L’umanesimo biblico di Abraham Joshua Heschel

1. Premessa

Il titolo di queste mie riflessioni ha bisogno di qualche breve delucidazione che situi adeguatamente il pensiero di A. J. Heschel e il senso della mia prospettiva di analisi. Abbiamo una consapevolezza, almeno implicita, di ciò che intendiamo con ‘umanesimo’, sia come riferimento al movimento storico del XV secolo, sia come ottica teoretica che fa dell’uomo il perno e il centro di riferimento e di donazione di senso. Ma cosa si intende aggiungere con l’aggettivo ‘biblico’? Si tratta dell’assunzione di una prospettiva qualificante e immediatamente ‘religiosa’, come se dicessimo ‘umanesimo ebraico’, ‘cristiano’, ‘islamico’, ecc., oppure l’aggettivo biblico può lasciar risuonare altri significati in cui l’uomo può essere detto in altro modo? La Bibbia è soltanto un testo, un canone religioso o può essere anche considerato come codice culturale in grado di fornire la base di riflessione per elaborare prospettive filosofico-antropologiche? A me sembra che sulla scorta di Heschel, senza perdere nulla della sua sacralità, — anzi addirittura accentuandola, intendendo la Bibbia come parola rivelata — il testo biblico può anche essere considerato un grande codice culturale capace di fornire l’ispirazione per una antropologia che, a partire dall’assunzione di nuovi modelli, si orienti verso nuove direzioni. La sfida potrebbe essere l’introduzione di una nuova modalità di articolazione e di costruzione del pensiero e quindi del senso: pensare biblicamente. In questo avverbio risuona un compito che è anche una sfida da raccogliere per offrire un’alternativa di produzione di senso sul piano teoretico e non semplicemente religioso. Il pensiero di Heschel nella sua radicalità, ma anche nella sua sconcertante sincerità, è stato nel secolo XX una proposta in questa direzione. Il paradigma biblico può essere assunto come ottica di riflessione che offre un contributo creativo a quello che siamo abituati a chiamare il pensiero speculativo di matrice greca. In questa direzione, forse proprio a causa delle implicazioni teologiche, siamo ancora all’inizio del cammino. La Bibbia può costituire un paradigma universale di pensiero intorno all’uomo, al suo essere al mondo, e al suo essere con gli altri. C’è inoltre una sedimentazione di ontologia fondamentale che potrebbe efficacemente essere accostata, senza contraddizione, a quella greca. Le due prospettive si integrerebbero in un’offerta di senso realmente meno unidirezionale di quella che ha vissuto l’Occidente nella sua storia.

L’opera maggiore di Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, si apre con un capitolo dedicato all’Autocomprensione dell’Ebraismo in cui l’autore cerca di presentare i rapporti tra filosofia e teologia e tra filosofia e religione. Egli è convinto che «vi sono due tipi di pensiero: uno che si occupa di concetti e l’altro che si occupa delle situazioni. […] Il pensiero concettuale è un atto del ragionamento; il pensiero situazionale invece comporta un’esperienza interiore; nell’esprimere giudizio su un problema, l’individuo stesso è sotto giudizio».1 Secondo Heschel, il filosofo come tale dovrebbe essere piuttosto un testimone che un ‘ragioniere’, ma ciò non è sempre vero nella storia del pensiero occidentale. Il piano di verifica di una tale differenza è quello della filosofia della religione su cui opera il Nostro. La religione non può essere indagata in maniera ‘oggettiva’, lo studio della fede non può prescindere dall’atto di fede.2 Allora «il ruolo della religione è quello di costituire una sfida alla filosofia e non solo un oggetto di verifica».3 A partire da questi presupposti Heschel è convinto che «vi sono molte cose che la filosofia potrebbe imparare dalla Bibbia. Per il filosofo l’idea più elevata è quella del bene. Ma per la Bibbia l’idea del bene è la penultima; non può esistere senza la santità. La santità è l’essenza, il bene è la sua espressione. Le cose create in sei giorni Dio le considerò buone, il settimo giorno lo fece santo».4 Un confronto più articolato e fecondo tra il pensiero greco e quello biblico, Heschel lo compie nella sua opera fondamentale sui profeti,5 dove avanza una delle sue proposte più originali: la filosofia, ma anche la teologia, del pathos.

Queste sono le premesse, ma anche in un certo senso le aspettative, con cui accosterò il pensiero di A. J. Heschel. In via preliminare, è utile notare ancora che il termine uomo/umano (man/human) compare nel titolo di molte delle opere più importanti di Heschel: L’uomo non è solo; Dio alla ricerca dell’uomo; Il sabato. Il suo significato per l’uomo moderno; Chi è l’uomo?; The Insecurity of Freedom. Essays on Human Existence; «Il concetto di uomo nel pensiero ebraico» (saggio nel volume Crescere in saggezza). Nel filosofo e teologo ebreo polacco-americano troviamo una vera e propria ‘passione per l’uomo’, un tentativo radicale di elaborare un nuovo umanesimo a partire dalla Bibbia anche per rispondere alle molte domande e ai molti turbamenti che scuotono l’uomo contemporaneo. E ciò nasce in lui dalla consapevolezza che «la Bibbia è un libro sull’uomo. Non si tratta di una teologia dal punto di vista dell’uomo, ma, piuttosto, di un’antropologia dal punto di vista di Dio».6 La grande domanda di Heschel e credo anche la sua grande provocazione è: cosa significa pensare umanamente l’uomo? Pensare l’uomo in termini umani significa dare una qualificazione autoreferenziale a questo termine, che deve trovare in se stesso i criteri di conoscibilità e di definibilità; questo è il senso più autentico dell’espressione kat’auto (per sé) riferita all’essenza dell’umano.7 Mi sembra questo, pensare umanamente l’uomo, uno dei contributi più originali offerto dall’opera di Heschel al pensiero filosofico e teologico del secolo XX. Il saggio che segue cercherà di rendere conto della peculiarità della qualificazione del termine umano e della sua applicazione. L’umanesimo biblico potrebbe avanzare la pretesa di pensare altrimenti l’uomo, cioè pensarlo umanamente. Mi sembra tuttavia fondamentale osservare che la proposta teorica di Heschel può essere definita con un neologismo: possiamo parlare della sua visione come di una «antropo-teo-logia». Detto con estrema laconicità, un’’antropo-teo-logia’ vuol dire che pensare umanamente l’uomo significa pensarlo divinamente. Questa è l’origine di una logica qualitativamente diversa. È la logica dell’unicità e della sua preziosità. E tuttavia, pensare ‘divinamente’ non significa rimandare a un’immediata fondazione teologica, ma si pone come una qualificazione del pensiero. Il resto del mio percorso giustificherà questa affermazione.

2. Esperienza dell’ineffabile

Il punto di vista fenomenologico, appreso da Heschel nei suoi anni di studio a Berlino, parte dal dato elementare fondamentale «io sono». Un ‘dato’ che tuttavia non ha una propria autoevidenza; la posizione interrogativa conseguente, ‘chi sono? ‘ e ‘perché sono? ‘, dimostra che c’è una paradossale sproporzione tra la datità ontico-ontologica e l’autoconoscenza a cui non possiamo però rinunciare.8 L’affermazione ontologica prelude allo stupore, lo stupore d’esistere.9 Si potrebbe affermare che nell’uomo, il dato richiede l’interrogativo. La tonalità emotiva fondamentale non è né la Geworfenheit (deiezione, essere gettato), né l’Angst (angoscia), per utilizzare la terminologia di Heidegger, bensì piuttosto lo stupore che manifesta la dicotomia tra l’essere e la capacità di dire l’essere, che si meraviglia del suo stesso essere. Io sono, ma non sono in grado di esprimere chi sono e perché sono.10 Questo stupore apre l’uomo al mistero e lo rende insoddisfatto di qualsiasi risposta che pretenda di essere totalizzante e definitiva sul senso del suo esistere. Nel saggio citato «Il concetto di uomo nel pensiero ebraico», Heschel inizia con questa affermazione: «Le nostre teorie svaniranno, e una dopo l’altra ci getteranno polvere negli occhi, a meno che non osiamo affrontare non solo il mondo, ma anche l’anima e iniziare a stupirci della nostra mancanza di stupore di fronte al fatto di essere vivi, stupirci di dare la vita per scontata».11 L’esercizio dell’esistenza non è un’anonima ripetizione di atti, bensì una ‘pretesa di significato’ e per Heschel ciò significa che «la coscienza è dedizione a un disegno».12

Esiste una radice metafisica dello stupore, e qui il termine ‘metafisica’ assume una valenza che trascende le critiche portate a questo concetto dalla modernità, una radice che fenomenologicamente appartiene all’umano nella sua struttura essenziale. Lo stupore nasce dal senso dell’ineffabile. Quest’ultimo non è semplicemente l’espressione della negatività e del limite, ma paradosso di un soggetto che nella sua finitezza non può non aprirsi all’infinito intravisto nell’essere e nella propria esistenza. Mancanza di stupore e assenza del senso dell’ineffabile sono quindi drammaticamente correlati e ben esprimono una delle caratteristiche dell’uomo occidentale contemporaneo, la sua natura prometeica che, come dice il nome dell’eroe greco,13 è caratterizzata da un sapere preveggente. Stupirsi significa riconoscere che non tutto ciò che è, è dicibile e, tuttavia, non siamo condannati al silenzio sterile dell’ignoranza, piuttosto al silenzio fecondo della contemplazione del mistero.14 L’ineffabile ha trovato molti interpreti, tra i più interessanti nella nostra prospettiva possiamo ricordare almeno Kant, Wittgenstein, Jaspers, per citare autori la cui ispirazione non è immediatamente legata al contesto biblico. Il senso dell’ineffabile è il senso dell’infinito, della totalità del senso, misura dell’incommensurabile.

Dell’ineffabile, per definizione, non c’è conoscenza, ma possiamo farne esperienza; anzi costituisce la condizione stessa della possibilità dell’esperienza. Il piano dell’esperienza è più ampio di quello della ragione e della conoscenza. Sperimentare l’ineffabile, non significa ricondurre a concetto o a nome ciò che non ha nome, a parola ciò che non può essere detto; piuttosto significa attingere una dimensione originaria, un’ottica che permette di vedere altrimenti il mondo. Non più soltanto mondo di cose conoscibili, ma anche orizzonte di eventi al di là delle cose. Scrive Heschel: «Divenire consapevole dell’ineffabile vuol dire entrare in urto con le parole. L’essenza, la tangente alla curva dell’esperienza umana, è al di là dei confini del linguaggio. Il mondo delle cose che percepiamo altro non è che un velo. Il suo fluire è musica, il suo ornamento è scienza, ma ciò che vi si cela è imperscrutabile. Il suo silenzio rimane intatto: nessuna parola riesce a cancellarlo».15

Si diceva sopra che lo stupore nasce dal senso dell’ineffabile. Quest’espressione nella visione di Heschel va presa alla lettera. Se stupirsi appartiene in maniera essenziale all’uomo, ciò significa che «Il senso dell’ineffabile non è una capacità esoterica, ma una facoltà di cui tutti gli uomini sono dotati; è una qualità potenzialmente comune a tutti, come la vista o la capacità di formulare sillogismi. Infatti, come l’uomo è dotato della capacità di conoscere determinati aspetti della realtà, così è dotato della capacità di sapere che nella realtà esiste più di quanto egli sappia. La sua mente si interessa all’ineffabile e a ciò che è esprimibile, e la consapevolezza del suo stupore radicale è universalmente valida quanto il principio di contraddizione o quello di ragion sufficiente». […] «Il senso dell’ineffabile percepisce qualcosa di oggettivo che non si lascia concepire dalla mente o captare dall’immaginazione o dal sentimento, qualcosa di reale che, per la sua stessa natura, trascende la portata del pensiero e del sentimento».16 Tutto ciò significa che «l’ineffabile è concepibile, nonostante che sia inconoscibile».17

Ho sopra ricordato Kant, Wittgenstein e Jaspers, si può aggiungere Levinas e la sua proposta filosofica imperniata sull’idea dell’infinito ripresa da Descartes, ma tutto ciò che cosa ha a che fare con la prospettiva biblica, se è ancora questo l’obiettivo della nostra breve analisi? La lettura hescheliana dell’ineffabile, a mio avviso, apre delle prospettive particolarmente interessanti per l’autocomprensione dell’uomo ed è qui che si intreccia con l’ottica biblica. A differenza di gran parte della filosofia occidentale, in particolare moderna, Dio non è né il grande assente, né la presenza ingombrante che sovrasta e nega l’autonomia dell’uomo. Heschel intorno all’ineffabile presenta un ‘intrico’ in cui Dio e uomo si annodano con forza liberante e creativa. «La nostra consapevolezza di Dio è una sintassi del silenzio, in cui l’anima si mescola al divino, in cui l’ineffabile che è in noi si unisce all’ineffabile che è al di là di noi. […] Nel regno dell’ineffabile Dio non è un’ipotesi derivata da presupposti logici, ma un’intuizione immediata, evidente di per sé come la luce. Egli non è qualcosa che si debba cercare al buio col lume della ragione. Al cospetto dell’ineffabile Egli è la luce».18

L’esperienza dell’ineffabile oltrepassa la sfera teoretica e diventa carne di un’esperienza esistenziale radicale in cui si dischiude un significato che trasfigura l’esistenza stessa. La trasfigurazione consiste nel riconoscimento, che è però rovesciamento, che ‘essere è obbedire’. «Essere — scrive Heschel — è obbedire al comandamento della creazione. Nell’essere è in gioco la parola di Dio. Vi è una religiosità cosmica nel mero essere. Ciò che esiste rimane come risposta a un comando. » […] «La mia esistenza infatti non è frutto della mia volontà di esistere. Essere è obbedienza, è una risposta: ‘Tu sei’ viene prima di ‘io sono’. Io sono perché sono chiamato ad essere».19

Una costante del pensiero ebraico nella molteplicità delle sue espressioni è quella di vedere nella creazione dell’uomo un evento qualitativamente diverso rispetto agli altri enti, nella fenomenologia dell’esperienza dell’ineffabile si annuncia questa differenza. La capacità dell’esperienza dell’ineffabile è il fenomeno della sua spiritualità, a sua volta, differenza qualitativa nell’essere. La narrazione biblica della creazione dell’uomo è, in primis, un racconto su Dio, perché Egli ne è il paradigma.

3. Immagine e somiglianza: struttura ontologica e intenzionalità teleologica

La tradizione biblica non definisce l’uomo come sostanza, bensì immediatamente come ‘relazione’: «E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza’» (Gen 1, 26, «Secondo la tradizione ebraica, la dichiarazione fondamentale circa la natura dell’uomo»).20 Infatti, affermare la somiglianza o l’immagine rimanda necessariamente al modello o, se si preferisce, all’originale. La struttura ontologica dell’essere umano, nella visione biblica è, quindi, la relazione, relazione di somiglianza e di immagine. Ciò significa che l’essere umano consiste in un dinamismo piuttosto che in una sostanza. E ciò giustifica la visione fondamentalmente dinamica dell’antropologia ebraica. Come vedremo tra breve, il dinamismo si esplicita come risposta a una convocazione che è convocazione etica. Fermiamoci ora a riflettere su questo dato dell’immagine e della somiglianza che costituiscono la ‘svolta’ e il ‘proprium’ della visione monoteistica, senza però dimenticare il divieto radicale di fare immagini di Dio. Questo aspetto apre delle prospettive antropologiche ancora più suggestive. È fatto divieto di costruire immagine di Dio, ma l’uomo è l’unica immagine ‘autorizzata’ in quanto espressione della stessa intenzione di Dio, l’uomo acquista in tal modo una funzione anti-idolatrica. Annota, a questo proposito, Heschel: «L’atto della creazione dell’uomo è preceduto da una manifestazione della Sua intenzione, la conoscenza che Dio ha dell’uomo deve precedere la creazione dell’uomo stesso. Dio lo conosce prima di crearlo. L’essere dell’uomo è radicato nel suo essere conosciuto. È la creazione dell’uomo che lascia intravedere il pensiero di Dio, il significato oltre il mistero».21 Le due parole, tselem, immagine, e demuth, somiglianza, nonostante la loro apparente assurdità, contengono «la verità più importante riguardo al significato dell’uomo», rimandano al soprannaturale, «sono una specie più elevata di essere di quanto non lo siano le cose create in sei giorni».22

La lettura hescheliana di questa particolare ontologia biblica acquista il sapore di una provocazione filosofico-teologica e più generalmente culturale. Se si pensa filosoficamente l’essenza come la struttura che orienta verso un telos (fine), l’indicazione ‘morfologica’ della possibilità e quindi del progetto di attualizzazione, allora qui il paradigma muta in maniera inquietante, nel senso etimologico del termine. La struttura morfologica dell’uomo, la sua struttura formale, è orientata altrimenti che verso un compimento nella felicità, come ha insegnato Aristotele. La vita compiuta, la buona vita, come la chiamava già Platone, ha un’altra direzione di senso. «L’immagine e la somiglianza divina non servono all’uomo per raggiungere l’immortalità, bensì per arrivare alla santità. L’uomo è uomo non per quello che ha in comune con la terra, ma per quello che ha in comune con Dio. I pensatori greci cercavano di comprendere l’uomo come parte dell’universo: i profeti cercavano di comprendere l’uomo come compagno di Dio. »23

L’inquietante a cui accennavo consiste nel possibile, forse necessario, rovesciamento della prospettiva con cui si guarda all’umano. Di fronte all’essere umano, a ogni essere umano siamo di fronte a quella stessa immagine e a quella stessa somiglianza, fuori da, anzi di più, contro ogni retorica. L’essere umano è ‘inquietante’ per il carico etico che possiede. Nota Heschel cercando di chiarire il senso da dare ai due termini in questione: «L’intenzione non è quella di identificare ‘l’immagine e la somiglianza’ con una particolare qualità o attributo dell’uomo, come la ragione, la parola, il potere o una capacità. Non si riferisce a qualcosa che nei sistemi successivi è stato definito ‘il meglio che c’è nell’uomo’, ‘la scintilla divina’, ‘lo spirito eterno’ o ‘l’elemento immortale’ dell’uomo. È l’uomo nel suo insieme, e ciascun uomo, che è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio. Sono sia il corpo sia l’anima, il saggio e lo stolto, il santo e il peccatore, l’uomo nella gioia e nel dolore, nella giustizia e nella malvagità. L’immagine non è nell’uomo: è l’uomo».24

L’essere umano è una inutilità necessaria. È la necessità dell’essere necessario. Ma necessario per chi, necessario a che cosa? L’uomo è necessario a Dio. Mettendo idealmente in relazione i titoli delle sue due opere principali si potrebbe dire l’uomo non è solo perché c’è un Dio che lo cerca. Questo è, a mio avviso, il significato più profondo della visione hecheliana dell’uomo come concerno f God. La necessità del necessario, allora, diventa piena di senso quando la si colloca nell’orizzonte dell’immagine e somiglianza di Dio. Dal racconto della Genesi sappiamo che l’uomo è fatto di terra, di fango impastato, questa terrestrità rimane tutta, ma è una terrestrità che però ha la dimensione trascendente dell’immagine. Questa visione dell’uomo come immagine e somiglianza di Dio non è ancora diventata carne e sangue del pensiero. Non è ancora diventata qualcosa che ci appartiene nel profondo, altrimenti l’umanità avrebbe imboccato percorsi diversi. Filosoficamente poi diventa interessante una altra aspetto della questione. Si può essere immagine di qualcosa di cui non possediamo l’immagine e di cui non è possibile avere l’immagine? Questo è il grande paradosso biblico e dell’antropologia biblica. Ciononostante questo essere immagine di ciò di cui non si può avere immagine, diventa enormemente significativo, perché, a sua volta, non solo non è immagine di nulla, ma è, anzi, l’unica immagine autorizzata di Dio. Secondo questa prospettiva l’uomo diventa l’unico possibile accesso a Colui che non ha immagine. Ecco esplicitato il senso dell’affermazione dell’antropoteologia. In questa prospettiva allora, l’uomo sta tra l’immanenza radicale della terrestrità, ma anche la trascendenza altrettanto radicale di cui non abbiamo l’immagine. L’uomo è questa immanenza trascendente che lascia trasparire l’assoluto. Absolutus, è ciò che è totalmente sciolto, svincolato, senza legame e questo biblicamente significa qualcosa di molto importante, in quanto l’uomo è a immagine e somiglianza di Dio non «una tantum» ma ogni volta, ogni essere umano è nella sua unicità; solamente se è unico l’essere umano è assoluto.

A partire da questi guadagni si può rivisitare l’imperativo etico kantiano: «tratta sempre gli altri come fine e mai come mezzo» da cui nasce l’etica del riconoscimento. Heschel fa una riflessione che in prima istanza lascia perplessi; se io sono per me stesso un fine si comprende la facile distorsione secondo la quale l’altro può anche non essere immediatamente un fine. È l’origine di ogni forma di egoismo anche etico. Il paradigma kantiano potrebbe rovesciarsi nel suo opposto. Heschel propone di risolvere la difficoltà di Kant riformulando l’imperativo: «tratta te stesso come immagine di Dio» che non significa fatti Dio, ma tratta te stesso con la dignità e la unicità del rappresentante di Dio.

Questa prospettiva di antropologia biblica ha una forza d’impatto che dovrebbe sconvolgere i rapporti interpersonali, sociali, culturali, economici, politici. Se ciò non accade significa che la libertà dell’uomo, piuttosto che come risposta che genera l’atto, è una ‘posizione’ autoreferenziale, auto posizione.25 Heschel testimonia che «è un contributo del giudaismo aver insegnato la straordinaria implicazione di tale idea: la dignità metafisica dell’uomo, il valore divino della vita umana. L’uomo non è soppesato in termini fisici: il suo valore è infinito».26 Questa è la radice antropologica di un’etica come prossimità, della responsabilità elementare che coinvolge ‘metafisicamente l’umano’. La nuova prospettiva ontologica dischiude una diversa teleologia: «La religiosità ebraica può essere espressa sotto forma di un imperativo supremo: trattate voi stessi come un’immagine di Dio. È alla luce di questo imperativo che possiamo comprendere il significato dello stupefacente comandamento: ‘Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo’ (Lv. 19, 2). La santità attributo essenziale di Dio può diventare una qualità dell’uomo. L’essere umano può diventare santo».27

Se riprendiamo la nostra riflessione da un altro versante possiamo considerare diversamente anche la struttura simbolica dell’uomo. È su questo piano che si rimodulano le antropologie ed è in questo orizzonte che acquista pieno significato la proposta che avanzavo sopra di definire la prospettiva di Heschel come antropo-teo-logia. Una breve analisi di alcuni passaggi del Simposio di Platone e del libro della Genesi ci permette di comprendere meglio il senso di due paradigmi ontologicamente identici (l’essere umano è un essere-di-bisogno), ma antropologicamente diversi (uni-identità e differenza). Il testo a cui mi riferisco è il discorso di Aristofane, che ha delle sorprendenti analogie con la pagina biblica e che tuttavia ne è l’esatto contrario. Dopo aver raccontato dell’originaria natura ‘siamese’ dell’uomo che Zeus per punizione ‘divide’, Aristofane prosegue: «Dunque da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura. Ciascuno di noi, pertanto, è come simbolo di uomo, diviso com’è da uno in due… E così ciascuno cerca sempre l’altro simbolo che gli è proprio».28 Se si va alla pagina biblica l’uomo è presentato originariamente come simbolo di Dio. Il suo compimento di senso, la sua teleologia si compie non nell’altro uomo, bensì in Dio, e tuttavia la radicalità della proposta biblica è ancora maggiore poiché in realtà si va verso Dio andando verso le sue immagini. La struttura simbolica dell’uomo è la radice ontologica che muta però le prospettive29 e permette una ricorsività impossibile nell’ontologia greca. Andare verso l’uomo come se si andasse verso Dio e viceversa, significa mantenersi in un equilibrio sempre in pericolo tra due negazioni: di Dio, attraverso un antropocentrismo assoluto e autoreferenziale che conduce all’idolatria, e dell’uomo, negato ‘in nome’ di Dio. La struttura simbolica può mantenersi allora come l’unica garanzia di dire le due grandezze come correlative e quasi legate da una duplice nostalgia: l’uomo ha nostalgia di Dio e Dio ne ha per l’uomo. Quest’ultima affermazione non vuole essere blasfema, bensì riconoscere che anche Dio ha bisogno dell’uomo, per questo se ne preoccupa con una sollecitudine tutta particolare.

4. Sollecitudine divina: la necessarietà dell’uomo

Riprendendo l’idea presentata precedentemente che «la Bibbia è un libro sull’uomo», proviamo ad approfondirla per coglierne la duplice valenza, sul versante antropologico e teologico. La categoria antropologico-teologica che tiene insieme i due momenti è quella di sollecitudine. Siamo poco abituati a pensare la sollecitudine come categoria che, invece è colta generalmente piuttosto come atteggiamento etico. Al contrario per Heschel rappresenta addirittura una categoria ontologica fondativa di una nuova e più articolata prospettiva antropologica. Si potrebbe anche dire che la visione antropologica biblica si costituisce a partire da un’ontologia della sollecitudine. Ciò significa che il perno intorno a cui si annoda la riflessione antropologica è questa particolare ontologia che, tuttavia, si presenta come oltrepassamento del progetto ontologico greco. Intorno alla categoria della sollecitudine si svolge il processo che conduce alla dimensione del significato, luogo peculiare in cui si intrecciano le domande e le risposte sul senso dell’esistenza. A questo punto della nostra riflessione, proviamo a dare ordine al percorso per esplicitare i molteplici elementi.

Possiamo farlo rivolgendoci a quanto scrive Heschel, in una pagina di grande suggestione teoretica, verso la conclusione di Dio alla ricerca dell’uomo (Una filosofia dell’ebraismo) , che è certamente il suo opus majus:

L’elemento decisivo contenuto nel messaggio dei profeti non riguarda la presenza di Dio per l’uomo, ma piuttosto la presenza dell’uomo per Dio. Ed è questa la ragione per cui la Bibbia costituisce non tanto una teologia dell’uomo, quanto un’antropologia di Dio. […] Al principio c’è la sollecitudine di Dio. Ed è a causa di questa sollecitudine che l’uomo ha a sua volta sollecitudine per lui, e che noi siamo in grado di cercarlo.

Nel pensiero ebraico, il problema dell’esistenza non può mai essere trattato in termini di distacco, ma unicamente in termini di rapporto con Dio. In questa ontologia, le supreme categorie non sono l’essere e il divenire, ma la legge e l’amore (la giustizia e la misericordia, l’ordine e il pathos). L’essere vivente, come tutti gli esseri viventi, si trova tra i poli della giustizia e della misericordia divina.30

Heschel ponendosi esplicitamente sul terreno del confronto con il pensiero greco, mostra la differenza con il ‘sentire’ biblico. Se per il primo l’essenziale è l’ordine della necessità, «La mentalità ebraica invece vede nell’ordine e nella necessità non la suprema categoria, ma un aspetto dell’attributo dinamico del giudizio divino. La mentalità ebraica sostiene inoltre che l’esistenza è costituita (creata) e mantenuta non soltanto dalla necessità, ma anche dalla libertà, dalla sollecitudine libera e personale che Dio nutre per l’esistenza. La sollecitudine divina non è un pensiero teologico a posteriori, ma una categoria ontologica di fondamentale importanza. La realtà sembra reggersi sulla necessità delle sue leggi. Ma alla nostra domanda: perché è necessaria la necessità?, esiste soltanto una risposta: la libertà divina, la sollecitudine divina».31 Neppure la necessità riesce a garantire se stessa, prima della necessità c’è la libertà; ciò significa che prima dell’essere c’è il mistero, l’ineffabile fondamento di significazione. Questo rimando al mistero, nella sua paradossalità, significa l’attestazione dell’impossibilità dell’assenza del significato. Con questi risultati torniamo a guardare direttamente l’uomo.

Di fronte all’umano, di fronte alla sua fragilità, alla sua evanescenza, ma anche di fronte alla sua propria negazione nella violenza e nella ferocia animale, siamo colti spesso dalla domanda sulla sua utilità. A che cosa, a chi serve l’uomo? Qual è il suo significato? Quest’ultima domanda, apparentemente la più innocua, è in realtà quella più dirompente sia sul piano teoretico che su quello pratico. È nel significato che si manifesta la struttura ontologica, attraverso la fenomenologia del significato possiamo attingere un livello di precategorialità in cui si annuncia l’originario; quindi la ricerca sul significato ci condurrà a comprendere meglio la natura dell’uomo.

Sulla scorta dei testi di Heschel, vediamo ancora una volta la differenza dei due paradigmi di pensiero, greco e biblico. Per brevità, mi riferirò al capitolo terzo di Chi è l’uomo? , che affronta esplicitamente la questione da noi posta qui. L’essere e il significato non sono sullo stesso piano o, quantomeno, il secondo avanza un’esigenza che non si esaurisce nell’ontologia. «L’essere umano — scrive Heschel — non è mai puro essere: implica sempre un significato. Il significato è inerente alla natura umana quanto lo spazio lo è per le stelle e le pietre».32 L’esistenza umana non può esaurirsi nel puro essere. Possiamo muovere dall’asserto ontologico in qualche modo originario: io sono, ma immediatamente siamo spinti oltre, con una domanda che travalica l’ontologia: perché? Vedremo che questa domanda nella sua radicalità, costituisce lo snodo fondamentale a partire da cui possiamo guadagnare una visione antropologica nell’ottica della gratuità, impossibile secondo il paradigma ontologico.

La domanda sul perché? apre un orizzonte di ulteriorità assolutamente originario. La ricerca, nella sua stessa struttura, riguarda non il mio significato, bensì la condizione di significatività, il significato dell’essere significativo, «un significato che mi trascenda, il senso ultimo del mio essere umano. Esiste un richiamo al quale l’essere umano è esposto, e al quale talvolta è sensibile: una passione per l’essere significativo. L’essere come tale è intransitivo, è andare avanti, è continuità; l’essere significativo è transitivo, è l’andare oltre, è una forza centrifuga».33 La «passione per l’essere significativo» è un’espressione di grande impatto per una fenomenologia dell’essere umano, poiché la qualificazione di umanità equivale a questa ricerca di significatività; il significato non è un plus, bensì l’humus di cui si nutre l’esistenza. Non è concepibile l’esistenza umana se non come preoccupazione per il significato,34 da trovare o da vivere. La conclusione che ne trae Heschel mi sembra di grande importanza nell’ottica di un umanesimo biblico. «Il segreto dell’essere uomini sta nell’interesse per il significato. L’uomo non costituisce il significato di se stesso, e se l’essenza dell’essere uomini è la ricerca di un significato trascendente, allora il segreto dell’uomo sta nella sua apertura al trascendente. L’esistenza è disseminata di sintomi di trascendenza e l’apertura alla trascendenza è un elemento costitutivo dell’essere uomini».35 Vedremo tra breve l’importanza che riveste questa visione per il Nostro. Infatti, cercando di comprendere il senso della sollecitudine divina, stiamo compiendo un détour che a prima vista assomiglia a uno sviamento.

Heschel pone in correlazione tre verbi: essere, significare, vivere che non hanno tra loro una continuità ovvia. In maniera categorica afferma: «L’esistenza non trae il suo significato dal regno dell’essere, poiché l’essere in sé è meno dell’essere uomini. L’umano non deriva dall’essere, anche se può svanire in esso» […] «Il problema più importante dell’uomo non è l’essere, ma il vivere».36 È a partire dalla categoria del vivente, paradossalmente la stessa che con altro significato impiega lo stesso Aristotele, che Heschel si confronta con l’impostazione ontologica. Scrive il nostro:

La principale differenza tra il pensiero ontologico e quello biblico è che il primo cerca di riferire l’essere umano a una trascendenza chiamata essere in quanto tale, mentre il secondo, riconoscendo che l’essere umano è qualcosa più dell’essere (è cioè l’essere vivente), cerca di riferire l’uomo al vivere divino, a una trascendenza chiamata Dio vivente.

La differenza essenziale che sta alla base di questi due modi è che la riflessione ontologica accetta l’essere come realtà ultima, mentre il pensiero biblico accetta il vivere come realtà ultima. Il primo mira a comprendere il vivere in termini di essere, il secondo mira a comprendere l’essere in termini di vivere.37

Come abbiamo già accennato, il motivo di questo ribaltamento sta nel fatto che «l’uomo biblico è libero da quella che può chiamarsi la condizione ontocentrica».38 Il passaggio del filosofo polacco-americano è dall’ontologia alla teologia, intesa però quest’ultima nel senso radicale di teo-logica. Si comprende allora che si tratta di un’altra ottica sul mondo e sull’uomo. Infatti, «se l’ontologia indaga sull’essere come tale, la teologia indaga sull’essere come creazione, sull’essere come atto divino. Nella prospettiva della creazione continua, non ha senso parlare dell’essere come essere, poiché esiste solo un continuo venire all’essere. L’essere è al tempo stesso azione ed evento».39

Quest’ultimo approccio al problema ci permette di ricollegare tutto il nostro percorso e, soprattutto, di cogliere più in profondità il nesso con la sollecitudine divina. L’ansia per il significato non ha una carattere teoretico neppure nel tentativo di trovare una risposta, secondo Heschel ha invece il carattere di un riconoscimento, riuscire a comprendere chi mi cerca, chi mi interroga, comprendere che c’è un significato che mi cerca. «I Greci — scrive ancora Heschel — hanno descritto la ricerca del significato come l’uomo alla ricerca di un pensiero; gli Ebrei invece l’hanno descritta come il pensiero (o la sollecitudine) di Dio in cerca dell’uomo. Il significato dell’esistenza non è dato naturalmente: non è una dote, ma un’arte. Esso è condizionato dal fatto che si accetti o si rifiuti di rispondere a Dio che è in cerca dell’uomo: si può realizzarlo o mancarlo. / L’ansia che l’uomo ha per il significato non è una domanda, un impulso, ma una risposta, l’accettazione di una sfida».40

C’è, infine, un passaggio ulteriore che mi sembra di grande rilevanza per la visione antropologica. Se l’uomo è un’esigenza di significato, significa che egli non è a se stesso significato, ma che «il suo destino è di essere un’esigenza».41 E, tuttavia, proprio in quanto la sua esistenza è manifestazione di questa esigenza e di questa significatività, manifesta la particolare «necessità di essere necessari»;42 aggiunge Heschel: «L’uomo è necessario, è una necessità di Dio».43 Quest’ultima espressione è il nucleo intorno a cui si annoda tutto il nostro discorso, il fondamento dell’antropologia biblica. Secondo la Bibbia l’uomo non è mai solo perché «è una creatura di cui Dio è alla costante ricerca».44

Nella parte conclusiva di questo saggio cerchiamo di tratteggiare che cosa significa essere all’interno di questo dinamismo relazionale di sollecitudine; più esplicitamente nel contesto del pensiero biblico ed ebraico significa vedere il rapporto tra la rivelazione e la risposta. Nel senso biblico più autentico, la rivelazione è l’ingresso di Dio nella relazione con l’uomo, ma è anche formulazione di un ordine, una convocazione etica.

5. Rivelazione e risposta: esistere è obbedire

«L’incontro con Dio — scrive Buber — non capita all’uomo per il fatto di essersi occupato di Dio, ma per aver testimoniato nel mondo il senso. Ogni rivelazione è vocazione e missione. Ma l’uomo, sempre di nuovo, anziché portare a compimento la realizzazione di Colui che si rivela, si ripiega su di lui: vuole occuparsi di Dio anziché del mondo».45 Dio rivela il senso, che altrimenti l’uomo non potrebbe conoscere, ma è l’uomo che deve testimoniarlo perché esso permanga. Dio rivelandosi si nasconde, nello svelamento si ri-vela, ma affida alla responsabilità dell’uomo, alla sua parola e alla sua vita, il compito che questo nascondimento, ora non più muto, non si trasformi in una ‘eclissi di Dio’.46

Noi siamo coinvolti nel mistero, perché Dio stesso è coinvolto nella storia dell’uomo. Questo è il senso profondo del pathos di Dio di cui parla Heschel e a cui abbiamo brevemente accennato: «Il significato essenziale di pathos perciò non va cercato nella sua connotazione psicologica, inteso come uno stato dell’anima, ma nella sua connotazione teologica indicativa del coinvolgimento di Dio nella storia. […] L’uomo non solo è un’immagine di Dio; egli è l’eterna premura di Dio. L’idea di pathos aggiunge una nuova dimensione all’esistenza umana».47 Tuttavia, nonostante questa ‘vicinanza’ lo spazio della rivelazione resta quello del mistero, la sua presenza parla attraverso «una voce di silenzio», secondo l’espressione biblica del racconto di Elia (1 Re 19, 12). Proprio per questo «Dobbiamo educare la ragione all’apprezzamento di ciò che la trascende. È soltanto attraverso il nostro senso dell’ineffabile che possiamo intuire il mistero della rivelazione».48 Heschel sottolinea che nella Bibbia ogni teofania accade nell’oscurità, la stessa in cui Dio, nel paradosso del Sinai, diede al suo popolo e al mondo le sue ‘dieci parole’, «eppure dietro l’oscurità c’è un significato. Dio è significato al di là del mistero».49

Questo significato ancora una volta sollecita l’uomo a uscire da sé, il dinamismo della rivelazione è l’uscita dalla relazione privilegiata con Dio per diventare ‘prophetic witness’, testimonianza profetica. Scrive Heschel nelle pagine conclusive di Il messaggio dei profeti: «La rivelazione non significa che Dio si fa conoscere, ma che fa conoscere la sua volontà; non la rivelazione del proprio essere da parte di Dio, la sua automanifestazione, ma la rivelazione della volontà e del pathos divini, dei modi con i quali Egli si rapporta all’uomo. L’uomo conosce la parola della rivelazione, ma non l’autorivelazione di Dio. Egli non prova l’esperienza della visione dell’essenza di Dio, ma ha solo una visione della presenza. Soggetto del pathos, Dio in sé non è pathos. La sua visione profonda comprende sempre insieme con il subjectum relationis anche un fundamentum e un terminus relationis. Il fondamento della relazione è morale, e dal punto di vista di Dio è oggettivo e impersonale. La meta della relazione è l’uomo. Il pathos divino è transitivo».50

Questa transitività colloca immediatamente l’uomo nella situazione della risposta. Non a caso, infatti, la grande architettura di Dio alla ricerca dell’uomo alla rivelazione fa seguire la risposta, una risposta non teoretica, ma fatta di azioni. Tutta l’esistenza per Heschel assume il carattere di risposta, di compito e di obbedienza. Di notevole significato in questa prospettiva è il capitolo 3 della terza parte (L’arte di essere), dove si arriva ad affermare che bisogna «fare per essere», dove il fare rimanda al compimento delle mitzvot, gli atti sacri in cui accade l’incontro con Dio. «Il nostro incontro con Dio non avviene nel modo in cui veniamo a contatto con le cose nello spazio. Incontrare Dio significa raggiungere la certezza interiore della sua realtà, significa prendere coscienza della sua volontà. Di tale incontro e presenza diveniamo partecipi nei nostri atti».51 E possiamo concludere queste annotazioni con un breve passaggio in cui si ritrova l’eco di Rosenzweig e Buber: «Gli atti in cui l’individuo ha la rivelazione del divino sono veri atti di redenzione. Redenzione significa appunto riuscire a scoprire il sacro che è nascosto, a svelare il divino che è celato. Ogni uomo è chiamato ad essere un redentore e la redenzione avviene in ogni momento, ogni giorno».52

A conclusione di queste rapide riflessioni, soltanto introduttive a un lavoro più ampio e articolato, possiamo affermare che la rivelazione manifesta un carattere di evento paradossale, che rifugge dalla tentazione teoretica per presentarsi, invece, come sorgente di un dinamismo che sollecita l’io ad abbandonare se stesso per andare verso l’altro. Possiamo porre la domanda: il senso della rivelazione consiste in un’esistenza etica? Apparentemente è troppo poco, se si pensa alla rivelazione come il momento privilegiato in cui Dio parla e si manifesta, ma nel contesto biblico vivere eticamente non significa, forse, vivere alla presenza di Dio? Cioè ‘rispondere’ vivendo la rivelazione? Heschel ci sollecita verso un’altra prospettiva etica che però sorge, e sorge soltanto, dall’ottica della rivelazione.

Il presente saggio è la rielaborazione della relazione tenuta a Roma il 13 dicembre 2007 al Convegno internazionale Tra terra e cielo. Abraham Joshua Heschel, nel centenario della nascita svoltosi presso la sede dell’Enciclopedia Italiana.


  1. A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino 1969, pp. 19 sgg. (ed. orig. God in Search of Man. A Philosophy of Judaism, New York 1955), la citazione è a p. 21 dell’ ed. it. ↩︎

  2. Cfr. Ibid., pp. 24 e sgg. ↩︎

  3. Ibid., p. 35. ↩︎

  4. Ivi. ↩︎

  5. A.J. Heschel, The Prophets, Harper and Row, New York 1962, ed. italiana parziale Il messaggio dei profeti, Roma, Borla, 1981. Vedremo più avanti qualche elemento di questo confronto. ↩︎

  6. Tra vari luoghi in cui Heschel presenta questa idea si può vedere il saggio «Il concetto di uomo nel pensiero ebraico» edito nell’antologia di suoi scritti Crescere in saggezza, Gribaudi, Milano 2001, p. 106. ↩︎

  7. L’autoreferenzialità a cui mi riferisco non ha una valenza etica, bensì significa semplicemente che l’uomo può essere approcciato esclusivamente a partire dal paradigma umano. Soltanto l’uomo è misura a se stesso e ciò per la sua stessa costituzione ontologica. ↩︎

  8. Scrive Heschel: «Nel momento in cui acquista consapevolezza di sé, egli non si accontenta di saper: ‘io sono’; ma vuole sapere ‘che cosa’ egli è. Infatti, l’uomo potrebbe essere caratterizzato come un soggetto in cerca di un predicato, come un essere in cerca di un significato della vita», L’uomo non è solo, Rusconi, Milano p. 198. ↩︎

  9. «La prima risposta alla domanda ‘chi è l’uomo?’ è la seguente: è un essere che pone domande su se stesso.» A.J. Heschel, Chi è l’uomo?, Rusconi, Milano 1971, p. 53. ↩︎

  10. «Il segreto dell’essere uomini sta nell’interesse per il significato. L’uomo non costituisce il significato di se stesso, e se l’essenza dell’essere uomini è la ricerca di un significato trascendente, allora il segreto dell’uomo sta nella sua apertura al trascendente. L’esistenza è disseminata di sintomi di trascendenza, e l’apertura alla trascendenza è un elemento costitutivo dell’essere uomini.» Chi è l’uomo?, cit., p. 112. ↩︎

  11. A.J. Heschel, «Il concetto di uomo nel pensiero ebraico», cit., p. 100 (corsivo mio). ↩︎

  12. Ivi. ↩︎

  13. Promethéus, significa ‘colui che riflette prima’. ↩︎

  14. «Ciò che caratterizza l’uomo non è soltanto la sua capacità di elaborare parole e simboli, ma anche il fatto di essere costretto a distinguere tra ciò che si può e quello che non si può esprimere, il fatto di essere costretto a stupirsi per cose che esistono ma che non possono venire tradotte in parole. / Questo senso del sublime sta alla radice delle attività creative dell’uomo nell’arte, nel pensiero e nel vivere nobilmente.» A.J. Heschel, L’uomo non è solo, cit., p. 14. ↩︎

  15. Ibid., p. 26. ↩︎

  16. Ibid., p. 29-30. ↩︎

  17. Ibid., p. 40. In Dio alla ricerca dell’uomo, Heschel all’ineffabile dà il nome biblico di ‘gloria’ che, com’è noto, non è sinonimo dell’assenza di Dio, bensì della sua presenza nascosta, della sua presenza viva. Nell’orizzonte della mistica ebraica o del Hassidismo, a cui Heschel si ispira, questa presenza nascosta ha il nome di Shechinà. Questa nascosta vitalità «si manifesta soprattutto come forza che pervade il mondo.» Dio alla ricerca dell’uomo, cit., p. 98 e sgg. La citazione è a p. 100. ↩︎

  18. A.J. Heschel, L’uomo non è solo, cit., p. 82-83. ↩︎

  19. A.J. Heschel, Chi è l’uomo?, cit., pp. 164 e 165. In L’uomo non è solo, lo stesso concetto è espresso in maniera ancora più perentoria: «Esaminando la nostra esistenza, siamo costretti ad ammettere che la sua essenza non è data dalla nostra volontà di vivere; noi dobbiamo vivere e vivendo obbediamo. L’esistenza è un’acquiescenza, non un desiderio; un accordo, non un impulso. Esistendo, obbediamo», p. 209. ↩︎

  20. A.J. Heschel, «Il concetto di uomo nel pensiero ebraico», cit., p. 120. ↩︎

  21. Ivi. ↩︎

  22. Ibid., pp. 121 e 122. ↩︎

  23. Ivi, 122 ↩︎

  24. Ivi, p. 122 ↩︎

  25. La struttura dell’immagine ha come dato costitutivo di rimandare a un originale. Se si dimentica l’originale, allora ci si sostituisce. Dal punto di vista antropologico è quanto accade allorché l’uomo dimentica la sua origine. ↩︎

  26. Ibid., p. 125. ↩︎

  27. Ibid., p. 127. ↩︎

  28. Platone, Simposio, 19ld. ↩︎

  29. «Il divino nell’uomo non è in virtù di ciò che egli compie, ma in virtù di ciò che egli è.» Ibid., p. 134. ↩︎

  30. A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, cit., p. 444. ↩︎

  31. Ivi. Heschel riprende la questione in maniera esplicita in Il messaggio dei profeti, cit., p. 61, discutendo la ‘affermazione ontocentrica’, come egli la chiama. In un passaggio di notevole lucidità teoretica leggiamo: «Il concetto greco dell’essere rappresenta una netta antitesi alle fondamentali categorie del pensiero biblico. […] Ma l’essere deve essere considerato come il tema finale del pensiero? Il fatto che l’essere esista è misterioso come il problema dell’origine dell’essere. Ogni ontologia che misconosca il prodigio e il mistero dell’essere comporta la responsabilità di sopprimere la genuina ammirazione della mente e di dare per scontato l’essere. Che l’inizio dell’essere ‘non può essere né pensato né essere espresso’ è vero. Un fatto però non cessa di essere tale solo perché trascende i limiti del pensiero e dell’espressione. In verità è il vero tema dell’ontologia, dell’essere in quanto essere che ‘non può né essere pensato né espresso’. L’accettazione dell’essere quale realtà ultima è una petitio principii; o essa scambia un problema per una soluzione. La suprema e ultima questione non è l’essere, ma il mistero dell’essere». Cfr. anche A.J. Heschel, Chi è l’uomo?, p. 118. ↩︎

  32. A.J. Heschel, Chi è l’uomo?, cit., p. 88. ↩︎

  33. Ibid., p. 95-96. ↩︎

  34. «La preoccupazione per l’esistenza significativa è inerente all’essere uomini — essa è forte, elementare, stimolante, presente in ogni cuore…» Ibid., p. 109. ↩︎

  35. Ibid., p. 112. ↩︎

  36. Ibid., p. 113-114, 115. ↩︎

  37. Ibid., p. 115-116. ↩︎

  38. Ibid., p. 118. ↩︎

  39. Ibid., p. 119. Si veda anche il capitolo XIV di Il messaggio dei profeti, cit., p. 272 e sgg. ↩︎

  40. A.J. Heschel, Chi è l’uomo?, cit. p. 123. ↩︎

  41. A.J. Heschel, «Il concetto di uomo nel pensiero ebraico», cit., p. 111. ↩︎

  42. Ivi. ↩︎

  43. Ibid., p. 112. ↩︎

  44. Ibid., p. 115. Si vedano in questa prospettiva i testi meravigliosi dei salmi 8 e 144 e Gb 7, a cui lo stesso Heschel rimanda. Su tutta l’argomentazione che abbiamo sviluppata fin qui, naturalmente resta fondamentale il suo L’uomo non è solo↩︎

  45. M. Buber, «Io e Tu», nel suo Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, trad. di A.M. Pastore, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1993, p. 143. ↩︎

  46. Il silenzio di Dio, come abbiamo appreso da Néher, è sempre eloquente. Ma il richiamo immediato è al libro dello stesso Buber, L’eclissi di Dio, Edizioni di Comunità, Milano 1961 (ed. orig., Gottesfinsternis, del 1953). ↩︎

  47. A.J. Heschel, Il messaggio dei profeti, cit., p. 12. ↩︎

  48. A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, cit., p. 211. ↩︎

  49. A.J. Heschel, Il messaggio dei profeti, cit., p. 13. ↩︎

  50. Ibid., pp. 347-348. ↩︎

  51. A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, cit., p. 336. ↩︎

  52. Ibid., p. 337. ↩︎