Il compito per il nostro futuro

Questo aggiornamento conclude il ventesimo anno della nostra rivista. Nell’editoriale per il decennale pubblicato nell’ottobre 2010 scrivevo:

Dieci anni fa (ormai undici), 1999… Era un altro secolo, era un altro millennio. Un abisso di tempo soltanto dieci anni or sono. Se semplicemente ci volgiamo all’indietro, si fa molta fatica a «cucire» un semplice decennio al livello di ricostruzione «motivazionale». In molti casi siamo di fronte a cesure profonde che come filosofi ci interpellano direttamente. Nelle poche riflessioni che vorrei condividere, mi limito infatti al mio orizzonte professionale, quello del filosofo, a cui appartiene anche la rivista di cui celebriamo il decennale, Dialegesthai. Rispetto a dieci anni or sono forse possiamo iniziare con una constatazione amara e tragica: i filosofi tacciono, la filosofia vive dentro le aule universitarie, consuma carta per pubblicare libri, ma è sempre più lontana rispetto ai grandi nuovi interrogativi. Avrebbe, o, almeno, potrebbe avere, la funzione di indicatore di direzione, di senso, in un mondo che corre sempre più velocemente verso l’insensato.

Nel 2015 invitavo a «ripensare l’umano». In continuità con quanto scritto allora, credo che la situazione sia oggi ancora più drammatica. L’urgenza di ‘ripensare’ l’umano è ancora più impellente. Non sono un catastrofista, ma credo di poter affermare che il nostro tempo rappresenta in qualche modo la smentita all’idea di progresso, come processo irreversibilmente in crescita che in maniera sotterranea guida la storia dell’Occidente negli ultimi tre secoli. Nessuno mette in dubbio i grandi progressi in ambito scientifico, le conquiste della genetica e della ricerca biomedica sono indiscutibili; conquistiamo pianeti del nostro sistema solare, ascoltiamo ‘voci’ che vengono dal tempo più remoto degli inizi, grazie alle scoperte della fisica, eppure… noi abitiamo la nostra casa, la terra, in modo dissennato. Non siamo capaci di costruire un mondo giusto, non siamo capaci di guardarci ‘umanamente’, bensì sempre attraverso un filtro che per lo più è di dominio, o di affermazione di potenza, soprattutto economici. L’etica, nonostante le grandi affermazioni e rivendicazioni di principio, è decisamente in secondo piano al livello della diretta prassi individuale. Il regresso appartiene anch’esso, strutturalmente, alla storia dell’uomo come storia della sua libertà, che è sempre libertà di bene o di male. Abbiamo smarrito il senso dell’umano e dalla crisi dell’umano deriva in maniera diretta e consequenziale la crisi della politica e delle strutture sociali che la politica dovrebbe governare. È sintomatico il silenzio che ha caratterizzato il 70º della Dichiarazione dei diritti umani, ormai documento quasi insignificante relegato agli scaffali della storia. Nella Dichiarazione era sottesa un’antropologia, una visione dell’umanità che, con tutti i limiti che certamente ha, poteva essere considerata il punto di partenza per costruire un’umanità più umana.

È in questa prospettiva e per recuperare una positività di orizzonti più ampi che oggi c’è bisogno di filosofia. Per dirla con Husserl, il filosofo è il ‘funzionario’ dell’umanità o, per Gabriel Marcel, la ‘sentinella’ che denuncia ogni forma di anti umanesimo o di disumanizzazione. Fin dalla sua origine, se la filosofia non vuole perdere la sua vocazione, deve essere epimeleia tes psychès, cura dell’anima, cioè cura per quella dimensione profonda che costituisce l’umano e solo l’umano. Come filosofi oggi dobbiamo riproporre l’esigenza della sofia come passione di verità, ma anche come tensione a una vita ‘sensata’. Dare senso alla vita e aiutare a dare senso è, a mio avviso, il compito più urgente della filosofia oggi. Dare senso è l’esercizio della costruzione del logos come peculiarità dell’umano che si definisce come il vivente che ha il logos. Ogni essere umano ha questa caratteristica e quindi il filosofo si deve sentire impegnato in prima persona ogni qualvolta vengono prospettate dimensioni di significato che hanno al proprio interno forme riduttive di carattere politico, religioso, sociale, culturale o economico. La filosofia è per sua natura testimone di universalità e universalità di significato che non significa astrattezza e fuga nel concetto, bensì capacità di trovare ciò che unifica rispetto a ciò che divide. La nostra rivista, fin dalla sua origine, come scrivevo già nel primo editoriale, si è data questo compito e i contributi e soprattutto gli autori hanno condiviso questa logica. Ripropongo quanto scrivevo nel 2015 come compito per l’oggi e soprattutto per il domani:

Tra la violenza che agita la vita e la tranquillità delle nostre aule universitarie si è stabilita una distanza abissale che interpella in modo sempre più angosciante la nostra coscienza di filosofi. La percezione che siamo di fronte a una delle più drammatiche crisi antropologiche della storia; un punto di svolta, ma di cui non riusciamo a cogliere e a dare le direzioni. Fin dall’inizio la nostra rivista si è proposta come una palestra o, se si vuole, una scena in cui si rappresenta la vita nella concretezza delle sue contraddizioni. E vogliamo farlo con la serietà e il rigore della filosofia, ma non con l’asetticità indifferente dell’Accademia. Oggi siamo interpellanti per difendere ancora l’uomo dalla barbarie montante su fronti diversi. Pensare l’umano! Ripensare l’umano! E pensarlo ancora. Con l’accortezza che il disumano può ammantarsi anche di presunta civiltà. Infatti, abbiamo smarrito le coordinate di senso che rendono un percorso percorribile e non un tracciato che fa paura. Quali sono i parametri che misurano una civiltà e il suo grado di umanità? Una bella domanda, ma anche inquietante.

È il compito per il nostro futuro.