1. Un problema di senso e una risposta epocale
«Bisogna leggere Levinas». Questa espressione che chiude il libro di S. Malka, Leggere Levinas.1 «Bisogna leggereLevinas», per non abusare di un pensiero non facile, riducendolo a semplicistiche modulazioni a buon mercato; ma anche «bisogna leggere Levinas», dove nel verbo è sottintesa un’urgenza. E Levinas è un pensatore urgente. L’urgenza è sempre indice di una situazione di emergenza in cui si rompe il normale corso degli eventi, il loro tranquillo fluire, per metterne in questione i presupposti impliciti, per contestarne gli approdi, per tentare una svolta, termine quest’ultimo di particolare pregnanza in Levinas. Qui infatti, più che altrove forse, si manifesta l’urgenza del pensiero e della proposta lévinesiana,2 l’urgenza di un pensiero che con lucidità e con la «pazienza del tempo» si costruisce e si situa al crocevia della storia, senza voler con ciò fare della facile retorica.3 In positivo e in negativo infatti, raccogliamo tutta l’eredità dei secoli passati. Esplodono tutte le contraddizioni della nostra storia plurimillenaria. L’immagine di uomo che abbiamo ereditata è spesso sfocata, quando addirittura non se ne proclama la morte. Ma esistono dimensioni di senso inedite e inaudite che rinviano a un «passato immemoriale» e non mitico, né semplicemente simbolico, che bisogna ora ascoltare o riascoltare ed esprimere. Raramente negli scritti di Levinas emerge questa inserzione drammatica, ma da quei pochi passi e soprattutto dal colloquio privato, si può desumere la consapevolezza epocale che anima l’opera e l’uomo.
La nostra cultura e la storia più recente della nostra civiltà occidentale sono orientate da molteplici post: postmoderna, postmetafisica, postcristiana, postnichilista e così via. Ognuna di queste qualificazioni che non sono e non vogliono essere soltanto temporali, denota la perdita graduale di una referenza di senso, fino alla perdita del senso tout court. Ma perdita di senso vuol dire impossibilità di parlare, di costruire un discorso sensato. II nostro tempo che per altri versi si autocomprende come epoca della comunicazione globale, è però anche sempre più caratterizzato dell’«esilio della parola», per riprendere l’espressione di Néher, cioè dal non senso. Il silenzio grave e conturbante, il silenzio negativo, che pesa sulla nostra cultura, che ci abita e, a volte, ci domina, emerge dalla riproclamazione di una duplice correlativa morte, la morte di Dio e la morte dell’uomo. Dio è morto perché l’uomo è morto e viceversa da questa duplice morte irrompe il silenzio inquieto e insieme fragoroso della notte del nonsenso.4 Il problema del senso e della sua perdita ha perciò una matrice precisa e puntuale che ne fa un problema epocale, antropologico e teologico, prima che logico-linguistico.
Tutta l’opera di Levinas è una diuturna e indefessa ricerca di inedite possibilità di dire la significanza del senso. Mi pare particolarmente sintomatico, e lo vedremo più analiticamente, che uno dei momenti privilegiati di questa emergenza della questione del senso sia la riflessione sul problema del male. Il filosofo francese è infatti particolarmente sensibile a questo tema del male e del dolore e la sua appartenenza ebraica lo hanno reso profondamente attento alla sofferenza dell’altro uomo». Non è né casuale, né d’effetto ciò che egli scrive concludendo la sua scarna «biografia», la sua «firma», in Difficile libertà; una biografia la sua, che egli sente dominata dal presentimento e dal ricordo dell’orrore nazista (p. 374). La Shoah come noi siamo abituati a chiamare l’evento tragico della nostra storia recente, l’interruzione della nostra storia, Auschwitz, è il senso della derelizione suprema dell’uomo, è la vittoria del male. Ma Levinas è convinto che proprio per non soccombere al dominio del male occorra inoltrarsi e procedere per altre vie e recuperare, come mi diceva in un colloquio privato, la petitebonté che attraversa la storia, anche quella tragica dell’universo concentrazionario (è quanto lo ha colpito nel romanzo di VasilyGrossman, Vita e destino) . Questa piccola bontà, che è responsabilità-per-l’altro, diviene il «varco» che si apre nell’essere, lo squarcio dell’essere, che lascia trasparire un al-di-là dell’essere come nuova origine del senso.
Non è naturalmente mia intenzione ridescrivere qui il complesso itinerario Lévinasiano, vorrei invece fornire al lettore alcune brevi riflessioni su Dio nel contesto del discorso filosofico.
Prima però di entrare direttamente nel discorso è opportuno richiamare il «contesto» fallimentare del «dopo Auschwitz» da cui egli muove il discorso su Dio oggi, non può prescindere dall’evento dell’Olocausto che ha fatto saltare ogni possibile teodicea, come giustificazione razionale di Dio.5 È stato proprio in Italia, a Genova, nel maggio 1981, che Levinas ha presentato il proprio discorso più esplicito a questo riguardo, in una conferenza che aveva per tema La souffrance inutile. Mi si permetta di riportare qui alcune parti del III paragrafo intitolato appunto, La fine della teodicea che evita tanti inutili discorsi. Scrive Levinas:
È forse il fatto più rivoluzionario della nostra coscienza del ventesimo secolo — ma anche un evento della Storia Santa — la distruzione di ogni equilibrio tra la teodicea esplicita e implicita del pensiero occidentale e le forme che la sofferenza e il suo male attingono nello svolgimento stesso di questo secolo, secolo che in trent’anni ha conosciuto due guerre mondiali, i totalitarismi di destra e di sinistra, hitlerismo e stalinismo, Hiroshima, il Gulag, i genocidi di Auschwitz e della Cambogia. Secolo che finisce nell’ossessione del ritorno di tutto ciò che questi nomi barbari significano. Sofferenza e male imposti in maniera deliberata, ma che nessuna ragione limitava nell’esasperazione della ragione divenuta politica e staccata da ogni etica. Forse non è soltanto un sentimento soggettivo che tra questi avvenimenti, l’Olocausto del popolo ebraico sotto la dominazione di Hitler, ci appaia il paradigma della sofferenza umana gratuita, dove il male appare nel suo orrore diabolico. Ad Auschwitz apparve, con una chiarezza che acceca, la sproporzione tra la sofferenza e ogni teodicea. La sua possibilità mette in questione la fede tradizionale plurimillenaria. La forza di Nietzsche sulla morte di Dio non prendeva, nei campi di sterminio, il significato di un fatto quasi empirico? Bisogna allora stupirsi, che questo dramma della Storia Santa abbia avuto tra i suoi attori principali un popolo che, da sempre, era associato a questa storia e di cui si avrebbe torto di intendere l’anima collettiva e il destino come limitati a un qualsiasi nazionalismo e le cui gesta, in certe circostanze appartengono ancora alla Rivelazione — fosse pure come apocalisse — che ai filosofi «danno da pensare» o che impedisce loro di pensare? Gli uomini originari delle comunità ebraiche della Europa Orientale che costituivano la maggior parte di quei sei milioni di torturati e di massacrati, rappresentano gli esseri umani meno corrotti dalle ambiguità del nostro secolo e il milione di bambini uccisi avevano l’innocenza dei bambini. Morte di martiri, morte data dai carnefici dell’incessante distruzione di questa dignità di martiri, distruzione il cui atto finale si compie oggi nella contestazione postuma del fatto stesso di martirio dai pretesi «revisori della storia». Dolore nella sua pura malignità, sofferenza per nulla. Esso rende impossibile e odioso ogni proposito e ogni pensiero che lo spiegassero con i peccati di coloro che hanno sofferto o sono morti. Ma la fine della teodicea che si impone di fronte alla smisurata prova del secolo, non rivela forse, al tempo stesso, in modo più generale, il carattere ingiustificabile della sofferenza dell’altro uomo, lo scandalo che proverrebbe dall’io che giustifica la sofferenza del mio prossimo? In tal modo il fenomeno stesso della sofferenza e della sua inutilità è, di principio, il dolore dell’altro uomo. Per una sensibilità etica — che si rafforza, nella disumanità del nostro tempo, contro questa disumanità — la giustificazione del dolore del prossimo è certamente la fonte di ogni immoralità. Accusarsi soffrendo, è senza dubbio la ricorrenza dell’io a sé. Forse è così, e il per-l’altro — il rapporto più diretto all’altro uomo — è l’avventura più profonda della soggettività, la sua intimità ultima. Ma questa intimità non può essere se non discreta. Essa non potrebbe portarsi a esempio, raccontarsi come discorso edificante. Essa non potrebbe senza pervertirsi, farsi predicazione.
Il problema filosofico che pone quindi, il dolore inutile apparso nella sua malignità fondamentale attraverso gli avvenimenti del ventesimo secolo riguarda il senso che può ancora conservare, dopo la fine della teodicea, la religiosità, ma anche la moralità umana della bontà. Secondo E. anche Fackenheim, Auschwitz paradossalmente comporterebbe una rivelazione dello stesso Dio che tuttavia ad Auschwitz taceva: un comandamento di fedeltà. Rinunciare dopo Auschwitz a quel Dio assente da Auschwitz — non assicurare più la continuazione di Israele — equivarrebbe a completare l’impresa criminale del Nazional-socialismo che mirava all’annientamento di Israele e all’oblio del messaggio etico della Bibbia di cui l’ebraismo è il portatore e di cui la sua esistenza come popolo, prolunga concretamente la storia plurimillenaria. Poiché se Dio era assente nei campi di sterminio, il diavolo vi era evidentemente presente, per Emil Fackenheim,6 l’obbligo per gli Ebrei di vivere e di restare Ebrei per non diventare complici di un progetto diabolico. L’Ebreo dopo Auschwitz, è votato alla sua fedeltà all’Ebraismo e alle condizioni materiali ed anche politiche della sua esistenza.
La riflessione finale del filosofo di Toronto, formulata in termini che la rendono relativa al destino del popolo ebraico, può ricevere una significazione universale. L’umanità che ha assistito, da Sarajevo alla Cambogia, a tante crudeltà nel corso di un secolo, in cui la sua Europa, nelle sue «scienze umane», sembrava andare fino al fondo del suo soggetto, l’umanità che in tutti quegli orrori respirava — già o ancora — i fumi dei forni crematori della «soluzione finale» dove la teodicea parve bruscamente impossibile — abbandonerà, indifferentemente, il mondo nella sofferenza inutile lasciandolo in balia della fatalità politica — o alla deriva — delle forze cieche che infliggono la sofferenza ai deboli e ai vinti e la risparmiano ai vincitori ai quali i perfidi vorrebbero unirsi? Oppure incapace di aderire a un ordine — o a un disordine — che essa continua a pensare diabolico, non deve in una fede più difficile di prima, in una fede senza teodicea, continuare la Storia Santa? Una storia che fa appello di più alle risorse dell’uomo in ciascuno e alla sua sofferenza ispirata dalla sofferenza dell’altro uomo, alla sua compassione che è una sofferenza non-inutile (o amore), che non è più una sofferenza «per nulla» e che ha immediatamente un senso? Non siamo noi — come il popolo ebraico alla sua fedeltà — votati tutti al secondo termine di questa alternativa alla conclusione del ventesimo secolo e dopo il dolore inutile e ingiustificabile che vi è esposto ed esibito senza alcuna ombra di teodicea consolante?
Nuova modalità nella fede di oggi ed anche nelle nostre certezze morali, modalità essenziale alla modernità che sorge.7
Le nuove modalità a cui Levinas qui si riferisce esigono però vie alternative a quelle dell’ontologia e del sapere. La significazione del senso della trascendenza deve «prodursi» in modo proprio, non nel linguaggio del sapere e dell’essere, ancora linguaggio dell’immanenza,
2. Dio e la filosofia
Più volte, Levinas ha tenuto a precisare che il suo non vuole essere un discorso teologico, ma filosofico. In lui i due piani sono nettamente distinti anche se apparentemente si uniscono e si confondono.8 Teologia significa per lui «ricerca di una teo-logia, di una maniera razionale di parlare di Dio». (ADV, p. 11) La sua vuole essere una
Ricerca sulla possibilità — o anche sul fatto di intendere la parola di Dio come una parola significante. La ricerca è condotta indipendentemente dal problema dell’esistenza o non esistenza di Dio, indipendentemente dalla decisione che potrebbe essere presa davanti a questa alternativa e indipendentemente anche dalla decisione sul senso e sul non-senso di questa stessa alternativa. Ciò che qui è cercato, è la concretezza fenomenologica nella quale questa significazione potrebbe significare o significa, anche se essa contrasta ogni fenomenalità. Questo contrastare infatti, non potrebbe dirsi in modo semplicemente negativo o come una negazione apofantica. Si tratta di descrivere le «circostanze» fenomenologiche, la loro congiunzione positiva e come la «smessa in scena» concreta di ciò che si dice in forma di astrazione (DVI, p. 7).
Queste parole aprono l’Avant-Propos di De Dieu qui vieni à l’Idée, ma indicano con chiarezza il senso del suo intero discorso. Al livello filosofico il discorso su Dio si risolve sulla salvaguardia del senso della trascendenza. In questo contesto la «significazione del senso» deve porsi al di là dei piani del sapere e dell’ontologia.9 La trascendenza infatti, o è una eccedenza o non è. Ma eccedenza significa un surplus di senso, non tematizzabilità nei paradigmi del sapere, in-comprensibilità, cioè irriducibilità al possesso del conoscere e del sapere, si badi, in un senso radicalmente diverso da quello della teologia negativa. Levinas ha dedicato delle densissime pagine a questa questione, da Totalità e Infinito a La Traccia dell’Altro, da Enigma e fenomeno a Dio e la filosofia, da Altrimenti che essere o al di là dell’essenza a Note sul senso fino ai recentissimi De Dieu qui veint à l’Idée, Dall’uno all’Altro. Trascendenza e tempo, Trascendenza e intelligibilità. Non è qui possibile che un semplice accenno ai molteplici problemi che egli pone alle nozioni usuali della filosofia. Per brevità espositiva articolerò il mio discorso intorno a due nuclei tematici; il primo riguardante l’ordine del sapere e il secondo, lo scompiglio provocato dal risveglio della trascendenza.
3. L’ordine del sapere
L’«ordine del sapere» ha come proprio modello, secondo Levinas, la fenomenologia e l’ontologia, due quadri che si compongono in unità nella nozione di manifestazione dell’essere che nella conoscenza si produce. Conoscere è rappresentare, è aver presente, è donazione di senso, è, in ultima istanza, adeguazione, cioè, com’è noto, verità.
Nella verità — scrive Levinas — il pensiero esce da se stesso verso l’essere, senza tuttavia cessare di restare presso di sé e uguale a se stesso, senza perdere la propria misura, senza oltrepassarla. Esso si soddisfa nell’essere che, di primo acchito, distingue da sé. Il pensiero si soddisfa nell’adeguazione. Adeguazione che non significa un’assurda congruenza geometrica tra due ordini incomparabili — ma convenienza, compimento, soddisfazione. Il sapere dove il pensiero si mostra è un pensiero pensante «a sazietà», sempre alla propria portata (Notes sur le sens in DVI, p. 239).
Il pensiero che pensa sempre secondo la propria misura è il pensiero della presenza, della rappresentazione del presente, della sincronia o della sincronizzazione, in una parola, ancora dell’immanenza.10 Verso questo modello del sapere, Levinas è radicalmente critico, una critica che comporta il rifiuto e il capovolgimento del sapere stesso come referente ultimo di senso, come unico luogo dove il senso possa dirsi. Già in La traccia dell’Altro leggiamo:
La filosofia occidentale coincide con quel disoccultamento dell’Altro, in cui, manifestandosi come essere, l’Altro perde la sua alterità. Dalla sua infanzia, la filosofia è colpita da orrore per l’Altro che rimane Altro, è colpita da insuperabile allergia. Per questo è essenzialmente una filosofia dell’essere; la comprensione dell’essere è la sua ultima parola e la struttura fondamentale dell’uomo. Per la stessa ragione diventa filosofia dell’immanenza e dell’autonomia, o ateismo. Il Dio dei filosofi da Aristotele a Leibniz, passando per il Dio degli scolastici, è un Dio adeguato alla ragione, un Dio oggetto di comprensione, incapace di turbare l’autonomia di una coscienza che ritrova da sola la sua strada attraverso tutte le avventure, che ritorna a casa come Ulisse, il quale, attraverso tutte le sue peregrinazioni, non fa altro che andare verso l’isola natale.
Nella filosofia che ci è trasmessa, non solo il pensiero teoretico, ma ogni movimento spontaneo della coscienza, viene ricondotto a tale ritorno a sé. Il discorso Lévinasiano che, a prima vista, sembra approdare a una totale sfiducia nella ragione. In realtà, come si diceva, è teso a recuperare o a trovare nuove dimensioni di senso, diverse da quelle teoretiche della rappresentazione e in cui la trascendenza possa «dirsi» in tutta la sua alterità e assolutezza. Richiamando quanto si diceva sopra a proposito del silenzio derivante dalla perdita di senso, possiamo forse dire che Levinas propone orizzonti di discorso al di fuori del senso che viene tematizzato nel sapere. Egli si chiede: «Il discorso può significare altrimenti che significando un tema?» (DVI, p. 104). Rispondere a questa domanda significa rispondere alla possibilità della significazione della Trascendenza di Dio. E tale risposta può darsi soltanto in un «al di là dell’intenzionalità».
La significanza del pensiero è soltanto tematizzazione e, quindi, rap-presentazione e, quindi, concentrazione della diversità e della dispersione temporali? Il pensiero è di primo acchito teso verso l’adeguazione della verità, verso la presa del dato nella sua identità ideale di «qualcosa»? Il pensiero sarebbe sensato soltanto davanti alla presenza pura, presenza compiuta e che, quindi, nell’eterno dell’idealità non «passa più»? Ogni alterità sarebbe soltanto qualitativa, diversità che si lascia riunire nei generi e nelle forme e suscettibile di apparire in seno al Medesimo, come lo permette un tempo che si presta alla sincronizzazione attraverso le rap (ri) presentazioni del sapere? L’umano suggerisce tali interrogativi (DVI, p. 242).
4. Rottura dell’immanenza e risveglio alla trascendenza
L’intenzionalità non esaurisce i modi di significazione del pensiero. «L’intenzionalità non è l’ultima relazione spirituale». La stessa storia del pensiero occidentale, in alcuni suoi momenti, ha lasciato trasparire dei «buchi dell’essere»: l’idea del Bene di Platone, l’Uno di Plotino, l’idea dell’Infinito di Descartes. Questi «buchi dell’essere» significano una disequazione, cioè momenti in cui l’intenzionalità teoretica non riceve la propria Erfiillung, rimane insoddisfatta, o forse più esattamente si manifesta un surplus di senso che l’intenzionalità non può che dare nella sua Sinngebung, né contenere, se non nella forma molto particolare di una sproporzione. L’alterità della trascendenza è un’eccedenza di senso che gli «schemi» teoretici non possono contenere. Il «luogo dove questa eccedenza «si manifesta» con più «evidenza», o almeno quello che Levinas ha presentato e articolato con più insistenza, è senza dubbio la cartesiana «idea dell’Infinito».
Già nel 1957 in un saggio (La filosofia e l’Idea d’infinito) che anticipa i temi di Totalità e Infinito, Levinas scriveva:
Ci proponiamo di seguire una tradizione almeno altrettanto antica, che non intende il potere come un diritto e che non riduce «qualunque alterità» all’Identico. Contro gli heideggeriani e i neohegeliani, i quali ritengono che la filosofia cominci con l’ateismo, occorre dire che la tradizione dell’Altro è filosofica e non necessariamente religiosa. Platone resta al suo interno quando pone il Bene al di sopra dell’essere e, nel «Fedro», definisce il discorso vero come discorso con gli dei. Ma è l’analisi cartesiana dell’idea dell’infinito quella che delinea nel modo più caratteristico una struttura di cui, peraltro, vogliamo conservare solo il «disegno formale».
Secondo Descartes, l’io che pensa è in relazione con l’Infinito. Non si tratta né della relazione che collega il contenente al contenuto, poiché l’io non può contenere l’Infinito; né di quella che collega il contenuto al contenente, perché l’io è separato dall’Infinito. Si tratta, invece di una relazione che possiamo descrivere in modo altrettanto negativo, come l’idea dell’Infinito in noi. (Tr. pp. 13-14).
Con il passare degli anni, l’idea si arricchirà di modulazioni e acquisterà una significazione che ne farà il luogo stesso del sensato, per lo meno, la nozione a partire dalla quale soltanto sarà sensato il discorso metafisico. In Totalità e Infinito come nei saggi immediatamente precedenti o successivi, Levinas del discorso cartesiano «conserva soltanto il disegno formale» cioè di un’idea inadeguata al proprio ideatum. «L’Infinito nel finito, il più nel meno che si attua attraverso l’idea dell’Infinito, si produce come Desiderio. Non come il Desiderio che è appagato dal possesso del Desiderabile, ma come il Desiderio dell’Infinito che è suscitato dal Desiderabile invece di esserne soddisfatto. Desiderio perfettamente disinteressato-bontà» (TI, p. 48). L’idea dell’Infinito è il paradigma di una trascendenza al di là dell’oggettività di un tema del sapere. Dell’idea dell’Infinito non si può «dare ragione», diviene essa invece la possibilità della separazione e dell’alterità che non si dice a partire da una soggettività e che anzi questa soggettività pone all’accusativo. Sarà questo il tema del volto a cui si accennerà più avanti.
Negli anni più recenti, dopo Altrimenti che essere, e in particolare dopo il fondamentale saggio, Dieu et la philosophie (1975), l’idea dell’infinito oltrepassa il limite del discorso formale e viene invece assunta come «sinonimo» filosofico del «Nome» di Dio. Questa assunzione si produce facendo entrare in gioco una nozione centralissima sempre in Levinas, determinante negli ultimi scritti, la nozione-evento di creazione.11 Questa è una nozione cardine, complessa e sfumata, mai presa semplicemente nella sua «totalità» religiosa, né in base ad essa giustificata, ma soprattutto pazientemente rin-tracciata nelle pieghe della passività dell’umano. «… Nell’idea dell’infinito si descrive una passività, più passiva di ogni passività conveniente a una coscienza: sorpresa o assunzione dell’inassumibile, più aperta di ogni apertura — risveglio — ma che suggerisce la passività del creato».12
Si tratta quindi di un’idea significante di una significanza anteriore alla presenza, ad ogni presenza, anteriore a ogni origine nella coscienza e quindi anarchica, accessibile nella sua traccia; significante di una significanza immediatamente più antica della sua manifestazione, che non si esaurisce nel manifestarsi, che non deriva il proprio senso dalla sua manifestazione, che in tal modo rompe con la coincidenza dell’essere e dell’apparire dove, per la filosofia occidentale, risiede il senso o la razionalità, che rompe la sinossi; più antico del pensiero memorativo che la rappresentazione ritiene nella sua presenza (DVI, pp. 107-108).
Pensato nell’impensabilità dell’idea dell’Infinito, Dio si ritrae e si «assolve» in un passato immemoriale da cui «mi viene all’idea», cioè la sua infinitezza (dove l’«in» di In-finito significa insieme il non e l’in) e non la indifferenza di Dio nei confronti dell’uomo. Dio che si presenta ritraendosi nell’idea dell’Infinito, dove il pensiero pensa più di quanto possa pensare, prova quelle domande sul senso che abbiamo già registrate, ma che ora divengono messa in questione del soggetto come tale, denuncia della «profondità del-l’affezione da cui è affetta la soggettività della «messa» dell’Infinito in essa, senza prensione né comprensione. Profondità di un subire che nessuna capacità comprende, che alcun fondamento sostiene più, dove finisce ogni processo di apprendimento e dove saltano i chiavistelli che chiudono le profondità dell’interiorità. Immissione messa (mise) senza raccoglimento, che devasta il proprio luogo come un fuoco divorante, che sconvolge (catastrophant) il luogo, nel senso etimologico del termine. Abbagliamento in cui l’occhio tiene più di quanto non tenga; bruciore della pelle che tocca e non tocca ciò che brucia, al di là di ciò che può essere preso. Passività o passione dove si riconosce il Desiderio, dove il «più nel meno, con la sua fiamma ardente e più nobile e più antica risveglia un pensiero chiamato a pensare più di quanto non pensi» (DVI, pp. 110-111).
Già fin da Totalità e Infinito, il Desiderio, sorgendo dall’idea dell’Infinito, ha per Levinas il significato di una «struttura» destrutturante dello psichismo umano, contrapposta alla soddisfazione/soddisfattibilità del bisogno. Il Desiderio cresce e aumenta di fronte al Desiderabile e proprio in esso è possibile cogliere il senso del «traumatismo» del risveglio della soggettività alla trascendenza, in quanto tale desiderio senza fine è Desiderio del Bene e disinteresse. Partendo dalla nozione di creazione ci troviamo in un orizzonte completamente nuovo da cui si potrebbe radicalizzare ulteriormente il discorso, soprattutto se lasciamo al termine creazione tutta la pregnanza che ha per l’ebreo, il pensiero biblico e la tradizione rabbinica e che non ha l’equivalente nel pensiero greco il quale ci ha permesso di pensare nei termini dell’analogia entis, ma forse l’essenza o l’idea di Dio che ci rivela il pensiero analogico è ancora «troppo umana».
5. Trascendenza ed etica
Di fronte all’idea dell’Infinito esplode la soggettività che si scopre passività, soggezione e obbedienza a un comandamento che mi assegna alla responsabilità etica. Questo movimento apparentemente consequenziale nasce invece da una nozione veramente «assoluta» della trascendenza, che produce un «capovolgimento» e una «irrettitudine», cioè una relazione «trasversale» dell’uomo a Dio. Di fatto, nel tentativo Lévinasiano di «pensare» Dio, è rintracciabile un doppio movimento. Da un lato, la assoluzione di Dio nella sua trascendenza e, dall’altro, l’inattingibilità teoretica da parte dell’uomo fanno scoprire dimensioni di senso extra-teoriche, straordinarie e provocano un terzo movimento, appunto l’irrettitudine e l’approccio trasversale che è quello più proprio per arrivare a Dio. Nel 1962 in un dialogo con J. Wahl, Levinas dichiarava:
Io non vorrei definire niente attraverso Dio, poiché io conosco l’umano. È Dio che posso definire attraverso le relazioni umane e non l’inverso. La nozione di Dio — Dio lo sa, io non le sono opposto! Ma quando debbo dire qualcosa di Dio, è sempre a a pari dire delle relazioni umane. L’astrazione inammissibile è Dio; io parlerò di Dio in termini di relazioni con Altri. Non rifiuto il termine religioso, ma lo adotto per segnalare la situazione in cui il soggetto esiste nell’impossibilità di nascondersi. Non parto dall’esistenza di un essere sommo e potentissimo. Tutto ciò che potrò dirne verrà da questa situazione di responsabilità che è religiosa, nel senso che l’io non può eluderla. Se volete è Giona che non può fuggire. Siete davanti a una responsabilità alla quale non potete sottrarvi, non siete affatto nella situazione di una coscienza che riflette e, riflettendo giù retrocede e si nasconde. Ecco in che senso accetterei il termine religioso che non voglio usare, perché è continuamente fonte di malintesi. Ma è questa situazione eccezionale, in cui siete sempre di fronte ad Altri, in cui non esiste privato, che io chiamerò situazione religiosa. Tutto ciò che in seguito dirò di Dio, partirà da questa esperienza e non inversamente. L’idea astratta di Dio è un’idea che non può illuminare una situazione umana. È verso l’inverso.13
L’idea astratta di Dio non può illuminare la situazione umana, eppure l’idea dell’Infinito pone e impone una domanda: «nella trascendenza dell’Infinito che cosa ci comanda la parola Bene?» (DVI, p. 113). Dio come Desiderabile «resta separato dal Desiderio» — vicino, ma differente — Santo, e il movimento di vicinanza/differenza produce il movimento verso l’altro uomo.
Il rimando all’altro uomo — scrive Levinas — è risveglio, risveglio alla prossimità che è responsabilità per il prossimo, fino alla sostituzione a lui… La trascendenza è etica e la soggettività che, in fin dei conti, non è l’«io penso», che non è l’unità della «appercezione trascendentale» — è, a guisa di responsabilità per l’altro uomo, soggezione all’altro… . E questo modo per l’Infinito, o per Dio, di rimandare dal senso della sua desiderabilità, alla prossimità non desiderabile degli altri — l’abbiamo designato con il termine «illeità», rivolgimento stra-ordinario della desiderabilità del Desiderabile — della desiderabilità suprema che chiama a sé la rettitudine rettilinea del Desiderio. Rivolgimento con il quale il Desiderabile sfugge al Desiderio. La Bontà del Bene — del Bene che non dorme, né sonnecchia — inclina il movimento che esso chiama per allontanarlo dal Bene e orientarlo verso l’altro e soltanto in tal modo verso il Bene. Irrettitudine che va più in alto della rettitudine. Intangibile, il Desiderabile si separa dalla relazione del Desiderio che Egli chiama e, con questa separazione o santità, resta terza persona: Egli al fondo del Tu. Egli è Bene in un senso eminente molto preciso, questo; Egli non mi colma di beni, ma mi assoggetta alla bontà, migliore dei beni da ricevere (DVI, pp. 113-114).
L’illeità14 è una «nozione chiave» nel discorso Lévinasiano su Dio, che inizia a usarlo in La Traccia dell’Altro ed indica un «capovolgimento dell’intenzionalità», un «rivolgimento», una «sovversione» nell’essere. Ma come abbiamo appena visto, indica anche lo «spostamento» di Dio che si ritrae alla terza persona per nascondersi nella sua traccia. È il tema della anacoresi e della chenosi di Dio, più volte ripreso da Levinas negli ultimi tempi.15 Considerato così è però ancora equivoco. Per poter cogliere l’illeità nella sua esatta portata, bisogna ricordare ancora una volta la nozione/evento di creazione, dove il rapporto dell’uomo a Dio si dice in termini di passato; ma un passato che pesa sulla coscienza e la rovescia in passività. Soltanto nella passività della coscienza teoretica può risuonare un comandamento morale che mi è immediatamente significato dal volto dell’altro uomo: «Tu non ucciderai!» Il volto che mi parla si produce come visitazione, trascendenza significante dalla traccia, e «la visitazione consiste nello sconvolgere l’egoismo stesso dell’Io; il volto sconcerta l’intenzionalità che lo prende di mira» (Tr., p. 36).16 Inoltre, il volto dell’altro è messa in questione della sicurezza sufficiente della libertà dell’io, dove questa messa in questione «è appunto l’accoglienza dell’assolutamente altro. L’epifania dell’assolutamente altro è volto; in esso l’Altro mi interpella e mi comanda con la sua stessa nudità e indigenza. La sua presenza è intimazione a rispondere. l’Io non prende solamente coscienza di questa necessità di rispondere, come se si trattasse di un obbligo o di un dovere sul quale ci sarebbe da decidere. L’Io è, nella sua stessa posizione, sino in fondo responsabilità e diaconia, come nel capitolo 53 di Isaia.
Essere Io significa, dunque, non potersi sottrarre dalla responsabilità. Quell’eccesso di essere, quell’esagerazione che si chiama «essere io», quell’emergenza di ipseità nell’essere ci compie come una turgescenza della responsabilità. La mia messa in questione ad opera dell’Altro mi rende solidale con Altri in modo incomparabile ed unico» (Tr., p. 36).
Abbiamo già qui gli elementi fondamentali di quella che sarà la «ridefinizione» della soggettività in Altrimenti che essere. L’«illeità» si produce come diacronia e dal suo passato, per sempre passato irreversibile, mi convoca e mi assegna alla responsabilità. Dalla diacronia alla diaconia. L’illeità dell’«Egli» non è il «questo» della cosa che è a nostra disposizione e a cui Buber e Gabriel Marcel hanno avuto ragione di preferire il Tu per descrivere l’incontro umano, il movimento dell’incontro non è qualcosa che venga ad aggiungersi ad un volto immobile. Il movimento è in quello stesso volto. Il volto è di per se stesso visitazione e trascendenza. Ma il volto, benché totalmente aperto, può tuttavia essere contemporaneamente in se stesso perché si iscrive nella traccia dell’illeità. L’illeità è l’origine dell’alterità dell’essere alla quale l’in sé dell’oggettività partecipa trascendendola.
Il Dio che è passato non è modello di cui il volto sarebbe l’immagine. Essere a immagine di Dio non significa essere l’icona di Dio, ma trovarsi nella sua traccia. Il Dio rivelato della nostra spiritualità giudaico-cristiana conserva tutto l’infinito della sua assenza che è all’interno stesso della dimensione personale. Egli si mostra soltanto in virtù della sua traccia, come nel capitolo 33 dell’«Esodo».
Andare verso di Lui non significa seguire quella traccia che non è un segno, ma piuttosto andare verso gli Altri che si inscrivono nella traccia» (Tr. p. 45).17
In un saggio successivo a La traccia dell’Altro, Enigma e fenomeno, del 1965, il discorso di Levinas si fa ancora più esplicito, là dove indica la moralità come il modo stesso dell’Enigma:
Questo appello (dell’io da parte del volto) categorico nella sua dirittura, ma già discreto, come se nessuno interpellasse e nessuno controllasse, fa appello alla responsabilità morale. La moralità è il modo dell’Enigma. Come ha luogo la risposta? La sola risposta possibile all’idea dell’Infinito è una risposta stravagante. Ci vuole un «pensiero» che intenda più di quanto intende, al di sopra delle sue capacità, e di cui non sappia essere contemporaneo, un «pensiero» che, in questo senso, possa andare al di là della propria morte. Intendere più di quanto si intenda, pensare più di quanto si pensi, pensare quel che si ritira dal pensiero, è desiderare, ma di un desiderio che, contrariamente al bisogno, si rinnova ed arde quanto più si nutre di Desiderabile. Andare al di là della propria morte è sacrificarsi. La risposta all’appello dell’Enigma è la generosità del sacrificio, al di fuori del conosciuto e dell’ignoto, senza calcolo, perché diretta all’Infinito (Tr. p. 63).
Alla luce di quanto si è detto diviene particolarmente illuminante una frase che Levinas mi diceva in un colloquio privato, e che assume un rilievo particolare anche per la riflessione cristiana. Riferendosi al capitolo XXV del Vangelo di Matteo, le pagine del Giudizio, Levinas lo definiva, «l’une despagesles plus sublimes de la Bible». E forse è proprio in tale contesto, di fronte alle domande imbarazzate dei beati e dei condannati che diviene chiara la profondità del senso della Traccia dell’Enigma e dell’Illeità, ma anche dell’intrigo etico della Trascendenza o ancora, della non dirittura del rapporto dell’uomo a Dio.
Per articolare in modo più puntuale il rapporto trascendenza ed etica, occorre tuttavia riferirsi ancora alla responsabilità che ridefinisce il soggetto e apre alla testimonianza profetica.18 Scrive Levinas: «La soggettività del soggetto è la vulnerabilità, esposizione dell’affezione, sensibilità, passività più passiva di ogni passività, tempo irrecuperabile, diacronia non sincronizzabile della pazienza, esposizione sempre da esporre, esposizione da esprimere e cosi da Dire e, cosi da Dare» (AE, pp. 63-64).
Le analisi di Levinas si fanno incalzanti, fino a stanare ogni pur minimo residuo dell’«attività» del soggetto che in quanto esposizione è soggezione. Non più identità dell’identico, non più «per sé».
Il per sé dell’identità non è più per sé. L’identità del «medesimo» nell’«io» gli viene malgrado sé da fuori, come un’elezione o come l’ispirazione, nella forma dell’unicità del convocato. Il soggetto è per l’altro; il suo essere se ne va per l’altro, il suo essere muore in significazione (AE, p. 66).
Il rovesciamento non potrebbe essere più totale e radicale. In quanto si è detto fin qui, ma tutto «Altrimenti che essere» ha questo andamento, è difficile riconoscere la «maestà» e la «maestria» dell’ego; eppure nella descrizione levinesiana della passività, della vulnerabilità c’è un’urgenza, attestata anche dallo stile serrato e incalzante delle analisi, che è urgenza dell’umano. Solo una frantumazione così radicale del primato della soggettività «deposta dal suo trono» rende possibile il contatto e la prossimità del prossimo. Solo un soggetto «sensibile» — secondo tutta la ricchezza semantica del termine — può diventare prossimo. Sensibile in quanto capace di godimento,19 vulnerabile,20 ossessionato dall’altro e per l’altro.21
Solo così l’uno-per-l’altro, la prossimità è significazione e soggettività. Ma la soggettività che ridescrive la prossimità è di tutt’altro genere. Scrive Levinas:
La prossimità non è uno stato, una quiete, ma, precisamente, inquietudine, non-luogo, fuori luogo della quiete che sconvolge la calma della non-ubiquità dell’essere che diviene quiete in un luogo, sempre, di conseguenza, insufficientemente prossimità, come un abbraccio. «Mai abbastanza prossima», la prossimità non si irrigidisce in struttura, se non quando, rappresentata nell’esigenza di giustizia, reversibile, essa ricade in semplice relazione. La prossimità, come il «sempre più prossimo», diviene soggetto. Essa raggiunge il suo «superlativo» come «mia» inquietudine inalienabile; diviene unica, da quel momento uno, dimentica la reciprocità come in un amore che non si aspetta parità. La prossimità è il soggetto che si approssima e che, di conseguenza, costituisce una relazione alla quale io partecipo come termine, ma in cui sono più — o meno — di un termine. Questo sovrappiù o questa mancanza mi getta fuori dall’oggettività della relazione. La relazione diviene religione? Non è un semplice passaggio ad un «punto di vista» soggettivo. Non si può dire che il Me (Moi) o l’Io (Je). Bisogna ormai parlare in prima persona. Io sono termine irriducibile alla relazione e tuttavia in ricorrenza che mi priva di ogni consistenza (AE, p. 102).
Nella prossimità come l’uno per l’altro, la soggettività perde i caratteri di trascendentalità, l’io e il sé, il nominativo e l’accusativo.22 L’altro mi accusa nel senso che abbiamo già accennato, che nella prossimità risuona un comandamento, un ordine. Questa prossimità è la prossimità del volto che mi chiama e mi assegna una responsabilità irrecusabile;
Traccia di se stesso (il volto), ordinato alla mia responsabilità e che io manco, colpevole, come se fossi responsabile della mia mortalità e colpevole di sopravvivere, il volto è un’immediatezza anacronistica più tesa di quell’immagine offerta alla rettitudine della intenzione intuitiva. Nella prossimità, l’assolutamente altro, l’Estraneo che «non ho né concepito né partorito», l’ho già in braccio, già lo porto secondo la formula biblica», «al collo come una balia porta un bambino lattante». Egli non ha un altro luogo, non autoctono, sradicato apolide, non-abitante, esposto al freddo e al caldo delle stagioni. Nell’essere ridotto a ricorrere a me consiste l’apolidia o l’estraneità del prossimo. Essa mi incombe» (AE, p. 114).
Ossessionato dall’altro e per l’altro, sono immediatamente responsabile di tutto ciò che può accadergli, perfino «sono responsabile anche della responsabilità di altri» (EI, p. 113). Sono costantemente convocato e assegnato, in ciò che sta la passività del soggetto, ma in questa assegnazione, sono uno e insostituibile nella responsabilità, sono l’eletto, ma lo sono in quanto «ostaggio», in quanto già da sempre accusato.23 Sostituzione e ostaggio questa è la nuova «identità» senza identità del soggetto a cui giunge Levinas. «Il termine «Io» significa «eccomi», rispondendo di tutto e di tutti» (AE, p. 145). La condizione dell’io è una «incondizione», nell’accettazione ambivalente di senza condizione e di incondizionatezza. Si pensi qui, a proposito di questo «eccomi», alla risposta dei profeti alla vocazione di Dio che era insieme elezione ed assegnazione di un compito. In questa radicale disponibilità costitutiva, il soggetto «non è più» per sé ed insieme «è» per tutti, essere e disinteresse.24
Levinas tira le conseguenze «umane» di questa incondizione di ostaggio e della sostituzione: «È attraverso la condizione di ostaggio che nel mondo ci può essere pietà, compassione, perdono e prossimità. Anche la più piccola cosa, anche il «dopo-di-lei-Signore». L’incondizione di ostaggio non è il caso limite della solidarietà, ma la condizione di ogni solidarietà. Ogni accusa è persecuzione, come ogni lode, ricompensa, punizione inter-personale suppongono la soggettività dell’Io, la sostituzione — la possibilità di mettersi al posto dell’altro che rinvia al transfert dall’«attraverso» l’altro al «per» l’altro e, nella persecuzione, dall’oltraggio inflitto dall’altro all’espiazione della sua colpa attraverso me. Ma l’accusa assoluta, anteriore alla libertà, costituisce la libertà che, connessa al Bene, si situa al di là e al di fuori di ogni «essenza» (AE, p. 148).
L’«ultimo» Levinas ha ulteriormente radicalizzato ed enfatizzato queste posizioni. L’«umano» è un «buco nell’essere», ciò significa che è al di là dell’essenza, che non si «identifica» più. In Etica e Infinito il filosofo francese scrive: «La Soggettività come tale è inizialmente ostaggio; essa risponde fino ad espiare per gli altri. Ci si può mostrare scandalizzati da questa concezione utopica e, per un io, inumana. Ma l’umanità dell’umano, — la vera vita — è assente. L’umanità nel suo essere storico e oggettivo, il varco stesso del soggettivo, quello psichico umano, nella sua originaria veglia o disincanto è l’essere che si disfa della sua condizione d’essere: il dis-inter-«esse». È ciò che vuol dire il libro Altrimenti che essere. La condizione ontologica si disfa o è disfatta, nella condizione o incondizione umana. Essere umano significa vivere come se non si fosse un essere tra gli esseri. Come se per la spiritualità umana si rovesciassero le categorie dell’essere in un «altrimenti che essere» (El, p. 114).
La responsabilità, quindi non è più soltanto sostituzione, ma diviene «inquietudine», «messa in questione» dalla morte dell’altro. Il problema della responsabilità si trasforma in una domanda lacerante di giustizia sulla giustificabilità o giustificazione del mio stesso esistere. È il mio stesso essere che è in questione. Sempre in Etica e Infinito, Levinas scrive:
Sono forse debitore all’essere? Essendo, persistendo nell’essere, non uccido? (…) L’esplosione dell’umano nell’essere, il buco dell’essere di cui ho parlato nel corso di queste conversazioni, la crisi dell’essere, l’altrimenti che essere, sono segnati in effetti dal fatto che ciò che è più naturale diviene più problematico. Ho il diritto di essere? Essendo nel mondo non prendo il posto di qualcuno. Messa in questione della perseveranza, ingenua e naturale nell’essere! (…) Non voglio affatto insegnare che il suicidio discende dall’amore del prossimo e dalla vita veramente umana. Voglio dire che una vita veramente umana non può restare soddisfatta (satisfatte) nella sua uguaglianza all’essere, vita di quiescenza che essa si sveglia all’altro, cioè deve anche disubriacarsi; che l’essere non è mai — contrariamente a quanto dicono tante tradizioni rassicuranti — la propria ragion d’essere; che il famoso conatusessendi non è la sorgente di ogni diritto e di ogni senso (EI, rispettivamente pp. 131, 132-133, 133-134).
Nella responsabilità-per-altri, l’altro-nel-medesimo, sono già da sempre, da un tempo che precede ogni tempo presente di risposta, convocato e assegnato nell’unicità ineludibile e ineluttabile, sono l’eletto.25 Di fronte al volto, come abbiamo già detto, sono assoggettato in un’obbedienza radicale che precede l’ascolto stesso del comandamento. Questa precedenza è l’ispirazione, modalità che infrange la continuità del tempo e ordina alla responsabilità.
«Eteronomia dell’obbedienza etica che, come ispirazione, non è il dispiegamento di una «vis a tergo»; essa viene di «faccia», assoggettamento all’ordine significato sul volto dell’altro che non è avvicinamento come un tema. Obbedienza all’ordine assoluto — all’autorità per eccellenza — obbedienza originaria all’autorità per eccellenza, alla parola di Dio, a condizione di non nominare Dio se non a partire da questa obbedienza. Dio inconosciuto che non prende corpo e si espone ai rinnegamenti dell’ateismo!» (Dall’Uno all’Altro) .26
Debolezza di Dio e sua umiltà.27 La «gloria dell’Infinito» e ancora una volta etica, nella radicalità che ciò comporta per il filosofo francese.28 Una bella pagina di Altrimenti che esserene è una sintesi efficace:
Ma senza principio, senza inizio — anarchia — la gloria, facendo esplodere il tema, significa al di qua del logos, positivamente, l’estradizione del soggetto che riposa su di sé, estradizione da ciò che esso non ha mai assunto perché, a partire da un passato irrappresentabile, è stato sensibile alla provocazione che non si è mai presentata, ma ha colpito di trauma. La gloria non è che l’altra faccia della passività del soggetto in cui sostituendosi all’altro, responsabilità ordinata al primo venuto, responsabilità per il prossimo, ispirata dall’altro, il Medesimo, io sono strappato al mio inizio in me, alla mia uguaglianza in me. La gloria dell’infinito si glorifica in questa responsabilità, non lasciando al soggetto alcun rifugio nel suo segreto che lo proteggerebbe contro l’ossessione per l’Altro e coprirebbe la sua evasione. La gloria si glorifica attraverso l’uscita del soggetto fuori dagli angoli bui del «quanto a sé» che offrono — come i cespugli del Paradiso in cui si nascondeva Adamo mentre udiva la voce dell’Eterno-Dio percorrendo il giardino dal lato in cui sorge il sole — una scappatoia alla convocazione in cui si mette in moto la posizione dell’Io all’inizio e la possibilità stessa della origine. La gloria dell’infinito è la possibilità anarchica del soggetto scovato senza possibilità di scampo, io portato alla sincerità, facendo segno ad altri — di cui e dinanzi al quale io sono responsabile — di questa donazione stessa di segno, cioè di questa responsabilità: «eccomi». Dire prima di ogni detto che è testimone della gloria. Testimonianza che è «vera» ma di una verità irriducibile alla verità del disvelamento e che non narra niente che si mostri. Dire senza correlazione noematica della pura obbedienza alla gloria che ordine; senza dialogo, nella passività di colpo subordinata all’«eccomi» (AE, pp. 181-182).
La «gloria» dell’infinito è la «testimonianza» che se ne dà, «Eccomi» come testimonianza dell’infinito, ma come testimonianza che non tematizza ciò che testimonia e la cui verità non è verità di rappresentazione, non è evidenza. Non vi è testimonianza — struttura unica, eccezione alla regola dell’essere, irriducibile alla rappresentazione — che dell’infinito, l’infinito non appare a colui che ne fa testimonianza. Al contrario è la testimonianza che appartiene alla gloria dell’infinito. È attraverso la voce del testimone che la gloria dell’infinito si glorifica» (AE, pp. 183-184)
Forse ora è più facile comprendere perché «la gloria di Dio è l’altrimenti che essere» (EI, p. 121).
Dall’analisi che si è abbozzata si può desumere l’importanza che il discorso su Dio ha nel filosofo francese. Il Dio di Levinas, tuttavia, non ha nome, neppure quello biblico di YHWH, è un Egli totalmente Assoluto e Assente, Passato, è ciò che può essere compreso a partire dalla sua appartenenza ebraica. Per l’ebreo, infatti, Dio è concretamente, «storicamente», presente nel Libro, che però non è la fonte della teologia, o almeno non è soltanto questo, in Esso si parla di Dio, ma soprattutto dell’uomo e della sua esistenza. Dio si ritrae dal Libro che Egli ha rivelato e da questo passato continua l’opera della redenzione, che è però opera e compito dell’uomo che ha ricevuto la rivelazione. Stabilire un regno di giustizia, secondo il profeta Isaia, è il vero compito-responsabilità, l’assegnazione dell’uomo; è questa la vera religione, poiché soltanto un regno di giustizia può essere il regno di Dio.
6. Etica e religione: Levinas e l’Ebraismo
La conclusione del paragrafo precedente rimanda alle radici ebraiche di Levinas che, in particolare attraverso i suoi commentari talmudici, ha sempre più messo in risalto che la relazione etica è la religione stessa, parlando ad es., di una «ebraismo esigente» (AV, p. 17). Tuttavia il discorso qui rischia di divenire equivoco a causa della brevità. Mi limito pertanto, a mò di conclusione, a registrare una problematica che andrebbe accuratamente vagliata, rimandando il lettore direttamente al testo Lévinasiano. La relazione etica dunque come relazione religiosa e in questo senso:
Contrariamente alla filosofia che fa di «se-stessa» l’ingresso del regno dell’assoluto (… .), il giudaismo ci insegna una trascendenza «reale» una relazione dell’anima con Colui che l’anima non può contenere e senza II Quale essa non può, in qualche modo, restare se stessa. Totalmente solo, l’io si trova in uno stato di lacerazione e di squilibrio. Ciò significa che esso si ritrova come colui che ha già leso altri, come dispotismo e violenza. La coscienza di sé non è una constatazione inoffensiva che un io fa del suo essere, essa è inseparabile dalla coscienza della giustizia e dell’ingiustizia (DL, p. 32).
In questa prospettiva si pensi alla distanza abissale tra l’autocoscienza teoretica che conosciamo dalla storia della filosofia e questa «coscienza di sé». Nella concezione ebraica l’individuo si definisce come io soltanto per la relazione che lo lega a un tu, l’io è io nella e per la relazione sociale. Levinas sostiene che la relazione morale è coscienza di sé e coscienza di Dio: «L’etica non è il corollario della visione di Dio, è questa visione stessa. L’etica è un’ottica. Di modo che tutto ciò che io so di Dio e tutto ciò che posso comprendere della Sua parola e dirGli razionalmente, deve trovare un’espressione etica (DL, p. 34)». Ciò significa anche che «la via che conduce verso Dio, conduce ipso facto verso l’uomo» (DL, p. 35). Questo «andare verso l’uomo» è la responsabilità personale che neppure Dio può annullare.
Che il rapporto con il divino attraversi il rapporto con gli uomini e coincida con la giustizia sociale, ecco tutto lo spirito della bibbia ebraica. Mosè e i profeti non si preoccupano dell’immortalità dell’anima, ma del povero e della vedova, dell’orfano e dello straniero. Il rapporto con l’uomo dove si realizza il contatto con il divino, non è una semplice relazione di «amicizia spirituale», ma quella dove si manifesta, si prova e si realizza in una economia giusta e di cui ogni uomo è pienamente responsabile (DL, p. 36).
Questa responsabilità, iscrivendosi nella giustizia, appare come un rapporto assoluto. La coscienza della giustizia è per l’ebreo la coscienza «tout court». È nota la risonanza che ha la nozione di «giustizia» nel contesto veterotestamentario sia come sinonimo stesso di Dio, sia come definizione del «giusto», che è l’uomo che «teme» Dio; e il «timore di Dio» è la pietà.29
In altri termini «il timore di Dio, concretamente, si manifesta come timore per l’altro uomo». (AV, p. 119). Nel suo discorso, Levinas accentua sempre di più l’anacoresi e la chenosi e forse in questa ottica è accettabile la definizione del pensatore francese che Malka dà nel suo libro (il più laico dei pensatori religiosi, il più religioso dei pensatori laici) e che lo stesso Levinas comunque, come mi confermava recentemente, condivide. Il Dio biblico si ritrae, scompare dietro i suoi «nomi santi» attraverso i quali «noi che comprendiamo che il Dio rivelato nei suoi Nomi riceve un senso a partire dalle situazioni umane, di miseria o di felicità, in cui è invocato. «L’Eterno è vicino a tutti coloro che lo invocano» (Ps. 145, 18)». (AV, p. 151)
Secondo Levinas, il «senso positivo» di questo ritrarsi di Dio «non è una non-conoscenza pura e semplice. È appunto obbligazione dell’uomo nei confronti di tutti gli altri uomini. Secondo la parola del profeta (Ger. 22, 10) rendere il diritto al povero e all’infelice, «ecco ciò che si chiama conoscermi, dice l’Eterno». Conoscenza dell’inconoscibile e la trascendenza diviene etica» (AV, p. 152). Il Nome di Dio è impronunciabile, ma egli parla della sua trascendenza:
La trascendenza del nome di Dio in rapporto a ogni tematizzazione non diviene annullamento, e questo annullamento non è forse il comandamento stesso che mi obbliga nei confronti dell’altro uomo? La trascendenza di Dio è il suo stesso annullamento, ma che ci obbliga nei confronti degli uomini. Più alta della grandezza è l’umiltà. Senso del monoteismo abramitico. Ma la rivelazione che si fa etica significa una nuova visione dell’uomo. L’anima umana qui, non è origine di sé, soggetto che rende conto di sé e dell’universo, né esistenza preoccupata nella sua esistenza di questa stessa esistenza. Essa è obbligata prima di ogni impegno». Ricordando un testo di Talmud che parla di coloro che meritano di pronunciare il Nome, Levinas conclude recitando le parole di Rabbi Yeouda: «Si confida il nome di quarantadue lettere soltanto all’uomo discreto e umile che perdona le offese che gli si fanno». Umiltà, discrezione, perdono delle offese che non debbono essere prese soltanto come virtù; esse «capovolgono» la nozione ontologica della soggettività per coglierla nella rinuncia, nell’annullamento e in una passività totale (AV, p. 153 e 154).
Il 25 dicembre 1995 moriva Emmanuel Levinas. Per il XX anniversario della sua morte, mi permetto di riprodurre un mio testo pubblicato nel lontano 1988 sul Bollettino della Società Filosofica Italiana (nº 134, maggio-agosto) e che rimase circoscritto all’associazione. Nel 1985 Levinas ricevette il premio Nietzsche a Palermo ed io ebbi l’onore di formulare la motivazione qui presentata.
-
S. Malka, Leggere Levinas, tr. di E. Baccarini, Queriniana, Brescia 1986. La si può leggere nella sua duplice valenza semantica. ↩︎
-
Si vedano per es., la premessa e le pagine conclusive di Nomi propri, Marietti, Casale Monferrato 1984 e il saggio citato più avanti su La souffrance inutile. ↩︎
-
Mi pare opportuno riportare qui la «motivazione» con cui nel 1985 (14/XII) a Palermo fu conferito a Levinas, paradossalmente insieme a Emanuele Severino, il premio Internazionale Nietzsche: «Le guerre mondiali e locali, il nazionalsocialismo, lo stalinismo — ed anche la destalinizzazione — i campi di concentramento, le camere a gas, gli arsenali nucleari, il terrorismo e la disoccupazione: è molto per una generazione sola, anche se essa ne fosse stata soltanto testimone» (Nomi propri, p. 3). «Dalla fine della guerra in poi il sangue non ha cessato di scorrere. Razzismo, imperialismo, sfruttamento persistono inesorabili. Le nazioni e gli uomini sono esposti all’odio, al disprezzo, temono miseria e distruzione» (Ibid., p. 155). Via via che si è sviluppata la riflessione di Levinas ha mostrato un carattere di urgenza di fronte ai drammi dell’uomo. La sua opera filosofica è stata ed è un’instancabile ricerca di senso, che uscendo dai canoni della venerabile tradizione filosofica dell’Occidente ha tenuto di percorrere strade alternative in cui trovasse un posto da protagonista l’altro nella sua umanità. Alla logica della totalità, la logica dell’essere e dell’identità identificante dell’io, generatrice di violenza, di odio e di guerra, ha contrapposto la logica dell’Infinito, dell’altrimenti che essere, della pace. Il percorso, ormai più che cinquantennale di Levinas si è gradualmente arricchito di articolazioni che, da un lato, hanno fatto i conti con le traumatiche crisi del nostro tempo e dall’altro, hanno evocato senti inediti come risposte a questi traumi. Etica, volto, soggettività, alterità, responsabilità, metafisica, religione, Dio…. parole antiche per dire contenuti nuovi o forse «inauditi». Nella pagina scarna e inquieta del filosofo francese risuona una voce inascoltata che parla da sempre, da un passato «immemoriale» precedente ogni «presente», ed è la voce dell’altro uomo che mi chiama a una responsabilità ineludibile. Il soggetto si ridefinisce come un essere-per-l’altro e ciò significa che il senso d’essere dell’esistente che ciascuno è si manifesta nella scomparsa della propria identità soddisfatta e rassicurata. Dire di Levinas, filosofo dell’alterità, significa implicitamente dire che la metodologia della filosofia ha ceduto il posto alla saggezza dell’amore, che alla logica del potere e del possesso si e sostituita la logica del servizio, che la logica della pace ha il sopravvento su quella del dominio, che il Bene, come altrimenti che essere, sopravanza l’essere. Ma il Bene, per Levinas, non è un’idea, neppure quella platonica, e la concretezza della testimonianza, della responsabilità per l’altro uomo. Per questo la sua grande opera sulla responsabilità. Altrimenti che essere, può essere indicata «alla memoria degli esseri più vicini tra i sci milioni di assassinati dai nazionalsocialisti, accanto ai milioni e milioni di uomini di ogni confessione e di ogni nazione, vittime dello stesso odio dell’altro uomo, dello stesso antisemitismo» e divenire così grido di giustizia. ↩︎
-
Questi temi trovano una presentazione efficace in Umanesimo dell’altro uomo, Melangolo, Genova 1984. ↩︎
-
Particolarmente significative per questo aspetto sono le opere di E. Wiesel. Per un ulteriore approfondimento rimando alla breve indicazione bibliografica nel volume citato di Malka. Per una breve riflessione si veda anche H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, in «Il Mulino», n. 5/198. ↩︎
-
Levinas si riferisce qui all’opera La presenza di Dio nella Storia, edito in Italia dalla Queriniana. ↩︎
-
Originariamente il testo della conferenza fu pubblicato nel «Giornale di Metafisica», 1/1982. Lo cito dal volume Emmanuel Levinas, III dei «Cahiers de La nuit surveillée» a cura di J. Rolland, Verdier, 1984, pp. 329-338. La citazione è alle pp. 334-337. ↩︎
-
Per sottolineare la differenza dei due ambiti, in un colloquio privato, Levinas mi indicava come significativa la scelta editoriale diversa per i suoi scritti filosofici e quelli più propriamente «confessionali». ↩︎
-
Cfr. al riguardo La signifiance et le sens in Heidegger et la guestion de Dieu di AA. VV., Grasset, Paris 1980, pp. 238-247. ↩︎
-
Molto puntuali in proposito sono i saggi di Levinas Notes sur le sens e Dieu et la philosophie, oltre naturalmente ad Altrimenti che essere. ↩︎
-
Su questo problema rimando agli eccellenti studi di O. Gaviria Alvarez e di F.P. Ciglia. Tra i vari testi di Levinas si può vedere AE, p. 142 e DVI, p. 241. È anche importante tener presente la trattazione che ne fa F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato, 1985. ↩︎
-
Levinas riporta a questo punto (nota 6 p. 107) il passo della III Meditazione di Descartes, il quale a sua volta si richiama alla creazione per giustificare la presenza dell’idea dell’infinito. ↩︎
-
Trascendale et Hauteur, in «Bulletin de la Soc. Frane, de Philosophie». t. LIV, 1962, p. 100. ↩︎
-
Tra le cose più recenti sul tema si veda B. Casper, Illéité. Zu einem Schlüssel»begriff« im Werk von Emmanuel Levinas, in «Philosophisches Jahrbuch», 91 (1984), 273-288. ↩︎
-
Levinas aveva accennato a questo tema in una conferenza del 1968, Un Dieu Homme? e in Esistenza ed etica del 1963 su Kierkegaard, ora in Nomi propri. In tempi più recenti il tema è stato ripreso in Judaisme et Kénose, in «Archivio di Filosofia» 2-3/1965, pp. 13-28; Transcendance et intelligìbilité, Fides et Labor, Genève 1984. ↩︎
-
Per ovvi motivi di brevità il tema del volto è qui appena accennato. Levinas ha scritto sul tema pagine meravigliose e suggestive in Totalità e Infinito e queso è divenuto il presupposto di tutto il suo discorso; diffusamente ne ho parlato nel mio Levinas. Soggettività ed Infinito, Studium, Roma 1985. ↩︎
-
In Totalità e Infinito leggiamo: «L’Altro uomo è il luogo stesso della verità metafisica e indispensabile al mio rapporto con Dìo. Egli non giuoca il ruolo del mediatore. L’Altro non è l’incarnazione di Dio, ma appunto, con il suo volto, in cui egli è disincarnato, la manifestazione dell’altezza in cui Dio si rivela» (p. 51). ↩︎
-
Per ciò che segue mi richiamo a quanto avevo scritto nel mio Levinas, cit., in particolare alle pp. 60-67 e 80-84. ↩︎
-
Cfr. AE, p. 90. ↩︎
-
Cfr. AE, p. 93. ↩︎
-
Cfr. il par. 5 (Coscienza e ossessione) di Linguaggio e prossimità in Tr., p. 82 sgg.; AE, p. 107 sgg. ↩︎
-
Cfr. AE, p. 105. ↩︎
-
È molto importante quanto scrive Levinas a questo riguardo in AE, p. 140. ↩︎
-
Cfr. AE, p. 143 sgg. ↩︎
-
Si veda l’importantissimo par. 5 del saggio Dieu et la philosophie, ora in DVI, pp. 115-123. ↩︎
-
De l’Un à l’Autre. Transcendance et temps, in «Archivio di Filosofia», tr. it. nel mio Levinas, cit., 143-144. ↩︎
-
«L’infinito non dunque gloria che attraverso la soggettività, attraverso l’avventura umana dell’approssimarsi all’altro, attraverso la sostituzione all’altro, attraverso l’espiazione per l’altro. Soggetto ispirato dall’Infinito che illeità, non appare, non è presente, che è sempre più passato, né tema, né telos, né interlocutore. Egli si glorifica nella gloria che manifesta un soggetto per glorificarsi già nella glorificazione della sua gloria attraverso il soggetto — eludendo così tutte le strutture della correlazione. Glorificazione che è Dire, cioè segno dato all’altro — pace annunciata all’altro — che è responsabilità per l’altro, fino alla sostituzione» (AE, pp. 185-186). ↩︎
-
Cfr. AE, p. 186. ↩︎
-
In EI, Levinas parla di «gloria della testimonianza» tout court. «La gloria dell’Infinito» si rivela attraverso ciò che è capace di fare nel testimone (p. 120). ↩︎