Nel lontano 1999, altro secolo e altro millennio, iniziavamo l’avventura di Dialegesthai, la rivista di filosofia on line oggi più longeva in Italia. Questo aggiornamento si affaccia ormai all’inizio del terzo decennio degli anni duemila. Lo spazio web che ospita la rivista ha un nome programmatico, «mondodomani», almeno lo fu allora e vorremmo che continui a esserlo e che significava: «il futuro non si attende, si prepara». Ciò che stiamo vivendo da qualche mese, la pandemia che ha colpito l’umanità, ci costringe a porre le domande che ho messo a titolo di queste mie riflessioni che vogliono essere anche un invito a intervenire per fare della nostra rivista uno spazio aperto di confronto, di proposte e di dialogo. Molti filosofi, o intellettuali, si sono prestati immediatamente a dare una lettura del Covid-19, per cercarne un senso o inquadrarlo nella continuità o discontinuità di una storia, la nostra storia. Nelle poche considerazioni che vengono qui offerte non si ha la pretesa di elaborare una risposta, che per altro non ho, bensì piuttosto di raccogliere le domande, le inquietudini, le ansie che ci coinvolgono e sbarrano il sentiero della continuità della storia. Se non fosse in qualche modo irriguardoso, se non addirittura insolente, per le molte decine di migliaia di morti, potrei dire che ciò che intendo proporre è una fenomenologia del Covid-19. Questo virus, in questo particolare momento della storia dell’umanità, può avere una funzione manifestativa che dobbiamo semplicemente essere capaci di cogliere.
Mondo e domani sono due termini in cui si intreccia lo spazio-tempo e in cui è detta anche l’interdipendenza tra i due. Il mondo è l’orizzonte degli accadimenti del tempo e questo, a sua volta, costituisce l’elemento che rende vivo, dinamico, il mondo. Non si dà un mondo senza tempo e un tempo senza mondo. Ma il luogo dove si annoda il rapporto tra mondo e tempo è l’essere umano capace di trasmettere al mondo a cui appartiene la progettualità intenzionale che lo costituisce. Il mondo ha un senso, o un non-senso, in quanto esiste un essere che glielo conferisce. Il senso del mondo è responsabilità dell’essere umano. Ciò significa che il futuro, il domani, pur nella sua originalità e imprevedibilità assolute, è un risultato e per questo non può essere semplicemente, passivamente, atteso. L’oggi è il domani di ieri, non è solo un’affermazione ad effetto, dice invece che il presente è il risultato della pro-tenzione che lega il passato al futuro in una continuità che non può essere annullata. Nell’oggi ci dobbiamo far carico del domani partendo dall’eredità ricevuta. Questo intreccio della temporalità lega le generazioni in una comune responsabilità, in un compito e quindi in un impegno. Per questo è legittima l’affermazione che il presente costituisce un ‘prestito’ che viene dal futuro e che ne siamo responsabili per le generazioni future. Se proviamo ad applicare questa logica temporale agli eventi che da qualche mese stanno sconvolgendo l’umanità dobbiamo constatare che siamo dentro una radicale crisi di coscienza temporale; siamo schiacciati dentro un’assolutizzazione del presente che fa perdere il dinamismo e il ritmo antropologico dell’intergenerazionalità o quello naturale dei cicli vitali. Il mondo è temporaneamente chiuso e conseguentemente il tempo è sospeso. La percezione di questi due dati costituisce qualcosa di inedito, ma anche di allarmante che sta facendo emergere alcuni guasti costitutivi della comunità umana così come è stata strutturata nella modernità. Il Covid-19, un virus invisibile, ha bloccato l’essere umano e gli ha ricordato, se ce ne fosse bisogno, la sua fragilità e la sua vulnerabilità, la sua naturalità e la sua mortalità. Ma al tempo stesso, questo lockdown, questo bloccaggio, ha manifestato tutti i limiti di un’economia totalmente scompensata e ingiusta che avrà bisogno di essere totalmente ripensata. E questo sarà il compito di una nuova impostazione politica, ma anche culturale. Proviamo a ragionare con ordine per cogliere nell’invisibilità del virus la possibilità di manifestazione dell’umano. Una fenomenologia rovesciata, ma non dialettica, in cui il negativo annuncia il positivo, proprio esibendone la negatività.
Partiamo da due famose pagine di Platone che mi sono venute in mente per «leggere» quanto ci stava accadendo e che si rivelano di grande attualità. La prima è il passo in cui Protagora, il filosofo di Abdera, nel dialogo omonimo, narra l’origine dei viventi e in particolare del genere umano (320c-323c). Leggiamo:
C’era un tempo in cui esistevano gli dèi, ma non esistevano le stirpi mortali. Quando poi anche per queste venne il tempo destinato per la loro creazione, furono dèi a foggiarle, nell’interno della terra, mescolando terra e fuoco e quelle sostanze che si fondono con fuoco e terra. E quando era destino che dovessero portarle alla luce, assegnarono a Prometeo e ad Epimeteo (previdente e imprevidente è il significato corrispettivo dei due nomi) l’incarico di fornire e di distribuire facoltà a ciascuna razza come si conviene. Ma Epimeteo chiese a Prometeo di lasciar fare a lui la distribuzione: “Quando le avrò distribuite”, gli disse, “tu verrai a controllare”. Epimeteo nella sua imperizia “non s’avvide di aver speso tutte le facoltà con gli animali: gli restava ancora sprovvista la razza umana, e non sapeva trovare una soluzione”. A questo punto, “Prometeo viene a controllare il risultato della distribuzione, e vede che le altre specie animali erano ben provviste di tutto, mentre l’uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme. Ed era ormai vicino il giorno predestinato in cui bisognava che anche l’uomo uscisse dalla terra alla luce. Prometeo, allora, trovandosi in difficoltà circa il mezzo di conservazione che potesse trovare per l’uomo, ruba ad Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme al fuoco, perché senza il fuoco era impossibile acquisirla o utilizzarla, e così ne fa dono all’uomo. Grazie ad essa l’uomo possedeva la sapienza necessaria a sopravvivere, ma gli mancava ancora la sapienza politica, perché questa era in mano a Zeus.
Questo passo di Platone, di cui consigliamo la lettura integrale, a due millenni e mezzo di distanza è ancora particolarmente illuminante. L’essere umano è naturalmente inerme, vulnerabile, fragile, ma il sapere tecnico gli consente di affrontare in maniera efficace le difficoltà della vita. La sapienza tecnica sopperisce i limiti della sua natura. Sulla natura prometeica dell’umano si è molto scritto nei secoli, anche l’antropologia contemporanea ne ha fatto frequentemente oggetto di indagine, ma probabilmente non si è sufficientemente correlata con la sua fragilità costitutiva1. L’essere umano nella sua naturalità condivide la condizione elementare del vivente ed è questo il lato più drammatico che il virus ha reso manifesto. Siamo stati e siamo costretti a guardare la morte come la condizione perturbante che all’improvviso interrompe la quotidianità e in maniera forse spietata ci viene a ricordare che la sapienza tecnica non basta. Già Platone mostra che l’essere umano ha bisogno della sapienza politica se non vuole perire nella lotta dei viventi e degli umani tra di loro. Ma questa sapienza l’uomo non è in grado di darsela da sé, gli viene donata dagli dèi. Leggiamo ancora:
E, poiché l’uomo venne ad aver parte di un destino divino, innanzi tutto, per via di questa sua parentela col dio, solo fra gli animali credette negli dèi, e si mise a innalzare altari e statue di dèi. In seguito, con l’arte presto articolò voce e parole, inventò dimore, vesti, calzari, giacigli e scoprì i cibi che venivano dalla terra. Così provvisti, all’inizio gli uomini abitavano in insediamenti sparsi, e non esistevano città. Perciò morivano uccisi dalle fiere, poiché erano sotto ogni rispetto più deboli di esse, e l’arte artigiana che essi possedevano bastava loro a procurarsi cibo, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, non possedevano ancora l’arte politica, di cui l’arte della guerra è parte. Cercavano quindi di unirsi e di salvarsi fondando città. Ma, una volta che si erano uniti, si facevano torti l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicché, tornando a disperdersi, morivano. Zeus, allora, temendo che la nostra specie si estinguesse, manda Ermes a portare agli uomini rispetto e giustizia, perché fossero regole ordinatrici di città e legami che uniscono in amicizia.
Nella Repubblica (372d-374a) Platone, riprendendo la sua riflessione sulla città, ci pone di fronte alla degenerazione della città quando questa entra nel vortice della ricerca del lusso che ha un riflesso anche nella natura del cittadino. In una narrazione suggestiva Platone anticipa un’efficace fenomenologia del decadimento della città. Ne propongo la lettura di un breve passaggio:
Perciò si deve nuovamente ingrandire la città, poiché quella sana non basta più, ma ora va riempita di una massa di gente che non abita più nelle città per procurarsi il necessario: ad esempio i cacciatori e gli imitatori di ogni specie, molti che si occupano del disegno e dei colori oppure della musica, i poeti e i loro attendenti, rapsodi, attori, coreuti, impresari, costruttori di oggetti per tutti gli usi, in particolare per la cosmesi femminile. E ci occorrerà anche un numero maggiore di servitori: non ti sembra che avremo bisogno di pedagoghi, balie, nutrici, acconciatrici, barbieri, e poi di cuochi e macellai? Inoltre avremo bisogno anche di porcari: nella città di prima non ne avevamo, perché non erano necessari, ma in questa occorrono anche loro. Ci vorranno anche molti altri animali da pascolo, se c’è chi ne mangia. Non è vero?” “Come no?” “E con questo tenore di vita non ci serviranno molto più di prima anche i medici?” “Sì, molto di più”. “E il territorio, che bastava a nutrire gli abitanti di allora, diventerà piccolo, da sufficiente che era. Non è forse così?” “E così”, rispose. “Dobbiamo pertanto ritagliarci una fetta del paese confinante, se vogliamo avere terra sufficiente da pascolare e arare, e quelli devono fare altrettanto col nostro territorio, se anche loro si abbandonano a un acquisto sconfinato di ricchezze, andando oltre i limiti del necessario?” “è davvero inevitabile, Socrate”, rispose. “E poi faremo la guerra, Glaucone? O come andrà a finire?” “Andrà a finire così”, disse. “Non stiamo ora a questionare”, continuai, “se la guerra arreca un male o un bene; limitiamoci a dire che abbiamo trovato l’origine della guerra in quelle cose che quando si verificano procurano alle città i mali più gravi, pubblici e privati.
La citazione di questi due brevi passaggi in un testo che cerca di comprendere l’evento di un virus che sta sconvolgendo l’intero pianeta, potrebbe sembrare un esercizio di retorica, ma non lo è. In queste pagine che appartengono a uno dei filosofi che hanno costituito e ancora costituiscono l’anima profonda dell’Occidente sono dette delle verità essenziali. Provo a enuclearle brevemente prima di inoltrarci nella fenomenologia che dicevo. Da più versanti e con accenti diversi si è molto riflettuto sul «peso» che ha la tecnica nel mondo contemporaneo definito addirittura «età della tecnica». La tecnica è in un certo senso la scienza resa disponibile per risolvere i bisogni dell’umano fino ad arrivare come si dice al post-umano. La tecnica costituisce quindi la potenza in esercizio dell’umano con il rischio di fargli dimenticare che è comunque radicata sulla «zoe», sulla vita. Il virus ci ha inesorabilmente posto di fronte al limite della scienza, ma al tempo stesso ha fatto emergere un altro carattere dell’umano, la sua natura «politica», la sua solidarietà. Nel momento in cui il mondo si è fermato e gli stessi esseri umani sono stati «bloccati» in casa è emersa la natura solidale profonda dell’essere umano. Un carattere particolarmente drammatico si ricava dal passo della Repubblica di Platone che anticipa ciò che ha innescato l’inizio del secondo conflitto mondiale, termini come Anschluss o Lebensraum hanno ancora una risonanza spaventosa. Soprattutto però ci pone di fronte all’economia sempre più aggressiva di potenze che usurpano territori di popoli più poveri marcando in maniera sempre più drammatica l’ingiustizia che, come dice Platone è causa di guerra. D’altra parte sappiamo che una nazione è «potente» se la sua potenza economica è garantita e supportata dalla potenza militare. Qualche decennio fa si parlava dell’equilibrio del terrore. Si potrebbe chiedere cosa c’entra tutto ciò con il Covid-19. In prima battuta, apparentemente nulla, ma in realtà ha fatto esplodere tutte le contraddizioni socio-politiche-economiche in cui l’umanità oggi si trova attanagliata. La pandemia costituirà certamente uno spartiacque, anche perché a differenza del passato, questa pandemia l’abbiamo vissuta e la viviamo ancora in diretta al livello planetario. Per proporre una bozza di analisi su cui eventualmente esercitare in maniera più forte il pensiero in seguito, partiamo proprio da questo elemento fenomenologicamente originario che è il vissuto, l’esperienza vissuta.2
La comparsa di questo nemico invisibile e la rapidità con cui si è diffuso a livello planetario ha suscitato molteplici emozioni: timore, inquietudine, ansia. La presenza invisibile e incontrollabile, quindi assente, ha generato uno stato generalizzato di preoccupazione e di ricerca di sicurezza. Uno dei vissuti più drammatici è stato la percezione dell’assoluta solitudine della morte. Si muore sempre soltanto la propria morte, ma nell’umano c’è un accompagnamento alla morte che la rendono appunto umana. È l’accompagnamento agonico che si sedimenta nella memoria e che permane nella continuità e nella prosecuzione della vita. Qui la solitudine/isolamento era imposta dalle norme dell’immunità e diventa solitudine nella morte. Ognuno poteva essere per l’altro fonte di contagio, il contatto come contaminazione. Questa percezione ha ridefinito la prossimità, mi debbo tenere a debita distanza, evitare il contatto. La vicinanza e la relazione vanno quindi evitate. Da un punto di vista antropologico questi sono dei dati essenziali. Improvvisamente siamo stati costretti all’isolamento come unica condizione di possibilità di immunità. E naturalmente ciò vale secondo una logica di reciprocità che significa non solo paura, ma anche prendersi cura dell’altro. Alle emozioni soggettive che dicevo si sono aggiunte però rapidamente anche delle valutazioni che riguardano invece il mondo oggettivo, della società, della politica, dell’economia, della religione. Questi molteplici ambiti non sono altro che la traduzione ambivalente del logos che pure costituisce l’umano. La prima risposta concreta al virus è «salvare la vita», quindi la pre-occupazione, l’occupazione prima e preliminare si tradurrà in una sorta di bio-politica. La nuda vita, con tutti gli equivoci che questa espressione comporta, diventa l’oggetto primario di attenzione. La considerazione sulla vita e su tutte le azioni che occorre mettere in campo per la sua difesa diventano un principio fondativo dell’agire politico che impone lo stato d’eccezione. Nella separazione forzata, nell’isolamento imposto si è sperimentata la legittimazione medico-sanitaria dell’esercizio della politica. «Stiamo a casa!», questo invito-imperativo ha però mostrato immediatamente con tragica chiarezza la grande povertà che struttura il nostro mondo. Dove va chi non ha casa o ha una casa indecorosa per poterci vivere, non semplicemente abitare? Le enormi differenze economiche sono emerse immediatamente e oggi chiedono una presa di coscienza per un mondo e un domani diversi. La reclusione forzata ci ha costretti ad assentarci dal mondo e a guardarlo dalla finestra. Mi è tornata in mente un’immagine inquietante e suggestiva che si può contemplare nel museo del Palazzo Ducale di Urbino, la famosa «città ideale». Si vede una città perfetta, armonica ma vuota, manca la socialità che è il senso stesso della città e insieme come ci diceva Platone, possibilità di una non appartenenza. Le nostre città sono sempre più agglomerati in cui si agita una vita e una economia che non conducono da nessuna parte. E la natura rapidamente si è ripresa ciò che le era stato sottratto. La bio-politica ha bloccato l’economia e la sta costringendo a fare i conti con l’elementale e a rispondere alle emergenze in modo assolutamente originale e creativo. Occorre inventare nuovi modelli di sviluppo che tengano conto di fattori socio-antropologici più originari e non soltanto quello dell’accumulo della ricchezza. Ripensare l’economia dentro un pianeta diverso che si sta ribellando alla logica dell’usurpazione e dello sfruttamento.
L’ambiente non è soltanto un concetto, ma è la biosfera, la sfera della vita e quindi possibilità per i viventi di vivere che però oltre alla natura è il complesso di condizioni sociali, culturali e morali nel quale una persona si trova, si forma, si definisce. Già Husserl notava che l’Umwelt, il mondo ambiente, è l’orizzonte elementare della vita dell’essere spirituale. Il Covid-19 ci sta facendo aprire gli occhi anche su questo fronte, quasi a frenare una corsa verso il non senso. Il mondo-ambiente non ha solo la staticità di un contenitore, ma ha la plasticità che consente a chi lo abita di modificarlo continuamente. È vivo, ma può anche essere ucciso. È sull’ambiente e nell’ambiente che si realizza quel dinamismo temporale a cui accennavo sopra. Qualche decennio fa l’opera di uno dei più significativi filosofi del Novecento, Hans Jonas, si intitolava Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica3, e si concludeva con un paragrafo intitolato Per tutelare l’‘integrità dell’uomo’ che dopo oltre quarant’anni conserva tutta la forza e la provocazione che lo caratterizza e che ripropongo qui di seguito.
Scriveva Jonas:
Si dovranno apprendere nuovamente il rispetto e l’orrore per tutelarci dagli sbandamenti del nostro potere (ad esempio dagli esperimenti sulla natura umana). Il paradosso della nostra situazione consiste nella necessità di recuperare dall’orrore il rispetto perduto, dalla previsione del negativo il positivo: il rispetto per ciò che l’uomo era ed è, dall’orrore dinanzi a ciò che egli potrebbe diventare. Dinanzi a quella possibilità che ci si svela inesorabile non appena cerchiamo di prevedere il futuro. Soltanto il rispetto, rivelandoci ‘qualcosa di sacro’, cioè di inviolabile in qualsiasi circostanza (il che risulta percepibile persino senza religione positiva), ci preserverà anche dal profanare il presente in vista del futuro, dal voler comprare quest’ultimo al prezzo del primo… Un’eredità degradata coinvolgere nel degrado anche gli eredi. La tutela dell’eredità nella pretesa di ‘integrità dell’uomo’ e, quindi, in senso negativo, anche la salvaguardia dal degrado, deve essere l’impegno di ogni momento: non concedersi nessuna pausa in quest’opera di tutela costituisce la migliore garanzia della stabilità, essendo, se non l’assicurazione, certo il presupposto anche dell’integrità futura dell’identità umana. La sua integrità non è altro che l’apertura verso quella sempre smisurata pretesa – che induce all’umiltà –, rivolta al suo portatore strutturalmente inadeguato. Conservare intatta quell’eredità attraverso i pericoli dei tempi, anzi contro l’agire stesso dell’uomo, non è un fine utopico, ma il fine, non poi così modesto, della responsabilità per il futuro dell’uomo.
Queste riflessioni di Jonas ci consentirebbero di riprendere, in un’ottica assolutamente antropologico-filosofica l’enciclica di Papa Francesco Laudato si in cui si concretizza un modello che a me, ricollegandomi al testo biblico del Levitico (cap. 25) dove si presenta il giubileo, piace chiamare «giubilare». La problematicità tra natura e persona. C’è una differenza essenziale tra l’ospite e il padrone e quindi tra l’abitare il mondo come padrone o come ospite. La semantica del padrone esprime una cultura del possesso del dominio e dello sfruttamento. Il padrone fa sorgere il servo e il suo agire è asservimento quindi violenza. L’ospite al contrario è attento e rispetta il luogo in cui abita, gratuità e gratitudine sono gli atteggiamenti fondamentali che si esprimono nel prendersi cura. Dal punto di vista socio-politico, ma anche economico, questi modelli costituiscono la contrapposizione più radicale che il Covid-19 ci ha costretto a guardare in faccia e a farci i conti. Il mondo di domani deve mutare la logica che guida i processi antropologici di costituzione del senso dell’umano. Con il linguaggio della tradizione possiamo dire che dobbiamo abbandonare l’orizzonte del ben-essere come possesso e come avere, i cui guasti sperimentiamo, per ritrovare il ritmo dell’essere come armonia con sé e con il mondo. Due termini, che rimandano entrambi a casa, si possono correlare per un percorso antropologicamente più efficace: economia ed ecologia. La prima detta le norme (nomos-nomia) della gestione della casa (oicos), mentre la seconda muove dalla considerazione che questa casa è la sfera del bios a cui abbiamo accennato sopra. La dicotomia tra i due ambiti è il guasto da sanare e ripensare per un altro domani. Nella fenomenologia sommaria che sto proponendo si manifesta una domanda che è rimbalzata da un capo all’altro del mondo e delle nazioni: «Dio, dove sei?». È la grande imperitura domanda sul senso del male. In questo caso a mio avviso si è manifestata con una consapevolezza diversa: il riconoscimento del limite della scienza e l’apertura allo spazio della preghiera. In ultima istanza non si è trattato di una domanda su Dio, sul male e sul senso della vita, ma piuttosto del riconoscimento che l’ignoto, anche da un punto di vista ontologico, oltrepassa e contiene il noto. L’infinita piccolezza di un virus può mettere in crisi le nostre conoscenze e certezze e dare scacco a quella logica del potere che dicevamo. La preghiera in questo caso non è soltanto domanda di salvezza e di liberazione dal male, bensì riconoscimento del limite e apertura a un orizzonte di trascendenza da cui può arrivare un barlume di risposta. Anche la domanda su Dio è diventata un non senso nella nostra contemporaneità che però si è tirata dietro anche la scomparsa del senso tout court. Qui bisognerebbe ripensare l’identità prometeica da cui siamo partiti. Sarebbe anche interessante riprendere le pagine sulla preghiera di due donne che, a mio avviso, sono la profezia antropologica per un altro domani: Etty Hillesum e Simone Weil. Nel parlare a Dio si manifesta un senso peculiare dell’umano come gratuità ontologica da cui si può sviluppare una diversa modalità di autocomprensione. Nel limite si manifesta sempre l’infinito che è il peculiare orizzonte dell’umano.
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Forse l’unico filosofo che nel Novecento ha posto con drammaticità la questione è Günther Anders con la sua opera più nota L’uomo è antiquato. ↩︎
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Le narrazioni più efficaci di questo vissuto restano ancora le suggestive pagine di Tucidite sulla peste di Atene e soprattutto, La peste di A. Camus. Nelle pagine dello scrittore francese si ritrovano descritti stati d’animo ed emozioni che sono certamente ancora quelli nostri di oggi. ↩︎
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Torino 1990. Originale del 1979. La citazione è a p. 286-87. ↩︎