1. Razionalità economica e competizione
Chi intenda oggi indagare criticamente il modello di pensiero neoliberale non si troverà di fronte a una teoria politico-economica in senso stretto, quanto piuttosto a una Weltanschauung così fluida e onnipervasiva da penetrare in profondità nei tessuti porosi delle nostre vite. Come scrive Harvey: «Il neoliberalismo […] presenta effetti pervasive sui modi di pensiero nella misura in cui è stato incorporato nel senso comune attraverso cui molti di noi interpretano, vivono e comprendono il mondo».1 Il neoliberalismo non è infatti un’ideologia elaborata da uno stato o da una classe dominante; piuttosto si costituisce come quel complesso di valori e credenze che emerge dalla nostra esperienza quotidiana della vendita e acquisto di prodotti, della nostra collocazione in spazi in base alla funzione che ricopriamo in essi, della comprensione dei nostri rapporti sulla base della loro utilità e della relativa indipendenza che riusciamo ad acquisire all’interno di un sistema disciplinare. In altri termini, il neoliberalismo non è una dottrina, ma una funzione interna della razionalità governamentale contemporanea. Risulta quindi evidente che la critica non possa collocarsi su un piano strettamente politico, in primo luogo poiché l’ambito di riferimento neoliberale è più propriamente quello antropologico, in secondo luogo poiché la vita stessa dell’homo oeconomicus, soggetto del mondo neoliberale, è così concentrata sul suo carattere individualistico da porre in secondo piano i propri tratti sociali e, di conseguenza, marginalizzare fortemente la propria componente genuinamente politica. Il neoliberalismo, partecipando da un lato ad ogni aspetto della vita, imponendosi cioè al livello del senso comune, dell’immaginario collettivo ed eliminando dall’altro il politico, si trova ad imporre un modello di razionalità condiviso che difficilmente produce modelli d’azione differenti da quello economico.2 Obiettivo principale di questo contributo è offrire una descrizione critica dei modelli di razionalità che la visione neoliberale genera.
La razionalità, specificamente economica, è perno del discorso neoliberale dal momento che la Rational Choice Theory3 è il bacino concettuale del dispositivo4 neoliberale. L’assunto della teoria prevede che un individuo, collocato in un ambiente che presenti diversi corsi d’azione, orienti la sua scelta verso quello che lo condurrà al risultato migliore; in altre parole, l’essere è razionale nella misura in cui è in grado di individuare tra le varie scelte quella che produrrà per lui il maggior utile. L’assunto che riconduce ogni aspetto del comportamento umano al principio utilitaristico è piuttosto lineare ed è questa sua semplicità concettuale a permettergli un’estensione tanto a livello microscopico – le condotte individuali – quanto a livello macroscopico – le pratiche di governo.
Il passaggio dalla pratica di governo liberale, orientata secondo il principio di ricerca dell’utile, al regime di verità predominante ha origine nel mercato; esso, basato sullo scambio, unisce in un unico bacino concettuale le nozioni di produzione, bisogno, offerta, domanda, valore e diventa luogo di veridizione5 della pratica di governo, ossia luogo della sua verifica-falsificazione.6 L’irruzione del mercato nella storia della governamentalità7 occidentale come principio di veridizione implica un nuovo codice di lettura delle condotte individuali, in quanto esse acquisiscono significato e plausibilità solo a patto di essere riconducibili a una griglia di intelligibilità che rimanda alla razionalità economica. Ogni pratica discorsiva che non rimanda a questo modello interpretativo della realtà non è visibile, narrabile, condivisibile e viene ricondotto a pratiche genericamente percepite come sovversive.8
Il principio utilitaristico è quindi primariamente l’elemento orientativo della pratica di governo liberale; secondariamente, è quello in riferimento al quale l’individuo adegua la propria razionalità – a sua volta metro di misurazione per il proprio livello di adesione alla realtà circostante – ed è infine, quando introiettato, principio guida stesso dell’azione individuale. La realtà neoliberale aggiunge poi a questo filone concettuale una componente che ha ripercussione antropologica, sia per la sua pervasività nelle relazioni sociali e politiche sia per la sua centralità nei processi di soggettivazione: la competizione. Se il liberalismo classico fa dello scambio la matrice della società, tramite l’istituzione dell’omologia secondo cui tutte le relazioni all’interno del mercato vengono comprese e acquisiscono senso grazie al loro rimando all’idea dello scambio tra alcune libertà e certi tipi di diritti, con il trionfo del neoliberalismo tutte le evoluzioni relazionali – anche al di fuori del mercato – sono incentrate su questo scambio originario. Come sostiene Foucault,9 il neoliberalismo, estendendo la relazionalità dell’attività economica a ogni relazione esistenziale, provoca uno slittamento di focalizzazione dall’azione dello scambio al tratto antropologico della competizione. Liberalismo e neoliberalismo si trovano accumunati nella caratterizzazione dell’homo œconomicus, un individuo la cui antropologia economica viene estesa ad ogni realtà politica e sociale; ma nel neoliberalismo questa antropologia presenta un’inversione di tendenza dalla componente di scambio a quella della competizione.
Questo slittamento semantico produce conseguenze profonde nelle pratiche governamentali e, conseguentemente, nella percezione della soggettività individuale: «Mentre lo scambio era considerate normale, la competizione è compresa dai neoliberali del XX secolo come una relazione artificiale che va protetta dalla tendenza dei mercati a formare monopoli e dagli interventi dello Stato […]».10 A livello governamentale la competizione comporta un intervento costante da parte dello Stato non sul mercato, ma sulle condizioni dello stesso; il neoliberalismo non teorizza più la libertà di mercato – c’è uno Stato che deve essere circoscritto e controllato nella sua gestione al fine di permettere un’estensione adeguata del mercato – bensì il mercato libero – il mercato è una realtà data, intorno alla quale la governamentalità si costruisce.11 In questo caso, per mercato non si intende meramente l’interazione tra domanda e offerta dei beni e la formazione di prezzi che ne consegue, quanto l’espressione di un paradigma economico noto, metaforizzata nell’immagine della mano invisibile che, quando lasciata agire liberamente, è in grado di condurre a un equilibrio economico-sociale certo, per effetto indiretto dei comportamenti individuali12 – non importa se mossi da scopi semplicemente egoistici. Eppure è importante notare che, nonostante nel corso dei secoli e delle evoluzioni liberali e neoliberali questa idea di mercato come modello ha conosciuto fortune alterne e, con gli imprevisti legati alla globalizzazione, è stata spesso criticata, la stessa sorte non è toccata all’idea della competitività, nonostante sia una componente essenziale di quel modello e il motore propulsore del suo funzionamento. Davis descrive così la libera competizione, uno dei punti focali dell’assetto neoliberale:
It strives to square the circle between liberalism and utilitarianism, through an idiosyncratic appeal to the rationality of individual decision making. At work here is the latent metaphysics of the neo-classical method itself: the presupposition of calculating, individual rationality serves as a regulative liberal principle in the way in which outcomes are evaluated. It is this method that is responsible for producting empirical, numerical facts out of an uncertain process, and thereby also producing a shared sense of what is going on.13
Con l’affermazione del sistema neoliberale, cambia l’ambito di intervento della pratica di governo: l’assetto governamentale non si interroga più sulla misura, la profondità o la radicalità dei suoi interventi sul mercato, ma sul margine di spazio da lasciare a uno stato che nasce sui confini liberati dal mercato. Cambia la giurisdizione dominante: da espressione della volontà tramite la quale il cittadino, riferendosi a un sistema di scambio contrattualistico, definisce e delimita i suoi diritti essenziali e quelli cedibili al sistema governamentale in cambio di protezione e sicurezza, diventa garante di una tutela della libertà economica. Cambia la percezione antropologica della libertà: da possibilità irriducibile di esercizio dei diritti fondamentali a margine d’indipendenza da ridisegnarsi sui confini della sfera d’intervento della potenza pubblica.
Il principio di prestazione si estende via via, penetrando ogni piega dell’esistenza, inclusi il tempo libero, il godimento estetico e persino quello sessuale, generando, grazie al suo orientamento selettivo, efficienza, produttività, ma anche problemi di adattamento, di omogeneizzazione organizzativa e di responsabilità. L’homo œconomicus aumenta dunque il suo livello di competitività, sia che questo implichi una modifica della propria griglia di codificazione della realtà, sia che questo significhi un’attenuazione dei suoi tratti caratteriali più personali e gli effetti di questa rielaborazione antropologica ricadono chiaramente sulla sua percezione esistenziale.14 L’individuo neoliberale svolge le sue azioni quotidiane o i suoi processi decisionali focalizzandosi sulla loro intrinseca finalità (studiare per trovare un buon lavoro, innamorarsi per sposarsi, risparmiare per consolidare una stabilità economica in vecchiaia etc.) e ognuna di esse è strettamente calcolabile in termini economici, secondo un rapporto dei costi e dei benefici. Scrive Laval: «Questa gestione di se stessi è in realtà comandata dal principio della concorrenza che viene imposto dalla competitività. Si tratta di una gestione di se stessi tramite lo stress, un management di sé attraverso la pressione della concorrenza».15
Quando si iniziano a esaminare le proprie azioni, selezionandole unicamente in base agli effetti e le conseguenze che producono in termini economici, si è portati necessariamente a privilegiare quegli aspetti di sé che consentono una gestione più snella delle situazioni che l’ambiente propone – e che spesso vengono considerate genericamente critiche, anche quando di critico vi è solo la percezione della nostra soggettività e l’esigenza di parametrarla e standardizzarla costantemente ad un principio d’idoneità – e a valutare positivamente ogni carattere individuale in quanto utile. Come scrive Tiqqun: «La Jeune-Fille16 concepisce la propria esistenza come un problema di gestione che aspetta da lei la soluzione».17 Non si tratta di mettere a fuoco all’interno di sé i caratteri che meglio ci rappresentano e di valorizzarli in quanto tali, quanto di considerare gli aspetti che meglio ci permettono di adattarci a una situazione; se nel primo caso si ha un riconoscimento del proprio capitale umano,18 nel secondo si ha una valutazione dello stesso in quanto scambiabile, spendibile, mercificabile: «La Jeune-Fille si considera come la detentrice di un potere sacro: quello della merce».19
Il lavoro dell’homo oeconomicus non è l’attività svolta sul luogo di lavoro, fabbrica o impresa che sia, ma è l’attenzione costante rivolta al risultato o al fine della sua attività; all’interno di un processo decisionale, le scelte vengono soppesate in base alla possibilità di successo in relazione alla minimizzazione delle energie impiegate. All’interno del processo di costruzione di reti sociali, gli individui vengono selezionati tramite un calcolo del rapporto tra investimento e rischio della relazione – si pensi ai contatti sui social network e alla loro versatilità di ruolo; amici, utenti, ma anche fruitori più o meno indiretti di campagne pubblicitarie. Anche quando pensiamo di essere estranei al sistema dominante, siamo in realtà portatori di un potere che ci auto-riconosciamo, quello di attribuire un prezzo e commerciare la nostra reificazione, e ci occupiamo di sfruttare la nostra personale miniera di risorse nel modo più vantaggioso: «L’applicazione della forma-capitale a ogni cosa – capitale salute, capitale abbronzatura, capitale simpatia ecc. – e in modo più particolare al corpo, significa che la mediazione tramite la totalità sociale alienata si è introdotta nei rapporti retti finora dall’immediatezza».20 Read usa l’espressione di «capitalism without capitalism»,21 per designare il neoliberalismo, da un lato come sistema che si concentra sul mantenimento della proprietà privata e sulla distribuzione della ricchezza, spogliata dall’antagonismo e dall’incertezza del capitalismo, dall’altro come una pratica che paradossalmente estende il capitalismo, in particolare i suoi simboli, i suoi termini e la sua logica, a tutti gli aspetti della società. A tal proposito, trovo appropriata la lettura del neoliberalismo come una rete onnipervasiva, che intreccia – ma allo stesso tempo vincola – i nostri corpi e li assimila a un carattere unico, la loro monetizzabilità:
Il denaro ha smesso di essere il termine ultimo dell’economia. Il suo trionfo l’ha deprezzato. Nessuno gli porta più rispetto, nel gregge biopolitico. La moneta vivente è ciò che viene a prendere il posto del denaro come equivalente generale, ciò in vista di che vale. Questo è il suo valore e la sua concretezza. L’alto livello «d’individualizzazione» degli uomini e delle loro produzioni che aveva reso il denaro inadatto a fungere da mediatore nei rapporti puramente personali si capovolge in condizione della diffusione della moneta vivente […].22
Mi discosto invece dall’idea che concettualizza questa pratica governamentale come un capitalismo alleggerito dalla componente competitiva e dall’incertezza che da essa deriva. Inizialmente confinata nello spazio del mercato, la competitività si è mossa, diffondendosi, non estinguendosi. Se la storia occidentale ci ha parlato della fine delle gerarchie tradizionali e di una configurazione moderna di uguaglianza formale in epoca moderna, ci ha anche però mostrato diversi campi aperti a nuove diseguaglianze. La competizione capitalistica del secolo scorso, necessaria per la corsa al successo, si è tramutata oggi nei sentimenti del risentimento, dell’invidia, del tentativo ossessivo di emulazione che ritroviamo in ogni contesto ordinato; come scrive Casiccia: «Se le gerarchie e il loro ordine sacro non valgono più, e se quindi l’altro è davvero il mio simile, allora non posso tollerare il suo presentarsi a un più alto livello di reddito, ricchezza, stile di vita. È il paradosso della “differenza egualitaria”».23
Eppure c’è un’etica che rende l’imperativo della competizione così perdurante, nonostante il susseguirsi delle varie fasi storico-economiche, e così impermeabile ai loro cambiamenti; la scelta del migliore, inteso come più meritevole, la prevalenza del più adatto, in quanto più abile, incarnano un principio di elezione applicabile alle più diverse attività umane, da cui la sua inarrestabile diffusione.24 Il concetto di competizione è, certo, ambivalente, ma l’oscillazione tra la sua componente cooperativa – quella più propria del cum petere, ossia del tendere insieme verso un obiettivo condivisibile – e quella antagonistico-conflittuale si omogenizza nel tempo. Così la cooperatività viene discussa e teorizzata quanto più marginalizzata e il conflitto viene mascherato quanto più persiste.
2. Governance e gestione della crisi
L’obiettivo finale del sistema neoliberale non è quello di perpetrarsi all’insegna di un ordine e di una coerenza prestabilita, bensì unicamente di perpetrarsi; motivo per cui la governance non si occupa di instaurare un ordine sociale su un territorio circoscritto e di lasciare il disordine al di fuori dei suoi confini, quanto di inglobare i fattori di incertezza rendendoli il più possibile circoscrivibili, mantenendo aperta la comunicazione tra le varie componenti del tessuto sociale. In altre parole, la governance non è altro che un gioco precario di equilibri che utilizza il tempo come principio di regolazione interna, affinché la gestione dei fattori di rischio si attui nel modo più efficiente – non necessariamente più etico – possibile. Il tradizionale concetto di governo presupponeva l’identificazione di alcuni valori da tutelare nello svolgimento della pratica amministrativa e direzionale e operava sperando di «inculcare per legge la ragione nella realtà»;25 la governance invece procede in direzione opposta, non assumendo valori e non tutelandoli in vista di alcuno scopo, traguardo o modello ideale. Se l’idea di governo tradizionale è quindi quella di un processo organizzato in vista di un fine, la governance è invece un processo senza fine, un processo di processi. A questo proposito è significativa è la definizione di governance fornita dall’Organization for Economic Cooperation and Development, in un rapporto stilato nel 2001:
Government is no longer an appropriate definition of the way in which populations and territories are organised and administered. In a world where the participation of business and civil society is increasingly the norm, the term «governance» better defines the process by which we collectively solve our problems and meet our society’s needs, while government is rather the instrument we use.26
La governance intesa come processo che si perpetua è una tecnica allargata e aperta di regolazione sociale, è un modo di gestione della crisi dello Stato, è un sistema amministrativo che dialoga e contemporaneamente cerca di apprendere dai componenti della società civile che governa, prima considerati come destinatari e realizzatori di piani ideati dall’alto. La governance è liquida,27 poiché ogni forma fissa ostacola l’esercizio del governo puro che, infatti, in un grande movimento di fluidificazione generale, non presenta più sistemi d’arresto: «[Il sistema] più è fluido, più è governabile, più è democratico».28 Chiarificatrici sono a tale proposito le parole di Andronico, inserite in un capitolo significativamente intitolato Un ordine disordinato:
Primo: l’ordine della governance non è esterno ma (pretende di essere) interno alle volontà regolate. Secondo: ciò cui la governance intende rispondere è la crisi dell’idea per cui si potrebbe regolare la società dall’alto attraverso il ricorso ad un modello, quale che esso sia, e dunque attraverso quella legge dal pensiero moderno intesa quale strumento privilegiato di qualsiasi progetto di governo della società. Terzo: la governance non si presta ad essere inquadrata come una tecnica strumentale alla realizzazione di un fine già determinato, ma semmai come processo continuo di apprendimento per prove ed errori funzionale alla sua individuazione. […].^[29]
L’ordine della governance neoliberale è dunque sempre immanente, per quanto artificiale; la gestione dei rischi, degli errori e delle crisi sembra provenire dall’interno, tramite una progettualità costruita, ma spontanea. In altre parole, l’ordine neoliberale si costruisce, non è da costruire. La natura di quest’ordine governamentale, eccezion fatta per il suo tratto di intrinsecità, resta comunque da vagliare; governance non significa assenza di governo e i problemi interni alla governamentalità sono invariabilmente connessi al controllo, alla direzione e alla regolazione delle dinamiche economiche e sociali.
Poco sopra si è tentato di delineare un sistema governamentale che trova espressione in processi gestionali che non hanno alcuna finalità, a esclusione della propria sopravvivenza, che non mira a un controllo gerarchico della popolazione basato su una conoscenza statistica dettagliata e che tende a sostituire il rapporto di sudditanza verticale con i rappresentanti sociali, con una rete di comunicazioni ampia e sempre dilatabile. Nella sezione precedente, si tematizzavano invece i tratti di una società che ha contribuito alla diffusione della razionalità di mercato e che ha imparato a qualificare il reale secondo i parametri del costo e del rischio.29 Eccezion fatta per alcuni aspetti che si cercherà di approfondire nelle sezioni successive – quelli connessi al concetto di biopolitica – comincia qui a delinearsi il quadro complessivo di una società di sicurezza, incentrata sul dispositivo di sicurezza. Quest’ultimo presenta alcune peculiarità rispetto a quello disciplinare: si rivolge a un nuovo interlocutore sociale e a un nuovo soggetto politico collettivo, la popolazione; ha una tendenza a dilatare il suo raggio d’azione, caratterizzandosi come centrifugo, cerca di regolare «stando dentro l’elemento della realtà»,30 pensando i dettagli non come elementi positivi o negativi in sé, bensì come «processi necessari, inevitabili, naturali in senso lato, non pertinenti, al fine di ottenere un risultato che, in se stesso, sarà considerato come pertinente perché incide sul piano della popolazione».31 La società disciplinare è tollerante, aperta, pronta ad accogliere un certo margine di illegalità ineliminabile, come ad accettare identità collettive contrapposte tra loro, proprio perché liberale, e allo stesso tempo è sempre all’erta al fine di elaborare i sistemi più sottili e pervasivi di sorveglianza, volti a gestire tutti i rischi derivanti dalla libertà. Come all’interno di un sistema mercantile, che produce e richiede, il liberalismo commercia libertà; libertà che crea, che consuma e che chiede che gli sia costantemente restituita. Come scrive Senellart: «Foucault mostra che la libertà di cui ha bisogno il liberalismo per funzionare deve essere tanto prodotta da una costante azione di governo quanto protetta dalle usurpazioni che la minacciano. È il calcolo del costo della costruzione di questa libertà che costituisce il problema della sicurezza».32
Una delle libertà più significative che arricchisce e potenzia l’impianto governamentale neoliberale è l’arbitrarietà nella definizione del rischio, oltre che la possibilità di generare un codice di normazione proprio e la possibilità di classificazione di individui e azioni alla luce di questi parametri. Se, come sostiene Foucault,33 le produzioni di verità non si dissociano dal potere e dai suoi meccanismi, in primo luogo perché sono tali meccanismi di potere a renderle possibili e in secondo luogo perché tali produzioni hanno a loro volta effetti di potere, i discorsi nati all’interno di un certo assetto politico non possono prescindere dai suoi procedimenti o operare secondo regole autonome. È come se una «volontà di verità, così sorretta da un supporto e da una distribuzione istituzionali, tendesse ad esercitare sugli altri discorsi una sorta di pressione e quasi un potere di costrizione […]».34 In altri termini, il sistema che delinea la nozione di pericolosità – secondo le regole interne di un certo impianto politico, ontologico, linguistico ecc. – è lo stesso che individua all’interno dell’ordine sociale coloro che lo ostacolano, che si potrebbero denominare semplicemente resistenti: tutto ciò o tutti coloro che resistono alle procedure governamentali saranno sempre trattati come resistenti nella misura in cui si oppongono all’attuarsi di strategie di potere, che attaccano – con le loro manovre politiche di governo – quella stessa legittimità democratica in nome del quale operano.35 Analogamente, sono le stesse dinamiche di sistema a definire gli stati di crisi, di eccezionalità, di guerra, e a individuarli più o meno arbitrariamente nella realtà che si vive, così come a individuare le fasi che si attraversano storicamente e collocarle secondo un ordine internamente coerente: «Dall’Italia degli anni Settanta alle dirty wars di Obama l’antiterrorismo non è una spiacevole violazione dei nostri bei principi democratici, un’eccezione ai loro margini, bensì il continuo atto costituente delle democrazie contemporanee».36
La pericolosità di queste prassi che nominano non consiste nell’inesattezza terminologica di cui si fanno portatrici, poiché la posta in gioco non si colloca ad un livello puramente semantico, bensì nella loro performatività. Le strategie del potere hanno ripercussioni politiche nel momento in cui una percezione deviata delle situazioni correnti viene mostrata come esatta, puntuale, affidabile e quindi legittimata a modificare o plasmare la nostra comprensione di una realtà che è raramente intelligibile globalmente da parte dei singoli. La nozione di crisi ci dà un esempio perfetto di come i significati tradizionali possano trasmutarsi: in epoca neoliberale le finalità economiche e politiche convergono a tal punto da mescolarsi e da trasformare la crisi, da eventualità considerabile e risolvibile economicamente, a prassi, tecnica di governo. Quella che stiamo vivendo a partire dal 2008 non è una crisi economica, è piuttosto il fallimento dell’economia politica ereditata dal XVII secolo, il lento disfacimento dell’arte di governo tradizionale, il subentrare di una nuova pratica di governo che vede i sudditi diventare popolazione e che pone reti di comunicazione e di sorveglianza in sostituzione di schemi statistici di regolazione. Pratiche di governo inammissibili in tempi normali diventano accettabili e indiscutibili quando vengono previste come norme di sicurezza in risposta alla presunta straordinarietà della situazione. Parlare di crisi oggi allora ha significato solo se la si colloca all’interno di una griglia interpretativa che la decifra come una strategia di governo; come scrive il Comitato Invisibile: «Adottando la gestione della crisi come tecnica di governo il capitale37 non ha semplicemente sostituito il ricatto della catastrofe al culto del progresso, ma ha riservato per sé l’intelligenza strategica del presente, la vista d’insieme sulle operazioni in corso».38
La modernità, influenzata dalla visione fisiologica positivista, pensava la crisi come una fase di squilibrio o un momento di disorganicità che sopraggiungeva improvvisamente o ciclicamente, dalla durata più o meno lunga, ma comunque limitata. In quest’ordine di cose, i provvedimenti governativi servivano ad arginare la situazione di criticità, a porre fine all’insicurezza generale e la precisione degli strumenti o delle strategie attuate ne determinavano infine l’efficacia. La stessa prospettiva, che vedeva la crisi come una realtà precaria, non era estranea alle ideologie dei vari movimenti rivoluzionari che da sempre hanno letto in questo fenomeno segnali e prove rivelatrici dell’avvento di un nuovo ordine.
A voler ben guardare nella trama geopolitica degli eventi, si è però costretti a costatare, in primo luogo, che nuovi ordini si sono succeduti di volta in volta senza costituirsi come più equi – disattendendo quindi ogni rosea prospettiva rivoluzionaria –39 e in secondo luogo, che l’unico tratto da non poter attribuire alle crisi attuali è quello dell’instabilità. La crisi, lungi dall’essere quel momento di transizione in vista di altro, si configura invece come «fine senza fine, apocalisse duratura, sospensione indefinita, differimento efficace del crollo effettivo e perciò stato d’eccezione permanente».40 La crisi non è più pensata come uno stadio transitorio, bensì come un modo d’esistenza; in quest’ottica, i rimedi che prima erano diretti alla crisi, studiati per arrestarla o sorpassarla, ora sono diretti a noi, per adattarci alla situazione corrente senza smettere di consumare, per indurci a intessere con la catastrofe un rapporto d’abitudine angoscioso ma imperturbabile, per farci sopravvivere con l’entusiasmo sufficiente a produrre, ma non ad appassionarci irrazionalmente alle nostre attività. Il neoliberalismo prova nei confronti della crisi una fascinazione certa, riconducibile a una doppia matrice. Economicamente, la crisi è vantaggiosa; genera destabilizzazione dell’ordine dato e quindi incertezza, ma allo stesso modo crea selezione, opportunità, possibilità d’innovazione. È un fenomeno dal duplice volto, distruttivo e creativo, che stordisce paralizzando chiunque non abbia le attitudini per fronteggiarla, ma che premia i migliori, i più motivati, i più competitivi.41 Politicamente è utile; si appropria del mondo ristrutturandolo – che si parli di edifici, di quartieri, di norme, di legislazioni –, sconvolge le condizioni d’esistenza, ma allo stesso modo organizza le città e gli impieghi, gestisce interi Paesi con procedure di micro-management, crea nuovi ordini sempre più maneggevoli. Convinti di vivere in una realtà inaggirabile e senza alternative, offuscati dalla sensazione inevitabile di incertezza e di precarietà, nessuno di noi è in grado di produrre un pensiero critico o quanto meno differente. Da qualsiasi angolazione lo si prenda, il presente appare senza uscita: «non ha nemmeno la minore, tra le sue virtù. A coloro che vorrebbero assolutamente sperare, esso toglie ogni appiglio. Coloro che pretendono di avere delle soluzioni, sono smentiti nell’arco di un’ora. È cosa risaputa che tutto non può che andare che di male in peggio».42 Siamo così allarmati e giustamente preoccupati di non essere pronti a ogni eventualità – una catastrofe, la dissoluzione del sistema o un’insurrezione – e dall’idea che la crisi politica sia la crisi di tutti i modelli esistenti, da non avere spazi in cui immaginare anche solo altri piani d’azione rispetto a quelli correnti o progetti di conduzione politica alternativi. Analizzare la crisi politica nella sua essenza, come crisi dell’idea stessa di modello, ci aiuterebbe a riformularla e a sorpassarla con tutto il peso della sua criticità.
Il binario a cui siamo ancorati nella considerazione di questo fenomeno fa però apparire solo la penuria delle soluzioni esistenti, trasformando così la crisi costante nella prevenzione di ogni vera crisi, di ogni pensiero alternativo, di ogni pratica imprevista. La crisi si configura quindi come quello stato di derelizione che consente di agire su ognuno come si vuole con la consapevolezza di non trovare ostacoli, come strategia di gestione delle condotte, come ultima ratio del governo che ne prova il successo e la crescita. È un dato di fatto che la governance, tramite il dispositivo di sicurezza, ci faccia sentire sorvegliati e vincolati, ma sarebbe inesatto qualificare questa percezione come restrizione delle libertà personali, dal momento che l’estensione delle procedure di controllo è il corollario di una forma di potere che si realizza proprio tramite la libertà degli individui. Il potere della governamentalità neoliberale vive nell’ombra, organizzando spazi e regnando su interessi, invece di imporsi, esercitandosi direttamente sui corpi dei suoi soggetti e aspettandosi un’obbedienza suddita; motivo per cui ogni critica al neoliberalismo ideologicamente basata su una qualsiasi rivendicazione libertaria si è dimostrata storicamente inefficace. Per quanto il neoliberalismo si sia servito anche di campagne ideologiche che hanno permesso la diffusione di un certa fiducia nell’esattezza e nell’infallibilità delle dinamiche di mercato, non è a esse che si deve l’affermazione del suo regime di verità. Il potere neoliberale non ha ragione di imbrigliare le nostre volontà, poiché non si regge sulle nostre costrizioni ed è per questo motivo che le sue pratiche difficilmente risultano smascherabili in quanto false; non vi è alcun principio di efficienza economica che venga imposto coercitivamente, o dall’alto, su un pensiero originario e ingenuo, ma vi è un principio di razionalità che consente la definizione e favorisce la produzione di nuovi processi di soggettivazione. Scrive a tal proposito Leghissa:
[…] ciò che rende il discorso neoliberale efficace riposa sulla capacità da esso mostrata di plasmare un desiderio di autoaffermazione che, per realizzarsi, è disposto a pagare un certo prezzo. Questo prezzo consiste nella rinuncia a esercitare la libertà intesa come condivisione di uno spazio pubblico in cui manifestare il proprio interesse per la vita buona. Il prezzo potrà sembrare alto, ma evidentemente ne vale la pena: in cambio il neoliberalismo promette una gestione del desiderio talmente efficiente che nessuna paura di dover desiderare ciò che non serve turberà più il sonno.43
A partire dal XVIII secolo e dalla tendenza a imporsi di un certo costruttivismo, ci si accorge non solo che gli interessi sono plasmabili, orientabili, malleabili, in una parola governabili, ma anche che l’azione stessa del governare risulta più mirata, se perpetrata attraverso gli interessi. Detto altrimenti, l’uomo interessato è governabile tramite il suo interesse, l’uomo del desiderio tramite il suo desiderio. Scrive Laval: «Con il neoliberalismo la tendenza [a governare tramite interesse] viene spinta ulteriormente in avanti. Non si tratta più solamente di fabbricare il soggetto interessato e del desiderio, bensì il soggetto della performance e del godimento tramite dei dispositivi particolari».44 Il neoliberalismo governa quindi tramite le nostre libertà e non fa altro che incentivarle, producendole e scambiandole costantemente: «La funzione della Jeune-Fille consiste nel trasformare la promessa di libertà contenuta nel compimento della civiltà occidentale in surplus di alienazione, in approfondimento dell’ordine mercantile, in nuove servitù, in status quo politico».45 Infatti, a ben esaminare il vocabolario con cui ci riferiamo alla nostra emotività, con riduzione della libertà significhiamo specificatamente una limitazione delle possibilità di creare progetti originali a partire da dati disponibili, un controllo dei percorsi alternativi che utilizziamo per raggiungere certi obiettivi, una previsione dei fini che vogliamo raggiungere, come fossero già stabiliti. Il potere neoliberale vigila, sorveglia e controlla per intervenire solo quando il quadro d’insieme viene minacciato, solo quando c’è da riportare tra le righe l’imprevisto. La sensazione coercitiva è quindi inscindibile dalla consapevolezza di essere paradossalmente e allo stesso tempo liberi di creare, di realizzare o di immaginare tutto quello che vogliamo; non possiamo dire di essere schiavi, se non unicamente della nostra stessa razionalità, economica e neoliberale: «Per l’individuo non c’è libertà se non sotto sorveglianza».46 Come scrive Tiqqun:
Il tempo della comunità terribile è spiraliforme e di consistenza viscosa. È un tempo impenetrabile in cui la forma-progetto e la forma-abitudine incombono sulle vite lasciandole prive di spessore. Possiamo definirlo come il tempo della libertà ingenua, in cui tutti fanno ciò che vogliono, perché è impossibile volere altro da quello che già c’è.47
Una critica sensata ed efficace della governance si attuerà quindi nel momento stesso in cui un nuovo pensiero o una nuova percezione verranno prodotti e saranno i primi testimoni di un cambio di razionalità: «[La nostra diagnosi differenziale]48 stabilisce che noi siamo differenza, che la nostra ragione è la differenza dei discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la differenza delle maschere».49
3. Razionalità limitata
La nostra esistenza si colloca sempre in una realtà spazio-temporale caratterizzata da una cultura specifica, in cui si collocano altri individui simili a noi con cui istauriamo relazioni e confronti che ci permettono di costituire e vagliare schemi semantici in cui inserire i dati che ci pervengono. Se però ci consideriamo come individui isolati, circoscrivendo la nostra essenza alla sua componente meramente biologica e dimenticando momentaneamente ogni sovrastruttura culturale che la arricchisce, la crisi ci appare come una delle tante situazioni critiche che la nostra razionalità è chiamata quotidianamente ad affrontare, anche se di maggiore portata e intensità. Per la precisione, la risposta che diamo alla crisi presenta una metodologia di elaborazione analoga a quella che diamo per le scelte, più o meno difficili, che incontriamo nel nostro percorso esistenziale. Il metodo, che presuppone sempre un certo grado di attenzione concentrata da parte nostra, si incentra su due assunti, sintetizzabili nell’acquisizione di dati dall’ambiente che ci circonda e nell’elaborazione di alternative a partire dalla capacità di trarre inferenze più o meno esatte. In questa prospettiva, emerge forse più chiaramente come dare risposte sensate alle dinamiche che giungono dall’ambiente e che richiedono un nostro intervento sia generalmente difficile e lo è maggiormente se queste dinamiche sono di natura critica, imprevedibile o rischiosa. Scrivono Thaler e Sunstein:
Il nostro obiettivo era quello di offrire una breve panoramica sulla fallibilità degli essere umani. Il quadro che emerge è quello di individui presi da tante cose, che cercano di destreggiarsi in un mondo complesso nel quale non possono permettersi di ragionare a fondo ogni volta che devono fare una scelta. Per questo motivo, adottano regole pratiche ragionevoli che talvolta, però, li portano fuori strada. Poiché sono occupati e hanno una capacità di attenzione limitata, gli individui accettano le domande così come vengono poste, anziché cercare di stabilire se, a fronte di formulazioni alternative, darebbero risposte differenti […].50
Herbert Simon delinea tre concezioni alternative della razionalità, riconducibili sinteticamente al modello olimpico, comportamentale e intuitivo.51 A prescindere dalle peculiarità specifiche, ognuno di questi modelli condivide l’assunto secondo cui gli umani sono esseri razionali che hanno la possibilità di usare le proprie facoltà intellettive al fine di risolvere i problemi in cui si imbattono. Il sistema intuitivo si basa sul postulato secondo cui gran parte del pensiero e del successo degli esseri umani nel pervenire a decisioni convenienti sia dovuto alle loro facoltà intuitive ed è per questo compatibile tanto con il modello olimpico che con quello comportamentale. Per tale ragione, in questa sede si limiteranno le riflessioni sulla razionalità intuitiva e si rileveranno invece maggiormente le peculiarità degli altri due modelli, al fine di evidenziare le loro possibili divergenze e in quale misura essi diano una rappresentazione adeguata della realtà. Tanto la razionalità olimpica quanto quella comportamentale concordano nel vedere la ragione come un fatto puramente strumentale, che non può indicarci certamente un fine, ma può unicamente suggerci come raggiungerlo; se il primo modello però muove da un certo ottimismo riguardo all’intensità con cui usiamo le nostre facoltà intellettive, il secondo si concentra più sugli errori in cui comunemente incappiamo quando siamo di fronte a situazioni problematiche. Thaler e Sunstein, basandosi sul grado di certezza delle previsioni che mettiamo in atto ogni giorno a proposito delle situazioni future, distinguono l’homo sapiens, l’uomo comune, dall’ homo œconomicus, un individuo «in grado di ragionare e scegliere in modo infallibile, conformemente all’immagine degli esseri umani che ci viene proposta nei libri di testo di economia».52 Questa tipizzazione, sintetizzata poi nell’espressione di Econi e Umani,53 riprende quella stessa distinzione che Simon evidenziava tra il modello di utilità soggettiva e il modello di razionalità limitata;54 in questo caso però, l’autore non contrappone all’homo œconomicus l’homo sapiens, bensì l’uomo amministrativo, un uomo comune che tende a «”massimizzare”, in quanto gli basta “soddisfare”, nel senso che si limita ad accettare la prima linea di condotta che reputa soddisfacente».55 In questa sezione, non si tratta di stabilire quanto queste tipologie umane si rispecchino concretamente negli individui o se sia possibile giungere a una definizione univoca di homo œconomicus, da fissare a mente e perseguire come modello ideale, ma di vagliare gli scenari che questi modelli delineano.
La teoria dell’utilità soggettiva presume che (1) ogni soggetto abbia una propria funzione di utilità ben delineata e che sia in grado di quantificare il suo gradimento, attribuendo ad esempio un numero cardinale alla serie di eventi futuri che gli si prospettano. Supponendo che (2) l’ambiente circostante presenti all’individuo un gruppo di alternative tra cui scegliere e che (3) il soggetto in questione sia in grado di distribuire logicamente le probabilità di ogni scenario futuro, la teoria prevede che (4) egli scelga l’alternativa o la strategia di alternative che massimizza il valore previsto dalla funzione d’utilità, indicata precedentemente nel punto (1).56 In altre parole, il modello di utilità soggettiva presuppone che il soggetto decisionale goda di una visione onnicomprensiva di tutto quello che gli si pone spazio-temporalmente di fronte, che gli consenta di valutare la gamma complessiva delle alternative che gli si prospettano – tanto nell’immediato quanto nel panorama del futuro – e le loro possibili conseguenze. Questa teoria – definitiva anche olimpica – parla di un soggetto decisionale in grado di costituire un ordine degli scenari possibili, in base alla loro più o meno adeguata conformità al fine prefissato e in base alla loro probabilità di verificarsi. Se la capacità predittiva dell’individuo descritto da questo impianto concettuale è confermata, appare plausibile che egli stesso sia poi in grado di prediligere il corso d’azioni o la strategia che soddisfa più pienamente la propria funzione d’utilità. A proposito delle nostre capacità predittive, scrivono Thaler e Sunstein:
Gli individui non devono necessariamente saper fare previsioni perfette (per far questo bisognerebbe essere onniscienti); tuttavia, devono essere in grado di fare previsioni non distorte. In altre parole, le previsioni possono rivelarsi sbagliate, ma non possono essere sistematicamente e prevedibilmente sbagliate.57
Queste parole mettono in luce uno scenario che contrasta con la possibilità sopra delineata di un individuo capace di massimizzare l’utilità attesa, per la sua sostanziale difficoltà nel soddisfare l’assunto primario, ossia il compiere previsioni buone, quando non esatte. Gli errori di pianificazione vengono compiuti così frequentemente da parte dei soggetti decisionali da poter essere racchiusi in statistiche e casi di studio, tramite i quali siamo in grado di distinguere le fallacie che si riferiscono direttamente alla logica del pensiero e alle nostre facoltà intellettive, dalle fallacie che si riferiscono al contesto sociale che ci circonda e da cui siamo inevitabilmente influenzati. Nel primo caso si parla delle distorsioni, dell’eccesso d’ottimismo, degli «ancoraggi» e di tutte quelle tecniche – spesso utili, ma quasi mai precise – a cui ci affidiamo per compiere delle scelte,58 nel secondo dei cambiamenti d’opinione che manifestiamo quando non vogliamo contraddire il gruppo sociale attorno a noi per inerzia o perché non ci sentiamo all’altezza di farlo.59
Se non vogliamo passare in rassegna le molteplici fallacie in cui incorriamo tutte le volte che siamo certi di pensare razionalmente, tenere però a mente quelle restrizioni generali che limitano il nostro pensiero predittivo e ci impediscono una lettura chiara del reale può servire al fine di vagliare il significato dell’espressione razionalità limitata. L’attenzione, l’attribuzione di valori e la probabilità degli eventi sono gli ambiti in cui il nostro ragionare incontra le maggiori problematicità. Se nel primo caso abbiamo difficoltà a concentrarci su una situazione senza rincorrere mentalmente le varie sequenze in cui si articola il pensiero, nel secondo caso non siamo in grado di attribuire valore relativo a più obiettivi e nel terzo non possiamo prendere delle decisioni chiare se le loro conseguenze nel futuro risultano incerte o se risulta incerto lo scenario complessivo che si profila.60 La disamina di queste limitazioni alle nostre procedure decisionali non vuole presentare la norma dell’utilità soggettiva in quanto approssimazione di un modello ideale o rimarcare la sua inadeguatezza nel dare risposte soddisfacenti ai problemi reali, quanto rendere il più chiaro possibile il contesto da cui muove l’azione umana, al fine di suggerire la sostanziale impossibilità del soggetto agente di aderire al modello olimpico. Le nostre azioni risultano spesso poco lungimiranti poiché le scelte che ne stanno alla base prendono le mosse da sfondi complessi, raramente districabili alla luce delle nostre capacità, indipendentemente dal nostro impegno o dalla nostra applicazione:
Gli esseri umani non hanno né l’opportunità di fatto né un’adeguata struttura di valori né le capacità razionali che, tutte, sarebbero necessarie, anche nelle situazioni relativamente semplici simulate dalla prova di laboratorio, per applicare i principi dell’utilità soggettiva attesa.61
Le considerazioni avanzate a proposito della teoria dell’utilità soggettiva mostrano tutta la difficoltà d’elaborazione del processo decisionale e la sproporzione esistente tra le aspettative del singolo attore e le sue visioni predittive, che si dimostrano poi effettivamente limitate. L’esperienza concreta ci dà d’altro canto la prova che, nonostante ostacoli e limitazioni, le creature dotate delle nostre capacità mentali sono sopravvissute per milioni di anni, tramite processi d’evoluzione e d’adattamento all’ambiente, ma anche grazie a scelte compiute quotidianamente, che hanno permesso loro di prosperare e che non possono, quindi, essere totalmente messe in discussione. La storia o il progresso non ci consentono di definire il corso degli eventi passati come il migliore possibile secondo una prospettiva teleologica, ma ci permettono di delineare con chiarezza gli elementi che accomunano ogni processo decisionale e il contesto concreto nel quale gli individui affrontano le loro scelte.
Ogni riflessione necessita un certo grado di attenzione concentrata, per la messa a fuoco degli aspetti essenziali al processo razionale, e di un meccanismo che permetta di elaborare le alternative; di fatto, la ricerca di piani alternativi o il miglioramento delle opzioni di cui disponiamo coincide nella maggior parte dei casi con la soluzione ai nostri problemi. Il processo decisionale prosegue con l’acquisizione di dati di fatto sull’ambiente circostante e si conclude con l’inferenza da questi dati. Le inferenze difficilmente realizzano l’optimum ipotizzabile; diversi esperimenti hanno mostrato infatti come le scelte compiute da un individuo siano spesso subordinate a una serie di aspetti non strettamente connessi alla logica del ragionamento.62 Per il principio d’ordine di apparizione delle alternative, ad esempio, se l’opzione A viene presentata prima dell’opzione B, A sembrerà più appetibile o più soddisfacente di B senza alcun motivo fondato razionalmente. In tali casi, le scelta viene condizionata totalmente dalla formulazione della questione, per il fenomeno noto come framing, secondo cui «le scelte dipendono, in parte, dalla maniera in cui i problemi vengono presentati».63 L’individuo tratteggiato dalla teoria della razionalità limitata non condivide certo il fascino del soggetto decisionale del modello olimpico, quel semi-dio capace di previsioni onnicomprensive. Le stesse proprietà del modello comportamentale si allontanano da quelle formali della teoria dell’utilità soggettiva, eppure spiegano efficacemente come gli esseri viventi, compreso l’uomo, con le loro limitate facoltà di valutazione, facciano scelte di adattamento e sopravvivano in modo soddisfacente all’interno di un mondo che non comprendono mai pienamente. Prendere coscienza del fatto che i risultati raggiunti dai nostri sforzi razionali sono raramente ottimali, che le nostre capacità di inferenza sono piuttosto modeste e che nulla assicura che le nostre scelte siano effettivamente logiche, comporta una modifica dei principi-guida delle nostre azioni, che si estrinseca poi in pratiche diversificate e in modi altrettanto diversificati di intendere il proprio vivere. Sostenere che la razionalità umana incontra limiti di vario genere, etici, culturali, emotivi, ma soprattutto trova il suo limite nell’impossibilità di prevedere con certezza le conseguenze delle singole decisioni, fa diventare «la razionalità di una scelta, la funzione di un incessante processo di apprendimento».64 Il principio di razionalità limitata, e il principio di adeguamento conseguente, diventa quindi la chiave di volta che congiunge le pratiche soggettive con quelle governamentali; come l’arte di governo è una prassi procedurale di progressivo e infinito miglioramento, la prassi dell’individuo è il banco di prova per un costante e inarrestabile perfezionamento di sé. Il riconoscimento della fallibilità dell’individuo, protagonista delle sue scelte di vita o membro di un’impresa, si tramuta subito in necessità di mascherarla, di porvi rimedio, a tutti i costi e repentinamente, e porta a una sopravvalutazione dell’ideale del perfezionamento di sé, proprio in quanto inesauribile, aperto65 e sostanzialmente senza scopo. La performance dell’impresa è la somma delle performance di ciascuno. Ogni salariato deve rispondere alle logiche della competitività e deve sviluppare una condotta orientata verso l’aumento delle proprie performance, deve essere completamente coinvolto dal suo lavoro, responsabile dei risultati individuali, motivato dai sistemi d’incitazione: dar prova di una disposizione interiore, di un ethos frutto di un’obbedienza passiva ed esterna a delle regole, ma di un autentico lavoro su se stesso, di una nuova etica imprenditoriale. Si tratta di lavorare incessantemente al proprio perfezionamento.66
4. Biopolitica
Nella prima sezione di questo contributo si è discusso come il sistema neoliberale plasmi di riflesso l’homo œconomicus, soggetto preso in considerazione unicamente nel suo agire in vista dell’interesse personale e della massimizzazione del suo desiderio e prevedibile quindi nella sua razionalità. L’individuo, consapevole di essere portatore di un capitale spendibile e – conseguentemente – di valore, si tramuta in agente economico; si impegna ad assumere una mentalità imprenditoriale, eliminando tutti gli aspetti del suo pensiero creativo, non finalizzabili ad un risultato concreto, e sacrificandosi in quel processo di infinita auto-valorizzazione, strettamente interrelato con le modalità della valutazione finanziaria delle imprese. L’homo œconomicus, al fine di adeguarsi alle norme di un nuovo tipo di scambio, compie quindi un immenso lavoro su di sé, che consiste nel dare risalto ai suoi risultati, mascherando allo stesso tempo gli sforzi compiuti per ottenerli: «Con la Jeune-Fille non solo la merce si impadronisce della soggettività umana, ma per prima cosa la soggettività umana si rivela come interiorizzazione della merce».^[68] Il contesto sociale, che accoglie questo nuovo individuo in costante evoluzione, è un mondo che usa la parola competitività – accostata a quella di produttività o di efficienza – per indicare tanto le buone prestazioni di un’impresa, quanto quelle dei membri delle aziende, che vede i confini della vita privata dilatarsi e confondersi con gli orari della vita lavorativa e i tempi produttivi comprimersi, nel loro tendere all’intensificazione e all’accelerazione. In questa realtà, è il principio di prestazione a trionfare, imponendosi ben oltre la sfera economica, in ogni relazione sociale e in ogni rapporto personale e interpersonale. Ogni tentativo di modifica della personalità si fonda su una solida fede nel principio di prestazione, incurante della sua inefficacia o paradossalità, quando portato all’estremo; ogni cambiamento individuale e interiore è previsto unicamente come miglioramento delle proprie abilità; ogni rapporto con l’altro è percepito in funzione della sua collocazione di ruolo o della sua destinazione futura.
La seconda sezione di questo testo si è invece concentrata sul contesto politico-istituzionale che circonda il soggetto neoliberale. Si è indagato il concetto aperto di governance, non in quanto assenza di governo, ma in quanto governamentalità in potenza, in divenire, processo di processi mirato unicamente alla sua continua perpetrazione. Se il government tradizionale si concentra sull’elaborazione di norme giuridiche e sull’aderenza delle condotte individuali alle prescrizioni normative, la nuova governance genera, senza pianificazione, un complesso intreccio di dispositivi e organismi rappresentativi che attua un controllo a distanza, senza necessità di presa o contatto sui corpi – steering at the distance. Parlare di governamentalità neoliberale ha poi significato per delineare i tratti di una société de securité così allarmata dall’idea di non riuscire a prevedere i rischi e arginarli tempestivamente da aver generato una cultura del pericolo; la nozione di crisi è quindi stata utilizzata come concetto-esempio, che mostrasse come l’apprensione di rassicurazione del governo si tramuti in strategia di controllo, pronta a modificare di volta in volta la conformazione stessa del concetto di rischio. Su queste basi, produrre il soggetto come libero significa riconoscergli il diritto di agire come vuole ma, allo stesso tempo, concorrere all’armonizzazione della sua libertà, al fine di renderla compatibile, governabile, in una parola, docile rispetto a corrispettivi schemi di regolazione governamentale, che godono essenzialmente della stessa tipologia di libertà. In altri termini, «il sistema giuridico viene reso incapace di offrire legittimazione alle aspirazioni di autonomia individuale tendenzialmente non riconducibili alla razionalità economica».^[69]
La terza sezione ha ricostruito infine le risposte date dal soggetto neoliberale al contesto biologico circostante, indagandone le procedure decisionali, le fallacie inferenziali e le limitazioni intrinseche la sua stessa razionalità. Rispetto a un modello di razionalità lineare e senza dubbio affascinante, ci si è trovati a incoraggiare un modello di razionalità più modesto, denominato pertinentemente della razionalità limitata, poco persuasivo nella sua formulazione ideale, ma più vicino alla realizzazione effettiva. Il modello comportamentale mostrava però anche un individuo che, conscio delle sue limitazioni e consapevole al tempo stesso di trovarsi in una realtà, come quella attuale, che richiede elevati livelli di prestazione e sempre finalizzata alla produzione, risulta disposto a compensare i propri limiti intellettivi con altrettanti sforzi d’apprendimento.
Ora, nello snodarsi del percorso concettuale tracciato, si sarà notato che ogni elemento che andava ad arricchire la caratterizzazione del soggetto neoliberale contribuiva simultaneamente alla delineazione dell’ambiente politico-istituzionale all’interno del quale esso si costituiva. Aldilà della naturale relazione che si crea tradizionalmente tra individuo e ambiente, la chiave di questa simbiosi particolare risiede nel concetto di biopolitica, indirettamente suggerita e tratteggiata sin dall’inizio del percorso teorico qui proposto. Più precisamente, il motivo per cui finora si è trattato insistentemente di razionalità economica e di libertà consiste nel legame che questi due elementi intrattengono con il concetto di biopolitica. In primo luogo, parlare di razionalità economica vuol dire sollevare la questione del regime generale della ragione di governo, ossia la questione della verità, che sotto la governamentalità neoliberale assume la forma di verità economica; poiché «non si può capir nulla del sapere economico se non si sa come si esercita, nel quotidiano, il potere, ed il potere economico».67 Il meccanismo naturale del mercato, con la formazione del prezzo conseguentemente naturale, permette di falsificare e verificare la pratica governamentale, qualora si valuti sulla base di questi elementi cosa fa il governo, che provvedimenti adotta e che regole impone. Così presentata, la naturalità del mercato contiene il principio di verità a cui si conforma ogni giudizio sull’azione umana, «nel senso che tale naturalità fonda in ultima istanza il modello in base al quale viene attribuito un significato a tutti i processi di soggettivazione».68 Il mercato diventa quindi rivelatore di qualcosa che è come una verità e la verità entra in gioco nei meccanismi che reggono la logica di governo (neo)liberale e nella sua razionalità.69
Non c’è alcuna resistenza che possa essere esercitata nei confronti del progetto politico neoliberale che sia esterno al campo di forza determinato dalle sue stesse pratiche e dai suoi saperi. Il motivo per cui ci si concentra e si insiste sulla formazione e il funzionamento delle procedure governamentali, sulla sua ragione di governo e sui suoi meccanismi di veridizione, rientra dunque nel tentativo di creare una percezione profonda della realtà circostante, che produca delle linee di pensiero alternative e non ideologiche, da contrapporre alla forma mentis neoliberale e al suo modo di concettualizzare. L’indagine dei meccanismi governamentali richiama, in secondo luogo, una riflessione sull’area di libertà che queste procedure indirettamente circoscrivono e sulla conformazione che assume questa libertà. Scrive infatti Foucault nella Nascita della biopolitica:
Se in fondo, il liberalismo è un’arte di governo che manipola soprattutto gli interessi, non può – ed è questo il rovescio della medaglia – manipolare gli interessi senza al tempo stesso farsi carico dei pericoli e dei meccanismi di sicurezza/libertà, del rapporto sicurezza /libertà che deve assicurare, agli individui o alla collettività, che saranno esposti il meno possibile ai pericoli.^[73]
Questo rapporto di mutua dipendenza tra libertà e sicurezza è in primo luogo responsabile dell’ideale liberale del vivere pericolosamente, da intendersi come la costruzione di un’atmosfera ostile e piena di pericolo in cui vivono gli individui. Non importa quanto il pericolo sia reale, quello che importa è la vividezza della percezione di coloro che si sentono accerchiati dal rischio e la paralisi che ciò crea nelle loro prassi.
L’amore «per la vita» di cui la Jeune-Fille si vanta tanto non è in realtà altro se non il suo odio per il pericolo. Con ciò ella professa soltanto la propria determinazione a mantenere un rapporto d’immediatezza con ciò che chiama «la vita», e che, va precisato, designa soltanto «la vita nello Spettacolo».70
La seconda conseguenza del liberalismo è l’estensione delle procedure di controllo, che costituiscono una contropartita e un contrappeso della libertà garantita. Queste procedure, concentrate a eliminare tutte le costrizioni, le coercizioni e le proibizioni specifiche dei dispositivi disciplinari si finalizzano invece alla costituzione di un sistema securitario, non orientato ad annullare le incertezze interne al sistema governamentale o privarle della loro realtà, quanto compensarle, prevederle e annullarle preventivamente. La terza circostanza determinata dal sistema neoliberale è data dalla combinazione delle due precedenti, ossia dalla congiunzione tra i dispositivi di sicurezza e il liberalismo. Questi due aspetti si legano in un modo originale rispetto a quanto avveniva con i sistemi disciplinari: «Il controllo non funge più, in questo caso, da contrappeso necessario alla libertà, diventa piuttosto il principio motore della libertà […]».71 Nascono dunque meccanismi che ispirano e accrescono le libertà, con l’introduzione di una proporzione che vede corrispondere, all’aumento del controllo, l’aumento della libertà.
Il legame radicale e ambiguo – perno della biopolitica – che viene a costituirsi tra libertà ed esigenze securitarie di controllo rappresenta la cornice più ampia in cui trovano posto tutti gli aspetti della società neoliberale esposti precedentemente. La governance si occupa di una società composta da individui limitatamente razionali, competitivi, reattivi agli stimoli ambientali economici e la gestisce incrementando l’efficienza, aumentando la produttività e limitando i rischi, tramite misure sofisticate di controllo. La governance neoliberale attua quindi quella sintesi e quel passaggio dalla microfisica dei meccanismi disciplinari alla microfisica delle tecniche di governo, anche nota come biopotere. Esposto in altri termini, la biopolitica è una forma di potere che rivolge la sua attenzione alla popolazione, intesa per la prima volta come grandezza da rapportarsi a una certa conformazione geografica e non come insieme dei cittadini sudditi di un sovrano, che mira alla salvaguardia della salute pubblica, tramite prevenzione, e lo fa applicando dispositivi securitari che si raffinano nel tempo. Questi elementi concettuali, presenti a partire dal XVIII secolo, si radicalizzano nel tempo e concorrono a stabilizzare l’arsenale teorico di una nuova modalità di esercizio della governamentalità che, in sostituzione dell’antico diritto di morte che caratterizzava il potere sovrano, vede estendersi un diritto che caratterizzerà tutta l’epoca moderna e contemporanea: il diritto sulla vita.72
A partire da un dato momento, un dispositivo del tutto eterogeneo a quello della rappresentazione giuridica viene acquisendo centralità: quello che guarda agli uomini non a come ad astratti soggetti di diritto e pena, ma come a corpi viventi. Al diritto di sovranità come potere di far morire e di lasciar vivere subentra quello di far vivere e lasciar morire.73
Foucault, nell’ultimo capitolo di La volontà di sapere, designa il biopotere come «questa grande tecnologia a due facce, anatomica e biologica, agente sull’individuo e sulla specie»,74 messa in atto nel corso dell’età classica, centrata, attraverso due forme di investimento della vita ancora distinte, ma non antitetiche, sull’assoggettamento dei corpi individuali e sulla regolamentazione delle popolazioni. Nella lezione dell’11 gennaio 1978, pubblicata in Sicurezza, Territorio, Popolazione, l’autore definisce inoltre la biopolitica o il biopotere come l’irrompere della naturalità della specie nell’artificialità politica dei rapporti di potere; scrive infatti:
Quest’anno vorrei iniziare lo studio di ciò che, in maniera un po’ vaga, ho chiamato il biopotere: una serie di fenomeni di un certo rilievo, ovvero l’insieme dei meccanismi grazie ai quali i tratti biologici che caratterizzano la specie umana diventano oggetto di una politica, di una strategia politica, di una strategia generale di potere.75
Dalle parole riportate, a emergere non è unicamente l’ipotesi di un potere che si rapporta in modo particolare ai cittadini, tramite la realizzazione di una nuova forma di governamentalità, bensì l’idea di una vita che, per la prima volta, irrompe nel potere; essa viene quindi considerata non nella sua essenza giuridica, sottoposta a controllo disciplinare, bensì valutata nella sua essenza biologica, misurata in quanto inserita nell’insieme più ampio della popolazione che la accoglie.76 Il dispositivo del biopotere intrattiene con il dispositivo disciplinare un rapporto ambivalente: da un lato vi si oppone, dall’altro ne segue i passi, accentuandone i processi e le conseguenze. Se è vero che i processi vitali vengono presi in considerazione in quanto appartenenti a un corpo sociale, che emerge come massa e come popolazione, e non più in quanto isolati all’interno dei corpi individuali che lo compongono, come avveniva con i dispositivi disciplinari, è anche vero che i corpi, anche in questo caso, non vengono solo repressi e controllati, ma anche amplificati e intensificati nelle loro forze. Il dispositivo biopolitico prende come oggetto del suo sapere «i problemi della natalità, della mortalità, della longevità, assunti […] sulla base di un’irrinunciabile inclinazione statistica»,77 rinuncia alla sicurezza dell’istituzione chiusa – la fabbrica, il carcere, gli istituti di correzione ecc. – in favore di una sicurezza garantita da dispositivi tecnologici e digitali ed estende la razionalità amministrativa-regolamentare sull’intera rete dei rapporti tra soggetti, amplificando quel processo che era già iniziato con il sistema disciplinare.
La biopolitica è quindi testimone di un intreccio di meccanismi e di una rete d’interazione complessa tra soggetti e potere, che vede la vita degli individui diventare oggetto di pratiche specifiche di governo. L’idea di soggetto civile che si rapporta allo Stato unicamente in termini di diritto si disgrega e l’apparato statale – con tutto il significato monolitico che questo termine tradizionalmente include – si trasforma in una peripezia78 di processi molto ampi che lo precedono e che ne attraversano i profili giuridico-istituzionali. L’elemento chiave del successo del biopotere all’interno del regime neoliberale e la ragione del loro sodalizio ha origine nella combinazione di due aspetti complementari: l’assenza di controllo governamentale diretto, nonostante la sua capillare estensione, e l’importanza assunta dalla politica nella nostra epoca, nella misura in cui ha paradossalmente ridotto la sua componente strettamente politica, includendone una più estesamente biologica. Se il potere neoliberale fosse tanto coercitivo quanto esteso, esso sarebbe anche insopportabile, a tal punto da venire rapidamente sovvertito e, se fosse accentrato unicamente sulla sua componente politica, risulterebbe mancante. Il rapporto che il biopotere intrattiene con la nuova forma di soggettività ha fondamento nel corpo, nuovo oggetto di interesse, da un lato, terreno sul quale il potere cerca di insinuarsi – controllandone l’interesse e la vitalità, più che coercizzandone la fisicità – dall’altro, spazio per la gestione individuale delle proprie risorse, da valorizzare e investire. La corporeità, improvvisamente, si rivela portatrice di un duplice peso politico; quello delle pratiche di cui subisce il controllo dettagliato, ma anche quello dell’emancipazione dalle pratiche stesse, di cui può diventare testimone:
Il corpo, così, viene trasformato in luogo pubblico, in terreno di scontro, nel senso che il controllo del vivente costituisce la posta in gioco di un confronto che costringe i soggetti non tanto a lottare contro l’invadenza del potere nelle proprie vite, quando a trasformare il valore connesso alla propria corporeità in arma di difesa e di lotta.79
Il cerchio che partiva dalla razionalità economica e limitata degli individui, che attraversava l’arcipelago concettuale della competizione, dell’eccesso di produttività, del timore del rischio e che terminava nel concetto aperto di governance si chiude ora grazie al concetto di corpo. È in vista di questa specifica ambivalenza che la corporeità, soggiogabile e resistente assieme, diventa l’unico elemento teorico in grado di legittimare pratiche governamentali opposte. Ed è proprio dal corpo che occorre ripartire nel tentativo, ancora tutto da articolare, di comprendere più a fondo lo stretto rapporto, che qui si è cercato di presentare nei suoi snodi essenziali, tra neoliberalismo, biopolitica e le forme di razionalità che da tale rapporto emergono.
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D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford, Oxford University Press, 2007, p. 3 (trad. mia). ↩︎
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Cfr. G. Leghissa, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 23-28. ↩︎
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Ivi, p. 95 sgg. ↩︎
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Mi riferisco al termine nella sua accezione più estesa, indicata da Foucault, in un’intervista pubblicata nel 1977: «Ciò che io cerco di individuare con questo nome è, in primo luogo, un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del non-detto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo esso stesso è la rete che si stabilisce fra questi elementi» (M. Foucault, Le jeu de Michel Foucault, in Id., Dits et Écrits, Gallimard, Paris 1994, 206). ↩︎
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L’importanza politica del tracciare una storia della veridizione, piuttosto che del vero, si deduce dalle parole di Foucault: «Ciò che invece ha importanza politica attuale è la capacità di determinare qual è il regime di veridizione che viene instaurato in un determinato momento […]. Ad avere importanza politica, dunque, non è tanto la storia del vero o quella del falso, bensì la storia della veridizione» (M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-79), a cura di F. Ewald e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 2005, p. 43-44). ↩︎
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Ivi, p. 22 sgg. ↩︎
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Con questo termine faccio riferimento a quella modalità di potere che ha come materia la popolazione, che si serve di dispositivi di sicurezza e che «porta con sé un elemento che non si risolve in ciò che si intende politicamente per “potere”». (B. Karsenti, La politica del «fuori» – Una lettura dei corsi di Foucault al Còllege de France (1977-1979) in S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), Ombre Corte, Verona 2006, p. 72).Per una storia della governamentalità si veda anche M. Foucault, Die «Gouvernementalität», in U. Bröckling, S. Krasmann, T. Lemke (a cura di), Gouvernementalität der Gegenwart, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2000, p. 41-68. ↩︎
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A tal proposito trovo interessante quanto si afferma nell’intervista con G. Raulet Strutturalismo e post-strutturalismo: «Io non ammetto assolutamente l’identificazione della ragione con l’insieme delle forme di razionalità, vale a dire all’interno dei tipi di sapere, delle forme della tecnica, e delle modalità di governo e di dominio. Per me nessuna forma determinata della razionalità coincide con la ragione. […]» (M. Foucault, Strutturalismo e post-strutturalismo, in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 320; tit. orig. Structuralism and Post-Structuralism, «Telos», XVI, 5, 1983; ripreso in D.Defert, F. Ewald Gallimard (a cura di), Dits et Écrits, Gallimard, cit., 330). ↩︎
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M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-79), cit., pp. 37-40. ↩︎
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J. Read, A Genealogy of Homo-Economicus: Neoliberalism and the Production of Subjectivity, «Foucault Studies», 6, 2009, p. 28 (trad. mia). ↩︎
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M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-79), cit., p. 73 e sgg. ↩︎
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Sulla possibilità delle azioni individuali di produrre effetti positivi, anche indirettamente, rimando all’analisi dei giochi condotta da E. Ostrom, in Governare i beni collettivi, Marsilio Editori, Venezia 2006, pp. 14-46 (tit. orig. Governing the commons: the evolution of institutions for collective action, Cambridge University Press, Cambridge 1990). ↩︎
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W. Davies, The Limits of Neoliberalism: Authority, Sovereignty and the Logic of Competition, SAGE Publications Ltd, London 2014, p. 72, (corsivo mio). ↩︎
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Non è questa la sede per sviluppare una riflessione su come si manifesti la competizione a livello naturale; rimando perciò a H.A. Simon, La ragione nelle vicende umane, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 81 e sgg. ↩︎
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C. Laval, Nuove soggettività e neoliberalismo, in Commonware, General Intellect in formazione, da una conferenza inedita tenuta il 18 maggio 2009, disponibile all’indirizzo: http://www.commonware.org/index.php/neetwork/411-nuove-soggettivita-neoliberismo. ↩︎
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La Jeune-Fille è il compimento più pieno dell’homo œconomicus, è il dispositivo perfetto della biopolitica: è un modello, che non rimanda ad un sesso e ad un’età, che permette di cogliere alcune delle forme produttive della soggettività su cui agisce il biopotere. «Intendiamoci: il concetto di Jeune-Fille chiaramente non è un concetto sessuato. In realtà la Jeune-Fille non è altro che il cittadino modello quale la società mercantile lo ridefinisce a partire dalla prima guerra mondiale, in risposta esplicita alla minaccia rivoluzionaria. In quanto tratta di una figura popolare, che orienta il divenire più di quanto non vi prevalga. […]» (Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, cit., p. 11). ↩︎
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Ivi, p. 60. ↩︎
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A tale proposito, trovo pertinente l’intervento di J. Read, A Genealogy of Homo-Economicus: Neoliberalism and the Production of Subjectivity, cit., p. 31: «Neoliberalism scrambles and exchanges the terms of opposition between ‘worker’ and ‘capitalist’. To quote Etienne Balibar, ‘The capitalist is defined as worker, as an ‘entrepreneur’; the worker, as the bearer of a capacity, of a human capital’». ↩︎
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Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, cit., p. 27. ↩︎
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Ivi, p. 61. ↩︎
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A Genealogy of Homo-Economicus: Neoliberalism and the Production of Subjectivity, cit., p. 32. ↩︎
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Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, cit., p. 103-104. ↩︎
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A. Casiccia, I paradossi della società competitiva, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011, p. 19. ↩︎
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A proposito di retaggi protestanti ancora diffusi nelle nostre architetture culturali, riporto un aforisma di Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, cit., p. 56: «L’etica protestante, decaduta tanto come principio generale del funzionamento della società quanto come norma di comportamento con la fine della ‘morale dei produttori’, si è trovata nello stesso tempo, e a ritmo accelerato dopo la seconda guerra mondiale, interamente riapplicata su scala individuale: governa da allora in maniera massiccia il rapporto che gli uomini hanno con il loro corpo, con le loro passioni, con la loro vita, che sottopongono alla logica economica». ↩︎
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Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 43 (tit. orig. Liquid modernity, Polity, Cambridge 2000). ↩︎
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OECD, Cities for Citizens. Improving Metropolitan Governance, OECD publications, Paris 2001, p. 36. ↩︎
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Nell’usare il termine liquido faccio riferimento a Bauman. Egli parla di modernità liquida, per indicare l’epoca attuale in cui, tanto le strutture politico-istituzionali, quanto i concetti sono sottoposti a un processo di metaforica fluidificazione, per cui passano dallo stato solido allo stato liquido, perdendo la nitidezza dei contorni. Proprio come i fluidi che non possiedono forma propria e assumono quella del loro contenitore, anche i concetti si trasformano e si ridefiniscono via via in base alle situazioni in cui si trovano a esistere. Cfr. Bauman, Modernità liquida, cit. ↩︎
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Comitato Invisibile, Ai nostri amici, stampato in proprio, 2015, p. 45. ↩︎
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Seguo sommariamente il discorso fatto da M. Foucault in Sicurezza, territorio, popolazione – Corsi al Collège de France (1977-78), Feltrinelli Editore, Milano 2010, pp. 49-69. (tit. orig. Sécurité, territoire, population: Cours au Collège de France (1977-1978), Seuil, Paris 2004). Più precisamente, si delinea la governamentalità come l’insieme delle modalità attraverso cui si esercita questa forma specifica di potere, «che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale» (Ivi, p.88). ↩︎
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Ivi, p. 47. ↩︎
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Ivi, p. 46. ↩︎
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M. Senellart, Michel Foucault: governamentalità e ragion di Stato, in S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), cit., p. 15. ↩︎
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M. Foucault, Potere e sapere, in Id., Il discorso, la storia, la verità, cit., p. 199. (tit. orig. Kentyoku to chi, Umi, 1977; ripreso in Dits et Écrits, cit., 216). ↩︎
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Ivi, p. 16. ↩︎
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Cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 2013, (tit. orig. L’Archéologie du savoir, Édition Gallimard, Paris, 1969). ↩︎
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Comitato Invisibile, Ai nostri amici, cit., p. 45. ↩︎
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Secondo il parere di chi scrive, è necessario prendere le distanze dal Comitato Invisibile quando parla di capitale in modo così poco chiaro per l’obiettivo che ci si è prefissati, esposto nelle prime pagine di questo lavoro: ossia di mantenere una prospettiva critica della realtà al fine di individuare gli spazi rimasti aperti, i varchi lasciati incustoditi, i non-detti ancora significanti all’interno delle pratiche di potere, al fine di riabitarli, ricostituirli, ridefinirli e, sostanzialmente, renderli nuovamente vivi in quanto resistenti. A tale proposito, condividere uno sguardo teorico che di volta in volta vede il Potere incarnarsi nel capitalismo o nel liberalismo o nel neoliberalismo o nello Stato, e che lo incasella come una realtà ontologica a sé stante, che si autoproduce e che attua strategie, al fine di controllare le coscienze e servirsene poi per riprodursi incessantemente, si dimostra miope. Si noti bene che rifiutarsi di considerare il capitale come una realtà monolitica o il legittimo referente delle dinamiche messe in luce dal Comitato, non significa ignorare la complessità delle relazioni di potere che si costituiscono intorno al esso, delegittimarle in sé o rinunciare a ricercare la genesi di processi che hanno conseguenze di grande impatto sulla nostra esistenza politica. Lo stesso Comitato, più avanti, scrive condivisibilmente: «Noialtri, rivoluzionari, non riusciamo a sottrarci alla sensazione che se perdiamo una dopo l’altra le battaglie è perché vengono condotte su un piano al quale non abbiamo mai avuto accesso. Ciò dipende in larga parte dal fatto che immaginiamo ancora il potere sotto forma di Stato, di Legge, di Disciplina, di Sovranità, mentre è in quanto governo che esso avanza continuamente. Cerchiamo il potere allo stato solido mentre ormai è da parecchio tempo che è passato allo stato liquido, se non gassoso. Presi dalla disperazione finiamo per sospettare di tutto quello che ancora possiede una forma precisa – abitudini, fedeltà, radicamento, padronanza o logica – mentre il potere si manifesta piuttosto nell’incessante dissoluzione di tutte le forme». (Comitato Invisibile, Ai nostri amici, cit., p. 45). ↩︎
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Ivi, p. 10. ↩︎
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«Noialtri rivoluzionari siamo i grandi cornuti della storia moderna. In una maniera o nell’altra si è sempre complici della propria cornificazione. Il fatto è doloroso e quindi, generalmente, viene negato. Abbiamo avuto nella crisi una fede cieca, così cieca e antica che non abbiamo visto come l’ordine neoliberale ne ha fatto la pietra angolare del suo arsenale. Esistono ancora dei marxisti che ci vendono la crisi attuale come «The Big One» e ci invitano ad aspettare la loro curiosa specie di Giudizio universale […]» (Ivi, p. 15). ↩︎
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Ivi, p. 17. ↩︎
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Si noti il Leitmotiv del principio di elezione dell’etica protestante, riadattata a quella neoliberale. ↩︎
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Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene, stampato in proprio, p. 3 (tit. orig. L’insurrection qui vient, La fabrique éditions, Mayenne 2015). ↩︎
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G. Leghissa, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, cit., p. 61, (corsivo mio). ↩︎
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C. Laval, Nuove soggettività e neoliberalismo, cit., p. 4. ↩︎
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Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, cit., p. 113. ↩︎
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Comitato Invisibile, Ai nostri amici, cit., p. 84. ↩︎
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Tiqqun, La comunità terribile. Sulla miseria dell’ambiente sovversivo, DeriveApprodi, Roma 2003, p. 10 (tit. orig. Thèses sur la communauté terrible. Comment faire? Ceci n’est pas un programme, «Tiqqun», 2, ottobre 2001. ↩︎
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Qui Foucault parla dell’analisi dell’archivio che, in quanto luogo di scarto delle nostre pratiche discorsive, ci distacca dalle nostre continuità e si rivela quindi anche come nostra diagnosi. M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 2013, p. 174-175. (tit. orig. L’Archéologie du savoir, Édition Gallimard, Paris, 1969). ↩︎
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Ivi, p. 175-176. ↩︎
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R. Thaler – C. R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile, Feltrinelli Editore, Milano 2014, p. 46. (tit. orig. Nudge. Improving decisions about Health, Wealth, and Happiness, Yale University Press, New Haven 2008). ↩︎
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H. A. Simon, La ragione nelle vicende umane, cit., pp. 33-71. ↩︎
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R. Thaler – C. R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile, cit., pp. 12. ↩︎
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Per la definizione di Econi: «Se leggete un manuale di economia, scoprirete che l’homo œconomicus ha le facoltà intellettuali di Alber Einstein, una capacità di memoria paragonabile a quella del Big Blue, il supercomputer della Ibm e una forza di volontà degna di Gandhi. Ma le persone che conosciamo non sono fatte così. Le persone vere riescono a malapena a fare una divisione lunga senza usare la calcolatrice. Non appartengono alla specie dell’homo œconomicus, ma a quella dell’homo sapiens. Per evitare di usare il latino, d’ora in poi nel riferirci a queste due specie, useremo le espressioni “Econi” e “Umani”» (Ivi, pp. 12-13). ↩︎
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H. A. Simon, La ragione nelle vicende umane, cit., pp. 33-71. ↩︎
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Ivi, p. 8. ↩︎
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Ivi, p. 44 e sgg. ↩︎
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R. Thaler – C. R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile, cit., p. 14, (corsivo mio). ↩︎
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A titolo d’esempio, si pensi alla planning fallacy, ossia la tendenza sistematica ad essere eccessivamente ottimisti riguardo al tempo necessario per portare a termine un’attività. A tal proposito, si veda D. Kahneman, P. Slovic, A. Tversky, Judgement under uncertainty: heuristics and biases, Cambridge University Press, Cambridge 1982. ↩︎
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R. Thaler – C. R. Sunstein, Nudge – La spinta gentile, cit., pp. 25-81. ↩︎
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A proposito della razionalità limitata nelle situazioni di incertezza è pertinente ricordare il Dilemma del prigioniero. H. A. Simon lo cita per spiegare come mai all’interno di sistemi complessi, i progetti formulati dai singoli attori difficilmente confluiscono negli obiettivi generali del sistema. Dallo stesso assunto parte anche E. Ostrom, ma giungendo a conclusioni differenti, provando la sostanziale inefficacia dell’applicazione di modelli alla realtà. H. A. Simon, La ragione nelle vicende umane, cit. p. 10; E. Ostrom, Governare i beni collettivi, cit., p. 14. Per una descrizione accurata del Dilemma, cfr. p. 46, nota 1. ↩︎
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H. A. Simon, La ragione nelle vicende umane, cit., p. 49. ↩︎
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Per un’analisi degli elementi apparentemente secondari, ma decisivi, che determinano le risposte formulate dai soggetti decisionali si veda R. Thaler – C. R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile, cit., pp. 25-81. ↩︎
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Ivi, p. 60. ↩︎
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A. Andronico, Viaggio al termine del diritto. Saggio sulla governance, cit., p. 80. ↩︎
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Bauman definisce aperto il fitness, «nel senso che non ha un traguardo specifico o un modello ideale, il quale, una volta raggiunto, giustificherebbe la fine degli sforzi», ma sono infiniti i campi a cui si applica questa caratterizzazione: la governamentalità, il management nelle imprese, il perfezionamento delle proprie competenze ecc. (Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 82-83, tit. orig. In search of politics, Polity Press, Cambridge 1999). A proposito di ideali aperti scrive Tiqqun: «La Jeune-Fille corre dietro alla salute come se si trattasse della salvezza» e ancora: «L’autocontrollo e l’autocostrizione della Jeune-Fille sono ottenuti mediante l’introiezione di due «necessità» indiscutibili: la reputazione e la salute» (Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, cit., p. 58 e 66). ↩︎
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C. Laval, Nuove soggettività e neoliberalismo, cit., p. 5. ↩︎
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M. Foucault, Conversazione sulla prigione: il libro e il suo metodo, in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, cit., p. 145 (tit. orig. Entretien sur la prison; le livre et sa methode, «Magazine Littraire», 101, 1975; ripreso in Dits et Écrit, Gallimard, Paris II, 156, 1994). ↩︎
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G. Leghissa, Neoliberalismo – Un’introduzione critica, cit., p. 50. ↩︎
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Questa ricerca, vista in un’altra ottica, appare quindi come una sezione minima di quell’immenso lavoro che impegnò Foucault nel corso di tutta la sua vita, da lui più volte descritto come la ricostruzione dei rapporti tra le forme di riflessività – il rapporto con sé o la costituzione del soggetto – e il discorso di verità, le forme di razionalità e gli effetti di conoscenza. «È questo il solo modo per porre il problema che, come Foucault stesso riconosce ne La volontà di sapere, avrebbe da subito guidato la maggior parte dei suoi libri, ovvero quello del modo in cui le produzioni discorsive nelle nostre società sono state storicamente legate, per ciò che attiene la determinazione del loro valore di verità, a meccanismi, istituzioni, tecniche e strategie di potere» (Pro-memoria, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, cit., p. 349). ↩︎
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Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, cit., p. 136. ↩︎
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M. Foucault, Nascita della biopolitica, Corso al Collège de France (1978-79), cit., p. 70. ↩︎
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M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, p. 119. (tit. orig. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976). ↩︎
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S. Chignola, L’impossibile del sovrano. Governamentalità e liberalismo in Michel Foucault, in S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), cit., p. 51. ↩︎
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M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 123. ↩︎
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M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-78), cit, p. 13. ↩︎
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M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 126. ↩︎
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S. Chignola, L’impossibile del sovrano. Governamentalità e liberalismo in Michel Foucault, in S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), cit., p. 54. ↩︎
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Cfr. Ivi, p. 47. ↩︎
-
G. Leghissa, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, cit., p. 45. ↩︎