Nell’editoriale dell’aggiornamento del 30 dicembre 2022 della nostra rivista scrivevo: «Non so se è azzardato affermare che la guerra scatenata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina è il vero ingresso nel XXI secolo dopo le molte guerre locali attive in cui le cosiddette grandi potenze si sono confrontate e continuano a confrontarsi a distanza. Da filosofi, e questo è l’editoriale di una rivista accademica che nel suo titolo porta l’enunciato del dialogo, dovremmo riprendere a ‘pensare la guerra’ come possibilità concreta e vicina. Il dialogo è il grande strumento che la filosofia ha “inventato” per trovare soluzioni non violente alle situazioni di conflitto, sebbene la verifica storica sia piuttosto deficitaria in questo senso. Il conflitto appartiene ontologicamente all’umano che però deve diventare capace di gestirlo con l’esercizio della sua ragionevolezza». Tuttavia, come ci ha insegnato E. Weil, razionalità e ragionevolezza non si equivalgono immediatamente.
La guerra è però l’espressione più manifesta e più tragica della irragionevolezza che abita l’umano, ma al tempo stesso è la manifestazione delle possibilità tragiche dell’esercizio sviante della ragione. L’uso deviato della ragione è la barbarie che, tuttavia, è solitamente collegata alla irrazionalità. Il barbaro è colui che non sa e che non sa usare la sua ragione per costruire modelli positivi di edificazione e di abitazione nel mondo. Per gli antichi Greci, com’è noto, il barbaro è colui che è fuori del discorso, del linguaggio accomunante della polis. È uno straniero, un estraneo balbettante. In questo senso la barbarie non è soltanto un deficit di sapere, ma può anche significare un eccesso di sapere però mal utilizzato. La guerra o, al plurale, le guerre oggi sono la più tragica esemplificazione delle capacità tecnico-scientifiche raggiunte dalla scienza, dove l’applicazione dell’intelligenza artificiale è già abbondantemente presente. Le armi hanno raggiunto livelli di perfezione tecnica assolutamente inquietanti che costituiscono il sintomo di un male ontologico più preoccupante: la capacità di fare deliberatamente del male; volontà di male. La natura ontologica delle armi è la distruzione e la morte; quindi, più sono distruttive e letali, più hanno conseguito lo scopo per cui sono state ideate e prodotte. La ragione all’opera nella costruzione delle armi ha come propria teleologia, come proprio scopo, l’eliminazione dell’obiettivo verso cui sono indirizzate. Il bene come loro fine intrinseco è la produzione di male e di morte. È questo un allarmante rovesciamento della razionalità umana contro l’umano. Possiamo essere soddisfatti di questo rovesciamento? Quale risposta possiamo sollecitare per recuperare il senso dell’umanità? Possiamo uscire dalla barbarie che rischia di ingoiare l’umanità? Si possono intravvedere sbocchi positivi che si possono generare dalla crisi attuale? C’è ancora spazio per la speranza?
Proviamo a ri-orientarci a partire da queste domande per ritrovar un senso, una direzione e un significato, una direzione significativa che, in quanto tale, possa diventare produzione di bene. Proviamo in prima istanza a mettere in relazione la barbarie, per capirne la natura, con l’intelligenza artificiale che è la nuova piega che ha preso il sapere che, come un buco nero, rischia di inghiottire la storia dell’uomo. In questo senso sono ancora utili le analisi di Michel Henry in La barbarie, a cui rimando. Il punto di partenza è il collegamento con la cultura e attraverso di essa con la vita, come suo orizzonte genetico. Scrive Henry: «Qu’est-ce donc que la culture ? Toute culture est une culture de la vie, au double sens où la vie constitue à la fois le sujet de cette culture et son objet. C’est une action que la vie exerce sur elle-même et par laquelle elle se transforme elle-même en tant qu’elle est elle-même ce qui transforme et ce qui est transformé. “Culture” ne désigne rien d’autre. “Culture” désigne l’autotransformation de la vie, le mouvement par lequel elle ne cesse de se modifier soi-même afin de parvenir à des formes de réalisation et d’accomplissement plus hautes, afin de s’accroître. Mais si la vie est ce mouvement incessant de s’autotransformer et de s’accomplir soi-même, elle est la culture même, ou du moins elle la porte inscrite en elle et voulue par elle comme cela même qu’elle est.»
Gli orizzonti del sapere non sono mai stati così ampi, ma forse non è mai stato così accentuato neppure il distacco tra sapere e vita. Sapere la vita non è vivere e forse ciò di cui sentiamo maggiormente il bisogno oggi, dentro gli spazi immensi della cultura, è proprio ritrovare il senso della vita e della vita umana nella sua peculiarità. La crisi che in molti ambiti ci tormenta lascia apparire come suo resto ultimo proprio la barbarie e, soprattutto, la violenza nelle sue variegate forme. Ciò che maggiormente impressiona è il come e il perché il sapere, la cultura, non riesca a governare gli elementi da cui la violenza si sprigiona. Il sapere non basta, c’è bisogno di un supplemento di senso che rimetta in questione i paradigmi antropologici, sociali, politici, religiosi. La violenza che oggi, nelle sue numerose espressioni, è all’opera in molti paesi del mondo è soltanto un sintomo di un malessere che in molti casi è vicino alla deflagrazione. La connessione tra sapere e violenza si fa particolarmente allarmante se si accosta ad essi l’altro termine di ‘intelligenza artificiale’. L’essere umano è giunto sulla linea di confine dell’autodistruzione, che si produce proprio come raggiungimento dell’obbiettivo del sapere. L’intelligenza artificiale come puro esercizio del sapere e delle sue infinite connessioni possibili manifesta la scissione che si è prodotta non solo tra sapere e vita, come abbiamo accennato, ma soprattutto tra sapere e coscienza. L’intelligenza artificiale non ha bisogno della coscienza, di cui invece ha un bisogno inderogabile l’essere umano e gli esseri umani nel loro rapportarsi reciproco.
La barbarie si costituisce quindi come rifiuto di una logica dialogica che ha il suo esistenziale nell’accoglienza e quindi nella convivenza delle differenze. L’affermazione esasperata delle individualità nelle sue molte declinazioni — narcisismo, nazionalismo, intolleranza religiosa — è l’elemento primordiale da cui si origina la violenza. A livello globale assistiamo allo sfilacciamento sempre più marcato dell’umano che non riesce a imboccare percorsi non violenti. La scelta della non violenza e del conseguente e coerente disarmo è la scelta obbligata che oggi i popoli e le nazioni hanno di fronte se vogliono continuare ad esistere. È significativo che la formulazione del nuovo imperativo categorico etico nella formulazione di Hans Jonas suoni: «Agisci in modo tale che l’umanità possa continuare ad esistere». L’eco che risuona è la nuova capacità autodistruttiva che l’agire umano ha raggiunto. Certamente non siamo in grado di creare il mondo, ma con la tecnologia che deriva dalla sua scienza l’essere umano è diventato capace di distruggerlo. Per questo è urgente il controllo etico, la coscienza, a cui autori come Günther Anders non si sono stancati di fare appello.
C’è anche un altro piano di distruzione altrettanto allarmante, altro modello di violenza, che oggi è all’opera soprattutto nell’economia: è la violenza verso il pianeta, che non è più considerato come la casa comune, bensì come una riserva di materie e di risorse energetiche di cui appropriarsi. È urgente ritrovare, o trovare, un atteggiamento meno predatorio che lasci più spazio a una logica di gratuità e di gratitudine. La terra, in quanto casa di tutti, come dono in cui l’umanità abita e di cui si nutre, non ha bisogno di padroni, bensì di custodi che se ne prendano cura. Prendersi cura della casa comune, prendersi cura dell’umanità che la abita, significa abbandonare la violenza come modo di vivere, uscire dalla barbarie per entrare nella logica della non violenza, che è la logica con cui si costruisce la pace e la convivenza degli uomini.