1. La parola Dio e il suo significato
Nella ‘Prefazione’ a Di Dio che viene all’Idea,1 Levinas delinea il percorso e il metodo filosofico di una ricerca volta alla possibilità di intendere il termine Dio come significante, concretezza fenomenologica che prescinde dalla questione della sua esistenza, dall’assenso o meno dell’uomo e dal senso stesso di questa alternativa. E poiché l’oggetto di studio è la ‘parola’ Dio, la metodologia prescelta è quella fenomenologica che indaga la sedimentazione del senso nella coscienza osservando cosa vi accade in relazione a tale parola. La descrizione delle circostanze fenomenologiche, della loro congiuntura positiva e della ‘messa in scena’ di ciò che si dice in forma di astrazione, opera una ridefinizione della fenomenalità oltre la datità. In tale descrizione si cerca infatti un tipo di concretezza che non coincide affatto con l’esistenza del ‘contenuto Dio’.
Da qui la complessità dell’indagine levinasiana: se cum capio è prendere-con, il concetto nella comprensione, è davvero possibile pervenire a una conoscenza di Dio? Se inoltre l’infinitezza confina ogni attività della coscienza nell’impossibilità del suo stesso esercizio, forse anche il ‘termine’ Dio finisce per annullarsi nell’assenza di ogni significanza? E, in ultimo, come poterlo pensare ancora oltre il registro della percezione e della coscienza, ovvero entro un orizzonte diverso dal sapere ontologico da sempre volto a una totalità che riduce l’altro all’identico? È cioè possibile un pensiero altro, al di qua dell’assimilazione e della integrazione, che non riconduca al già conosciuto l’assoluto nella sua novità smarrendolo nella continuità della totalizzazione?
Entro l’orizzonte tradizionale del pensiero, interamente risolto tra esperienza e conoscenza, la novità resterebbe l’alterità dell’assoluto esposta nella totalizzazione del sapere. Ma è qui che Levinas pone una questione radicale chiedendosi se davvero non possa esistere, sotto il regime del pensiero, qualcosa di diverso dalla conoscenza e dall’esperienza. Sarebbe questo un sapere altrimenti, capace di accogliere la novità dell’assoluto senza ridurlo all’assimilazione o all’integrazione; un pensiero che, oltre la tradizionale corrispondenza tra noesis e noema, stabilisca tra soggetto e oggetto una «relazione senza correlativi», una relazione assolutamente paradossale, dove cioè, secondo l’intento fenomenologico è oltrepassato il momento dossico. Tra l’atto della coscienza e il suo contenuto vi è infatti tutta l’eccedenza dell’idea di Dio, dato che non si può parlare di Dio né come soggetto né come oggetto di conoscenza, eccedenza che, sfuggendo all’adeguazione del visibile e alla mira intenzionale, rende illegittime le stesse metafore di visione e intenzione.
Levinas procede gradualmente attraverso questa proliferazione di domande, spesso riannodate nel punto di inizio, entro la consapevolezza che sempre «le questioni relative a Dio non si risolvono con delle risposte in cui l’interrogazione cessa di risuonare, in cui si placa pienamente».2 La questione cruciale, etica e quindi teoretica, riguarda proprio questa presa di coscienza che implica, già nell’atto di afferrare e ap-prendere l’oggetto, la sua riduzione all’immanenza entro l’appercezione trascendentale dell’Io penso. Ma come dire Dio altrimenti, spostandosi al di là della conoscenza come ‘determinazione’, senza inabissare la parola in un sordo, perché vuoto, flatus vocis?
Ma che si può cercare di diverso dalla coscienza e dall’esperienza — di diverso dal sapere — sotto il regime del pensiero, affinché accogliendo la novità dell’assoluto, esso non la spogli della sua novità proprio in nome del suo stesso accogliere? Quale è questo pensiero altro — né assimilazione, né integrazione — che non ricondurrebbe al ‘già conosciuto’ l’assoluto nella sua novità e non comprometterebbe la novità del nuovo facendolo appassire nella correlazione tra pensiero ed essere che il pensiero instaura? Sarebbe necessario un pensiero che non sia più costruito come relazione che collega il pensatore al pensato oppure sarebbe necessaria, in questo pensiero, una relazione senza correlativi, un pensiero non-costretto alla rigorosa corrispondenza tra ciò che Husserl chiama noesi e noema, non-costretto all’adeguazione del visibile alla mira intenzionale alla quale esso risponderebbe nell’intuizione della verità; sarebbe necessario un pensiero in cui non fossero più legittime le metafore stesse di visione e di intenzione.3
È questa la possibilità di un pensiero radicalmente altro. La sua formulazione deve poggiare sull’idea-di-Infinito-in-noi che solo da Dio può provenire, tanto è al di là dei limiti produttivi del pensiero umano. Contrariamente alle idee che, sempre a misura dell’oggetto intenzionale (ideatum), hanno presa su di esso, e contrariamente alle idee per le quali il pensiero coglie progressivamente il mondo, tale idea di Infinito, già in Descartes, eccede la stessa possibilità del cogito.
Nell’esperienza quotidiana, l’affermazione della finitezza presuppone una capacità di misurazione in cui il finito stesso non sia misura di sé. Allo stesso modo possiamo dire che una cosa è imperfetta solo se la rapportiamo, realtà o concetto che sia, con una possibile idea di perfezione che proviene da molto lontano. Nel nostro intelletto l’idea di infinito, in senso matematico, si sviluppa come idea negativa del non-finito, svincolata da un possibile oggetto infinito posto a contenuto dell’atto in cui diviene tale. Eppure Levinas riflette sull’ideatum coniugando, nel suo pensare Dio, un cogitatum eccedente le stesse capacità della cogitatio tra impossibilità della determinazione e capacità di pensare più di quanto si pensi. In apparenza siamo di fronte a una contraddizione poiché o il pensato è commisurato all’attività del pensiero o è la stessa possibilità del pensare a venirne preclusa. È però l’eccezionalità e l’eccedenza del termine Dio a interrompere la correlazione intenzionale, in modo che lo stesso riempimento della cogitatio non trovi più legittimazione neppure nelle metafore della visione e dell’intenzione.
Una provocazione etica e teoretica, questa di Levinas, in cui l’idea di Infinito nella relazione a-Dio che è pura pazienza si affida alla passività della de-ferenza del soggetto. Ed è proprio questo il pensiero più profondo cui pervenire, il modo originario di essere in quanto essere votato all’altro, assoluta non-coincidenza e nuda devozione senza attesa di ritorno.
Ma cosa significa realmente pensare al di là di ciò che si pensa?4 Se il pensato non è commisurato all’attività del pensiero, siamo infatti dislocati fuori da tale atto e la stessa idea dell’Infinito viene «de-portata, non potendo sfociare, non potendo arrivare ad un fine, a nulla di finito».5 Il pensiero svincolato dalla fase della coscienza — ma non nel senso psicologico di un’involuzione nell’inconscio — si volge verso il dis-interessamento che, come relazione senza influsso su un essere né anticipazione d’essere, si configura come pazienza e de-ferenza oltre ciò di cui ci si prende carico.
Diacronico è l’Assoluto che si situa oltre la sincronia della conoscenza: mai stato presente, mai rappresentato nel passato e mai lo potrà essere nel futuro. Ciò che non è possibile presentare, ciò di cui non c’è memoria, appartiene a un passato che mai potrà tornare in presenza, è, per definizione immemoriale. In tale diacronia del tempo è la pazienza il pensiero più profondo del nuovo, anteriore a ogni attività della coscienza e gratuito come una devozione che sarebbe già rinnegato nella sua trascendenza quando ci si ostinasse a creare nella sua dia-cronia e nella procrastinazione non l’eccedenza — o il Bene — della gratuità e della devozione, ma un’intenzionalità, una tematizzazione e l’impazienza di un afferrare.6
A-Dio: presenza dell’Infinito in noi, presenza che accade — ancora la pazienza, la passività — nella relazione con l’altro uomo nella piena diacronia e asimmetria della sua trascendenza. Quando il suo volto parla del comandamento venuto non si sa da dove.
Esistere significa allora ‘essere votati’ come ‘devozione’ a-Dio e responsabilità radicale verso l’altro, senza preoccupazione di reciprocità, perché qui Dio esce dalla sua idea ed entra nella concretezza dell’esistenza. Dal punto di vista originario l’io si trova inserito da sempre entro questa dinamica, prima di qualsiasi scelta, in modo che la stessa libertà diviene un’investitura7 alla responsabilità che viene dall’altro. Si opera così un ribaltamento della coscienza che significherà la ridefinizione dell’identità dall’essere se stesso all’autre dans le même o pour l’autre homme e da qui a-Dio. In prospettiva teoretica Levinas compie qui una rigorosa indagine sulla struttura formale della soggettività per deformalizzarla in favore del valore del monoteismo, ovvero del Dio biblico che, come Assoluto, non lascia spazio ad altre rappresentazioni. Il volto dell’altro, infatti, diviene comandamento etico non perché visione ma perché visitazione dell’assolutamente Altro. L’idea dell’Infinito garantisce così anche l’esteriorità quale impossibilità, ontologica e gnoseologica, di ricondurre l’alterità alla totalità. Procedendo dall’indagine fenomenologica della coscienza si approda così alla sua messa in discussione nella ‘riduzione’ alla veglia, affezione subita dall’io che rimanda a un’alterità rispetto alla stessa identità di Dio.
Husserl rimprovera a Descartes d’aver riconosciuto con precipitazione, nel cogito, l’anima, cioè una parte del mondo, mentre il cogito condiziona il mondo. Parimenti potremmo contestare questa riduzione all’ontologia del problema di Dio, come se l’ontologia e il sapere fossero l’ultima ragione del senso. Nella struttura straordinaria dell’idea dell’Infinito, l’a-Dio non significa forse un intrigo spirituale che non coincide né col movimento segnato dalla finalità, né con l’auto-identificazione dell’identità, tale che essa si de-formalizzi nella coscienza di sé?8
Levinas ha dunque recuperato da Descartes l’idea dell’Infinito rielaborandola dentro la prospettiva fenomenologica e precisandola come deformalizzazione della coscienza in imperativo morale, passaggio dall’orizzonte teoretico a quello preliminare dell’etico, un etico che, proprio per la sua preliminarità, prenderà il posto non del dover essere, bensì quello dell’essere e, quindi, si proporrà come ‘filosofia prima’. La deformalizzazione è infatti il processo in cui l’idea di Dio si svincola dall’orizzonte teoretico per abbracciare quello etico divenendo imperativo morale nei confronti di chi è a noi prossimo. Anche l’altro è infatti deformalizzato e in tal senso sfugge alla possibilità di essere oggettivato da un pensiero che lo com-prenda nella neutralizzazione dell’alterità nel medesimo. Tale manifestatività significò per Levinas, almeno fino al 1961, con Totalità e Infinito, la tutela dell’esteriorità dell’altro: legato all’Infinito, il volto altrui non è ricondotto né alla totalità dell’essere né all’intenzionalità di un atto conoscitivo. Esso è sempre al di là del conoscibile e al di là del dicibile.
L’idea dell’Infinito ‘accade’ nella concretezza di una relazione interpersonale in cui il soggetto, sconvolto dall’interpellanza etica del volto altrui, in forza dell’estraneità che parla di un comandamento, risponde nella forma della socialità. Non si tratta qui di una responsabilità contratta mediante un’esperienza storica, poiché l’esperienza dell’Infinito, esperienza sui generis non è mai stata presente, né mai lo sarà. Essa è piuttosto il modo d’essere costitutivo e originario del soggetto umano che, da sempre responsabile dell’altro, sempre è in ritardo sulla personale responsabilità. Non sono infatti io a poter scegliere, io che resto passivo davanti all’epifania del tuo volto.
La fenomenologia dell’idea dell’Infinito in me, in tal senso, accade in quella relazione con l’altro che infine è la mia stessa relazione a-Dio, passaggio compiuto da Dio stesso perché il Dio-che-viene-all’idea è la sua stessa vita.
Ma come se il volto dell’altro uomo, che d’improvviso ‘mi interpella’ e mi ordina, fosse il nodo dell’intrigo stesso del superamento da parte di Dio dell’idea di Dio e di ogni idea in cui Egli sarebbe ancora preso di mira, visibile e conosciuto e in cui l’Infinito sarebbe smentito dalla tematizzazione, nella presenza o nella rappresentazione. Non è nella finalità di una mira intenzionale che io penso l’infinito.9
Nella cultura biblica, ebraica e cristiana, il volto dell’altro è stato da sempre riconosciuto come luogo privilegiato del riflesso di Dio, Sua immagine e somiglianza. Soltanto in questa accezione il termine immagine lo troviamo riferito a Dio in modo diretto e non velato, in virtù del fatto che soltanto l’uomo sembra esserne l’immagine legittimata. E Dio non chiede soltanto di essere contemplato nella sua assoluta bontà ma ci sollecita anche alla responsabilità etica per l’altro uomo. La libertà umana si dispiega così come l’investitura a una responsabilità giunta dall’altro, come già in Totalità e Infinito, nel rovesciamento della soggettività che è ribaltamento della coscienza. L’appello e la responsabilità segnano l’eccedenza di un pensiero che pensa più di quanto pensi, prima ancora di riconoscere che anche l’altro è originariamente votato a me, poiché qui vi è una
responsabilità senza preoccupazione di reciprocità: devo rispondere di altri senza occuparmi della responsabilità d’altri al mio riguardo. Relazione senza correlazione o amore del prossimo che è amore senza eros. Per-l’altro uomo e da qui a-Dio!10
Il ribaltamento della coscienza stravolge dunque l’identità: dall’essere se stessi si passa all’essere per l’altro e da qui a-Dio, trasformando l’io-nominativo nel sé-accusativo, ovvero da sempre ‘accusato’poiché il chi interpellato è un soggetto da sempre responsabile. Il Dio infinito non lascia spazio a rappresentazioni che non siano il volto dell’altro: questi solo è la Sua icona, ogni altra rappresentazione costituisce idolatria. Il volto dell’altro che all’improvviso mi interpella è il nodo dell’intrigo, del superamento da parte di Dio dell’idea stessa di Dio nella concretezza della Sua presenza.
La deformalizzazione della soggettività riabilita il valore del monoteismo contro le varie forme di fondamentalismi religiosi, garanzia dell’esteriorità dell’altro — a cui rimanda il sottotitolo di Totalità e Infinito, ‘Saggio sull’esteriorità’ — contro la riduzione totalizzante del suo volto a un atto conoscitivo. Abbandonato l’orizzonte ontologico e prima di approdare a quello teoretico, il comandamento etico diviene la radicale messa in questione dell’io a partire dalla sua struttura originaria.
2. La pazienza dell’Infinito: vegliare sul prossimo
La riduzione trascendentale è la modalità teoretica in grado di destare il soggetto da un atteggiamento naturale a quello fenomenologico, presupposto essenziale di quello personale, etico e trascendente. Se il passaggio allo stato di veglia non provenisse dall’oggetto, l’io cosciente continuerebbe infatti ad affermare la centralità dell’io.
L’idea di una passività originaria della coscienza conduce Levinas, contro l’interpretazione freudiana dell’inconscio, a mantenere l’io sempre distinto dal contenuto dei propri atti, mai disperso nella mera fatticità dell’esistenza. Il sonno, e il referente oggettivo di cui è segno, è infatti definibile solo in rapporto alla veglia perché soltanto in sé è racchiusa, da sempre, la possibilità del risveglio. Allo stesso modo dobbiamo ritenere che l’idea infinita non possa essere abbracciata dall’intenzionalità della coscienza, poiché mai può divenirne contenuto. Nessun uomo può avanzare la pretesa di conoscere altri secondo la modalità dell’oggettivazione e della riduzione all’identico: l’alterità è infatti la prima manifestazione dell’idea infinita che rivela il volto dell’uomo, non solo come immagine di Dio, ma come ‘traccia’.11 È perché il soggetto conoscente non può circoscrivere con l’intenzionalità l’altro uomo, ovvero non può avere verso questi una coscienza attiva, che la sua passività diviene la condizione di possibilità dell’ascolto, del mutuarsi dell’io in un sé capace di accogliere il volto altrui come provocazione etica alla risposta.
Il metodo fenomenologico permette a Levinas di risalire agli elementi pre-intenzionali della coscienza oltre l’indagine husserliana delle strutture pre-categoriali, ancora legate alla modalità teoretica dell’adeguazione dell’oggetto al soggetto conoscente.12 Non è infatti possibile alcuna riduzione del volto altrui poiché questo è concreta manifestazione dell’Infinito. Mediante l’epochè riferita alla coscienza ci spostiamo dal piano gnoseologico dell’essere a quello altrimenti della veglia, soglia in cui il custode è tenuto sveglio da qualcosa d’altro di cui egli stesso è responsabile. La riduzione trascendentale permette così di ridefinire la coscienza dislocandola dall’essere in sé all’essere liberata da sé. Se l’idea dell’Infinito sfugge all’intenzionalità è infatti necessario dimostrare l’esistenza di qualcosa che sia oltre l’intenzionalità stessa: il pre-intenzionale custodisce il senso della parola Dio. Nel saggio Dalla coscienza alla veglia a partire da Husserl, del 1974, il risveglio viene descritto come una non permanenza nel Medesimo, un non-stato che mette in questione il soggetto disubriacandolo dalla presunzione di essere assoluto.
Il risveglio è l’io che dorme e non dorme per il quale accade tutto ciò che, nell’immanenza stessa, accade; cuore risvegliato, non-essente, non-stato nella profondità degli stati d’animo somigliantisi nella propria identità, insonnia o battito nell’ultimo recesso dell’atomo soggettivo.
Questa vigilanza dell’io che viene dagli abissi della soggettività che trascende la propria immanenza, da questo de profundis dello spirito, questa esplosione nel cuore della sostanza, questa insonnia, in Husserl, si descrive certamente come intenzionalità. L’io-in-veglia, veglia sull’oggetto, resta attività oggettivante anche nella propria vita assiologica o pratica. La disubriacatura del risveglio qui dipende dall’alterità dell’oggetto, dall’urto del reale.13
Il modo in cui Levinas legge Husserl nel passaggio dalla coscienza alla veglia entro il processo di identificazione — riconduzione dell’alterità nell’identità — o più in generale dell’intenzionalità, segna anche il passaggio dall’ordine teoretico a quello etico. Il dato più rivelante dell’indagine levinasiana è infatti il fondamento etico a partire dal quale la domanda non può più essere omologata entro una quantificazione universalizzante, entro una filosofia della totalità.
Nell’indagine levinasiana la riflessione sulla soggettività non procede, diversamente da Husserl, dal ‘fatto’ della coscienza, ma dalla domanda sulla stessa fatticità del fatto, di derivazione heideggeriana. Tale ontologia della fatticità rinvia alla passività quando, entro l’attività intenzionale della donazione di senso o attività riflessiva della coscienza, si riconosce il pre-intenzionale come insonnia o l’altrimenti che essere. L’identità non è infatti pensata come adeguazione di sé con se stessa, piuttosto appare sproporzionata rispetto a sé, lacerata da una presenza che «lo avvolge come se dell’Infinito si potesse avere un’idea, cioè come se Dio potesse stare in me».14 Come se [als ob] è la sproporzione testimoniata dalla presenza in me dell’idea dell’Infinito, prima della tematizzazione che attesta «un-’di più’-risvegliante-nello-stesso-tempo-un-’di meno’-che esso scompiglia o ispira»,15 secondo questa nuova definizione dell’identità. Mentre la coscienza è la presenza del soggetto a se stesso, l’insonnia è infatti il soggetto che ha perduto tale padronanza di sé perché tenuto sveglio da una dimensione altra che lacera o ispira l’immanenza, comportando una duplice ‘inadeguazione’del soggetto rispetto all’identità con sé e con ciò che lo trascende. Tale trascendenza è quel come se, quel più che abita un meno che sveglia la coscienza al di là di sé rinviandola a una sproporzione o suscezione dell’Infinito.
La passività rinvia così a una diacronia non sincronizzabile, ovvero a un passato non sincronizzabile che possiamo anche intendere come veglia senza intenzionalità. In tal senso la vera libertà sarà non tanto un ‘libero in sé’ quanto un ‘libero da sé’ che prorompe nell’incontro con l’altro, ovvero nella radicale responsabilità etica per l’altro uomo. Quando, nella dimensione del non-intercambiabile (la sostituzione etica dove l’io si fa carico del tu senza prenderne il posto) nella stessa condizione di ‘ostaggio’, a cui si spingerà Altrimenti che essere, io sono unico ed eletto.
Il volto dell’altro non è infatti interno all’orizzonte della fenomenicità perché esso stesso non è un fenomeno, non appartiene cioè all’ordine della rappresentazione e della conoscenza.
Chiediamo se la ragione, sempre ricondotta alla ricerca del riposo, dell’appagamento, della conciliazione — implicando sempre l’ultimità o la priorità del Medesimo — non si assenti, già attraverso questo, dalla ragione vivente. Non che ragione equivalga alla ricerca di una uguaglianza con sé — di una adeguazione a sé — che sarebbe migliore dell’adeguazione già raggiunta. Contro questo romanticismo superato e ingiustificabile, come quello che preferisce la guerra alla pace, il classicismo della pienezza è bello nella sua lucidità. Ma noi chiediamo se la lucidità — perfezione del conoscere — è la veglia più desta; anche se bisognerebbe confessare che la vigilanza stessa chiede di essere riconosciuta con lucidità; noi chiediamo se la veglia è una nostalgia dell’uguale e non una pazienza dell’Infinito; chiediamo se di conseguenza, come vigilanza e veglia, la ragione non è lo scompiglio del Medesimo da parte dell’Altro — risveglio che si scrolla dallo stato di veglia — scompiglio del Medesimo da parte dell’Altro nella differenza che, precisamente non-indifferenza, non si presta alle avversità e alle riconciliazioni nelle quali la comunità, per quanto formale essa sia, scatena il movimento dialettico.16
La peculiarità della riflessione levinasiana è proprio in questo indagare su un termine fenomenologicamente significativo — l’idea dell’Infinito — accogliendo il trascendente quando si manifesta nell’elaborazione dei limiti della coscienza. Contro l’idealismo, incapace di ammettere una coscienza che non sia immediatamente adeguazione con se stessa, Levinas scava nella fatticità della coscienza pervenendo al pre-intenzionale che è presenza non-intenzionale entro la coscienza. Nel passaggio al prossimo, infine, la ridefinizione della soggettività come pour l’Autre comporta la liberazione da se stessa per l’idea dell’Infinito che implica la sacralità dell’Altro. Anche Husserl procedeva da qui per descrivere la soggettività trascendentale che sradica l’Io dal suo isolamento nel sé, ma in tale riduzione continuava a pensare la relazione tra Dio e l’altro in termini di conoscenza. In fondo la fenomenologia husserliana dell’intersoggettività resta di natura squisitamente teoretica; anche la dottrina dell’alter ego, nella quinta meditazione cartesiana, si volge alla possibilità di conoscere l’altro entro l’apoditticità della ‘riduzione’.
Mai la filosofia, partendo dalla presenza dell’essere, se ne risveglierà o ne dirà il risveglio in termini diversi da quelli del sapere, mai ridurrà il sapere dell’ontologia ad una delle modalità del risveglio in cui già si configurano modalità più profonde; mai penserà la veglia — e il risveglio in cui la veglia vive — come Ragione senza intenderla nella conoscenza, senza ridurre alla manifestazione del senso la sua stessa significanza. Risvegliarsi dalla presenza e dall’essere significherà, per essa, una avventura dello spirito solo come profusione di immagini in libertà, poesia o sogni, ebbrezza o sonno.17
Rivendicando il valore dell’eteronomia etica contro quella autonomia che la tradizione filosofica ha scelto a fondamento della moralità, come la normativa kantiana, Levinas si impegna dunque per una nuova definizione della soggettività. Qui ritroviamo la stessa difficoltà di esprimersi in un modo altro dall’ontologia che ritroviamo in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, opera pubblicata nello stesso anno 1974. Al centro vi è sempre l’idea dell’Infinito che resta una concretezza, eccedente e diacronica ma mai vuota come l’essere neutro heideggeriano. In tal senso la vita non è affatto un’estasi ma un entusiasmo, una veglia sospinta nella veglia di un nuovo risveglio fino alla categoria biblica del santo. Nella fede ebraica, e qui il riferimento a Rosenzweig è esplicito, la santità è infatti l’espressione dell’essere per l’altro mosso dal suo essere in sé di fronte a Dio.
La prospettiva ebraica di Rosenzweig è assunta da Levinas, nel passaggio dal mistico al santo, entro la ridefinizione dell’in-sé del soggetto nell’essere-per-l’altro. Poichè mai il mistico realizza pienamente l’umano. In certo senso è il volto dell’altro l’espressione della possibilità profetica realizzata nella risposta-responsabilità alla sua presenza, in quell’«Eccomi» che fa del soggetto l’unico, l’eletto. Nella ridefinizione levinasiana della prossimità Dio diventa così la possibilità del risveglio nella visitazione-evento del volto dell’Altro traccia di Dio.
Ancora una volta l’idea dell’Infinito e il volto, come metafisica dell’evento, presentano assonanze poiché se l’uomo è imago Dei allora non rimanda a Dio ma è la traccia di Dio. A partire dalla sproporzione dell’idea dell’Infinito, eccedenza che incrina il potere oggettivante della ragione, si dischiude infine il desiderio come aspirazione senza teleologia, anelito a un oltre mai raggiungibile. A partire dal pre-intenzionale, non dal pre-categoriale, è il volto altrui che paradossalmente diviene l’oggetto di una indagine fenomenologica priva di oggetto: esso è la pura esteriorità non riconducibile neppure all’interiorità. La sua torsione fenomenologica, da cui si sviluppa Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, procede dal riconoscimento etico dell’ulteriorità dell’altro che da sempre eccede l’ordine conoscitivo e di fronte a cui sono sempre in ritardo.
3. Verso un modo altro di dire Dio
Il saggio Dio e la Filosofia,18 affronta la questione del rapporto tra Dio e la ragione filosofica ricorrendo all’idea dell’Infinito nell’uomo (mutuata, come si è detto, da Descartes e rielaborata nella ‘Prefazione’ dell’opera Di Dio che viene all’idea). Dopo aver contestualizzato le diverse occasioni in cui il contenuto del testo era già stato presentato, Levinas si avvia verso una teologia fondamentale per dire Dio altrimenti volgendosi infine all’idea di Desiderio e di Bene.
Il primo passo è il riconoscimento che non è possibile andare al di là del pensiero, secondo la citazione aristotelica posta ad apertura del primo paragrafo: «Non filosofare, è ancora filosofare».19 Il logos non si è infatti mai fermato alla mera descrizione del reale ma da sempre ambisce alla comprensione ultima che sappia rendere ragione delle cose. Ogni pensiero, anzi l’atto stesso del pensare, è in tal modo costretto dalla stessa filosofia a giustificarsi dinanzi a essa, alla sua pretesa di essere scienza delle cause prime.
La pretesa filosofica alla totalità risale all’equivalenza parmenidea di essere e pensiero. L’essere, e qui Levinas pensa ad Heidegger, non è il neutro ma la sua verbalità che rinvia alle gesta d’essere presenti nelle sue differenti manifestazioni. Tale verbalità non è soltanto il suo contenuto, piuttosto è l’anima della vita del pensiero tale che, oltre le gesta d’essere, non ci sarebbe nulla oltre la coincidenza dell’essere con il suo accadere. È questa perfetta coincidenza a stabilire che nulla sia pensabile al di là di ciò che modifica una preliminare appartenenza alle gesta d’essere. Non è pertanto il pensiero a rischiarare l’essere, piuttosto è questo a costituire la luce del pensiero.
La riflessività del verbo — tra phainomai e logos — ci dice, infatti, come l’essere, pure non apparendo, nel suo mostrarsi permette al fenomeno di lasciare apparire l’essere stesso manifestandolo. La radura, la luce che filtra nel fitto bosco illuminandolo (Lichtung), ci porta molto lontani dall’idea kantiana che siano le categorie a costituire la luce del fenomeno. Anche la conclusione cui perviene Heidegger è però distante dal percorso di Levinas: ‘mostrarsi’ e ‘illuminarsi’ sono infatti verbi riflessi e non dovrebbero condurre a un’idealizzazione trascendentale ove il senso è generato dal soggetto conoscente. Husserl insegnava che era ancora l’oggetto, colto nel suo mostrarsi come contenuto della coscienza, a generare il senso mentre la coscienza non creava ma semplicemente rivelava il suo contenuto. Soltanto in questo diverso orizzonte, ‘mostrarsi’e ‘illuminarsi’possono avere senso, dal momento che non può mostrarsi ciò che senso non possiede. Il gesto d’essere, riferibile alla categoria dell’intelligibilità, ha infatti una intelligibilità che concerne l’essere e non il pensiero generato dall’incontro con un soggetto intellettuale.
Ma se la filosofia — la ragione — manifesta ciò che ha un senso, e Dio ha un senso, possiamo dedurre che la filosofia manifesti Dio? In quanto pensato, infatti, Dio è portato entro le gesta d’essere divenendo un prodotto dell’essere, un ente o, al massimo, un suo sinonimo. Siamo ormai distanti dal Dio biblico che, non riducibile a un’idea, né vera né falsa, significa come assolutamente trascendente, al di là dell’essere e dell’essere pensato. La storia della filosofia occidentale ha così operato la distruzione della trascendenza e nel suo compendio, nella logica o filosofia dello Spirito di Hegel, non resta che l’immanenza e la deportazione della trascendenza al di là dell’essere e dell’essenza. Da qui l’urgenza del pensiero di Levinas volto a individuare un altrimenti di essere che, nel legame essere-conoscere, diviene un altrimenti che sapere e altrimenti che conoscere. Tutto ciò che è può essere conosciuto e detto ma entro un processo in cui l’immanenza resta una legge interna poiché, il conosciuto, è tale soltanto entro un atto del conoscere. Tutto ciò che è conosciuto è infatti comprehensum, abbracciato dall’intelletto e da questo limitato.
La teologia razionale, aspirando a dire qualcosa di Dio entro l’orizzonte razionale, si esprime mediante avverbi come ‘eminentemente’ o ‘per eccellenza’; nel passaggio alla domanda radicale quid Deus sit non è però più in grado di fornire alcuna risposta. In ultimo non resta che il ricorso all’analogia dell’eminenza anche se il concetto di Dio continua a restare vincolato all’ontologia e all’orizzonte razionale: il tema, in quanto contenuto del discorso, rimanda sempre a qualcosa di argomentabile.
La filosofia non può oltrepassare le sue possibilità.
La pensabilità del Dio trascendente sembra infatti soggiacere, nella tradizione filosofica occidentale, a una angusta alternativa tra la sua riduzione all’immanenza — onticizzazione e gnoseologizzazione — e la sua riduzione all’assurdità nella negazione della sua stessa pensabilità. In realtà già Kant aveva affermato l’impossibilità di una formulazione teoretica del concetto di Dio, salvo poi recuperarlo nella sua indagine sulla Ragion pratica. Sostenere, con M.me Delhomme, che «il concetto di Dio non è un concetto problematico, non è affatto un concetto»,20 è ancora rifiutare, per la tesi che quod est reale est etiam rationale e viceversa,21 la stessa trascendenza del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Ciò che la Bibbia eleva al di sopra di ogni comprensione non avrebbe ancora raggiunto la soglia dell’intelligibilità!
Il problema che di conseguenza si pone e su cui ci concentreremo consiste nel domandarsi se il senso equivale all’esse dell’essere, cioè se il senso che in filosofia è senso non sia già una restrizione del senso, se non sia già una derivata, o una deriva del senso, se il senso equivalente all’essenza — alle gesta dell’essere, all’essere in quanto essere — non sia già accostato all’interno della presenza che è il tempo del Medesimo; supposizione che può giustificarsi solo tramite la possibilità di risalire a partire da questo senso, che si presume condizionato, ad un senso che non si direbbe più in termini di essere, né in termini di ente.22
Al di là della riduzione all’immanenza o all’assurdità Levinas rinviene la possibilità di un senso altro rispetto all’equivalenza tra essenza e senso. Nel tempo del medesimo, che è quello della presenza, della conoscenza e della rappresentazione, non è infatti possibile un’idea di Dio perché mai Dio è stato presente ad alcun atto del soggetto conoscente. E la filosofia insegna che noi possiamo conoscere soltanto l’oggetto che è stato presente al soggetto, ovvero nella presenza che è lo stesso tempo del medesimo, dell’identificazione e della vittoria sulla resistenza dell’oggetto mediante l’adeguazione. Il senso di Dio non è pertanto dicibile in termini di essere o di ente, piuttosto bisogna individuare una modalità altra dalla correlazione tra soggetto e oggetto nel presente e nella rappresentazione. Questa, infatti, tra ri-presentazione di ciò che è stato presente e rappresentazione (Vorstellung) come frequentazione della presentazione, è strutturata in modo tale da escludere Dio come sua interna possibilità.
Senza volgerci verso una apofatica indicibilità di Dio e senza rinunciare alla ragione filosofica, Levinas ci sollecita a cercare se oltre l’essere non si mostri un’intellegibilità preliminare allo stesso essere, verso una sua modalità che sia altrimenti che essere. Ogni atto di conoscenza, per definizione, si compie infatti nella riduzione dell’esteriorità all’immanenza dello stesso atto conoscitivo, senza poterne mantenere la trascendenza come tale. Di Dio non è infatti dato il concetto.
La stessa trascendenza non ha intelligibilità, soltanto può essere colta nel presente della coscienza e quindi divenire immanente. Abbandonare la via dell’episteme non conduce necessariamente al regno della doxa o della pistis, che ancora parla il linguaggio dell’essere, quanto a
dubitare dell’opposizione formale stabilita da Yehuda Halevi e ripresa da Pascal tra il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe da una parte, Dio invocato senza filosofia nella fede, e il dio dei filosofi dall’altra: è dubitare che questa opposizione costituisca un’alternativa.23
In realtà un discorso su Dio richiede una permanenza nella trascendenza. La dialettica trascendentale di Kant ci suggerisce la trascendenza come differenza, la cui figura è un’isola che vive della sua distinzione dall’oceano e che a tale infinità di distinzione pure la ragione ancora desidererebbe volgersi.24 Entro il recinto delle possibilità intellettive, nei confini protetti ma angusti dell’isola, le determinazioni intellettuali sono possibili finché non anelano alla fonte, spingendosi verso quell’incondizionato che non abita l’isola.25 Ma l’incondizionato dell’oceano, che pure è fondamento del teoretico, è ancora al di là del teoretico.
4. La passività della coscienza come possibilità dell’idea di Infinito
L’immanenza è già intrinsecamente correlata all’ontologia che, come discorso sull’essere, concerne l’essere così come si manifesta negli enti. La loro differenza è intesa a partire dalle stesse differenze che il soggetto coglie in essi. È infatti Parmenide, come abbiamo già detto, a fondare, con il noein kai einai to auto, la possibilità dell’intelligibilità. Eppure, proprio come la vastità dell’oceano si estende intorno e oltre l’isola di Kant, la verità dell’essere non è mai in sé conoscibile, restando criterio di veridicità al di là del pensiero. E infatti la prospettiva classica riporta all’adeguazione il rapporto tra essere e verità.
Nella sua ricerca Levinas riflette su tale manifestazione dell’essere, intendendola come manifestazione della manifestazione e verità della verità in virtù della verbalità dell’essere, per la quale l’essere stesso si manifesta e agisce sul soggetto. È infatti sempre l’essere ad apparire e non il soggetto a ex-ducere. Ed è per questo motivo che la filosofia trova nella manifestazione la sua materia e la sua forma. In tal senso è possibile ristrutturare il tema del sapere, procedendo dalla manifestazione della manifestazione che sempre accade in un soggetto. La dinamica del sapere è infatti comprensibile solo a partire dalla coscienza, la cui specificità sfugge alla sua definizione entro un concetto di sapere che, al contrario, già la suppone.
La coscienza-di è uno stato di insonnia — veglia o vigilanza — che, inquietata dall’Altro, Levinas intende come «passività dell’Ispirazione o soggettività del soggetto liberato dall’ubriacatura del suo essere».26 Non procede da un’attenzione intesa nel senso classico, dal momento che in fenomenologia essa è un essere tenuti svegli da qualcosa che ci richiama. Come una macchia di inchiostro su una superficie bianca, qualcosa di profondamente diverso cattura la nostra attenzione: nessuna coscienza intenzionale decide qui cosa accogliere nel proprio orizzonte. È la passività della coscienza, il pre-intenzionale, che è, però, anche il non intenzionale, a fondare la possibilità che in essa si dia qualcosa: l’idea di Infinito che non le appartiene e non è prodotta dall’intenzionalità. Essa è la stessa presenza di un Altro nel Medesimo che, hegelianamente, non nega il Medesimo — pena la neutralizzazione della sua stessa identità — secondo la logica, qui capovolta, della riduzione all’identico della realtà circostante. Entro la coscienza, infatti, l’altro così presente non annulla il medesimo ma piuttosto lo desta: è un di più nel di meno.
La veglia non conosce intenzionalità perché non possiede un contenuto: senza noema e senza punto di riferimento è infatti assoluto dis-interessamento, indeterminazione, pazienza dell’Infinito. La metafisica è dunque sempre ciò che si annuncia come totalmente al di là e che il soggetto, nella sua passione dell’originario, coglie nella sua passività come in-determinabile. Una passività che rinvia al patire di una coscienza che, per definizione, è invece
identità del Medesimo, presenza dell’essere, presenza della presenza. Occorre pensare la coscienza a partire da questa enfasi della presenza. La presenza si dà solo come ritorno della coscienza a se stessa, fuori dal sonno e, in ciò, la coscienza risale all’insonnia; anche se in questo ritorno a se stessa, in forma di coscienza di sé, non è che dimenticanza dell’Altro che risveglia il Medesimo dell’interiore, anche se la libertà del Medesimo non è ancora che un sogno risvegliato. La presenza si dà solo come un’incessante ripresa della presenza, come un’incessante rap-presentazione. Il senza-posa della presenza è una ripetizione, la sua ripresa, la sua appercezione di rappresentazione. La ri-presa non descrive la rap-presentazione. È la rap-presentazione che è la possibilità stessa del ritorno, la possibilità del sempre o la presenza del presente.27
La coscienza può risvegliarsi soltanto se qualcosa interrompe la sua immanenza. Tuttavia è intelligibile solo ciò che rientra nella capacità determinante e determinativa del soggetto, ovvero soltanto ciò che è immanente. Ecco perché conoscere, in senso proprio, significa pervenire a una proposizione vera i cui contenuti sono frutto di un’adeguazione. Ora, essendo la coscienza finita, la stessa adeguazione potrà concernere soltanto enti finiti: intelligibilità e finitezza sono orizzonti correlati, anche nel finito ideale, in cui il referente oggettivo deve essere finito per essere elaborato in un’idea. Ne consegue che dell’infinito non possiamo avere alcuna conoscenza intesa come adeguazione, piuttosto lo rinveniamo come presenza non rappresentativa del soggetto congiunta a un passato mai stato presente e condannata all’impossibilità della sua rappresentazione. Una presenza immemoriale, così potremmo allora definire l’Assoluto, poiché solo l’immemoriale è autenticamente trascendente: radicalmente libero dalla memoria e dal suo essere contenuto immanente alla coscienza.
Negata la possibilità di un giudizio determinante sulla metafisica, ove la determinazione alluderebbe alla finitezza dell’immanenza, Levinas riconosce il dato metafisico come un’eccedenza del più nel meno procedente dalla manifestazione dell’assoluto (e non dal discorso in cui questo si manifesterebbe). È piuttosto l’umana passione dell’originario a collocare l’originario al di là del limite, nel preliminare, che poi è anche la possibilità della determinazione del limite stesso e l’impossibilità delle umane capacità intellettive. Eppure l’uomo ha questa passione, patisce tale passività accogliendo un messaggio che proviene dall’originario, da un altrove mai stato presente. Negarla nella riduzione all’immanenza è negare la metafisica stessa, la sua disponibilità a essere recepita solo nella passività della coscienza.
Ma come dire l’altrove? Nuovamente siamo sospinti nella passività del soggetto, ora detta affettività, nel senso precipuo di un’affezione patita dall’uomo che rinvia, oltre l’uomo, alla passività dell’altrove. Ripercorrendo la tradizione filosofica occidentale ci imbattiamo in un complesso di affermazioni e proposizioni legate al tema fenomenologico della manifestazione. La teologia della rivelazione, infatti, intende quest’ultima come manifestazione (rischiando di ridurre la trascendenza all’immanenza); la teologia dialettica mantiene invece il Totalmente Altro.
Ma, appunto, come possiamo delimitare nel tema del discorso la stessa eccedenza del discorso?
È possibile che il termine Dio sia giunto alla filosofia a partire da un discorso religioso. Ma la filosofia — anche se lo rifiuta — intende questo discorso come quello delle proposizioni che riguardano un tema, cioè che hanno un senso riferendosi ad uno svelamento, ad una manifestazione di presenza. I messaggeri dell’esperienza religiosa non concepiscono altra significazione di senso. La «rivelazione» religiosa è immediatamente assimilata allo svelamento filosofico — assimilazione che anche la teologia dialettica mantiene. Non si sospetta minimamente che un discorso possa parlare altrimenti che per dire ciò che è stato visto o inteso al di fuori, o provato interiormente. Da subito l’essere religioso interpreta il suo vissuto come esperienza. Suo malgrado esso già interpreta Dio, di cui pretende fare esperienza, in termini di essere, di presenza e di immanenza.
Ne consegue tale questione preliminare: il discorso può significare altrimenti che significando un tema? Dio significa come tema del discorso religioso che nomina Dio — o come discorso che per l’appunto, almeno di primo acchito, non lo nomina, ma lo dice ad un titolo diverso dalla denominazione o dall’evocazione? .28
Dire Dio a partire da Dio: è anche questa l’originalità del pensiero levinasiano che supera la tentazione filosofica di procedere da un discorso umano che ne implicherebbe l’ontologizzazione. Se il significato di un discorso è dato dalla presenza dell’oggetto nella coscienza, mediante l’adeguazione, è ovvio che di Dio, proprio per la sproporzione ontologica, non è possibile dire nulla. Ma poiché Dio vi é presente come affezione passiva, evento di un tempo fuori dal tempo, è possibile dire Dio dalla sua evocazione.
Il pensiero dell’Infinito sa risvegliare la coscienza operando una frattura nel cogito e, sedando l’opposizione dell’adaequatio rei et intellectus, lo desta dal suo sonno dogmatico lasciando la coscienza riposare nell’oggetto. Descartes vorrebbe rendere ragione della presenza dell’idea dell’Infinito in noi ponendola tra le idee innate, ovvero considerandola un effetto che, rispetto alla causa, non può non avere almeno altrettanta consistenza ontologica. In tal senso effettua il passaggio dall’idea all’esistenza dell’Infinito, passaggio lecito solo in riferimento a Dio perché solo in Lui essenza ed esistenza coincidono.
Dunque non ogni pensato è contenuto nella coscienza. L’eccedenza dell’idea di Dio travalica il limite del pensiero ponendoci di fronte a un dato evidente, che il pensiero scopre in sé come ulteriorità che lo in-abita, al di là dell’approccio soggettivo e dell’assenso razionale o dogmatico. Ovviamente non è ancora Dio ma la sua idea che l’uomo porta in sé come Infinito.
È noto che la singolarità eccede la verbalità, potendo dire soltanto la species. Per definizione il concetto racchiude infatti un’intera classe di oggetti: il particolare cade nella non dicibilità, contro l’universalità della conoscenza scientifica. All’agnosticismo, quale possibile risvolto dell’eccedenza dell’idea di Dio, si ribatte che la capacità dell’Infinito è chiaramente riflessa nel perenne desiderare dell’uomo, in quel patire l’originario che attesta la profondità di un subire che non comprende alcuna capacità,
che non sostiene più alcun fondamento, in cui si arena ogni processo di investimento ed in cui saltano le catene che chiudono i recessi dell’interiorità. Immissione senza raccoglimento, che devasta il suo luogo come un fuoco divoratore, che catastrofizza, nel senso etimologico del termine, il luogo. Abbagliamento in cui l’occhio sopporta più di quanto sopporti; bruciatura della pelle che tocca e non tocca ciò che, attraverso l’afferabile, brucia. Passività o passione in cui si riconosce il Desiderio, in cui il «di più nel di meno» risveglia con la sua fiamma più ardente, più nobile e antica un pensiero votato a pensare più di quanto pensi.29
Dall’idea dell’Infinito Levinas è giunto al Desiderio quale sinonimo di Bene, non provocato dal soggetto che desidera ma da sempre inserito nell’orizzonte del desiderabile. Immersi in questo infinito siamo tratti fuori dalla continuità dell’ontologia verso l’al di là dell’essere. Non è questa la dinamica dell’eros platonico, non è cioè il bisogno che può essere colmato nell’unione di abbondanza e privazione, piuttosto è un godimento come ‘accrescersi della fame’. Ed è in tale capovolgimento che avviene la trascendenza, lo sradicamento dall’essere nel disinteressamento del Desiderio.
Sempre prossimo ma differente è Dio, il Santo, a restare separato come Desiderabile. L’Infinito che si trascende nel finito mi ordina il prossimo senza esporsi a me, lasciando l’io soggetto a un ordine che lo sovrasta prima di essere inteso e che pure realizza nella sua azione. Prima dell’ascolto, in questa radicale trascendenza che oltrepassa l’oggettivazione e il dialogo, vi è l’esecuzione profetica.
Relazione tenuta al Convegno internazionale Visage et infini. Analisi fenomenologiche e fonti ebraiche in Emmanuel Levinas, Roma 24-27 maggio 2006. Gli atti sono pubblicati nel volume a cura di Irene Kajon, Emilio Baccarini, Francesca Brezzi, Joelle Hansel, Emmanuel Levinas. Prophetic Inspiration and Philosophy, Giuntina, Roma 2008.
Queste riflessioni sono nate all’interno di un seminario universitario che si interrogava sulle modalità di dicibilità di Dio in Levinas. Abbiamo interrogato lo scritto del 1982 consapevoli che la questione è molto più complessa, ma né lo spazio di un seminario, né un contributo a un’opera collettiva possono render conto di tale complessità.
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E. Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, Paris 1982 tr. it., Di Dio che viene all’idea, Milano 1983. Ci serviremo in seguito della traduzione italiana confrontandola di volta in volta con il testo francese e di cui si dà la pagina in corsivo. Citeremo con la sigla DVI. ↩︎
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Ibid., pp. 9-10; 8. ↩︎
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Ibid., pp. 10-11; 9. ↩︎
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In Totalità e Infinito, ed. it., Milano 1980, Levinas aveva presentato proprio in questi termini la possibilità dell’’apertura’ metafisica. ↩︎
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DVI, p. 11; 10. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Su questa nozione aveva già insistito Totalità e Infinito, cit., p. 84 sgg.; ma anche in Altrimenti che essere, ed. it., Milano 1983, tutto il capitolo 4 dedicato alla Sostituzione, può essere letto in questa prospettiva. ↩︎
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DVI, p. 12; 11 nota. ↩︎
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Ibid., p. 13; 12. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Su questo tema resta fondamentale il saggio La traccia dell’altro in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Milano 1998, e anche la ripresa che Levinas ne fa in Umanesimo dell’altro uomo, Genova 1998. ↩︎
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Un’indagine a parte meriterebbe questo problema del non intenzionale e della cattiva coscienza a cui il filosofo franco-lituano ha dedicato molteplici saggi raccolti in Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Milano 1998. ↩︎
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E. Levinas, Dalla coscienza alla veglia a partire da Husserl, in DVI, pp. 41-42; 48-49. ↩︎
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Ibid., p. 43; 51. ↩︎
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Ibid, nota 24. ↩︎
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Ibid., p. 49; 58-59. ↩︎
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Ibid., p. 47; 56. ↩︎
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DVI , pp. 77-101; 93-127. ↩︎
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Levinas inizia così il suo percorso tra metafisica e ontologia: «Il discorso filosofico dell’Occidente rivendica l’ampiezza di un inglobamento e di una comprensione ultima. Esso costringe ogni altro discorso a giustificarsi davanti alla filosofia», op. cit., p. 78; 94. ↩︎
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J. Delhomme, Pensée Interrogative, 1954, citata da Levinas, op. cit., p. 79; 96. ↩︎
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È in questo senso che il neopositivista circolo di Vienna afferma che Dio non ha un senso, non essendo verificato e né verificabile e definendo da qui l’insensatezza di tutte le proposizioni metafisiche. ↩︎
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E. Levinas, Dio e la filosofia, op. cit., p. 79. ↩︎
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Ibid., p. 80; 96-97. ↩︎
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Si veda quanto scrive Kant nella Critica della ragion pura (P. I - L. II - Cap. III) quando inizia a parlare della distinzione di tutti gli oggetti in fenomeni e noumeni. ↩︎
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Può risultare di grande interesse, per comprendere meglio l’orizzonte di riferimento di Levinas, leggere il Troisième portique intitolato L’homme et l’infini nell’opera L’ame de la vie di Rabbi Hayym de Volozine, pp. 117 sgg. ↩︎
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Ibid., p. 81; 99. ↩︎
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Ibid., pp. 81-82; 99-100. ↩︎
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Ibid., pp. 84-85; 103-104. ↩︎
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Ibid., pp. 89-90; 110-111. ↩︎