Corpo, progresso, diritti umani nella società dei consumatori

1. Corpo, desiderio, benessere

La nostra contemporaneità — era dell’esasperata individualità — assiste ad uno strano rapporto inversamente proporzionale tra desiderio e suo soddisfacimento: al diminuire delle possibilità di appagamento di un determinato desiderio, aumentano — smodatamente — gli oggetti desiderabili. Così, sembra che la società dei consumi, o meglio, quella modernità liquida di Zygmunt Bauman,1 abbia innescato un ingegnoso meccanismo si autoriproduzione, il cui tassello essenziale per il funzionamento è proprio il contemporaneo benessere: non un presupposto che condensa e racchiude in sé un principio ed un fine ultimo, bensì, un posto di immediato soddisfacimento — il più delle volte di immediata illusione — di momentanee esigenze e bisogni. Bisogni che proiettano l’uomo contemporaneo in una dimensione isolata in cui la propria singolarità acquisisce l’unica modalità di esistenza e l’unico traguardo degno di essere perseguito. Se, infatti, sin dai primordi della comunità il soggetto è riconosciuto solo come membro di una società e la sfera individuale non trova alcuna legittimazione politica e sociale, nell’epoca post-moderna, l’uomo è inteso nella sua autonomia rispetto all’autorità, la quale ha, così, precisi confini entro cui estendersi. La sfera individuale viene sempre più vista come nucleo forte e inviolabile, tutelata da eventuali ingerenze da parte di altri o dello Stato. A rafforzare una tale concezione è lo stesso ridimensionamento del ruolo divino — principio della rivalutazione dell’autonomia dell’individuo — che giunge ad esasperare quel laicismo groziano2 e, di conseguenza, apre le porte ad un pericoloso relativismo etico,3 il quale induce l’uomo e non l’umanità, secondo parametri universali, a ritenersi non solo unica misura del bene e del male, ma anche unico soggetto agente, capace di autocostruirsi ed autoaffermarsi. Proprio il desiderio di autoaffermazione si presenta, oggi, come una realtà ingannevole: essa dà l’illusione di poter essere raggiunta attraverso il consumo, non solo di beni materiali, ma — paradossalmente — del proprio corpo, della propria fisicità. Se, infatti, «il vero volano dell’economia orientata ai consumatori è costituito proprio dalla mancata soddisfazione e dal costante rinnovarsi e rafforzarsi della convinzione incrollabile secondo cui il tentativo di soddisfare quei desideri è almeno in parte fallito»,4 l’autoaffermazione diviene una dimensione che si getta sul corpo, rendendolo cosa manipolabile, ricreabile, poiché «il corpo umano, considerato indipendentemente dallo spirito e dal pensiero, viene utilizzato come materiale alla stregua del corpo degli animali».5

2. Consumo del corpo e laicizzazione dei diritti umani

Ci troviamo, dunque, in un’epoca in cui razionalità, autonomia, libertà di scelta, volontà costituiscono i termini di uno slogan post-moderno, che, a ben guardare, si configura — oramai da tempo — come slogan post-umano, dato che il nostro stesso essere nudi, la nostra corporeità viene impregnata di flussi tecnologici capaci di renderci sempre più prossimi a quel desiderio.6 Trasformare il corpo, intervenire su di esso vuol dire scegliere il come si vuole essere, o meglio, il come si vuole apparire, in una contingenza in cui il rimodellare artificialmente si pone come prima modalità del consumo. Il corpo, dunque, si trasforma, e nel suo divenire approda ad essere il principale oggetto di consumo, dato che, quest’ultimo, viene reso cosa sulla quale applicare il proprio arbitrio, la propria fatticità, in linea con quell’uomo di Sartre che «non è altro che ciò che si fa».7 Manipolare il corpo ci cala nella dimensione — di frommiana memoria — dell’avere,8 tutt’uno con quella dell’apparire dato che, nella nostra contemporaneità, «l’uomo non è neanche un essere, ma un divenire in perpetuo mutamento», poiché «può diventare tutto — ricrearsi a suo piacimento»,9 assumendo come principio cardine un laicismo inteso, non solo, come ragione sganciata da ogni trascendenza, ma anche, altamente autonoma, conducente verso un minaccioso relativismo etico, che, al giorno d’oggi, mette fortemente a repentaglio la stessa sopravvivenza umana. Proprio l’erronea interpretazione del concetto di laico legittima la gestione autonoma di ognuno sulla fisicità. E ancora più problematico risulta essere il momento in cui il processo di laicizzazione investe i diritti umani, dato che da qui si diramano tutte quelle dinamiche conducenti verso la soggettivizzazione della stessa morale e del diritto. Proprio osservando lo sviluppo storico dell’idea di diritto umano, ci accorgiamo che essa è qualcosa di relativamente recente poiché, prima del giusnaturalismo moderno nessuno ne ha parlato esplicitamente. Tale carenza di riferimenti non deve, tuttavia, essere fuorviante. I diritti umani, infatti, appartengono ad un percorso concettuale che affonda le sue radici nel mondo antico e nel concetto di natura umana.

Ad esempio, facendo riferimento al volontarismo di Ockam10 ed al razionalismo di S. Tommaso, possiamo ritrovare i primordi di ciò che oggi identifichiamo come diritti umani, essendo essi fondati sulla legge naturale e, soprattutto, sull’indipendenza della morale dalla teologia. Ricordiamo, infatti, che l’epoca medievale, basando tutta la conoscenza umana sulla rivelazione divina e sull’idea della respublica cristiana in cui confluivano politica e teologia, aveva avviato un processo di oggettivizzazione della norma sia essa naturale che civile, privando sia diritto che morale di ogni autonomia. Il volontarismo di Ockam è proprio l’espressione di questa contingenza del creato e dell’arbitrio assoluto divino, il quale sceglie tra un ventaglio di possibilità atte a realizzare la condotta pratica dell’individuo, ponendolo si come un essere razionale ma, tuttavia, con una ragione che diviene strumento col quale Dio fa conoscere la propria volontà. Indubbiamente, una tale trascendenza svaluta nettamente la legge naturale, intesa come segno notificativo della volontà divina.

Essendo la legge naturale, legge morale, nell’umano processo evolutivo, si è avvertito sempre di più l’esigenza di non ridurre quest’ultima ad arbitraria volontà di Dio, bensì, ad un dettame della ragione presente in qualunque essere razionale, ovvero, l’uomo. Proprio partendo da questa riflessione, S. Tommaso apre le porte al razionalismo e fa della ragione umana il mezzo di partecipazione dell’uomo alla legge eterna, cioè alla ragione divina.11 La legge naturale assurge ad avere una propria autosufficienza ed è in grado di discernere ciò che è bene da ciò che è male, giungendo, così, all’affermazione di un’autonomia creaturale dell’uomo, che nello Stato trova i mezzi adatti al perfezionamento del suo essere.

Nello stesso pensiero di Grozio, cui ci si appella per parlare di laicismo, non troviamo nulla di più “laico”di quanto affermato da S. Tommaso. La polemica groziana è rivolta contro il volontarismo, poiché Grozio ribadisce solo la differenza, evidenziata già da S. Tommaso, fra diritto naturale, basato sulla ragione umana, e diritto volontario divino. L’influenza groziana sull’etica e sul diritto è stata determinata, quindi, non dalle sue convinzioni filosofiche, ma dall’ambiente culturale e dal periodo storico in cui ha trovato diffusione. Ciò è esplicito nell’affermazione, divenuta celebre, in cui Grozio asserisce che il diritto naturale conserverebbe la sua validità anche se, per assurdo, Dio non esistesse. Di conseguenza, il diritto positivo diviene posteriore a quello naturale ma, soprattutto, posteriore alla morale. La teoria groziana, che possiamo definire un primo passo verso la concezione di diritto soggettivo, si avvale del principio secondo cui «ius est qualitas moralis personae competens ad aliquid juste habendum vel agendum»:12 il diritto diviene qualità morale della persona inerente la possibilità di fare o avere qualcosa nel senso della giustizia.

Fare e agire significa che il soggetto può rapportarsi ad altri in maniera giusta. La giustizia diviene giustizia naturale, che regola i rapporti tra la comunità di stati, perché rapporti tra gli individui. Quindi ciò che può tutelare lo status morale degli individui è il diritto oggettivo, che permette il riconoscimento di ciò e, pertanto, diviene funzionale alla stessa morale e garante di libertà. L’asse portante di tali concetti, dunque, risiede nell’uomo fondatore della società civile, dato che lo steso diritto naturale trova il suo fondamento nei comportamenti umani e nella razionalità umana.

Pertanto, stando alla teoria groziana, morale e diritto si compenetrano derivando entrambi dalla razionalità umana. E quest’affermazione, alla luce dell’attuale progresso scientifico, assume una particolare rilevanza poiché, proprio rivalutando — attraverso una giusta interpretazione — il razionalismo groziano, verrebbe meno quel relativismo etico, che pone problemi nell’ambito bioetico e, soprattutto, ostacola la creazione — quanto mai necessaria — di un diritto condiviso in materie riferibili al corpo e alla vita. Del resto, anche quell’etica che assume la definizione di laica, se contemplasse l’autentico significato groziano di laico, non sarebbe in contrapposizione col suo termine opposto, ovvero, con l’etica cattolica della vita.

Così, il processo di riconoscimento dei diritti umani si inserisce proprio nel quadro della natura umana e dell’umanizzazione del diritto naturale conducente ad una razionalizzazione della stessa legge morale. Infatti, i diritti umani, generalmente, vengono proprio concepiti come diritti universali di ordine morale, appartenenti in, egual misura, ad ognuno di noi, in quanto parte del genere umano, portatore, a sua volta, di una dignità inviolabile poiché fondata su diritti fondamentali derivanti dalla legge naturale, che è legge morale. A conferma di ciò, le teorie giusnaturalistiche partono proprio da un paradigma comune: gli esseri umani in un ipotetico stato di natura antecedente alla formazione delle varie forme di governo, sono titolari di determinati diritti naturali. Questi si configurano come presupposti necessari ad ogni teoria dello stato, evidenziando origine e limiti dell’autorità di governo.

Fare appello ai diritti umani potrebbe essere, dunque, un valido strumento di preservazione della nostra corporeità, la quale — oggi più che mai — risulta essere messa in pericolo dalla società dei consumatori, impregnata di vuoto senso di vita e sempre più lontana da valori assoluti di riferimento, poiché protesa verso uno schiacciante relativismo etico, il quale si riconosce e affonda le sue radici nella fallacia naturalistica di Hume13 e nella sociologia avalutativa di Weber,14 teorie che ritengono che non sia possibile ricavare giudizi di valore da giudizi di fatto come non sia possibile passare dall’essere al dover essere. I fatti naturali sono conoscibili e scientificamente dimostrabili, mentre, i valori e le norme morali sono semplicemente presupposti e originano giudizi prescrittivi indimostrabili. Stando alla legge di Hume, infatti, la stessa scienza non dovrebbe indirizzare le proprie azioni verso un fine moralmente valido, quale, ad esempio, il bene umano, ma solo perseguire la dimostrabilità di innovative tecniche scientifiche.

Così, l’attuale galoppante progresso scientifico, che ci caratterizza come uomini evoluti, post-moderni, tecnologici, rischia di svilire quell’elevato stadio di umanizzazione consistente nel riconoscimento e nella tutela dei diritti naturali dell’uomo — in cui rientra anche la tutela del corpo —. «Consumare il corpo» — oramai puro involucro quantificabile e materializzabile15 — vuol dire, dunque, pensare la vita umana al di fuori dell’uomo stesso, in una dimensione in cui — ben presto — sarà un’impresa ardua “sentire” la nostra naturale fisicità.

3. Manipolazione del corpo e diritto alla vita

Autonomia, autoaffermazione, autocostruzione sono termini che passano attraverso la manipolazione del corpo il quale viene reificato e considerato oggetto su cui dispiegare l’azione del singolo. Azione che — espletandosi sulla dimora del flusso vitale, ovvero, sulla corporeità — ricade, inevitabilmente, sulla stessa vita minando anche il fine politico dell’aggregazione sociale. Il progresso tecnologico, infatti, mette a repentaglio, proprio il primo diritto dell’uomo, il diritto alla vita — diritto relativo al corpo — in nome, semmai, di un diritto alla libertà, che si ritiene possa essere amministrato dal singolo individuo a proprio piacimento.

Ecco che, accanto al riconoscimento, faticosamente conquistato nel corso dei secoli, di tanti diritti, che nella Dichiarazione universale del 1948 ha raggiunto l’apice, oggi, assistiamo alla richiesta di altri diritti, che possono essere considerati piuttosto degli pseudo-diritti, come quello di una donna ad abortire senza motivi fondati, come quello ad avere un figlio ad ogni costo, o quello di morire quando la vita non è ritenuta più degna di essere vissuta, o persino quello di cambiare il corpo a proprio piacimento.

Per comprendere al meglio una tale riflessione possiamo fare riferimento alla teoria hobbesiana16 riguardo al diritto alla vita, per poi compararla con la contingenza contemporanea. Hobbes afferma che nel passaggio dallo stato di natura a quello civile l’uomo cede tutti i diritti presenti in natura in favore del patto sociale. L’unica eccezione viene fatta per la conservazione di sé. Il diritto alla vita, alla propria esistenza diviene, dunque, l’unico diritto, o meglio, l’unica legge naturale derivante dalla stessa razionalità umana. Ma, al fine di comprendere un tale concetto è necessario effettuare una distinzione tra diritto naturale e legge naturale secondo Hobbes.

Per leggi di natura si intendono quelle qualità dettate dalla ragione umana che, tuttavia, sono portatrici dell’intrinseco carattere obbligatorio, ma che acquisiscono il valore di legge solo con la nascita dello Stato, in virtù del fatto che una norma può essere considerata tale solo ed esclusivamente nel momento in cui è emanata da un potere costituito che si assume il compito di renderla esecutiva. Il diritto naturale, invece, è quella «libertà che ogni uomo ha di usare il proprio potere per la preservazione della propria vita», ovvero, la possibilità di ogni individuo di preservare se stesso dinanzi ai suoi simili. Pertanto, potremmo sostenere che il diritto di natura fonda quel primordiale status di belligeranza tra gli uomini — conducente all’inevitabile distruzione della specie — ponendo lo stesso individuo come animale solitario sopraffatto dal sentimento della paura di morire.

Tuttavia, l’uomo è fornito di ragione, e la ragione naturale suggerisce la norma generale da cui discendono le leggi naturali del vivere civile, che preservano la stessa vita del singolo — principio, questo che si pone alla base della legge di natura —. Di conseguenza, nell’hobbesiano stato di natura esistono dettami della ragione indicanti i modi più sicuri di garantire la sopravvivenza di sé. La vita viene preservata da una norma razionale, la quale, in Hobbes, diviene il frutto di un calcolo dell’utilità, essendo, la ragione, atto necessario di rinuncia ad ogni diritto per raggiungere un fine corrispondente al solo diritto non ceduto: la conservazione della propria esistenza.

Proprio riflettendo su tale asserzione, non può non destare sconcerto il considerare che, al giorno d’oggi, tale diritto è intaccato nel suo significato più autentico. Sconcerta, infatti, in un’era che Norberto Bobbio ha definito «l’età dei diritti»,17 e che ha visto lo sviluppo e l’affermazione di tanti nuovi diritti, veder messo in discussione proprio quel diritto alla vita senza il quale è inutile anche parlare di tutti gli altri. A distanza di tanti secoli dalle affermazioni hobbesiane, il diritto alla vita torna, purtroppo, ad essere oggetto di discussioni a causa dell’enorme progresso scientifico avutosi negli ultimi cinquant’anni. Si pensi, in tal senso, a tutte le problematiche connesse all’aborto, alla procreazione assistita, all’eutanasia. Di conseguenza, inquietanti sono le domande sui problemi legati alla nascita, allo sviluppo ed alla cessazione della vita umana, ma, ancor più inquietante, è l’incapacità di coniugare l’etica al progresso scientifico, poiché tutelare la vita umana significa, oggi, determinare quali siano gli interventi leciti su di essa e quali no. Il discorso, pertanto, non può non incentrarsi sull’aspetto etico degli interventi dell’individuo sulla propria vita, i quali sono oggetto della bioetica, scienza che ha il compito di avanzare una visione olistica della vita umana tentando, così, di coniugare progresso scientifico e progresso morale.

In tal senso, l’hobbesiana legge naturale, ci aiuta a comprendere i parametri ai quali, nella nostra epoca, dobbiamo necessariamente fare riferimento per tutelare il diritto alla vita e, di conseguenza, per comprendere come l’approccio etico debba sforzarsi di interpretare i comportamenti umani sulla base della loro conformità alla natura ed alla dignità dell’uomo. Dignità, che viene messa in discussione non solo all’inizio della vita, ma durante e anche nelle sue fasi finali. È emblematico, a tal riguardo, il pensiero di uno degli esponenti della bioetica laica, A. Singer, il quale distinguendo gli esseri viventi sulla base di determinate qualità come l’autocoscienza, l’autonomia, il senso morale, giunge ad attribuire maggiore dignità ad alcuni animali, come ad esempio, gli scimpanzè, rispetto ad alcuni esseri umani che, in determinate fasi, sono carenti di tali caratteristiche (si pensi all’embrione o ad un malato nello stato vegetativo).

La difficoltà di difendere l’uomo e di promuovere la sua dignità, risiede proprio nella mancanza di un comune concetto di natura umana, dal quale si determinano diverse impostazioni etiche che arenano, ad esempio, il processo di regolamentazione nei confronti dell’aborto, della fecondazione assistita, dell’eutanasia, ecc… Si assiste, pertanto, ad un relativismo etico, il quale distingue, per grandi linee, un’etica della sacralità da un’etica della qualità della vita. I sostenitori della sacralità della vita e, quindi, della sua inviolabilità, ritengono che la vita umana sia un dono di Dio; il primo e più importante di tutti. Non vi è autorità terrena che possa avocare a sé il potere di sopprimere, consapevolmente e volontariamente, una creatura umana, in nessun caso, per nessuna ragione al mondo, neppure quando sia il titolare a farne richiesta. Dall’altra parte, l’etica della qualità della vita si incentra sul motivo della salvaguardia della dignità umana, inteso come diritto all’autodeterminazione dell’individuo, perciò, anche come limite alla legittimità di trattamenti sanitari. Essa, dunque, si riferisce alla qualità effettiva dell’esistere, misurata e valutata giorno per giorno.

Il bisogno di trovare un punto d’incontro fra posizioni etiche contrastanti, induce a rispolverare il concetto aristotelico di phronesis, di ragione pratica, che manifesta la superiorità dei fini sui mezzi, capace di contrastare l’albagia della razionalità scientifica, la quale, se non si pone dei limiti (e la scienza moderna sembra volerli sempre valicare), finisce con l’anteporre i mezzi ai fini. Proprio l’uso della ragione, appannaggio dei credenti e non credenti, di un’etica della sacralità e di un’etica della qualità, può aiutare ad affrontare le situazioni odierne, che minacciano la vita o pensando ad una sua soppressione o ad una sua manipolazione. Tutelare la propria corporeità può significare, dunque, riscattare quell’umana razionalità, essendo la ragione matrice della legge naturale, la quale proibisce la distruzione della vita, la cui preservazione vuol dire ritrovare la nostra identità di uomini, di esseri razionali. Del resto, Hobbes, aveva ben messo in evidenza tale legge naturale che accomuna gli esseri umani indipendentemente dalla loro individualità.

4. L’arte di Dedalo: tecnica incarnata

L’individuo contemporaneo al fine di autorigenerarsi e autoricrearsi assume come presupposto il vuoto, la mancanza di solidi punti di riferimento, il nulla. Proprio il nulla si configura come spazio aperto, libero, come distesa nella quale poter agire per realizzare se stesso. In quest’ottica il corpo, inteso nella sua nudità, viene considerato come estensione sulla quale la scelta umana può trovare completa realizzazione, dato che la continua ricerca, l’ininterrotto divenire non sono solo realtà contemporanee rivolte ad uno spazio esterno, ma anche alla corporeità. Il corpo viene concepito come dimensione aperta al contatto, al tocco, all’incarnazione.18 Esso costituisce uno spazio in cui la fluidità, il mutare si rendono tangibili, superando la classica concezione secondo cui la tecnica sarebbe un supplemento ad una natura mancante in qualcosa e aprendosi ad un nuovo rapporto con l’artificio. Rapporto che si basa sull’incarnazione della tecnica,19 la quale si insinua sul e nel corpo che ingloba e fa proprio l’artificio. E per comprendere al meglio quest’interdipendenza tra tecnica e corpo20 nella nostra contemporaneità, sembra utile rifarsi ad un mito e — precisamente — al mito di Dedalo, dato che l’uomo-così come la collettività tutta — ha in sé quella capacità mitopoietica che crea, fantastica modella miti, i quali sono tessere dell’immaginario collettivo che, a sua volta, raccoglie in sé il vissuto dell’uomo.21 Pertanto, l’interpretazione simbolica di un mito può far luce e spiegare il nostro tempo presente visto che il linguaggio attraverso cui si esprime un mito è proprio il simbolo. Così, la figura mitologica di Dedalo può illuminare l’uomo post-moderno su quell’accadere che investe la corporeità, la fisicità, poichè rappresenta una sorta di scienziato post-moderno che ha come fine ultimo l’incorporazione della tecnica. Infatti, analizzando il mito di Dedalo — più conosciuto come quello di Icaro — emerge una sostanziale differenza rispetto alle altre narrazioni mitiche, ad esempio, rispetto a quella di Prometeo che svela all’uomo il sapere tecnico. Dedalo, costruendo le ali per il giovane Icaro — ma anche per se stesso, al fine di evadere dal labirinto in cui Minosse rinchiude entrambi a causa della sconfitta del Minotauro — presenta una tecnica che si incarna sul e nel corpo umano. Essa non costituisce più un supplemento ad una natura mancante in qualcosa, ma, diviene essa stessa corpo, in un’inscindibile unità. A differenza del figlio, Dedalo atterra a Cuma (dove costruisce un tempio al dio Apollo consacrandogli le ali) proprio utilizzando le ali: fonte di salvezza poiché tutt’uno col suo corpo. Pertanto, questo particolare mito condensa in sé germi del nostro presente in cui la tecnica si incarna nella nudità, fino a giungere alla metamorfosi di cui la figura del cyborg22 ne è l’emblema, dato che, oggi, il corpo è «un corpo mutante mai finito e definito, ibridazione di organico e inorganico, tra biologico e tecnologico, tra carne e circuiti».23

Così, nella post-modernità, nella fluidità che ci investe, il corpo si mescola al consumo, allo smaltimento, al cambiamento, alla metamorfosi della quale non conosciamo la totalità degli esiti e dalla quale possiamo preservarci, custodirci attraverso quelle azioni aventi un significato in se stesse, ovvero, attraverso la riabilitazione della praxis aristotelica, la quale pone le azioni del libero agire come aventi lo scopo di perseguire un fine ultimo che è bene sommo, fine razionale e, insieme, morale: fine umano.


  1. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma, 2005. ↩︎

  2. G. Fassò, Storia della filosofia del diritto. L’età moderna, il Mulino, Bologna, 1968, vol. I, pp. 32-89. ↩︎

  3. F. Totaro, Natura, artificialità e relativismo etico, in M. Signore (a cura di), Natura ed etica, Pensa Multimedia, Lecce, 2010, p. 109; E. Agazzi, Natura e etica: come pensare il loro rapporto in una civiltà tecnoscientifica, in idem, p. 93. ↩︎

  4. Z. Bauman, Consumo dunque sono, Laterza, Roma, 2007, p. 59. ↩︎

  5. Giovanni Paolo II, Lettera alle Famiglie, 2 febbraio 1994, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano, 1994, n. 19. ↩︎

  6. E. Palese, Da Icaro a Iron Man. Il corpo nell’era del post-umano, Mimesis, Milano, 2011, p. 74. ↩︎

  7. J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo, Mursia, Milano, 1970, p. 35. ↩︎

  8. E. Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano, 2010, p. 37. ↩︎

  9. R. Esposito, Termini della politica. Comunità, immunità, biopolitica, op. cit., p. 162. ↩︎

  10. G. di Ockham, Commento alle sentenze, in A. Ghisalberti, Scritti filosofici, Cardini Editore, Firenze, 1991, pp. 172-79. ↩︎

  11. Tommaso d’Aquino, La somma teologica, Salani, Firenze, 1949-75, vol. I, pp. 60-62; Tommaso d’Aquino, L’unità dell’intelletto, in A. Lobato (a cura di), Opuscoli filosofici, Città Nuova, Roma, 1989, pp. 110-11. ↩︎

  12. U. Grozio, De iure belli ac pacis, in P. Negro, I fondamenti del diritto:antologia, Editoriale Scientifica, Napoli, 1998, pp. 373-421. ↩︎

  13. D. Hume, Opere filosofiche, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1987, vol. I, p. 217. ↩︎

  14. M. Weber, The theory of social and economic organization, Free Press, New York, 1964, p. 88. ↩︎

  15. E. Petrini, Per una filosofia dell’impersonale, in L. Bazzicalupo, Impersonale, Mimesis, Milano, 2008, p. 47. ↩︎

  16. T. Hobbes, in N. Matteucci, Antologia di scritti politici, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 20-35. ↩︎

  17. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1997. ↩︎

  18. J. L. Nancy, Indizi sul corpo, Ananke, Torino, 2009, p. 7; si veda, inoltre, G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre corte, Verona, 2007, p. 48. ↩︎

  19. R. Esposito in D. Calabrò, J.-L. Nancy, Dis-piegamenti, Mimesis, Milano, 2006, p. 86. ↩︎

  20. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 255; T.W. Adorno E. Canetti, A. Gehlen, Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano, Mimesis, Milano, 1995, p. 13; R. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 46. ↩︎

  21. J. Ries, Il mito e il suo significato, Jaca Book, Milano, 2005, p. 181. ↩︎

  22. Sulla figura del cyborg si veda: P. Bellini, Il cyborg, una nuova mitopia tecnologica, in «Pedagogika», anno XIV, n. 4, 2010, p. 45; P. Bellini, Cyberfilosofia del potere, Mimesis, Milano, 2006, p. 126. ↩︎

  23. M. Combi, Corpo e tecnologie, Meltemi, Roma, 200, p. 119. ↩︎