è, agli occhi di Henry, Émile Durkheim, che avrebbe considerato come principio fondamentale della sociologia quello secondo cui la società è una realtà avente leggi proprie che sono diverse e del tutto autonome da quelle che regolano la vita degli individui. Si ha qui una chiara convergenza, allora, tra l’impostazione che Durkheim dà alla sociologia e la prospettiva che il marxismo ha in generale sulla società; si spiega così, secondo Henry, il favore con cui la sociologia durkheimiana è stata accolta dal marxismo.9 Occorre tuttavia notare che questo presupposto fondamentale della sociologia è congeniale non solo al marxismo, ma anche a un’altra visione della realtà oggi estremamente influente: lo scientismo. Questo, secondo Michel Henry, consiste nell’universalizzazione ideologica della riduzione galileiana,10 cioè della decisione di Galileo di relegare nell’ambito dell’illusione tutto ciò che non è misurabile o quantificabile e che pertanto non può essere compreso o trattato con metodi matematico-geometrici; in conseguenza di questa riduzione tutto ciò che non è quantificabile, comprese le proprietà sensibili non misurabili come i colori o i sapori, non potendo essere oggetto di scienza viene ridotto a un’illusione che la scienza stessa smaschera e al tempo stesso spiega riportandola a stati di cose oggettivi e quantificabili. Lo scientismo è l’estensione di questo fondamentale principio metodico delle scienze a tutti gli ambiti del sapere e a tutte le dimensioni della realtà:11 tutto ciò che non è quantificabile, misurabile, calcolabile diviene illusione non solo sul piano delle scienze naturali, ma su qualsiasi piano lo si voglia considerare. La scienza, in questa prospettiva, diviene l’unico sapere; non si può quindi parlare di una conoscenza etica o di una conoscenza religiosa, ma neanche attribuire alcun valore di autentica conoscenza all’esperienza comune del mondo e dei caratteri sensibili (come colori o sapori) delle cose con cui abbiamo quotidianamente a che fare; anche l’uomo stesso può essere conosciuto solo attraverso scienze che, importando nell’ambito dello studio dell’uomo i metodi delle scienze naturali, fanno di esso e della sua vita qualcosa di totalmente oggettivo, di quantificabile e calcolabile. Questo è quanto accade nella sociologia come viene normalmente praticata; tutta la vita nei suoi sforzi soggettivi, nei suoi bisogni, nel suo provarsi, cioè la vita nel suo ambito fenomenologico proprio, viene esclusa dalla considerazione della società come realtà oggettiva; marxismo e scientismo positivistico appaiono dunque solidali sia nell’escludere dalla sociologia ogni riferimento alla vita intesa nel suo essere più proprio, quello della soggettività e dell’immanenza, sia nel fare della società un oggetto reale dotato di leggi proprie.
Come si è visto, tuttavia, la riduzione fenomenologica distrugge queste pretese: la società non ha alcuna realtà, non esiste in senso proprio; essa non è che una rappresentazione esteriore di attività e di bisogni che hanno la loro realtà solamente nella soggettività immanente; le leggi della società, pertanto, non possono essere altre che quelle della vita degli individui che la compongono. La sociologia diviene allora, come tutte le scienze umane che pretendono di studiare l’uomo escludendone per principio la soggettività, una scienza senza oggetto;12 essa può effettivamente quantificare la frequenza di certi fatti (per esempio i suicidi, o il formarsi di coppie di un certo tipo, oppure il loro sciogliersi), identificare le tendenze all’aumento o alla diminuzione delle frequenze di essi, o ancora stabilire connessioni tra alcuni di questi fatti. Eppure la sociologia non coglie la realtà di essi, perché li considera come null’altro che fatti esteriori oggettivamente constatabili e quantificabili, e dunque li priva della loro dimensione più autentica, che è quella dell’immanenza o della soggettività (soggettivi sono infatti l’angoscia del suicida e l’amore o il desiderio che portano alla formazione delle coppie). Eppure che cosa resta delle azioni umane, una volta che si è eliminato da esse tutto ciò che è soggettivo? Nulla, o almeno nulla che sia realmente umano; è in questo senso che, come si è detto, le scienze umane sono senza oggetto. Mancando di un oggetto proprio, esse non studiano altro che processi indistinguibili da quelli esaminati dalle scienze della natura; le scienze umane non possono allora avere alcuna autonomia rispetto alle scienze naturali, anzi, esse dovrebbero essere propriamente considerate soltanto come la branca delle scienze naturali che si occupa dell’uomo come essere naturale non diverso da tutti gli altri. È possibile però una sociologia che non compia questa eliminazione di tutto ciò che è soggettivo dalla considerazione delle azioni e dei bisogni dell’individuo? In La barbarie, cioè nel libro in cui più diretto è l’attacco henriano contro lo scientismo, Henry accenna alla possibilità e all’esigenza di una sociologia ben diversa da quella scientistica e oggettivante; tale sociologia non potrebbe però consistere nella descrizione in termini oggettivi di una presunta realtà trascendente, ma dovrebbe avere la sua radice nello studio dell’intersoggettività, della relazione tra i soggetti reali; le leggi di una tale sociologia non sarebbero dunque autonome dalle leggi che guidano la vita degli individui, ma anzi sarebbero le stesse leggi. Per questa sociologia, tuttavia, non sarebbe sufficiente concepire l’intersoggettività (con le sue forme o le sue leggi) come un risultato o uno stato di cose; essa dovrebbe piuttosto pensare l’intersoggettività dinamicamente, alla luce del processo trascendentale in cui questa si genera; a parere di Michel Henry, il filosofo e sociologo Gabriel Tarde ha effettivamente impostato una sociologia di questo tipo nelle sue ricerche sul fenomeno cruciale dell’imitazione.13 A queste indicazioni contenute in La barbarie sulla possibilità e sull’esigenza di una sociologia autentica, ben diversa da quella scientistica, Michel Henry non ha dato però alcun vero sviluppo, né in quest’opera, né nei suoi scritti successivi, per quanto in questi l’intersoggettività riceva un’attenzione decisamente maggiore che nei suoi lavori precedenti.14
3. Società e comunità
Nelle riflessioni che Michel Henry dedica propriamente all’intersoggettività non viene infatti tematizzata la questione della società (né, tanto meno, quella della sociologia); in esse è invece oggetto di specifica considerazione la comunità, intesa in senso molto ampio; tra gli esempi di comunità portati da Henry si trovano infatti, oltre a quelli tradizionali della coppia o della famiglia, la comunità tra psicanalista ed analizzato, la comunità degli ammiratori di Kandinskij o ancora la comunità che abbiamo con i morti.15 Le riflessioni di Henry sulla comunità consistono essenzialmente nella ricerca di ciò che permette alla comunità di essere tale, cioè di quel termine fondamentale che è comune a tutti i membri di essa; Henry scrive che il fondamento ultimo di ogni comunità è necessariamente il fondamento comune di tutti i singoli, cioè la vita stessa nel suo generarsi generando in sé tutti gli individui viventi; ognuno prova infatti immanentemente di non essere il proprio fondamento, di non essere posto da se stesso, ma dal generarsi della vita; in questa comune passività originaria, in questo essere generati tutti da un unico fondamento si ha la possibilità di ogni autentica intersoggettività e comunità. L’esperienza della passività, naturalmente, ha luogo nell’immanenza, nell’affettività, nell’esperienza immediata dei bisogni, dei dolori e delle gioie; la comunità è dunque sempre fondamentalmente una comunità pulsionale o patetica (non una comunità economica né politica); ogni comunità è inoltre per essenza comunità religiosa, in quanto la relazione di ogni sé vivente con la vita che lo genera è appunto il legame religioso (conformemente all’etimologia per cui «re-ligio» conterrebbe in sé il riferimento a un legame).16
Le questioni a proposito della comunità e dell’intersoggettività nel pensiero di Michel Henry sono moltissime, e sarebbe fuori tema affrontarle in queste pagine, il cui argomento è piuttosto la società. È opportuno solamente notare che nel pensiero di Michel Henry il concetto che coglie autenticamente il vivere insieme degli uomini è quello di comunità (l’avere in comune un medesimo fondamento esperito nell’immanenza), mentre a quello della società può essere riconosciuto un ruolo positivo solo a condizione che si riconosca in essa una delle comunità;17 se, al contrario, si separa la società dal fondamento comune di tutti i singoli (e dal loro esperire questo fondamento nella propria immanenza) e la si considera meramente come una serie di determinazioni oggettive, essa non può essere altro che una rappresentazione esteriore ed oggettivante (e pertanto incapace di coglierne la realtà autentica) della comunità stessa.
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Cfr. K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» di Proudhon, tr. it. di F. Rodano in K. Marx - F. Engels, Opere complete, 50 voll., Editori Riuniti, Roma 1972ss., vol. VI, pp. 105-225; cfr. in particolare p. 157. Riguardo a queste critiche di Marx a Proudhon cfr. M. Henry, Marx, 2 voll. (rispettivamente I: Une philosophie de la réalité e II: Une philosophie de l’économie), Gallimard, Paris 1976, vol. I, pp.184-187, oppure M. Henry, Du communisme au capitalisme. Théorie d’une catastrophe, 1a ed., Odile Jacob, Paris 1990; 2a ed., L’Age d’Homme, Lausanne 2008 (i numeri di pagina faranno sempre riferimento a questa seconda edizione), pp. 58-59. Michel Henry fa inoltre riferimento anche alle critiche di Marx a una posizione diversa da quella proudhoniana, la posizione di Max Stirner: questi infatti, propugnando l’esigenza che l’individuo si serva della società invece di servirla, ha contrapposto individuo e società come due realtà autosussistenti, e così anch’egli ha ipostatizzato la società. A proposito delle critiche di Marx a Stirner cfr. M. Henry, Marx, cit. alla nt. 1, vol. I, pp. 187-189 e M. Henry, Du communisme au capitalisme, cit. alla nt. 1, p. 55. ↩︎
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M. Henry, Marx, cit. alla nt. 1, vol. I, p. 184. ↩︎
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Cfr. K. Marx, Miseria della filosofia, cit. alla nt. 1, pp. 157-158 e M. Henry, Marx, cit. alla nt. 1, vol. I, p. 185. ↩︎
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M. Henry, Marx, cit. alla nt. 1, vol. I, p. 184. ↩︎
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Il problema si pone con estrema radicalità per quanto riguarda la mia azione: se l’unico modo di apparirmi dell’azione fosse quello di un mutamento nello stato di certe realtà oggettive, non avrei alcun modo di distinguere le mie azioni dai processi naturali esterni e di ricondurre le prime alla mia soggettività (non si capirebbe cioè perché mai i movimenti del mio corpo siano riconducibili alla mia soggettività più di quanto lo sia il cadere della pioggia; non ci sarebbe cioè alcuna ragione di chiamare «miei» i miei gesti o il mio stesso corpo); cfr. M. Henry, Philosophie et phénoménologie du corps. Essai sur l’ontologie biranienne, 1a ed., PUF, Paris 1965; 2a ed., PUF, Paris 1987 (i numeri di pagina sono identici per le due edizioni; la seconda si distingue solamente per l’aggiunta di un Avertissement à la seconde édition, le cui due pagine hanno una numerazione indipendente), p. 89. ↩︎
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Cfr. M. Henry, La barbarie, 1a ed., Grasset, Paris 1987; 2a ed., PUF, Paris 2001 (i numeri di pagina faranno sempre riferimento a questa seconda edizione), p. 39. ↩︎
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Riguardo a come si sia potuto produrre questo clamoroso tradimento del pensiero di Marx nel marxismo stesso si rimanda all’Introduction di Michel Henry al suo Marx. ↩︎
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Cfr. M. Henry, Du communisme au capitalisme, cit. alla nt. 1, p. 54. ↩︎
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Cfr. M. Henry, Du communisme au capitalisme, cit. alla nt. 1, p. 56. ↩︎
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La spiegazione del valore e dei limiti della riduzione galileiana è un tema ricorrente negli scritti di Michel Henry; la trattazione più chiara, però, è forse quella che occupa il § 17 di Incarnation, Éditions du Seuil, Paris 2000; tr. it. di G. Sansonetti, SEI, Torino 2001. ↩︎
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Michel Henry scrive esplicitamente più volte che la responsabilità di questa imperialistica estensione della riduzione galileiana dalla scienza (in cui essa è perfettamente valida) a ogni aspetto della realtà e del sapere non è della scienza stessa, ma di ideologie pseudofilosofiche: cfr. in particolare la chiarissima nota a p. 260 di Incarnation, cit. alla nt. 10; tr. it. cit., p. 210n. ↩︎
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Cfr. M. Henry, La barbarie, cit. alla nt. 6, p. 134. ↩︎
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Cfr. M. Henry, La barbarie, cit. alla nt. 6, pp. 232-233. ↩︎
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Un tentativo di enucleare dalle riflessioni di Henry sull’intersoggettività i lineamenti di una sua positiva concezione della sociologia sembra quantomeno azzardato; sull’intersoggettività (un concetto estremamente problematico per ogni fenomenologia, ma in modo particolare per quella di Michel Henry, che è incentrata sull’immanenza in cui ogni sé vivente prova immediatamente nella propria ipseità la propria vita) Michel Henry ha del resto scritto alcuni saggi, ma non un’opera in cui il problema dell’intersoggettività venga sistematicamente affrontato come tema principale e realmente approfondito quanto sarebbe stato necessario; in realtà Henry ha annunciato, alla fine dell’Avant-propos a Phénoménologie matérielle (PUF, Paris 1990; tr. it. di E. De Liguori e M.L. Iacarelli, a cura di P. D’Oriano, Guerini e Associati, Milano 2001; cfr. in particolare p. 12, tr. it. cit., p. 66) di avere intenzione di scrivere un’opera sistematica sull’intersoggettività, ma poi questo progetto non si è mai realizzato; infatti le opere pubblicate da Michel Henry successivamente a Phénoménologie matérielle sono dedicate all’elaborazione di una filosofia del cristianesimo, alla quale, secondo quanto ha dichiarato egli stesso più volte, Henry è stato rimandato proprio dalle questioni emerse nel tentativo di scrivere un’opera avente per tema specifico l’intersoggettività. Nei libri di Henry sul cristianesimo, in effetti, l’intersoggettività ha un ruolo estremamente rilevante, e si può dire che in essi si trovi l’espressione migliore delle riflessioni henriane sull’intersoggettività; tuttavia l’intersoggettività non è il tema principale di queste opere, e le riflessioni in esse esposte non affrontano nemmeno di passaggio il tema della possibilità di una sociologia non oggettivante. ↩︎
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Cfr. M. Henry, Phénoménologie matérielle, cit. alla nt. 14, pp. 153-154 e 172-173; tr. it. cit., pp. 185-186 e 200. ↩︎
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Cfr. M. Henry, Incarnation, cit. alla nt. 10, p. 349; tr. it. cit., p. 281. ↩︎
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Cfr. ibidem. ↩︎