Kairos: linee dell’evoluzione semantica del termine

1. Le origini

William Race definisce καιρός «one of the most interesting — and elusive — words in Greek»1 e in effetti diverse difficoltà hanno colto, e tutt’ora colgono, gli studiosi nei loro tentativi di fornirne una chiara ed esaustiva definizione. Nonostante il significato principale, relativamente tardo, ma consolidato, sia quello di «opportunità» e «momento critico», non si è ancora riusciti ad elaborare un quadro complessivo coerente di tutte le sue sfaccettature. Tali difficoltà sono dovute innanzitutto a una etimologia alquanto oscura e alla progressiva complessità semantica che ne ha caratterizzato l’evoluzione storica. Il problema principale è però la peculiare natura greca della nozione, che la rende estremamente sfuggente, se non del tutto intraducibile:2 «Καιρóς non poté mai familiarizzarsi ad alcun altro vocabolario nella sua forma linguistica greca» afferma Paula Philippson nel suo saggio,3 e sottolinea giustamente che neppure i latini hanno forgiato un termine equivalente a καιρóς, che resta così escluso dal loro dominio linguistico. La nozione che esso designa trova la sua massima espressione nel pensiero filosofico dei Presocratici, in Pindaro e nella grande tragedia attica, fino alla divinizzazione di cui abbiamo testimonianza a partire dal V sec. a. C.:4 nasce e si sviluppa in un contesto irripetibile e si connota quindi come concetto irripetibile, nel suo carattere fortemente greco e fortemente arcaico. A questo proposito, sullo specifico carattere del mondo greco, e in particolare di quello arcaico, sono forse appropriate le parole di Hillman, che ne mettono in risalto la distanza e, quindi, quanto sia complesso raggiungerne una piena comprensione: «La difficoltà che incontriamo quando cerchiamo di comprendere la visione greca del mondo è data dal fatto che mentre noi incominciamo sempre con un io, i greci incominciavano sempre con gli Dei».5

Comunque, nonostante la problematicità,6 numerose ipotesi sono state avanzate riguardo la derivazione del termine: Pierre Chantraine alla voce καιρός del suo Dictionnaire étymologique7 fornisce una panoramica delle opinioni più diffuse le quali tenderebbero a ricondurre la parola alla stessa radice di κερáννυμι (mischiare), o κρίνω (dividere), o κείρω (tagliare). Ipotesi affascinante è quella di Onians,8 cautamente appoggiata anche da Chantraine,9 secondo cui in origine non ci sarebbe distinzione tra καιρóς e και̃ρος (arco), nel senso che il primo costituirebbe un’evoluzione in senso figurativo del secondo, indicando così in un primo momento il passaggio, l’apertura attraverso cui l’arciere scocca la freccia e quindi, in seguito, l’istante «critico» in cui la freccia stessa è scoccata: supposizione che ha il merito di conservare la coappartenenza essenziale di elemento locativo ed elemento temporale. Tale posizione è caldamente sostenuta anche da Gallet che attribuisce all’evoluzione di καιρóς il valore di «congiuntura», sottolineandone la polisemia: esso indicherebbe essenzialmente il «nodo» che tiene assieme motivi diversi.10 Teodoro Levi,11 invece, associa il termine in questione a un gruppo di parole anch’esse dalla radice e dal significato oscuri, tra cui κήρ (morte) e κáρα (capo), soffermandosi in particolar modo sulla prima che viene accomunata a κείρω (tagliare),12 ipotizzando così una doppia radice originaria κερ e καρ; il significato primitivo sarebbe quindi quello di «mortale», evolutosi poi nei classici «opportuno» e «decisivo», che ne mantengono in vita la tonalità fatale. Alla medesima conclusione del Levi sembra giungere Monique Trédé-Boulmer che riallaccia la parola alla radice κερ e al verbo κείρω, ma anche a κρίνω, sottolineando che καιρóς, comunque lo si voglia tradurre, «implique à chaque fois une coupure, une rupture dans la continuità spatiale ou temporelle».13

La prima attestazione del termine risale ad Esiodo, ma già nell’Iliade, agli albori della cultura che segnano in qualche modo la nascita del mondo greco, sono presenti quattro occorrenze della forma aggettivale καίριος (IV, 185; VIII, 84; VIII, 326; XI, 439),14 fatto che sembrerebbe provare l’esistenza del sostantivo corrispondente,15 traducibile, in tutti i casi, con «mortale» e indicante il punto «critico», la parte più vulnerabile del corpo «where a weapon could easily penetrate to the life within».16 Tale uso dell’aggettivo è effettivamente in linea con le ipotesi etimologiche analizzate, nella misura in cui si accorda sia con la derivazione dalla radice κερ (da cui κήρ = morte), sia con la supposizione che vede annodati καιρóς e και̃ρος: all’immagine dell’arco, e dello scoccare della freccia, infatti, sono connesse da un lato la fatalità del colpo mortale, dall’altro l’individuazione di quell’unico punto critico del corpo che può davvero condannare il guerriero, pur essendo egli protetto dall’armatura. Alla luce di ciò non è difficile immaginare che proprio dall’uso omerico si sia lentamente sviluppato il significato figurato del termine. È probabile infatti che dall’originario «luogo critico», «lieu névralgique dont la lésion peut être décisive»17 καιρóς abbia progressivamente perso l’accezione spiccatamente locativa per andare ad indicare tutto ciò che è «determinante» e «risolutivo». Si pongono così le basi per un deciso ampliamento dei sui confini semantici che porterà gradualmente il termine a caricarsi di molteplici significati, fino alla standardizzazione del valore temporale. Ed è di non poco fascino osservare come, in un contesto come quello della grecità arcaica, ma, direi, proprio grazie ad esso, un termine possa evolversi così profondamente, andando a racchiudere in se stesso una molteplicità di suggestioni, all’apparenza così diverse, ma in realtà intimamente connesse, e tutte più o meno rintracciabili in quell’unica, prima occorrenza. Come dicevamo, la prima attestazione del sostantivo καιρóς risale, in realtà, ad Esiodo e in particolare alle Opere e Giorni: μέτρα φυλάσσεσθαι · καιρóς δ΄ ἐπί πᾶσιν ἄριστος18

È in questo ambito che il termine si evolve e si arricchisce semanticamente di un valore nuovo, quello di «giusta misura», «appropriatezza» che andrà a caratterizzarlo accanto, o in contrasto, a quello di «momento opportuno». A partire da Esiodo, e da Teognide, il termine viene infatti associato a συμμετρία e a μέτρον19 andando così a qualificare la buona riuscita di un’opera o di un’azione. Si consideri a tal proposito che il binomio καιρóς — συμμετρία avrà particolare fortuna oltre che nell’arte medica, come avremo modo di vedere più avanti, anche nelle arti figurative: per Lisippo di Sicione i due termini erano di fatto sinonimi, in quanto indicavano entrambi la bellezza intesa come perfetta armonia. Proprio a Lisippo è attribuita una scultura raffigurante il dio Καιρóς con l’aspetto di un giovane fanciullo, colto nell’attimo del movimento, ad indicarne la sfuggevolezza e l’inafferrabilità. Lo stesso Policleto contribuì a rafforzare il binomio καιρóς —συμμετρία, elevando il primo a fondamentale principio estetico. L’importanza che καιρóς riveste nell’arte è mirabilmente suggellata dal celebre detto di Callistrato: μóνος κἄλλους δημιουργóς ὁ Καιρóς.20

Chiosa così la Trédé-Boulmer: Le καιρóς, point decisi est aussi un point d’equilibre. Il assure harmonie et beauté, conformément aux principes de l’esthétique classique qui identifie le «beau» à l’accord des parties entre elle et avec le Tout.21

Tornando al verso esiodeo e all’accostamento di καιρóς con συμμετρία, e soprattutto con μέτρον, esso ne mette in luce un significato nuovo, in quanto identifica καιρóς con quella sfumatura impercettibile, quell’accortezza che permettono di trovare il giusto equilibrio fra le forze coinvolte. Questo stesso aspetto diventa centrale nell’analisi di Wilson e Race: il primo connota il καιρóς esiodeo come ««the right degree» between too much and too little»,22 il secondo afferma: «Here it is clear that καιρóς (like μέτρα) is a normative word with no apparent reference to time. It concernes the proper amount in the given circumastances», rimarcando la natura quasi sinonimica di καιρóς e μέτρον .23 Il merito di queste analisi è quello di mettere in luce un valore, quello di «giusta misura» che troppo spesso corre il rischio di essere dimenticato o sottovalutato dagli studiosi, per quanto non possa certamente essere ritenuto esaustivo. Diversa, infatti, è l’opinione di Levi che nel suo commento avanza riserve sull’autenticità del passo esiodeo e che comunque rifiuta l’identificazione, e anche un accostamento troppo stretto, fra καιρóς e μέτρον. In effetti, sebbene concorrano entrambi alla buona riuscita di un’azione, il primo indica la necessità che la suddetta venga compiuta nel momento opportuno, il secondo che, se si ci vuole ben condurre, ci si deve attenere alla giusta misura. Trovo convincenti le obiezioni di Levi circa la totale identificazione dei due termini, in quanto, considerandoli affini, ma non intercambiabili, non solo si rende maggiore giustizia alla ricchezza del passo in esame, ma sopratutto si lascia già intravedere in καιρóς la nascita di quel valore temporale di cui si è già parlato e che, da qui a breve, si imporrà prepotentemente, a discapito delle altre accezioni. Il passo esiodeo è sovente accostato al verso di Teognide: μηδὲν ἄγαν σπεύδειν · καιρóς δ΄ ἐπὶ πᾶσιν ἄριστος24 che ne riprende la seconda parte e ne esprime la stessa idea: anche qui infatti l’invito è a non affannarsi, a non perdere la misura e quindi a non intaccare l’equilibrio. Quello che comincia ad emergere in questi due poeti, e che emergerà ancora di più con Pindaro, è dunque un καιρóς propiziatore dell’azione efficace,25 occasione irripetibile, «quel felice attimo, nel quale le cose e le forze dell’uomo si mantengono in un equilibrio instabile, nel quale il giogo della bilancia sta orizzontale».26

Che si voglia mettere l’accento sul significato di «giusta misura» o di «opportunità» o di «momento critico» emerge chiaramente un aspetto importante del concetto in questione, e a ragione la Philippson lo esemplifica con l’immagine della bilancia in equilibrio. Καιρóς si definisce, infatti, sempre più, come risolutore dei contrasti: è quel momento, quella norma, quell’occasione in virtù di cui le cose, le esperienze trovano un equilibrio, fragile e quindi precario, ma perfetto. Questo particolare aspetto, per cui καιρóς appare come risolutivo delle contraddizioni, è forse il più importante ed essenziale, e avrà grande fortuna nelle successive teorizzazioni. Procedendo nell’analisi del termine in questione ci si rende forse sempre più conto delle sue specificità, e delle difficoltà cui andiamo incontro nel tentativo di comprenderlo appieno: in particolare sperimentiamo in maniera diretta che, come si era già cercato di accennare, si tratta di un concetto figlio di una realtà profondamente ambivalente, estremamente distante, se non totalmente perduta. Siamo, infatti, nell’epoca delle Teogonie, un’epoca in cui l’agire umano è ancora strettamente dipendente dall’agire divino e la realtà si connota essenzialmente come φύσις, come mistero, come enigmatica coappartenenza di mondo e uomo, natura e divino. L’uomo greco, sottolinea anche Vegetti nel suo studio L’etica degli antichi, vive intensamente tutto questo: la mancanza di «un’etica «ufficiale»» ha fatto sì che l’individuo rimanesse «esposto all’incertezza della scelta. Spesso egli si è pensato nella situazione di chi si trovi di fronte a un bivio, fra virtù e vizio, o fra morali contrapposte, e sia chiamato a scegliere».27 In questo contesto, καιρóς è allora sinonimo di σωφροσύνη,28 l’intelligenza sensibile del saggio che conosce le intime connessioni naturali e l’intrinseca contraddittorietà del mondo, ma riesce in qualche modo a risolvere le antitesi che ne derivano. «Καιρóν γνῶθι», «conosci il kairos», è, infatti, la sentenza attribuita a Pittaco di Mitilene, annoverato tra i Sette Sapienti.29

2. Sette sapienti e pitagorici

Oltre all’incisivo καιρóν γνῶθι di Pittaco, sono giunte fino a noi le sentenze di Biante, Solono e Chilone, che riporto qui di seguito:

Abbi nell’opera memoria, nell’opportunità circospezione, nel costume nobiltà, nella fatica resistenza, nel timore pietà, nella ricchezza amicizia, nella parola persuasione, nel silenzio dignità, nel giudizio giustizia, nell’audacia virilità, nell’impresa padronanza, nella fama il primato,30

Σφραγίζου τοὺς μὲν λóγους σιγῆι, τὴν δὲ σιγὴν καιρῶι ,31

μηδήν ἄγαν · καιρω̃ι πάντα πρόσεστι καλά.32

Quest’ultimo stabilisce un legame indissolubile fra il giusto e il bello attraverso il «momento opportuno», che solo rende armoniose le cose. Dalle sentenze dei Sette Sapienti emerge tutta la seducente ricchezza, non solo semantica, ma anche filosofica di καιρóς, che proprio ora comincia a caricarsi di valori forti, sul piano etico, estetico e gnoseologico. Tale ricchezza affiora sopratutto nelle concise parole di Pittaco, che racchiudono, nella loro semplicità, tutta la complessità di questo concetto in costante evoluzione. La sentenza è stata tradotta in vari modi, ognuno dei quali tende a privilegiare una specifica visione: abbiamo così, per esempio, l’interpretazione normativa di Wilson che traduce le parole «Καιρóν γνῶθι» con «recognize moderation»,33 abbiamo poi la resa letterale con «conosci ciò che è opportuno» della Petrolini34 e il suggestivo commento di Delling che ne mette in risalto il valore etico: «riconosci nelle singole vicende della tua vita la situazione critica, sappi che essa esige da te una decisione e accerta quale essa sia; educa te stesso a riconoscere nella tua vita il momento decisivo che ti è dato e agisci di conseguenza» e aggiunge: «si potrebbe quasi dire che nel καιρóς, attraverso la disposizione del destino, è imposta all’uomo la decisione morale».35

Come accennato, l’uso del termine καιρóς riflette un’epoca in cui l’uomo è vincolato, nelle sue scelte e nel suo agire, sia esso etico o teoretico, alla realtà in cui è immerso e al divino che gli si impone (e in questo senso è estremamente riuscita la traduzione, un po’ libera, del Delling che rende καιρóς con «momento decisivo che ti è dato»). In questo contesto καιρóς è allora quello squarcio nello scorrere irreversibile degli eventi e dell’esperienza che consente all’individuo di farsi egli stesso, per una volta in prima persona, incontro all’«occasione», e di afferrarla come «opportunità». In effetti l’aspetto più sorprendente è proprio questo: se da un lato καιρóς rappresenta lo sfuggevole compiersi del destino, e si connota quindi essenzialmente come trascendente, dall’altro ha, però, in sé il carattere della chiamata, richiedendo così la partecipazione attiva dell’individuo. Caratteristica del «momento giusto» è infatti quella di essere imprevedibile, inspiegabile e sopratutto incontrollabile: all’uomo è dunque imposto di rimanere in costante, speranzosa attesa che esso si manifesti, così da imprimere un nuovo, «favorevole» ordine alle circostanze. Questo aspetto che ho definito sorprendente, e certo lo è, si spiega facendo riferimento al contesto cui si accennava: l’uomo greco ha in sé il dramma della contraddizione, gli appartiene pienamente. Non ha dell’incredibile, allora, che il «momento giusto», che riporta ordine nelle opposizioni, sia esso stesso essenzialmente ambivalente. Se Delling ha messo brillantemente in luce il valore etico del termine, Levi si concentra a esprimerne anche tutta la pregnanza gnoseologica, facendone risaltare, così, il carattere decisamente arcaico. Egli afferma infatti: «Al socratico “conosci te stesso”, l’etica presocratica contrappone il suo “conosci l’opportunità”».36

Nella prospettiva di Levi37 sembra essere qui in gioco l’opposizione fra una società matura, che con la scoperta della coscienza supera in un sol colpo tutti i contrasti, e una ancora infantile: da un lato la socratica consapevolezza delle possibilità di un individuo che si sta pian piano emancipando, dall’altro il mondo come «φύσις» dei filosofi precedenti che sentono ancora troppo il peso della propria umanità per poter davvero pensare di trovare in se stessi tutte le risposte. La posizione di Levi è senza dubbio suggestiva, ma convincente solo in parte poiché deriva da un’interpretazione del «conosci te stesso», ma anche dello stesso Socrate, in chiave forse eccessivamente moderna e quasi introspettiva. In effetti il «conosci te stesso» è, prima di tutto, detto delfico, d’ispirazione divina, e credo sia quindi lecito sostenere che in realtà tale massima non implichi affatto l’affrancamento dell’uomo dagli dei: anzi, in questo senso il detto indica l’esigenza di tener presenti i limiti dell’agire umano, in relazione a quello divino. Invece, radicalizzando forse la questione, a me pare che si possa affermare che, invece di opporsi al «conosci l’opportunità», il «conosci te stesso» ne costituisca la naturale evoluzione. Se nella sentenza di Pittaco l’individualità e il libero agire appaiono vincolati e limitati dalla divinità che esercita una «coercizione» che proviene dall’esterno, il detto socratico sposta la conflittualità tra l’umano e il divino all’interno dell’anima, mettendo in luce che, sì, il dissidio dipende dall’oggettiva distanza tra il dio e l’uomo, ma che tale conflitto si manifesta in tutta la sua drammaticità proprio perché avviene nell’individuo stesso, come se egli ne fosse il solo artefice. Mario Vegetti ancora in L’etica degli antichi affronta il problema dell’interiorizzazione della morale e, riportando la questione socratica se la conoscenza del male sia sufficiente ad evitarlo, e discutendola in relazione alla posizione euripidea, generalmente considerata «un’opposizione diretta all’ottimismo socratico», descrive ottimamente ciò che si è, qui, cercato di dire:

La condotta soggettiva viene al contrario rivelandosi soggetta a un pesante sistema di costrizioni, tanto esterne (un fato che la divinità orienta in modo spesso beffardo e distruttivo), quanto interne (la pressione irresistibile di passioni come l’odio e l’amore, che nessun sapere può governare).38

In questi termini, se è vero che lo spirito socratico ha davvero spostato l’indagine dal mondo esterno all’interno, sottolineando cioè la necessità che la ricerca parta dall’anima, questo sembrerebbe essere accaduto non per un superamento delle antiche problematiche, a favore di questioni più moderne, ma al contrario per una necessità di rispondere alle medesime esigenze. Detto ciò, si comprende perché il senso temporale abbia preso il sopravvento sulle altre sfumature: il καιρóς sembra effettivamente connotarsi nella sua essenza innanzitutto come «ora», come rottura di χρόνος, del tempo in cui gli istanti si susseguono fatali e inarrestabili, andando, così, a vanificare l’unitarietà dell’esperienza. In questo senso, il καιρóς si allontana dalla concezione del tempo come flusso cronologico per avvicinarsi piuttosto ad αἰών, l’eternità, nella misura in cui anch’esso si sottrae all’ordine numerico del prima e del poi, del passato e del futuro: «se Aion è concepito come il tempo della vita di un singolo uomo, Kairos entro questa vita è l’attimo della decisione verso un’azione fortunata, verso un’impresa produttiva di questa vita».39 Il valore filosofico di καιρóς, che abbiamo visto dispiegarsi nelle parole dei Sapienti e in particolare di Pittaco, raggiunge la definitiva consacrazione con la speculazione pitagorica:

(Les Pythagoriciens) disaient que le καιρóς est le sept. Les êtres naturels (τὰ φυσικά) paraissent, en effet, venir à l’existence et accomplir leur développement dans des intervalles parfaits suivant les hebdomades.40

All’interno del complesso sistema matematico che i pitagorici ponevano alla base del cosmo il καιρóς occupa, dunque, un posto privilegiato. Il numero «sette» è, infatti, il numero proprio dell’intelletto (νοῦς) e in questo senso simbolo della stessa attività filosofica: non più σωφροσύνη, dunque, ma σοφία. L’importanza di questo numero risiede innanzitutto nella sua peculiare posizione all’interno della decade: esso, infatti, è l’unico, eccezion fatta per l’uno, che contemporaneamente non prende parte e non deriva da alcuna unione. Non è multiplo di alcun numero, essendo numero primo, e la sua moltiplicazione non genera alcun numero all’interno della decade. In virtù di questa singolarità l’ebdomade viene dunque associata alla dea Atena che, essendo uscita dalla testa del padre, è anche lei senza madre e ingenerata: il numero sette è allora il «numero vergine», così come Atena è la «dea vergine»;41 il «sette» è il numero dell’attività intellettiva, come Atena è la dea della filosofia.42 L’associazione di καιρóς a σοφία si accompagna al binomio con συμμετρία, di cui abbiamo già parlato, nella misura in cui essa viene identificata con l’armonia. Non è, questa, un’identificazione di poco conto se si considera che in tale contesto l’armonia trascende il suo valore puramente estetico per elevarsi a suprema legge universale. L’ontologia e la cosmologia pitagoriche si fondavano, infatti, sull’idea che il cosmo derivasse dal Limite e dall’Illimitato, i principi creatori dei numeri. La generazione dalla polarità Limite-Illimitato faceva sì che la realtà tutta si caratterizzasse come essenzialmente contraddittoria, ossia costantemente attraversata da contrasti e opposizioni: oltre a Limite-Illimitato abbiamo allora dispari-pari, uno-molti, destro-sinistro e altre coppie oppositive.43 Aristotele attribuisce, infatti, ad Alcmeone di Crotone, medico pitagorico, l’affermazione: γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων.44

In quest’ottica l’armonia è proprio la conciliazione di queste istanze contrarie resa possibile dall’azione pacificatrice di καιρóς.45 Nella sua stretta connessione con l’armonia, infatti, il καιρóς stesso viene elevato a legge universale, nella misura in cui fonda il tramutarsi delle contraddizioni in feconda unità. Non a caso Giamblico attribuisce a Pitagora il detto «La miglior cosa in qualsiasi azione è il καιρóς».46 È interessante osservare che tale concezione del καιρóς/ebdomade, quale istanza risolutrice, affonda le sue radici nella medicina antica e nell’osservazione dei processi biologici: i pitagorici, infatti, ereditarono l’idea che il settimo giorno di una malattia fosse quello decisivo (καιρóς), in quanto momento di κρίσις, in cui le cose potevano evolversi in direzione di un miglioramento o di un peggioramento, in entrambi i casi di carattere definitivo.47 Il principio sottostante a questa idea era che il καιρóς/ebdomade incarnasse il «temp d’accomplissement»48 di ogni processo di generazione, crescita o sviluppo organici, cosicché tutta la realtà veniva a essere governata da un ritmo settenario, che caratterizzava ogni tipo di fenomeno naturale. Non sorprende, allora, che καιρóς sia stato elevato a legge cosmica, venendo assimilato in qualche modo anche a τύχη (destino) e δίχη (giustizia), per la capacità di agire «criticamente» e «teleologicamente»49 sugli eventi e sulle cose: «L’«opportunità» è dunque assimilata a divina misura, armonia, proporzione, ordine cosmico, giustizia.50

Nella speculazione pitagorica, dunque, la nozione di καιρóς rivendica con decisione il suo posto all’interno della filosofia. In effetti l’associazione all’ebdomade ne fa uno dei concetti fondamentali di una scuola di pensiero, quella pitagorica, che ebbe grande fortuna anche nella filosofia posteriore. In questo contesto il nostro termine raggiunge, forse, la piena maturità semantica, nel senso che realizza appieno quella polivalenza che lo caratterizza sin dalle prime apparizioni: si crea infatti un nodo quasi inestricabile fra καιρóς, σοφία e δίχη. Καιρóς è allora quell’ordine e quella legge universale che sottosanno al dispiegarsi della realtà e ne realizzano l’armonia, conciliandone le opposizioni, orientando le circostanze nel senso più favorevole. Un simile statuto rende, ovviamente, piuttosto difficile riuscire a definirne tutte le sfumature, al fine di elaborarne un quadro completo ed esaustivo. Tale affascinante problematicità emerge anche dalle parole di Giamblico che scrive:

Ma il senso dell’opportunità solo fino a un certo punto è qualcosa che può essere insegnato, qualcosa di razionale e suscettibile di trattazione teorica, perché in via generale e preso in sé esso è estraneo a tutto ciò. All’opportunità, considerata nella sua natura, si accompagnano, quasi fossero suoi seguaci la cosiddetta tempestività, il confacente, l’adatto e quant’altro c’è di analogo.51

Da ciò che è emerso dall’analisi di questi primi impieghi filosofici del termine καιρóς nei Sapienti e nei pitagorici, credo risulti chiaro che il valore più forte, che se ne voglia mettere in luce l’accezione normativa o temporale, è quello di risoluzione di quelle contraddizioni che connotano l’esistenza dell’uomo, sia in quanto è inserito nella natura sia in quanto sottostà alle leggi divine. La convivenza di esperienze ambivalenti ed equivoche, a tratti ingannevoli, è il più grande dramma e insieme la più grande ricchezza del mondo greco: in un simile contesto καιρóς diventa quell’istanza in virtù della quale l’individuo può prendere posizione e sottrarsi alle ambiguità che lo circondano. Chiaramente la filosofia matematizzante, tutta tesa al raggiungimento della συμμετρία, dei pitagorici, sembrerebbe metterne in risalto l’aspetto normativo ed estetico, a discapito di quello temporale. In realtà abbiamo visto che la speculazione prende le mosse da un concetto squisitamente temporale, quello di «settimo giorno» decisivo nel corso delle malattie, che non va mai a perdersi, piuttosto ad arricchirsi, fino a raggiungere quella pienezza di significati che è la grande ricchezza, anche filosofica, di questo termine.

3. Pindaro

Con Pindaro il καιρóς continua a fare sfoggio di quella polisemia, che abbiamo capito essere una sua precipua caratteristica. Il contesto in cui si sviluppa il καιρóς pindarico è quello privilegiato dell’ispirazione divina e della creazione poetica,52 che sono fra i motivi centrali del poeta-profeta Pindaro. Nel momento della creazione poetica il καιρóς è il tramite che garantisce della buona riuscita del componimento, in quanto attualizza l’ispirazione divina e dona coerenza alla varietà di soggetti che il poeta è, per natura, portato a cantare. Caratteristica fondamentale del poetare pindarico è, infatti, la ποικιλία, ossia la presenza di temi e linguaggi differenti, che vanno a confluire in una unità armonica. Nella molteplicità delle suggestioni che attraversano l’opera di Pindaro il καιρóς è prima di tutto criterio stilistico che ne garantisce la fondamentale coerenza, pur lasciando emergere tutti gli elementi nella loro varietà. Nonostante la questione sia complessa,53 credo che la ποικιλία, questa compresenza di temi e stili diversi, derivi dalla stessa concezione pindarica del poeta. Compito del poeta è, infatti, mostrare la realtà in tutte le sue multiformi sfaccettature e manifestazioni, facendo però in modo che ne emerga la sostanziale unitarietà. In questo senso poeta è, innanzitutto, colui che riesce a cogliere il tratto nodale di ogni cosa, al fine di creare una composizione che ne metta in luce l’armonica essenzialità. Sul piano stilistico ciò si traduce nella ricerca di quella brevità che, sola, individuando e mettendo in luce i nessi fondamentali, può ricomporre tutti gli elementi in unità e contemporaneamente lasciarli risplendere nel loro valore esemplare. Sull’aspetto della concisione, che è sempre da preferirsi ai lunghi e ridondanti discorsi, esemplificativi i seguenti versi di Pindaro che sottolineano come anche nel mostrare la virtù siano sufficienti pochi argomenti, se ornati con arte: «βαιὰ δʼ ἐν μακροῖσι ποικίλλειν ἀκοὰ σοφοῖς».54

Ciò che consente al poeta di cogliere l’essenziale e insieme di dar vita a questa pluralità di sfaccettature è il καιρóς. Così continua, infatti, Pindaro: «ὁ δὲ καιρὸς ὁμοίως παντὸς ἔχει κορυφάν».55 Dunque nel καιρὸς, nel momento giusto, il poeta vede i tratti fondamentali delle cose e coglie che essi sono come intrecciati, e che vi è un «punto culminante», come dice la Philippson, in cui essi si scoprono coappartenenti a una unità dotata di senso. Ora diventa chiaro perché, secondo Pindaro, la ποικιλία sia un tratto essenziale del poetare, giacché il poetare stesso consiste nel mettere in luce la varietà del reale e insieme la sua intrinseca armonia. Da quanto si è detto emerge lo status particolare del poeta, egli intatti è sapiente e «σοφὸς ὁ πολλὰ εἰδὼς φυᾷ».56

Da questa definizione di σοφὸς emerge chiaramente che per Pindaro la realtà si connota come intrinsecamente varia, essenzialmente molteplice. Se sapiente è colui che vede le molte ramificazioni della realtà e ne coglie gli intimi nessi, il καιρóς è l’attimo decisivo, e sfuggente, in cui questi nessi si manifestano in tutta la loro forza e con chiarezza, agli occhi del poeta, che può così cantarne. Nella visione di Pindaro, dunque, il poeta non si muove esclusivamente nell’ambito della fantasia, ma è investito di un compito che il dio stesso gli ha affidato: la sua poesia, che mira all’esaltazione delle grandi gesta, si pone come esemplare, assumendo una funzione paradigmatica.57 Il καιρóς va connotandosi, quindi, come mediatore fra la sapienza divina e l’aspirazione del poeta a proclamare la verità, si attua come fonte dell’ispirazione e pertanto come garanzia di autenticità. Dunque esso si lega, non solo, a συμμετρία, nella misura in cui concorre all’armonia della composizione poetica, attuandosi quindi nel suo forte valore estetico, ma anche a χάρις (grazia) in quanto veicolo dell’ispirazione divina:

Grazia (χάρις) che crea dolcezze ai mortali Infonde valore e dona sovente credito all’incredibile; ma i giorni venturi sono giudici accorti. È giusto che l’uomo pronunci dei numi il bello: è minore la colpa.58

Il valore estetico è, in effetti, quello predominante, nel senso che il mondo di Pindaro si pone come sublimazione dell’esistenza umana, tutto teso com’è a rappresentare la superiorità degli dei e degli eroi, in accordo a quella concezione tipicamente greca che aspira alla perfezione estetica e morale: «Gli atteggiamenti umani si fissano in forme immobili diventando paradigmi ideali e universali. L’azione diventa forma e quindi bellezza».59 Ma il valore estetico è predominante anche nel senso che fonda tutti gli altri: καιρóς, infatti, si pone come purificazione dei contrasti in un contesto che pone la bellezza (καλόν), intesa come χάρις, quale supremo criterio di verità. Il nesso καιρóς-χάρις è, in Pindaro, estremamente importante, nel senso che egli coglie καιρóς nel suo valore positivo associandolo quindi fortemente alla grazia che la divinità gli concede: nell’attimo fortunato il poeta viene quasi investito da questo dono, che gli concede la facoltà di conoscere e rappresentare la verità. Mario Untersteiner coglie perfettamente il profondo legame fra καιρóς e χάρις e il valore di cui sono investiti: «Dunque Pindaro mira a quel καιρóς che sia verità, non a quello che si concentri sul falso, e ciò avviene perché egli, accolta χάρις, il mistero della bellezza come criterio di valore, elimina […] la drammaticità dell’antitesi insolubile di vero e falso».60

Le radici di tale cristallina visione del mondo sono quelle pitagoriche, per cui la realtà è sorretta da un ordine universale che ne mantiene la fondamentale armonia, etica ed estetica. Tale equilibrio è incarnato nella figura di Apollo, di cui Pindaro è il profeta: la poetica pindarica ha quindi un originario fondamento religioso e, proprio in quanto si presenta come ispirata da un principio divino, si pone come veridica e giusta. L’elemento estetico non si pone, dunque, in contrasto con quello etico, ma anzi entrambi concorrono a costituire la verità del detto poetico: il vero poeta, in quanto σοφός, è colui che dice «con cuore sincero parole giurate»61 in opposizione a chi crea «miti adorni di cangianti menzogne».62

In Pindaro, abbiamo visto, vi è una forte percezione della divinità e della sua presenza, tanto che egli afferma espressamente:

Dagli dei proviene ogni risorsa alle virtù dei mortali e nascono uomini saggi, forti di mano ed eloquenti .63

Tale concezione della divinità si connota come estremamente positiva:64 Pindaro mette in luce il potere del dio, ma questi è rappresentato sopratutto nell’accezione benevola di sovrano generoso. Alla gratitudine nei confronti degli dei si accompagna, così, come conseguenza, la consapevolezza della finitezza, o comunque dei limiti, dell’uomo: questi deve, quindi, attenersi alla «giusta misura» e non pretendere più di ciò che gli è dovuto, nel rispetto di quell’ordine universale che si manifesta sia come armonia del cosmo, sia come legge morale. Pindaro, infatti, ammonisce anche se stesso con queste parole: «Non ambire mio cuore a una vita immortale, ma esaurisci le vie del possibile».65

Il καιρóς si pone, in questo contesto, come attuazione individuale della legge universale, definendosi come guida dell’agire umano: «ἕπεται δ̓ ἐν ἑκάστῳ μέτρον · νοῆσαι δὲ καιρὸς ἄριστος».66

In questi versi, in cui sentiamo riecheggiare Esiodo, Teognide e Pittaco, ritroviamo καιρóς congiunto con μέτρον, ἄριστος, e γνῶναι, e quindi nel suo forte valore normativo. Esiste un particolare momento in cui all’individuo è data la possibilità di risolvere in equilibrio le cose e le esperienze ed è necessario che tale momento venga riconosciuto come tale e vissuto in tutto il suo valore. Anche in Pindaro, dunque, il καιρóς si carica di un forte valore normativo che non sopprime gli altri significati, ma è ad essi strettamente connesso, nella misura in cui ogni uso del termine ne mette in risalto la polivalenza. Lo stretto legame con la presenza dominante, ma benevola degli dei mette in luce un aspetto particolare di καιρóς: esso è, certamente, l’opportunità che si presenta nel momento giusto, ma un’opportunità che ci si manifesta come proveniente dall’alto e che quindi non dipende da noi. Essa si dà, in qualche modo, come dono e si impone come legge da rispettare, cui l’uomo si sottomette con gioia, perché, se afferrata, l’opportunità è garanzia di successi e

ὁ γὰρ καιρὸς πρὸς ἀνθρώπων βραχὺ μέτρον ἒχει εὖ νιν ἒγνωκεν · θεράπων δέ οἱ, οὐ δράστας ὀπαδεῖ.67

Dunque, a causa di questo carattere fugace, risulta più chiaro perché esso si manifesti, in primo luogo, come rottura del flusso temporale, sottraendosi alla dinamica prima-dopo, passato-futuro. Il καιρὸς agisce «dall’esterno» sulle circostanze rendendole favorevoli, schiude uno spazio «atemporale» in cui le cose trovano la loro realizzazione e gli opposti si fondono in una, seppur fragile, armonia. L’uomo che ha avuto la possibilità di cogliere il καιρός vede la compresenza pacifica di elementi contrari, scopre che essa connota essenzialmente la realtà e, conoscendo, può agire in prima persona: «τὺ γὰρ τὸ μαλθακὸν ἔρξαι τε καὶ παθεῖν ὁμῶς ἐπίστασαι καιρῷ σὺν ἀτρεκεῖ».68

In conclusione, trovo appropriate le parole di Paula Philippson che coglie l’enorme ricchezza di καιρός e ne mette in risalto tutto il fascino:

Kairos è l’attimo geniale, fecondamente creatore, nel quale una pienezza di Essere, che altrimenti si svolge in uno sviluppo «cronico» del tempo, brilla e giunge al suo punto culminante.69

Καιρός è quel felice istante in cui le cose si sottraggono al divenire che le esaurisce, e possono quindi cristallizzarsi e realizzarsi in una fugace perfezione, che subito viene meno. Si tratta di un attimo che si stacca dagli altri, si ferma, e concede all’individuo di vedere e contemplare i nessi profondi della realtà che, per una volta, per poco, gli si offrono in tutto il loro splendore.

4. Tragici

Il καιρός,70 nel suo valore di risolutore dei contrasti, non poteva non trovare ampio spazio nella tragedia attica che massimamente mostra la fondamentale contraddittorietà dell’esistenza, percorsa da dissidi insanabili. Se nella poesia di Pindaro, nella sua «purezza», καιρός si caratterizza, prima di tutto esteticamente, come legge dell’ordine e dell’armonia, nella tragedia esso si carica piuttosto di un forte valore etico. In quella poesia che canta i contrasti dell’essere umano, sempre diviso fra la legge degli uomini e la legge degli dei, fra la colpa e l’espiazione, l’individualità e il γένος, καιρός va a indicare la necessaria appropriatezza nel parlare, l’attimo giusto per l’azione, la saggezza da perseguire nella propria condotta. In effetti la matrice è comune: sia in Pindaro, sia nella poesia tragica centrale è il ruolo del divino e del suo rapporto con l’uomo, ma mentre nel primo, tutto pervaso di spirito apollineo, il dio è presente soprattutto come forza generosa, da cui tutti i beni umani provengono, nella seconda la divinità si caratterizza, in tutta la sua ambivalenza, come forza trascendente alla cui volontà, sia essa comprensibile o meno, l’essere umano è tenuto a sottostare. Mario Untersteiner, nel suo studio sulle origini della tragedia, tratteggia molto bene tali differenze: «La «poetica» di Eschilo appare completamente diversa da quella di Pindaro: l’artista tragico vede quanto poetici siano i dissidi, il cantore corale segue la realtà nei suoi movimenti e nei suoi momenti, ciascuno dei quali possiede la propria giustificazione e la propria bellezza».71 Abbiamo visto come per Pindaro il poeta sia non solo un cantore, ma un σοφός in quanto conosce gli intimi nessi della realtà. L’aspetto del poeta-profeta è alla base anche della poetica tragica, che presuppone il valore conoscitivo dell’arte e del poetare, in quanto la tragedia ha proprio lo scopo di rivelare la verità nascosta dell’esistenza. È, in realtà, lo stesso Eschilo, per bocca del Coro, a sottolineare il legame fra la figura del poeta e l’ispirazione profetica,

Perché mai questo timore vola continuamente dinanzi al cuore presago (καρδίας τερασκόπου) dominandolo, e intona, senza richiesta, né ricompensa, un vaticinio, e non si asside sul trono del mio animo il coraggio fidente di rigettarlo, a guisa di sogni ardui da interpretare?72

Il poeta è dunque associato all’indovino in quanto possiede la capacità di svelare la realtà profonda delle cose e si caratterizza, quindi, come naturalmente sapiente.73 Ma mentre la sapienza di Pindaro si connota come intimamente armonica, nella misura in cui χάρις (grazia) risolve ogni dissidio, per Eschilo la conoscenza è πάθει μάθος, frutto del dolore, e quindi essenzialmente tragica, perché tragica è la vita umana, dominata com’è dal volere imperscrutabile degli dei, che va spesso ad opporsi ai desideri umani:

Ho timore per la tua sorte: quale termine mai delle tue sofferenze dovrai raggiungere e contemplare? Animo inaccessibile e cuore inesorabile ha il figlio di Crono.74

E soprattutto:

Oh se veramente ci andasse bene da parte di Zeus: il pensiero di Zeus non è facile da comprendere (εὐθήρατος): dappertutto sfolgora, anche nella tenebra, con vicissitudini oscure per le genti mortali (μερόπεσσι λαοῖς). […] Le vie della sua mente si estendono segrete e ombrose, impenetrabili alla nostra conoscenza.75

Nell’infelice canto delle Danaidi esplode il dramma dell’esistenza umana, per natura tesa alla ricerca di un significato profondo, che si scontra, invece, con l’impossibilità di attribuire senso al dio e al suo agire. In Eschilo questa drammatica consapevolezza, che si manifesta nel sofferto rapporto fra l’esigenza della decisione individuale e la volontà degli dei, trova quasi sempre un contraltare nella fiducia che il poeta ripone in Zeus che rimane comunque supremo garante di giustizia. Il carattere problematico e precario di questo equilibrio emerge, in tutto il suo angoscioso vigore, nelle laceranti incertezze di Sofocle, che vede vacillare la fede nella teleologia divina, tanto che il dolore sperimentato dai suoi eroi non porta più alla conoscenza delle ragioni ultime, come avveniva in Eschilo, ma soltanto alla consapevolezza della propria condizione. E ritorna a emergere clamorosamente nello sconsolato scetticismo di Euripide nei confronti dell’agire divino. Ecco la vera tragedia:

Di dio non si può ottenere che una conoscenza tragica — che significa non conoscenza — perché è problematico nel suo essere stesso.76

E soprattutto:

[…] la divinità appare come incombente sull’uomo con tutta la sua insolubile complessità, data dalle contraddizioni che s’identificano con le contraddizioni dell’Essere.77

Ecco perché le tensioni tragiche si manifestano come dolorosamente insanabili: le opposizioni verità-falsità, singolo-γένος, leggi umane-leggi divine, giusto-ingiusto, non sono altro che la naturale conseguenza dei dissidi intrinseci alla divinità. Se nemmeno gli dei, nella loro trascendenza, sono esenti dalle contraddizioni, allora, a maggior ragione, per l’uomo non vi sarà possibilità alcuna di pacificazione. L’essere stesso si connota, quindi, come intrinsecamente contraddittorio, essenzialmente tragico. Dunque la ricerca dell’individualità, dell’azione autonoma e la stessa possibilità di decidere sono per l’uomo continua fonte di difficoltà e incertezza, a causa della natura sostanzialmente duplice della realtà e dell’incombere della volontà inafferrabile di Zeus. È qui che si inserisce il καιρός che, connotandosi ora come esigenza di moderazione, ora come attimo congeniale all’azione, concede all’uomo la possibilità di sottrarsi momentaneamente all’impasse. Afferma Sofocle nell’Elettra e nel Filottete: «καιρὸς γάρ, ὅσπερ ἀνδράσιν μέγιστος ἔργου παντός ἐστ’ ἐπιστάτης.78 Καιρός τοι πάντων γνώμαν ἴσχων πολὺ τι πολὺ παρὰ πόδα κράτος ἄρνυται».79 In queste parole di Sofocle è espresso tutto il pregnante valore di καιρὸς che viene qui inteso come momento giusto che rende propizie le circostanze, e che, quindi, diventa determinante nella buona riuscita dell’azione umana. Nella poetica sofoclea, incentrata com’è sulla problematica dell’uomo che rivendica la propria capacità decisionale, sempre nel rispetto della norma divina, il καιρὸς riveste un ruolo nodale in quanto concede all’individuo non solo di agire, ma di agire correttamente ed efficacemente. È infatti in quel fugace momento giusto, in cui lo stato delle cose si allinea favorevolmente, che l’uomo ha il potere di incidere sugli eventi. Sullo stesso tono si esprime ancora questo passo dall’Elettra che, sottolineando il carattere esortativo del momento opportuno, ricorda all’uomo di approfittare dell’occasione prima che essa passi: «ὡς ἐνταῦθ’ † ἐμὲν ἵν’ οὐκέτ’ ὀκνεῖν καιρός, ἀλλ’ ἔργων ἀκμή».80

Il καιρὸς, dunque, individua l’attimo in cui l’azione umana può esser portata a pieno compimento, quel particolare istante che predispone le cose in un ordine benevolo ed incita quindi l’uomo ad agire, afferrando l’opportunità finché è possibile. Infatti se da un lato è necessario che le circostanze siano favorevoli, dall’altro è fondamentale che l’uomo non esiti di fronte alla chiamata del καιρός. Esso connota qualitativamente il tempo: per cui vi sarà un solo momento adatto al compimento di una determinata azione, un altro momento al compimento di un’altra. Raccomanda, infatti, Eschilo di non arretrare di fronte all’occasione: «καὶ τῶνδε καιρὸν ὅστις ὤκιστος λαβέ».81 Nell’esortazione all’agire viene messo in luce anche la natura fuggevole di καιρός, poiché il suo verificarsi deriva soltanto dalla particolare congiuntura delle circostanze e ha quindi il carattere di un delicato equilibrio, sempre sul punto di venir meno, in linea con l’immagine del dardo scagliato che lo accompagna sin dalle prime apparizioni: «τόξον ἐντείνοντες ὡς καιροῦ πέρα καὶ πρὸς δίκης γε πολλὰ πάσχουντες κακά».82

In questi versi di Euripide ritroviamo καιρός connesso non solo all’immagine della freccia, ma anche a δίκη (giustizia),83 a ribadirne quel carattere normativo e quel legame con la giustizia che avevamo già visto essere importante per i pitagorici. Giacché il καιρός indica quel momento critico in cui adempiere all’azione, ne circoscrive anche i confini: questi si connotano come limiti di carattere etico e, se valicati, diventano fonte di enormi sciagure per l’uomo che non si è attenuto a ciò che gli era concesso, ma ha osato troppo. A tal proposito il καιρός viene spesso usato nella tragedia nel significato di «giusta misura», soprattutto in relazione al rapporto con gli dei, la cui legge e volontà sono il fondamento ultimo dell’agire umano. Il καιρός indica così, in opposizione alla ὕβρις, alla tentazione di volere e osare eccessivamente, la «saggia moderazione» che dovrebbe caratterizzare l’intera condotta di vita. Si leggano, a tal proposito, i seguenti versi di Sofocle ed Euripide, che mettono in risalto questi aspetti:

Ἀλλ’ ἑστάτω μοι καὶ δέος τι καίριον, καὶ μὴ δοκῶμεν δρῶντες ἃν ἡδώμεθα οὐκ ἀντιτείσιν αὖθις ἃν λυπώμεθα.84 τῶν γὰρ μετρίων πρῶτα μὲν εἰπεῖν τοὔνομα νικᾷ, χρῆσθαι τε μακρῷ λῷστα βροτοῖσιν· τὰ δ’ ὑπερβάλλοντ’ οὐδένα καιρὸν δύναται θνητοῖς85

Sullo stesso tono si esprime anche Eschilo nel Prometeo Incatenato: «Μή νυν βροτοὺς μὲν ὠφέλει καιροῦ πέρα, σαυτοῦ δ’ ἀκήδει δυστυχοῦντος».86 Tale significato di καιρὸς rimanda al rapporto con μήτρον, che sin da subito, attraverso Esiodo e Teognide, ne aveva caratterizzato l’evoluzione semantica, investendolo, forse per la prima volta, del valore etico e che qui ritroviamo essere estremamente forte poiché, in quanto καιρός si attua come monito a non pretendere più di quanto è opportuno, diventa anche sollecitazione a prendere consapevolezza della propria condizione, conoscendo la quale sarà possibile rispettare il volere degli dei e agire appropriatamente. Questo particolare aspetto conoscitivo emerge chiaramente nell’Andromaca, quando il Coro esorta la ormai non più principessa troiana a prendere coscienza, e ad accettare la propria situazione stabilendo una connessione fra il γιγνώσχειν e il καιρός, in accordo a quella valenza gnoseologica che avevamo visto emergere in tutta la sua importanza presso i pitagorici e soprattutto presso i Sette Sapienti:

Γνῶθι τύχαν, λόγισαι τὸ παρὸν κακὸν εἰς ὄπερ ῆκεις. […] Τί σοι καιρὸς ἀτυζομένᾳ δέμας αἰκέλιον καταλείβειν δεσποτῶν ἀνάγκαις.87

Dunque il coro intima ad Andromaca di comprendere ed accettare il proprio destino di troiana in terra spartana e sottolinea che non solo la sua disperazione non è opportuna e non le sarà di alcun giovamento. Per lei, che per volere degli dei è una sconfitta, il καιρός non potrà più essere benevolo. In questo passo, seppur in chiave negativa, emerge il forte legame fra καιρός e τύχη, nel senso che il primo segue sempre la seconda di cui è un’attuazione. Credo sia importante mettere in luce questo vincolo poiché sottolinea da un lato il carattere «fatidico», e quindi favorevole, di καιρός, dall’altro, però, lo caratterizza come non controllabile, nella misura in cui il suo manifestarsi, come evento totalmente esterno, non può in alcuna maniera essere frutto di una decisione da parte dell’uomo. L’atteggiamento dell’essere umano può limitarsi a una fiduciosa attesa delle concessioni del fato, facendo in modo di essere pronto alla sua apparizione. Accanto all’aspetto ammonitivo, però, e anzi come suo importante contraltare, καιρός si pone quale garante di successo, a condizione che venga afferrato nel modo opportuno. In questo senso esemplificativi sono due passi di Sofocle ed Euripide i quali sottolineano proprio che, se colta, l’occasione sarà foriera di successo:

ἥ τοι καίριος σπουδή, πόνου λήξαντος, ὕπνον κἀνάπαυλαν ἤγαγεν.88 Τολμᾶν δὲ χρεών · ὁ γὰρ ἐν καιρῷ μόχθος πολλὴν εὐδαιμονίαν τίκτει θνητοῖσι τελευτῶν89

Il καιρός è dunque a un tempo possibilità e limitazione, libertà e vincolo. Questo carattere ambivalente gli deriva proprio dalla sua natura «istantanea»: esso è, infatti, frutto del felice intreccio delle situazioni, che si verifica in maniera del tutto inattesa e incontrollabile. Dunque il καιρός fa sì che ciò che avviene nel momento opportuno si manifesti come giusto, in quanto compimento della volontà del fato, e che quindi, per mano sua, diventi bello anche ciò che sembrerebbe doloroso. Questo aspetto del καιρός racchiude in sé, credo, radici diverse, perché se da un lato corrisponde pienamente allo spirito tragico, proprio perché l’ultima parola spetta alla forza trascendente del fato e degli dei, dall’altro lato richiama la visione pitagorica, cui appartiene l’idea che ciò che concorre alla creazione e al rispetto dell’armonia universale sia perciò stesso bello. Tale potere del καιρός aleggia sulle ultime parole di Edipo dell’Edipo Re: egli ha lottato invano contro la propria sorte, scoprendo che tutto ciò che ha fatto per sfuggirvi, lo ha portato in realtà alla rovina. Alla fine, vinto dal fato, comprende che non ci sono fuga o salvezza e si augura di poter adempiere correttamente al proprio destino:

νῦν δὲ τοῦτ’ εὔχεσθ’· ἐμὲ οὗ καιρὸς αἰεὶ ζῆν90

A questo auspicio si lega la successiva notazione di Creonte: «Πάντα γὰρ καιρῷ καλά».91

Quest’ultimo verso in particolare mette in risalto un legame estremamente forte con il tempo, poiché anche quello che sembra penoso o sbagliato acquista significato e dunque valore se avviene nel momento giusto. In questo senso il καιρός sembrerebbe rappresentare proprio l’aspetto temporale del destino, nel senso che quest’ultimo si compie proprio in quel felice istante. D’altra parte si è già accennato al forte legame con τύχη, che già i pitagorici avevano messo in luce: in una realtà irrimediabilmente sottoposta al divenire, allo scorrere inafferrabile del tempo e sempre dilaniata da forze in contrasto, il καιρός attua la volontà del fato, imponendosi dall’esterno come conciliazione, come opportunità che si offre per essere colta. All’essere umano il compito di farsi trovare pronto alla manifestazione di quest’attimo divino e di sfruttare appieno l’apertura che esso crea nello scorrere lineare degli eventi. Il forte legame di καιρός e τύχη e l’incitamento a non lasciar passare il momento trovano spazio nelle parole di Euripide che chiama «saggi» coloro che hanno l’ardire di afferrare l’occasione e seguire la propria sorte, essendo, questa, la causa d’ ogni bene per gli uomini: «σοφῶν γὰρ ἀνδρῶν ταῦτα, μὴ ͗κβάντας τύχης, καιρὸν λαβόντας, ἡδονὰς ἄλλας λαβεῖν».92

In conclusione, credo si possa affermare che è con la tragedia che il καιρός raggiunge la sua pienezza semantica, sopratutto grazie alla relazione col concetto di τύχη e con l’imporsi del suo valore temporale (non a caso è a questo periodo che risale la sua divinizzazione).93 La tragedia, infatti, che mostra con forza la contraddittorietà intrinseca della divinità e quindi dell’essere stesso, porta drammaticamente sulla scena la problematica della scelta, della conoscenza e dell’agire individuali. In questo contesto il καιρός rappresenta proprio la possibilità di sottrarsi, risolvendoli, ai dissidi che dilaniano l’esperienza ed è proprio in questo superamento dei contrasti che l’uomo può integrarsi pienamente nella realtà, sfruttando l’occasione che il fato gli concede di incidere in prima persona sui fatti e sugli eventi del mondo. In una realtà che si rivela duplice e complessa, la soluzione non può che connotarsi anch’essa come fortemente ambivalente, essendo incontrollabile e fuggevole.

5. Arte medica e storia

Infine, per completare questo excursus sul concetto di καιρός, saranno brevemente presi in esame gli usi del termine nel Corpus Ippocraticum e nell’arte storiografica. È interessante, infatti, ai fini di questa indagine soffermarsi, per quanto possibile, a considerare l’uso del termine e dei suoi derivati (ben 264) nel Corpus,94 soprattutto per la molteplicità di sfumature che esprimono. Iniziamo con l’analizzare quattro occorrenze dell’aggettivo καίριος, lo stesso che avevamo riscontrato già in Omero, associato due volte a τόπος, due a πληγή:95 anche in questo caso, come nell’Iliade, l’impiego dei termini rimanda alla sfera della mortalità o comunque indica ferite che colpiscono punti particolarmente vulnerabili e sono dunque pericolose per la salute del corpo. La Eskin nel suo saggio sull’uso di καιρóς nel Corpus96 mette in luce sopratutto la peculiarità del metodo ippocratico che prevedeva l’osservazione empirica del soggetto e dell’evolversi della malattia, e quindi l’elaborazione di una diagnosi «appropriata», basata cioè sull’individualità del paziente:97 il καιρóς, così inteso, si caratterizza, dunque, come conoscenza delle circostanze. Nella medicina antica e in quella ippocratica la salute si definisce come συμμετρία,98 equilibrio e armonia tra le diverse parti dell’uomo, e la malattia consiste proprio nella rottura di questo equilibrio, che il καιρóς concorre a ristabilire, tanto che la Trédé-Boulmer, nella sua analisi, arriva ad affermare che «l’art du médecin consiste à déterminer, dans chaque cas, le καιρóς».99 La concezione della salute, elaborata da Alcmeone di Crotone e fondata sui concetti di armonia e ἰσονομία e della malattia come frattura dell’equilibrio, è una delle basi della dottrina pitagorica dei numeri: come abbiamo già visto, infatti, i pitagorici ereditarono l’idea che il settimo giorno di una malattia fosse quello decisivo (καιρóς), in quanto momento di κρίσις, in cui le cose potevano evolversi in direzione di un miglioramento o di un peggioramento, in entrambi i casi definitivo.100 Ippocrate stesso ci fornisce una puntuale descrizione del καιρóς, quando nei Precetti afferma: «χρόνος εστὶν εν ᾧ καιρóς καὶ καιρóς εν ᾧ χρόνος οὐ πολύς· ἄκεσις χρόνῳ ἔστι δὲ ἡνίκα καὶ καιρῷ».101

La citazione è interessante, a mio avviso, non solo per l’immediato contenuto che ci dà prova del metodo ippocratico, ma soprattutto perché pone una diretta correlazione fra χρόνος e καιρóς, pur lasciandoli emergere nella loro diversità: l’uno infatti è il tempo matematico, il tempo come durata, l’altro è il tempo qualitativo, in cui gli attimi non si susseguono regolarmente gli uni agli altri, ma ogni istante si impone come unico e irripetibile. In Ippocrate, dunque, il termine si fa portatore di significati connessi, ma diversi, indicando ora il «momento opportuno», ora il «momento critico», ora la «giusta misura», ora la malattia «mortale», attingendo ad un bagaglio semantico ricco di sfaccettature.

Per quanto riguarda la storiografia il significato di καιρός è simile a quello che avevamo già esaminato nel verso del Filottete,102 e va a indicare l’ago della bilancia, il momento critico di tutte le cose. Il valore temporale è quello predominante, per cui καιρός può significare «momento cruciale», «occasione», «ora fatale».103 Già in Erodoto ricorrono numerose attestazioni del termine, con un significato dapprima variegato, poi sempre più temporale come vediamo dall’uso dell’espressione «καιρóς ἐστι» che indica proprio il «momento giusto». Ma è con Tucidide che l’impiego del termine diventa sistematico nel suo forte valore temporale di «momento decisivo». In Erodoto, in effetti, la storia si connota come decisa dal volere degli dei che agiscono sugli uomini orientandone le vicende e influenzandone le scelte; per Tucidide invece la storia è storia umana, poiché il vero motore dell’azione è l’uomo e quindi il καιρὸς può imporsi in tutto il suo valore di «momento critico», in relazione alla scelta dell’individuo, che può rivelarsi fondamentale per l’avvenire. È importante sottolineare che in Tucidide un ruolo fondamentale è svolto da τύχη, che prende il posto degli dei olimpici come vera artefice delle vicende umane e dell’incertezza che le caratterizza: protagonista della storia è l’uomo che agisce libero, sullo sfondo, però, dell’imprevedibile variabile del fato. Dunque, anche presso Tucidide, come nella tragedia, si afferma un forte legame fra καιρός e τύχη, per cui il primo si connota come attuazione della seconda, e quindi come «momento critico», fondamentale per l’evolversi delle situazioni, sia nel senso positivo di «occasione», sia in quello negativo di «ora fatale», «fatalità».

6. Conclusioni

Come si è più volte sottolineato il principale valore di καιρóς, negli autori sin qui considerati, è quello temporale, per cui esso indica il momento opportuno, l’attimo fatale, in cui le circostanze si rendono propizie al compimento di un’azione, in cui i contrasti del reale si appianano e si manifestano pacificamente allo sguardo dell’uomo. Numerosi studi, come quelli di Williams e Race già citati, tendono a cambiare prospettiva sottolineando che il significato principale non sarebbe quello temporale e che il termine si caratterizzerebbe più fortemente nel suo valore normativo, per cui le traduzioni più indicate sarebbero «giusta misura» o «appropriatezza». Personalmente ritengo, sulla base di quanto si è detto, che non sia in realtà possibile sbilanciarsi decisamente a favore dell’una o dell’altra posizione: credo infatti che la grande ricchezza di questo termine risieda proprio nella polivalenza e nella varietà di sfaccettature che racchiude. È senza dubbio vero che esso intrattiene un rapporto privilegiato con il tempo che va a connotare qualitativamente, manifestandosi come interruzione del flusso cronico e realizzandosi quindi come istante, nel senso di unità a sé stante, che trova significato proprio nella sua diversità dagli attimi che lo precedono e che lo seguono. Non sarebbe possibile, tuttavia, comprendere appieno il καιρóς senza considerarne le implicazioni normative, da cui dipendono sia la valenza etica, sia quella gnoseologica che, come si è cercato di mostrare, sono componenti essenziali di questo concetto. Dunque tanto il valore temporale quanto il peso normativo lo caratterizzano, gli appartengono essenzialmente. In effetti ciò che davvero lo individua e lo qualifica nella sua unicità è il ruolo di risolutore dei contrasti, pacificatore dei dissidi e in questo senso il καιρóς è concetto sia temporale, sia normativo, dal momento che si dà nel tempo e si realizza come criterio di scelta, come guida nell’agire. Come abbiamo visto le prime attestazioni, in Omero, lo definiscono come legato all’idea di «fatalità» e «luogo critico», significati che emergono anche nella prima medicina, e così pongono le basi per questo duplice sviluppo in senso temporale e normativo. Con l’evolversi della società e della cultura il bagaglio semantico di καιρóς si arricchisce di sfumature nuove che ne vanno a sottolineare aspetti diversi. Pitagora e i pitagorici lo legano per primi al concetto di δίχη e ne esaltano il ruolo di conciliatore degli opposti: nella loro visione armonica del mondo il καιρóς diventa vera e propria legge, garante dell’ordine a livello universale e guida dell’agire umano a livello individuale. Il legame con armonia e grazia lo connota strettamente in Pindaro presso il quale diventa mediatore fra l’uomo e il dio, in quanto attuazione dell’ispirazione divina, garantendo così al poeta l’accesso alla vera conoscenza. Comincia ad acquisire spessore filosofico nelle sentenze dei Sette Sapienti che lo pongono in relazione al raggiungimento della σωφροσύνη, attribuendogli un forte valore gnoseologico ed etico nella misura in cui il καιρóς si connota come momento decisivo per la comprensione della natura e per l’agire umano: esso assume i tratti di una «chiamata», un’esortazione che il destino rivolge agli uomini. Tale relazione con il mistero della realtà e con l’attuarsi del destino ritorna, con toni angosciosi, nella tragedia che porta in scena il dramma di un individuo oppresso che scopre che i propri dissidi interiori sono i medesimi degli dei, e quindi dell’essere stesso. Da tutto quanto si è detto credo innanzitutto che sia estremamente complesso trovare una traduzione in grado di rendere appropriatamente una tale ricchezza semantica e concettuale e che comunque sia necessario aver presenti tutte le multiformi sfaccettature che esso racchiude se si vuole raggiungere una piena comprensione di un termine così unico nella sua ricchezza e nella sua appartenenza a un universo tanto distante. Per dirla, concludendo, con le eleganti parole della Philippson: «Alla prontezza geniale e creatrice dello spirito greco viene incontro un essere divino e il linguaggio gli dà un nome».104


  1. W. Race, The word Kairos in Greek drama, in «Transactions of the American Philological Association», 1981, pp. 197-213, p. 197. ↩︎

  2. «Le philologue allemande Wilamowitz remarquait dès 1913 que le mot grec καιρóς n’avait guère d’équivalent dans d’autres langues: on avait affaire là à une notion typiquement grecque.», M. Trédé-Boulmer, Kairos. L’à-propos et l’occasion (Le mote t la notion d’Homere a la fin du IV sec a.C.), Les Belles Lettres, Paris, 2014,p. 16; P. Sipiora associa καιρóς a un’altra parola fortemente polisemica greca: «In some critical way kairos is similar to another master term, logos, in that both concepts generated many significant definitions and interpretations and carried strategic implications for historical interpretations», P. Sipiora, Introduction. The ancient concept of kairos, in P. Sipiora e J. S. Baumlin (a cura di), Rhetoric and Kairos. Essays in history, theory and praxis, New York, 2002, pp. 1-22, p. 1. ↩︎

  3. P. Philippson, Il concetto greco di tempo nelle parole Aion, Chronos, Kairos, Eniautos, in «Rivista di storia della filosofia 4», 1949, pp. 81-97, p. 93. ↩︎

  4. «Tale divinizzazione è accettata come sicura nel IV secolo a. C. perché sarebbe oggetto di culto, testimoniato da una statua in bronzo, perduta, attribuita a Lisippo di Sicione, mentre come riferimento letterario la divinità compare per la prima volta intorno alla metà del V secolo a. C., quando Ione di Chio compose un inno in suo onore», E. Petrolini, Valenza filologica dell’antico termine «Kairos» attraverso le sue connessioni semantiche, in «Sapienza», 1977, pp. 346-362, p. 360. ↩︎

  5. J. Hillman, Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano, 1983, p. 324. ↩︎

  6. Tutto ciò ha spinto alcuni studiosi a mettere in dubbio le effettive possibilità di rintracciarne le origini e a sottolineare come le informazioni in nostro possesso non siano d’aiuto nella determinazione di uno specifico campo semantico. Così, per esempio, J. R. Wilson: «The etimology of the word is quite uncertain (see the dictionaries of Chantraine and Frisk), and so is of no help in determining the semantic field» , J. R. Wilson, Kairos as «Due Measure» in «Glotta», 1980, pp. 177-204, nota 20, p. 188; ma anche G. Delling: «Sul senso originario del termine nessuna certezza ci danno le ricerche etimologiche, le quali sono giunte a risultati molto disparati» in G. Delling, καιρóς, in G. Kittel, Grande lessico del nuovo testamento, IV, Brescia, 1968, pp. 1363-1390, p. 1363. ↩︎

  7. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, I-IV, Paris, 1968-1980. s. v. καιρóς, Chantraine sottolinea però che tutte le ipotesi presentano le medesime difficoltà fonetiche. ↩︎

  8. R. B. Onians, «Kairos», in The origins of European thought, Cambridge, 1951, pp. 343-348. ↩︎

  9. «Le mot rend peut-être compte de καιρóς qui pourrait être un emploi figuré (le point exact, le point de rencontre, le nœud ?) avec changement d’accent» Chantraine, cit. ↩︎

  10. B. Gallet, Recherches sur Kairos et l’ambiguité dans la poésie de Pindare, P. U., Bordeaux, 1990, pp. 45-68. ↩︎

  11. T. Levi, Il Kairos attraverso la letteratura greca, in «Rendiconti della reale accademia nazionale dei Lincei classe di scienze morali» (32), 1923, pp. 260-281. ↩︎

  12. «La Χήρ è la dea che colpisce, che uccide, è la Parca che recide il filo della vita», T. Levi, cit., p. 264. ↩︎

  13. M. Trédé-Boulmer, cit., p. 53. ↩︎

  14. Iliade, IV, 185 εν καιρίω̨; VIII, 84 e 326 μάλιστα δέ καίριόν εστιν; XI, 439 κατά καίριον. Per l’analisi del καίριος omerico M. Trédé-Bolumer, Cit. pp. 23-29; ma anche R. B. Onians, Cit.; Race, op. cit., E. Petrolini, cit↩︎

  15. In realtà M. Trédé-bolmer, cit., propende per questa opzione, mentre per esempio il Levi ( cit.), sottolineando la tarda comparsa del sostantivo, è più prudente e ammette che potrebbe essere stato quest’ultimo a derivare dall’aggettivo e non viceversa. ↩︎

  16. R. B.Onians, cit., p. 344. ↩︎

  17. M. Trédé-Boulmer, cit., p. 29. ↩︎

  18. «Si deve conoscere la misura, il καιρóς è per ogni cosa il meglio», Hes., Op et Di, 694. Trad. it a cura di E. Petrolini, cit, p. 350. ↩︎

  19. Il valore normativo di καιρóς viene messo in risalto in particolare da J. R. Wilson, cit. e W. Race, cit., che ne sottolineano l’importanza a discapito del valore temporale; W. Race: «from Hesiod well into the fourth century, καιρóς was one of several important normative words, often with little or no temporal connotation, whose basic sense is propriety […] in general I have found that translators and commentators have overemphasized the temporal aspect», ivi, pp. 197-198. ↩︎

  20. Call. Descript., VI, 16-17. Cfr M. Trédé-Boulmer, cit. pp. 66-69; E. Petrolini, cit., p. 351, che traduce «l’opportunità è la sola creatrice di bellezza, mentre tutto ciò che è sfiorito non ha alcuna parte nella natura dell’opportunità». ↩︎

  21. M. Trédé-Boulmer, cit, p. 69. ↩︎

  22. J. R. Wilson, cit., p. 179. ↩︎

  23. W. Race, cit., p. 198-199. ↩︎

  24. Theogn, Sill., v. 401. «Non affannarti troppo, il καιρóς è il meglio in tutte le cose», trad. it. a cura di P. Philippson, cit., p. 92. ↩︎

  25. Si noti l’utilizzo del superlativo άριστος, che indica eccellenza, in funzione predicativa come sottolinea giustamente E. Petrolini, cit., p. 350. ↩︎

  26. P. Philippson, cit., p. 92. ↩︎

  27. M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Bari, 1990, p. 6. ↩︎

  28. Per l’identificazione di καιρóς e σωφροσύνη cfr M. Trédé-Boulmer, cit., p. 104 e G. Delling, cit., p. 1364-5. ↩︎

  29. J. R. Wilson, cit., E. Petrolini, cit., G. Delling, cit., M. Trédé-Boulmer, cit., T. Levi, cit↩︎

  30. T. Levi, cit., pp. 274-275. ↩︎

  31. «Suggella la parola col silenzio, e il silenzio con l’opportunità» trad. it. a cura di T. Levi, cit., p. 274. ↩︎

  32. T. Levi, ivi, p. 275. ↩︎

  33. J. R. Wilson, cit., p. 179. ↩︎

  34. E. Petrolini, cit., p. 357. ↩︎

  35. G. Delling, cit., p. 1365-1368; «καιρóς means a time of tension and conflict, a time of crisis implying that the course of events poses a problem that calls for a decision at that time», Smith, Time and qualitative time, in P. Sipiora and J. S. Baumlin, cit., pp. 46-57, p. 52. ↩︎

  36. T. Levi, cit., p. 275. ↩︎

  37. Riporto qui per maggiore chiarezza l’intero passo di Levi cui sto facendo riferimento: «Il primo proverbio di Pittaco riassume tutto il contrasto fra la filosofia presocratica e la filosofia di Socrate: quella tutta intenta a scrutare il mondo esterno e invano affaticata a costruire sull’instabile materia l’edificio della nostra vita; questa che per la prima volta torce gli sguardi alla vera polla donde la nostra vita scaturisce, all’anima nostra, all’intimo nostro spirito; prima dell’attenta indagine della nostra coscienza, la più alta legge morale che poteva dettare la filosofia era l’osservanza della necessità fatale che, più che nel nostro intimo essere, si palesa con mille segni, ai disattenti impercettibili, negli oggetti e negli avvenimenti a noi d’intorno.», ivi, p. 275. ↩︎

  38. M. Vegetti, cit., p. 101. ↩︎

  39. P. Philippson, cit., pp. 90-91. ↩︎

  40. P. Kucharski, Sur la notion pythagoricienne du καιρóς, in «Revue Philosophique», 1963, pp. 141-169, p. 142: Kucharski cita qui Alessandro di Afrodisia che commenta Aristotele, Metafisica, A, 5. ↩︎

  41. P. Kucharski, ivi, p. 143. ↩︎

  42. Non è possibile in questa sede rendere giustizia alla questione del numero «sette», o della sua correlazione ad Atena, nelle speculazioni pitagoriche e in quelle posteriori, mi limito a citare, come esempio, l’importanza che esso riveste nel Timeo di Platone e tra i pensatori posteriori in Proclo. ↩︎

  43. «Altri di questi filosofi (pitagorici) dicono che i principi sono dieci, quelli che son detti in serie coordinate: limite e illimitato, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro, maschio e femmina, in quiete e in moto, dritto e curvo, luce e tenebra, buono e cattivo, quadrato e rettangolo.» Aristotele, Metafisica, A, 5, 986a, 22 trad. it. a cura di A. Lami. ↩︎

  44. «A due a due sono infatti la maggior parte delle cose umane», Ibidem↩︎

  45. Il rapporto fra la nozione di καιρός e di armonia, nell’ambito della filosofia pitagorica è stato messo in luce, fra i primi, da A. Rostagni, A new chapter in the history of rhetoric and Sophistry, trad. ingl. Di P. Sipiora, in P. Sipiora e J. S. Baumlin, cit., pp. 23-45. ↩︎

  46. E. Petrolini, cit., p. 352. ↩︎

  47. Cfr P. Kucharski, cit., p. 150. ↩︎

  48. Cfr P. Kucharski, ivi, p. 143. ↩︎

  49. Cfr P. Kucharski, ivi, p. 159. ↩︎

  50. E. Petrolini, cit., p. 351. ↩︎

  51. Giamblico, La vita pitagorica, a cura di M. Giangiulio, Bur, 1991, p. 341-343. ↩︎

  52. Aspetto, questo, che viene messo in luce pressoché da tutti gli studiosi, cfr B. Gallet, cit.; M. Trédé-Boulmer,. cit.; E. Petrolini, cit.. ↩︎

  53. La questione della ποικιλία è uno dei nodi più spinosi per gli studiosi, poiché si trovano a dover giustificare coerentemente una varietà di sfumature. B. Gallet nel suo studio, per esempio, risolve la complessità della ποικιλία mettendola in relazione con la metafora della tessitura: καιρóς è allora quel «nodo» (significato forse rintracciabile nell’originaria coappartenenza etimologica di καιρóς e και̃ρος, anch’essa però dubbia) che tiene brillantemente insieme, intrecciandoli, la pluralità di «fili» presenti nell’opera, cit., pp. 77 e seguenti. ↩︎

  54. «Sono sempre fonte di molti discorsi le grandi virtù; ma i saggi prestano occhio a chi orna con arte pochi argomenti, di lunghi racconti in pari misura tiene la cura d’ogni cosa il momento opportuno.» Pyth IX, 77-78. Per le Pitiche seguirò la traduzione di B. Gentili. Sulla preferibilità dei discorsi brevi cfr Pyth 1, 81-84: «Se adegui il tuo discorso all’occasione (Kairos), stringendo in breve le fila di molti argomenti, minore è il biasimo per gli uomini». ↩︎

  55. Ivi, 78-79: «Di lunghi racconti in pari misura tiene la cura d’ogni cosa il momento opportuno.» Per questi versi si propone, oltre a quella di B. Gentili, anche la traduzione della Philippson: «Il καιρὸς occupa sempre il momento culminante di qualsiasi cosa», cit., p. 91 ↩︎

  56. «Il saggio per natura possiede una molteplicità di proprie visioni» Ol, II, 86-87, trad. it. a cura di M. Untersteiner, I Sofisti, p. 170. ↩︎

  57. Lo scrupolo morale spinge Pindaro a domandarsi in Pyth X, 4: «τί κομπέω παρὰ καιρόν ;» cioè «è questo un vanto inopportuno?». ↩︎

  58. Χάρις δ̓, ἃπερ ἃπαντα τεύχει τὰ μείλιχα θνατοῖς, ἐπιφέροισα τιμὰν καὶ ἂπιστον ἐμήσατο πιστὸν ἒμμεναι τὸ πολλάκις·/ ἁμεραι δ̓ ἐπίλοιποι/ μάρτυρες σοφώτατοι./ ἔστι δ̓ ἀνδρὶ φάμεν ἐοικὸς ἀμφὶ δαιμόνων καλά·/ μείων γὰρ αἰτία. Ol, I, 30-36, Per le Olimpiche la traduzione italiana che seguirò è quella di L. Lehnus. ↩︎

  59. M. Untersteiner, Fisiologia del mito, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 304. ↩︎

  60. M. Untersteiner, I Sofisti, Mondadori, Milano, 2008, p. 170. ↩︎

  61. ἐνόρκιον λόγον ἀλαθεῖ νόῷ, Ol, II, 92. ↩︎

  62. δεδαιδαλμένοι ψεύδεσι ποικίλοις ἐξαπατῶντι μῦθοι, Ol, I, 29-30. ↩︎

  63. Pyth, I, 41-43. ↩︎

  64. «Mentre la religiosità dionisiaca aveva fissato la sua attenzione sul dissidio interiore che il mito religioso celava nel suo intimo […], Pindaro nulla vede di tutto ciò, né di altre difficoltà», Untersteiner, Fisiologia del mito, p. 315. ↩︎

  65. Pyth, 3, 61-2; Cfr Ol, 5, 23-4: «chi irriga una sana fortuna e ai beni, appagato, aggiunge la gloria, non chieda di farsi dio». ↩︎

  66. «C’è una misura in tutto e l’attimo giusto è il più adatto a coglierla», Ol, XIII, 47-48. ↩︎

  67. «Breve misura è per gli uomini il momento opportuno. Egli ben lo conosce: e come servo, non come aiutante, lo segue.», Pyth, IV, 286-287. La traduzione è mia. ↩︎

  68. «Tu conosci davvero nel momento giusto allo stesso modo il delicato agire e patire», Pyth, VIII, 6-7. La traduzione è mia. ↩︎

  69. P. Philippson, cit, p. 91. ↩︎

  70. Per quanto riguarda le considerazioni relative alla tragedia il punto di riferimento sarà lo studio di Untersteiner Le origini della tragedia e del tragico, Istituto editoriale cisalpino, Milano, 1984, illuminante nell’impostazione e del tutto persuasivo per la maggior parte dei risultati; per quanto concerne la trattazione specifica del καιρός, ci si richiamerà all’esaustivo articolo di J. R. Wilson, cit., pp. 177-204. ↩︎

  71. M. Untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico, pp. 332-333. Spiega ancora Untersteiner: «Possiamo, dunque, concludere che nella tragedia il dissidio radicale caratteristico dei miti ellenici è veduto dal punto di vista dell’uomo, che impone al mito le proprie categorie etiche e logiche; secondo Pindaro, invece, il medesimo dissidio viene rappresentato dal punto di vista di dio, cosicché ogni contrasto, una volta posto, viene subito risolto nella luce della inevitabile perfezione divina», Fisiologia del mito, p. 318. ↩︎

  72. Aesch, Agam., vv. 974-984, trad. it. a cura di G. e M. Morani, Utet, Torino, 1987. L’esercito è tornato vittorioso, ma il coro ha presagi di sventura. ↩︎

  73. Il poeta è definito αὐτοδίδακτος, proprio per sottolinearne l’unicità e la spontaneità del canto, Ibidem, v. 991. ↩︎

  74. Aesch, Prom, vv. 184-185. Corsivo mio. Il coro mette in guardia Prometeo dai rischi cui andrà in contro, se deciderà di sfidare l’autorità divina. ↩︎

  75. Aesch, Suppl, vv. 85-95. A proposito di questo passo M. Untersteiner si sofferma ad analizzare l’espressione μερόπεσσι λαοῖς e il sostantivo μέροπες dalla cui traduzione, secondo lui, passa la comprensione dell’intero passo. La sua interpretazione è, a parer mio, estremamente interessante perché riconduce l’etimologia del termine al sostantivo μέρος e alla radice ὀπ (vedere) e traduce, quindi, μερόπεσσι con «coloro che vedono le parti», ossia «coloro che sanno articolare, distinguere», «il greco, infatti, concepisce l’uomo come essere che contempla per distinguere; che è portato all’analisi prima di giungere alla sintesi». M. Untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico, pp. 444-445. A prescindere dalla correttezza o meno dell’analisi etimologica, è senz’altro degna di interesse la definizione dell’uomo greco come tendente alla distinzione, all’analisi: non è certamente un caso che la filosofia, come noi la intendiamo, sia nata presso di loro e che il suo sviluppo sia coevo alla tragedia stessa. È proprio da questa natura analitica che, secondo Untersteiner, deriverebbe l’intrinseca impossibilità per l’uomo greco di cogliere la divinità nella sua unità e quindi il dramma di vivere la realtà come dissidio. ↩︎

  76. M. Untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico, p. 449. ↩︎

  77. M. Untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico, p. 495. ↩︎

  78. «È il momento giusto infatti, che è per gli uomini il più grande condottiero di ogni opera» Soph., El, 75-76. La traduzione è mia. Cfr anche il verso 39: «ὅταν σε καιρὸς εἰσάγῃ», ossia «introduciti in casa qualora si presenti il momento giusto». ↩︎

  79. «a buona occasione, che di tutto tiene il discrimine, proprio all’istante trova il suo compimento», Soph, Phil, vv. 836-838., trad. it. a cura di G. Paduano, Utet, Torino, 1982. ↩︎

  80. «Poiché in questa circostanza non è il momento giusto per indugiare, ma quello adatto all’agire». Soph, El, vv. 21-22. La traduzione è mia. ↩︎

  81. «Tu cogli ora l’occasione più immediata», Aesch, Sept, v. 65. Un messaggero riferisce ad Eteocle che sette argivi stanno attaccando Tebe e lo esorta a intervenire. ↩︎

  82. «Tendendo l’arco oltre misura e patendo molte sventure ad opera della giustizia», Eur, Suppl., vv. 745-746, trad. it., a cura di O. Musso, Utet, Torino, 1980. Adrasto deve riconoscere che tutti i successi degl uomini dipendono dal favore di Zeus, mancando il quale l’uico destino possibile è la sconfitta. Per l’immagine dell’arco cfr anche «ὅπως ἂν μήτε πρὸ καιροῦ μήθ’ ὑπὲρ ἄστρων βέλος ἠλίθιον σκήψειεν» «In modo da non scagliare il dardo a vuoto, né prima del tempo né al di sopra degli astri», Aesch, Agam, vv. 364-366. ↩︎

  83. Riguardo il binomio καιρὸς- δίκη si noti Agam, vv. 807-809: «conoscerai col tempo, informandoti, chi secondo giustizia (δικαίως) e chi in modo inopportuno (ἀκαιίρως) ha tenuto la sua casa fra i cittadini». Qui tra i due termini è posto un rapporto quasi sinonimico. ↩︎

  84. «Ci sia dunque un doveroso timore, e non si pensi di fare tutto secondo il nostro piacere, senza doverne rispondere e pagarne il prezzo», Soph, Ajax, vv. 1084-1086. Menelao ricorda a Teucro di non sfidare la volntà divina. ↩︎

  85. «Della moderazione è bello già pronunciare il nome; praticarla, poi, è di gran lunga la cosa migliore per gli uomini. L’eccesso non arreca vantaggio ai mortali» e continua «ma procura gravi sciagure, quando la divinità si adira con una famiglia», Eur, Med., vv. 125-128. La nutrice di Medea comprende che la padrona sta imboccando la strada della follia. Cfr inoltre Aesch, Suppl, vv. 1059-1061: «Dunque eleva un preghiera moderata: quale consiglio opportuno mi rivolgi?» «non superare la misura riguardo gli dei». ↩︎

  86. «Non procurare vantaggio agli uomini oltre misura, trascurando la tua misera condizione», Aesch, Prom, vv. 507-508. Il coro mette in guardia Prometeo dal non superare il limite, anche se per una giusta causa, perché il volore degli dei è sovrano. ↩︎

  87. «Guarda la tua sorte, considera la sventura in cui ti trovi. (Con dei re spartani una troiana vuol lottare? La casa della dea del mare accoglie vittime. Lasciala!) Che ti giova consumare col pianto il tuo volto e deturparlo per le imposizioni dei re?» Eur, Androm, vv. 1026-1032. ↩︎

  88. «La sollecitudine nel portare a compimento un lavoro nel momento opportuno, conduce a un meritato riposo», Soph, Phil, vv. 637-638. La traduzione è mia. L’uso di καιρὸς come «vantaggio» o «profitto» non è così raro: in questo stesso senso è impiegato dallo stesso Sofocle in Ajax, v. 38 quando Odisseo prega affinché i suoi sforzi non siano vani: «Ἦ καὶ, φίλε δέσποινα, πρὸς καιρὸν πονῶ;» ↩︎

  89. «È l’audacia che ci vuol. La fatica in buon momento spesa, gioia in abbondanza agli uomini infine dà.» Eur, Fr Temeno, 19 (745). ↩︎

  90. «Ma pregate soltanto questo: che io viva sempre dove è mio destino», Sofocle, Oed. Rex, vv. 1512-1513. La traduzione è mia. ↩︎

  91. «Ogni cosa è giusta al momento giusto», Ibidem, v. 1518. ↩︎

  92. «Questo comportamento è proprio degli uomini saggi: non sottrarsi al destino, cogliendo il momento opportuno, cogliere altri piaceri», Euripide, Iphig. Tau., vv. 907-908. Ifigenia è riuscita a sottrarsi alla morte che Agamennone voleva per lei e reicontra Oreste e Pilade. ↩︎

  93. Cfr nota 5. ↩︎

  94. C. R. Eskin, Hippocrates, Kairos, and writing in the sciences, in P. Sipiora e J. S. Baumlin, Cit. pp. 97-113. ↩︎

  95. M. Trédé-Boulmer, cit., pp. 29-32. ↩︎

  96. C. R. Eskin, cit↩︎

  97. «According to Hippocrates’ method, the physician must take note of all the factors affecting the patient: like the naturalist, he saw the subject (patient) within a total environment», C. R. Eskin, ivi., p. 100. ↩︎

  98. M. Trédé-Bolmer, cit., p. 156. Per un approfondimento del καιρóς nella medicina cfr ivi, pp. 155-193. ↩︎

  99. M. Trédé-Boulmer, cit., p. 160. ↩︎

  100. Cfr P. Kucharski, Sur la notion pythagoricienne de Kairos, in «Revue philosophique», 1963, pp. 141-169. ↩︎

  101. M. Trédé-Boulmer,. cit., p. 162: «il tempo è nell’occasione e l’occasione in un tempo che non sia lungo. La guarigione è faccenda di tempo, quando però si presenti l’opportunità». La traduzione è mia. ↩︎

  102. «La buona occasione, che di tutto tiene il discrimine, proprio all’istante trova il suo compimento», Soph, Phil, vv. 836-838. ↩︎

  103. M. Trédé-Boulmer, cit., p. 195. Per un approfondimento del καιρός in storiografia ivi, pp. 195-235. ↩︎

  104. P. Philippson, Cit., p. 93. ↩︎