1. Introduzione
«Pensare il padre». È possibile un approccio filosofico a questa «figura parentale» dell’umano? La domanda non è affatto retorica, se si considera che la filosofia nella sua storia plurimillenaria non si è occupata poi tanto della paternità come questione filosofica. Il silenzio in questo caso ha un carattere di grande eloquenza, che manifesta quasi l’impossibilità di pensare il padre, almeno impossibilità di farlo con le usuali categorie della determinazione filosofica. Se l’assenza di discorso filosofico sul padre divenisse tema esplicito di riflessione, si potrebbe riscrivere un interessante capitolo mancato della storia del pensiero antropologico occidentale. E, tuttavia, dobbiamo trovare dei modelli di dicibilità che permettano un approccio antropologico a questa figura che oggi appare la più discussa dentro le dinamiche familiari.
Infatti dobbiamo forse imparare a pensare il padre non più soltanto come ruolo o come funzione di cui si occupa la sociologia, la psicologia o la biologia, bensì anche come struttura ontologica, sebbene il termine debba qui essere inteso in maniera affatto diversa rispetto all’ontologia classica, e come paradigma etico che permette anche una totale ridefinizione delle dinamiche del vivere personale, familiare e sociale.1 Possiamo partire da alcune riflessioni di carattere socio-psicologico che possono introdurci a un percorso nuovo.
La famiglia è da sempre considerata come l’unità base dell’evoluzione e dell’esperienza, del successo o dello scacco dei suoi componenti, che poi non sono altro che le persone reali. Tuttavia, la famiglia è un’entità elusiva e multiforme; è la stessa dappertutto, eppure non è uguale in nessun luogo. Attraverso i tempi è rimasta la stessa, eppure non è mai rimasta la stessa. I problemi connessi alla funzione paterna nella nostra società debbono essere visti, quindi, sullo sfondo dei profondi mutamenti progressivi che si sono avuti nell’organizzazione delle relazioni familiari. La funzione paterna infatti, in quanto funzione vitale, è relativamente più influenzata dai mutamenti sociali rispetto alla funzione materna; dobbiamo perciò prestare particolare attenzione al fattore culturale nel formarsi del comportamento paterno attuale. È infatti indiscutibile che ci sia stato un cambiamento culturale straordinario nell’immagine che oggi abbiamo del padre.2 Gli è stata tolta ogni parvenza di arbitraria autorità in famiglia. Non è più l’indiscusso signore da temere, rispettare, ubbidire. Il suo potere di disciplinare e punire i membri della famiglia che si macchiano di una colpa — si pensi all’antica figura del pater familias — è stato drasticamente ridotto. Ciò che ora ci si presenta è qualcosa di assolutamente inedito. Il padre viene ormai considerato come una figura periferica. Prima viene la madre; è lei il genitore più importante. In realtà il padre rimane nell’ombra; egli è la persona trascurata. L’importanza del ruolo paterno è stata ridotta, quella del ruolo materno esaltata. Nella società contemporanea vi è la tendenza ad atomizzare i legami tra i membri del gruppo familiare, ognuno di loro è visto piuttosto come individuo e i membri della famiglia sono considerati come separati e relativamente isolati l’uno dall’altro. Questa tendenza assume un particolare significato poiché tiene separati il padre e la madre e li tratta come persone distinte piuttosto che come una coppia di coniugi.
Alcuni condensati semantici che esprimono la crisi della paternità nella società e nella cultura contemporanee e che è opportuno tenere presenti come sfondo della nostra riflessione possono essere così enunciati: padre padrone, padre debole, padre assente, padre periferico, padre maternalizzato, mammo. Occorrerebbe, allora, ripensare l’intera famiglia come luogo di origine e di crescita della persona, come struttura dialogale, in cui si opera un’identità senza identificazione, ma occorrerebbe farlo con gli strumenti propri della filosofia e, in particolare, dell’analisi fenomenologica.
Questa prospettiva relazionale apre nuove dimensioni di senso capaci di cogliere delle possibili trasformazioni positive della figura del padre. Ma è proprio la prospettiva relazionale l’impensato della filosofia che spiega il silenzio sul padre e, al contrario, a me sembra che è solo per questa via che si può dirne qualcosa di positivo. Anche se, apparentemente, siamo di fronte alla banalità di vuote asserzioni, la via relazionale, se imboccata fino in fondo, costringe a dire diversamente tutto l’essere dell’umano, in particolare, ci costringerà a uscire dalla logica dell’essenza che sul padre, ma anche sulle altre figure parentali, ha molto poco da dire. È questo il percorso che seguirò in queste poche riflessioni, che tuttavia vogliono essere saldamente filosofiche; con esse si intende cioè «rendere conto» di una realtà che sfugge alla logica dell’essenza e che quindi esige l’acquisizione di un’altra logica per essere «compresa»: possiamo chiamarla logica relazionale o anche logica della differenza. Proprio questa prospettiva metterà però in luce che è possibile fare filosofia utilizzando altri strumenti che vanno a integrare quelli della tradizione classica.
2. Verso un’identità relazionale
Se poniamo il problema in questa ottica, la figura paterna si carica di una valenza che dobbiamo imparare a vedere, ora con sguardo certamente disincantato, ma al tempo stesso con una radicalità, forse impensata.
Il pensiero filosofico utilizza, come abbiamo detto, come suo specifico approccio alla realtà la logica categoriale dell’essenza, unica condizione di possibilità per dire qualcosa. Questa logica è però costretta a ricondurre la molteplicità all’unità identitaria dell’essenza. Nel nostro caso specifico, la figura del padre potremo definirla soltanto a partire dall’unità del genere di appartenenza, che è l’essere umano. Siamo però anche consapevoli che non possiamo essere soddisfatti di una riduzione di tal genere. Ci sono degli enti, infatti, che si manifestano costitutivamente come differ-enti; enti cioè che «consistono» nel loro essere altrimenti, la cui loro identità è la differenza. È questo il caso specifico della singolarità personale. Ciò non significa naturalmente l’«insussistenza», l’assenza di sostanzialità, di tali enti, ma piuttosto l’irriducibilità categoriale, l’indicibilità che li colloca originariamente nella dimensione metafisica. La persona umana nella sua singolarità non può essere detta in termini categoriali, poiché è genere a se stessa. L’inutilizzabilità degli strumenti classici di conoscenza e di dicibilità ci costringe a cercare nuovi modi di approccio.
Può essere utile servirsi del metodo fenomenologico, che legandoci al dato ci permette di fare i conti con esso direttamente e di cercarne il senso a partire da se stesso, anche se in questo specifico caso, di una fenomenologia della paternità, l’analisi eidetica, che cerca la costituzione del senso in un orizzonte coscienziale, mostra tutta la sua problematicità e insufficienza. Non è però questo il luogo per approfondire questo aspetto nella sua specificità, anche se dall’indagine stessa se ne vedranno i limiti.
Nella prima fase della nostra analisi, ci serviremo del metodo fenomenologico esclusivamente per cogliere la rilevanza del superamento del modello identitario, mentre successivamente tenteremo una vera e propria fenomenologia della paternità.
Iniziamo la nostra analisi da una domanda apparentemente insignificante, ma decisiva: che cos’è l’umano? In altri termini, che cosa costituisce l’umanità dell’uomo? A seconda della risposta che si dà a questa domanda, si avranno costruzioni teoriche e modelli di pensiero assolutamente diversi. Proviamo a rispondere alla domanda richiamando due racconti mitologici sull’origine dell’uomo, che ci permetteranno poi di allargare il nostro discorso per meglio comprendere il senso della paternità.
Una breve analisi di alcuni passaggi del Simposio di Platone e del libro della Genesi ci permetteranno di comprendere meglio il senso di due paradigmi ontologicamente identici poiché descrivono l’essere umano come «essere-di-bisogno», ma antropologicamente diversi (uni-identità e differenza). Il testo che vorrei prendere in considerazione è il discorso di Aristofane, che ha delle sorprendenti analogie con la pagina biblica e che tuttavia ne è l’esatto contrario. Dopo aver raccontato dell’originaria natura «siamese», dell’uomo che Zeus per punizione «divide», Aristofane prosegue:
Dunque da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura. Ciascuno di noi, pertanto, è come simbolo di uomo, diviso com’è da uno in due. … E così ciascuno cerca sempre l’altro simbolo che gli è proprio (191 c8-d5).
Possiamo dire quindi che, secondo questo racconto, l’umanità dell’uomo è strutturata da una scissione originaria in cui il bisogno dell’altro è desiderio di unità. Syn-bállein (da cui sýn-bolon) è la tensione più propria di quell’essere unico, originariamente «scisso». È nota la potenza prodotta da questo «pensiero della scissione» che ha costituito l’Occidente, almeno fino al più titanico tentativo, realizzato da Hegel, in cui l’unità si ritrova come «composizione» (sistema) della diversità. La differenza che troviamo in Platone è differenza derivata da un’unità androgina originaria. L’uni-identità detta nel mito è la sorgente «metafisica» originaria (l’Ursprung) che, nella differenza, genera la tensione all’uni-identità. Forse nell’ottica di un’ontologia simbolica potremmo meglio comprendere il percorso dell’Occidente.
Il discorso biblico, pur manifestando anch’esso la simbolicità dell’uomo, produce l’unità a partire dalla differenza originaria. Proviamo a leggere il racconto della Genesi in questa ottica. A differenza del mito platonico, qui l’uomo è originariamente «solo», e il testo biblico sottolinea «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Probabilmente non si è riflettuto abbastanza sul valore ontologicamente assoluto di questa affermazione. L’uomo è un essere duale, ha una struttura duale («maschio e femmina li creò», Gn 1,27) in cui la sessualità è il segno di una bipolarità che, se vale per quasi tutto il regno animale, solo nell’uomo si esprime come «bisogno ontologico», al di là della pura onticità della sessualità animale. La solitudine del primo uomo è l’unica nota stonata di tutta la narrazione della creazione. Per questo Dio aggiunge: «gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». La narrazione biblica prosegue:
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo che si addormentò — gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. II Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa; la si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.
Siamo forse troppo abituati ad ascoltare questo testo, di cui manchiamo le valenze antropologiche e il substrato ontologico. La donna è lo stupore del risveglio alla coscienza, è la meraviglia del riconoscimento. L’uomo ha bi-sogno della donna per ri-trovarsi. Bisogna notare che non si tratta di un riconoscimento estrinseco, bensì ontologico, è la nascita del principio di identità a partire dalla differenza. Se allarghiamo il discorso, possiamo con una certa audacia affermare che l’altro è la condizione del nostro incontro con noi stessi, del nostro conoscerci. Ri-conoscersi significa raggiungere la soglia della consapevolezza e poter affermare: «sono io».
L’altro trova qui la collocazione originaria di senso. Da quanto siamo venuti dicendo possiamo tirare delle conclusioni provvisorie. L’uomo è originariamente un essere in relazione con un essere diverso, che è però la condizione per trovare e incontrare se stesso. È come se l’uomo, disperso nel suo mondo, avesse come unica strada verso se stesso l’altro, il tu, che, quindi, non può essere considerato un accessorio, bensì, un «bisogno ontologico». Si pensi in questa prospettiva al famoso «filo di Arianna» nella mitologia greca. Ciascuno di noi per potersi porre come identità, per riconoscersi, deve contemporaneamente essere di fronte a un altro. È importante notare in questa prospettiva che l’uomo è l’unico essere che si definisce come un «di fronte a». È questo il luogo e il momento fondativo di ogni possibile riflessione sulla differenza. Il bisogno ontologico dell’altro fa sì che nessuno possa definirsi in termini di assolutezza solitaria.
Nel contesto biblico, quindi, il syn-ballein è l’atto di una volontà che ha una destinazione ontologica di unità nella e attraverso la differenza. Siamo qui di fronte a una differenza originaria in cui l’identità si produce come «differenziazione». L’identità come ri-conoscimento di sé a partire dall’altro è un’identità senza identificazione.
Questo discorso potrebbe apparire fuorviante in un’analisi filosofica che intende manifestare il senso della paternità. In realtà sono qui detti degli elementi preziosi che ora proviamo ad esplicitare brevemente. Innanzi tutto entrambi i racconti del mito vogliono rendere conto di un dato che è veramente l’impensato della filosofia e insieme la datità ontica elementare che definisce l’identità personale: la differenza sessuale. La filosofia, soprattutto quella contemporanea, ha molto riflettuto sulla corporeità; basti qui ricordare Husserl, Merleau-Ponty, Sartre, per citare i più noti. Tuttavia, questa riflessione, pur estremamente preziosa e che ha aperto delle dimensioni di indagine del tutto nuove, ha dimenticato che questo corpo non manifesta soltanto un’intenzionalità, non è soltanto il centro geometrico, il punto zero di orientamento del nostro essere al mondo, l’origine della possibilità dell’affezione, ma anche che, nella sua vitalità concreta, è un corpo sessuato. La differenza sessuale non è soltanto un dato «biologico», la cui indagine va demandata ad altri ambiti disciplinari, un dato secondario per la definizione e determinazione dell’essenza dell’essere umano, bisogna vedere in essa anche il punto zero, il dato, che non può essere «giustificato» teoreticamente, ma che va semplicemente assunto come inizio della definizione dell’umano.3 L’identità sessuale, come identità «duale», si manifesta immediatamente come identità relazionale. E la paternità è certamente un’identità relazionale per se stessa e origine di identità relazionali, che non è soltanto una contingenza categoriale dell’essenza, come già aveva ben compreso la filosofia classica (si è padre soltanto se e quando c’è un figlio), ma è anche il modo di comprendere l’umano nella sua concretezza di essere corporeo e temporale.
3. La dimensione ontologica della paternità
Il peculiare di una logica relazionale o di una logica della differenza è che essa deve poter sempre pensare insieme i due termini della relazione in maniera inscindibile, in quanto l’uno è la condizione di pensabilità e di dicibilità dell’altro; ma non soltanto di pensabilità o dicibilità, bensì anche di permanenza. Tradotto nel nostro discorso ciò significa che l’identità, ogni identità, sorge da e attraverso un processo di identificazione differenziante, non da un mero nulla. L’origine di ogni identità sorge da una differenziazione. Nonostante le apparenze, siamo qui in una dimensione diametralmente opposta alla logica dialettica, ove la permanenza dell’identità è subordinata alla negazione, alla propria negazione e a quella dell’altro termine. Ogni essere umano si dice, si riconosce e consiste nell’ambivalenza di un essere che non è più e di un essere che è ancora. Inoltre, possiamo affermare che, nell’ordine temporale, in ogni essere umano siamo di fronte alla permanenza di un passato nel presente e insieme, a una proiezione liberata del passato verso il futuro.
Secondo questa logica, il senso della paternità consiste nell’inizialità che fonda la consapevolezza di essere al punto di partenza e non semplicemente nella serialità della successione. Al di là della dimensione generativa, la paternità è un evento che si colloca all’incrocio di un chiasma, di un accadere relazionale, dove si possono confondere, sebbene vadano tenute rigorosamente distinte, la coniugalità e la figliolanza. Nella coniugalità, nel compiacimento di due voluttà, come dice Levinas, «il Medesimo e l’Altro non si confondono, ma, appunto, — al di là di ogni progetto possibile, al di là di ogni potere sensato e intelligente — generano il figlio» (Totalità e Infinito, p. 273); si produce una transustanziazione. «Con una trascendenza totale — la trascendenza della transustanziazione — l’io è, nel figlio un altro. La paternità dimora in un’identificazione di sé, ma anche in una distinzione nell’identificazione — struttura imprevedibile nella logica formale» (ibid., p. 275).
Se il padre è padre a partire dal figlio che si è generato, non si può dimenticare l’altro elemento dell’intreccio. Infatti,
è necessario l’incontro con Altri, in quanto femminile, … perché si realizzi l’avvenire del figlio dall’al di là del possibile, dall’al di là dei progetti. Questo avvenire non è né il germe aristotelico … , né la possibilità heideggeriana che costituisce l’essere stesso, ma che trasforma il rapporto con l’avvenire in potere del soggetto. Ad un tempo mio e non-mio, possibilità mia, ma anche possibilità dell’Altro, dell’Amata — il mio avvenire non rientra nell’essenza logica del possibile. Noi definiamo fecondità la relazione con un avvenire di questo tipo, irriducibile al potere su dei possibili. La fecondità include una dualità dell’Identico (ibid., pp. 275-276).
Il filosofo francese, partendo da questa nozione di fecondità, articola delle riflessioni assolutamente originali e, a mio avviso, ancora da pensare.
La relazione con il figlio, — scrive Levinas — cioè la relazione con l’Altro, non potere, ma fecondità, mette in rapporto con l’avvenire assoluto, e con il tempo infinito. L’altro che io dovrei essere non ha l’indeterminatezza del possibile che però porta la traccia della fissità dell’Io che coglie questo possibile. … Le diverse forme assunte da Proteo non lo liberano dalla sua identità. Nella fecondità, la noia di questa ripetizione si interrompe, l’io è altro e giovane, e però, senza che l’ipseità che dava il suo senso e il suo orientamento si perda in questa rinuncia a sé. La fecondità continua la storia senza produrre vecchiaia; il tempo infinito non dà una vita eterna a un soggetto che invecchia. È migliore attraverso la discontinuità delle generazioni, ed è scandito dalle inesauribili giovinezze del figlio. Nella fecondità l’io trascende il mondo della luce. Non per dissolversi nell’anonimato del c’è, ma per andare più lontano della luce, per andare altrove. Stare nella luce, vedere, comprendere prima di comprendere, non è ancora «essere infinitamente», è ritornare in sé, più vecchi, cioè pieni di sé. Essere infinitamente significa prodursi nelle specie di un io che è sempre all’origine, ma che non incontra ostacoli al rinnovamento della propria sostanza anche se dovessero provenire dalla sua stessa identità. La gioventù come concetto filosofico è così definita. La relazione con il figlio nella fecondità, non ci mantiene in questa estensione di luce e di sogno, di conoscenze e di poteri. Essa articola il tempo dell’assolutamente altro — alterazione della sostanza stessa di colui che può — la sua transustanziazione (ibid., pp. 276-277).
Questa lunga citazione del filosofo francese, nelle sue difficoltà intrinseche che andrebbero contestualizzate, ci fornisce un’ottica particolarmente preziosa attraverso cui guardare al padre nel suo specifico statuto d’essere. Infatti, in questa prospettiva, il padre non è più il semplice esercizio di una funzione, biologica o sociale che sia, ma è piuttosto generazione di identità che si sappiano come differenze. L’identificazione è una differenziazione e quest’ultima è la condizione di possibilità per apprendersi come soggetti separati. In ciò la figura paterna è veramente irrinunciabile. E il suo esercizio diventa la capacità di umanizzazione nel senso forte del termine. Essere, diventare e fare il padre in questo senso si compenetrano in maniera inestricabile.
La struttura differenziale della relazione che si descrive come asimmetria fonda un’etica della differenza. La relazione paterna manifesta un’esperienza dell’asimmetria costitutiva del vivere personale e sociale, e il padre si presenta come simbolo di alterità. Ciò significa che, nella dinamica familiare, la figura del padre acquista una valenza metaforica assolutamente originale e insostituibile. Da quanto veniamo dicendo deriva che la struttura ontologica del padre fonda la responsabilità etica, mentre la sua dimensione metaforica realizza un’insopprimibile funzione di socializzazione. Il padre, come figura che nella metafora e nella differenza diviene catalizzatore della relazionalità dell’esistenza, testimone di una gratuità dell’esistere che è al tempo stesso grazia e grazie. Nel nome del padre si può riproporre una dimensione dell’esistenza non legata al potere e al possesso. Forse non è eccessivo vedere nella presenza del padre il segno che significa la vita come differenza, come relazione, come trascendenza. La crisi della presenza del padre si esprimerà allora proprio attraverso la crisi della differenza, della relazione e della trascendenza.
4. Elementi per una fenomenologia della paternità
Al di là del ruolo e della funzione quindi, con questo approccio si è cercato di evidenziare delle strutture antropologiche. In questa ultima parte della mia riflessione vorrei provare a leggere i molteplici elementi che caratterizzano da un punto di vista antropologico la figura del padre e a proiettarli all’esterno verso le molteplici direttive della vita relazionale.
Precedentemente, abbozzando un’ontologia della paternità, ho scritto che ogni essere umano si dice, si riconosce e consiste nell’ambivalenza di un essere che non è più e di un essere che è ancora. Inoltre, possiamo affermare che, nell’ordine temporale, in ogni essere umano siamo di fronte alla permanenza di un passato nel presente e, insieme, a una proiezione liberata del passato verso il futuro. Proviamo ora ad esplicitare ciò che è detto in queste espressioni.
La riflessione filosofica contemporanea, a partire dalle analisi di Husserl, ci ha sensibilizzati e resi attenti al «mondo della vita» quale presupposto fondamentale su cui si innesta e cresce ogni ulteriore costruzione. Il padre incarna in maniera significativa questo legame con il mondo della vita. Ma non si tratta soltanto di un legame estrinseco: nella dimensione identitaria della persona possiamo indicarla come una struttura di appartenenza che funge da radicamento. Il padre come radice è più che un’espressione metaforica o simbolico-letteraria. Essere a proprio agio, sentirsi bene nella propria pelle, sentirsi a casa, sono altrettanti modi di esprimere lo stesso dato elementare: il bisogno della patria, la terra «paterna». Naturalmente questi termini sono qui impiegati in un senso fenomenologico che riguarda la descrizione dello statuto della vita del soggetto prima che un rimando all’esperienza empirica, anche se l’esperienza empirica è dal primo significato che acquista tutto il suo senso.
Hegelianamente, potremmo riferirci a questa dimensione ricordando la Sittlichkeit, l’eticità, intesa come quel fondamento a partire da cui si costituisce, quasi per negazione, la libertà della moralità personale. Nel padre si incarna la continuità della tradizione, dei costumi (Sitten), che il figlio deve interiorizzare, ed eventualmente negare, per costruire la sua storia, la sua avventura esistenziale personale. La negazione del padre, su cui tanto ha insistito la psicoanalisi, deve necessariamente passare attraverso un processo di interiorizzazione della ineliminabile figura paterna da parte del figlio. La relazionalità di queste figure si comprende esclusivamente entro questa dinamica, per cui l’uno non può far a meno dell’altra. Questa è l’ambivalenza che si diceva, o il senso duplice che struttura originariamente le figure parentali. Per utilizzare la bella espressione di Paul Ricœur, occorre passare dal fantasma del padre al simbolo.4 Il fantasma è certamente l’inizio della storia, l’incombenza di un passato da cui occorre liberarsi, ma senza di cui non ci sarebbe neppure il presente e, quindi, la coscienza di trovarsi all’inizio di una nuova storia, soltanto ora veramente la propria storia. Se le nostre analisi riescono a esplicitare alcuni elementi fondamentali, dobbiamo dire che il padre è la condizione della costituzione della struttura identitaria come conflitto tra continuità e discontinuità, e che l’interiorità raggiunge il proprio senso quando perviene alle soglie della sicurezza.
La sicurezza non è una dato psicologico, o, almeno, non è soltanto questo. Più originariamente rimanda a un livello antropologico che si struttura nella dinamica tra auctoritas e securitas. Ricorro ai termini latini, perché in essi, nel loro etimo, è più facilmente rintracciabile la dimensione originaria che stiamo cercando di avvicinare. La funzione del fantasma può essere quella dell’oppressione che tiene avvinghiato a sé il figlio, oppure può trasformarsi in un’occasione di crescita (augeo = cresco, da cui autorità), in cui l’autorità e il suo esercizio operano una separazione che, per negazione, produce una nuova identità. La sicurezza, securitas, dal verbo latino seco, taglio, è quindi originariamente inizio e risultato. Tutta questa dinamica che struttura intimamente la persona umana nella sua concretezza non ci sarebbe se venisse meno la figura paterna; se provassimo ad applicare questo paradigma interpretativo alla nostra società contemporanea, forse potremmo capire meglio alcuni dei fenomeni più diffusi che la caratterizzano.
Riprendiamo il nostro discorso dal versante della temporalità, nel suo statuto ontologico e nella sua costituzione soggettiva al fine di chiarire perché abbiamo impiegata, nella qualificazione della struttura dell’essere umano, l’espressione «permanenza di un passato nel presente» e di «proiezione liberata del passato verso il futuro». L’inizialità del padre infatti, proprio in quanto tale, si colloca nel passato, è il passato. Da questo passato, tuttavia, si origina la continuità della memoria che, a sua volta, è l’origine della dimensione narrativa e funge da «contestualizzazione» della temporalità personale. Quando si impiega in maniera connotativa, per individuare l’identità di qualcuno, l’espressione «figlio di…», si esplicita immediatamente una connessione temporale che inserisce la persona nella continuità di un flusso storico. Per ciascuno dunque questo riferimento significa collocarsi in un presente in cui permane un passato e da cui è possibile protendersi al futuro. Senza questo passato non si può costituire il futuro come coscienza temporale compiuta. Non è casuale che Husserl abbia indicato la coscienza del futuro come «anticipazione memorativa». Certamente la coscienza temporale e quindi la temporalità personale è per ciascuno iniziativa originale, tuttavia non sarà mai inizialità assoluta. Soltanto per Colui che è esclusivamente inizio e quindi fuori delle connessioni del tempo, assoluto, non esiste memoria. Il padre, nella sua qualificazione umana, è, invece, sempre preliminarmente «figlio di», cioè manifesta una simbolicità che, nella sua struttura di rimando, costituisce la stessa possibilità della permanenza. Il permanere senza interrompere il flusso della temporalità singolare, senza ostacolarlo, è appunto il risultato di un processo di liberazione dal/del passato per proiettarlo oltre sé. In questa percezione della temporalità si costituisce la coscienza della differenza, della propria identità come differenza, un’identità che sa se stessa a partire da un altro con cui però non si identifica. Identità senza identificazione o, anche, identificazione differenziante che rende possibile la molteplicità delle differenze, la molteplicità dei figli e quindi dei fratelli.
Il nostro tempo ha messo in scena una prospettiva che ha un’intrinseca drammaticità: una società senza madre non è possibile, il taglio del cordone ombelicale è il primo, necessario, atto di separazione di un’endiadi; al contrario, è possibile una società senza padre. Ma l’assenza del padre coincide con la scomparsa di un riferimento assoluto, inizio della coscienza, come abbiamo detto, cioè inizio della capacità di esercizio della libertà, ma anche della responsabilità come possibilità di affermare riflessivamente di sé sono io. La relazione paterna costituisce quindi la condizione di possibilità del sorgere della consapevolezza di sé come soggetto separato. Se il padre è quel Tu originario a partire da cui mi affermo come Io, la scoperta degli altri molteplici Io rimanda a una logica della differenza che dice filialità e fraternità. Una società senza padre è una società a cui manca la consapevolezza della socialità elementare e quindi della libertà. Ma una società senza questa socialità nega se stessa come società e il passaggio tragico potrebbe essere: dalla differenza benevolente delle differenze alla violenza distruttiva dell’identità che si autoafferma. Fuori di ogni retorica, mi sembra questa la sfida del nostro tempo.
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Tra i molti studi che riguardano la famiglia, rimando a un classico dell’argomento, che, sebbene oggi un po’ datato, rappresenta un approccio di carattere globale, AA.VV. (a cura di R.N. Anshen), The Family: its Functions and Destiny, New York 1949, tr. it., La famiglia: la sua funzione e il suo destino, Milano, 5ª ed. 1974. ↩︎
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Si veda il prezioso volume di G. Mendel, La révolte contre le père, Paris 1968. Tr. it., La rivolta contro il padre, Firenze 1973. ↩︎
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Scrive Levinas in un passaggio molto suggestivo di Totalità e Infinito (Jaka Book, Milano 1980, pp. 285-286): «Il soggetto è soggetto soltanto di sapere e soggetto di potere? Non si offre come soggetto in un altro senso? La relazione cercata che egli sostiene come soggetto e che, a sua volta, soddisfa queste esigenze contraddittorie ci sembra inscritta nella relazione erotica». E, dopo aver detto che la l’originalità assoluta della relazione erotica viene sdegnosamente confinata nel biologico, Levinas prosegue: «Affare curioso! Persino la filosofia del biologico, quando supera il meccanicismo, ricade nel finalismo e in una dialettica del tutto e della parte. Il fatto che lo slancio vitale si propaghi attraverso la separazione degli individui, che la sua traiettoria sia discontinua — cioè che presupponga gli intervalli della sessualità e un dualismo specifico della sua articolazione — non è mai stato oggetto di una considerazione seria. Quando, con Freud, la sessualità è affrontata sul piano umano, è abbassata al livello della ricerca del piacere senza che si arrivi, anche solo lontanamente, a sospettare il significato ontologico della voluttà e le categorie irriducibili che essa mette in opera. Si considera il piacere già precostituito, si ragiona a partire da esso. Ma non ci si accorge che l’erotico — analizzato come fecondità — scinde la realtà in relazioni irriducibili ai rapporti di genere e di specie, di parte e di tutto, di azione e di passione, di verità e di errore; che, attraverso la sessualità, il soggetto entra in rapporto con ciò che è assolutamente altro — con un’alterità di un tipo imprevedibile in logica formale — con ciò che rimane altro nella relazione senza mai mutarsi in “mio”, e che, però, questa relazione non ha nulla di estatico, poiché il patetico della voluttà è fatto di dualità. Né sapere, né potere. … In noi la sessualità non è né potere, né sapere, ma la pluralità stessa del nostro esistere». ↩︎
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P. Ricœur, «La paternità: dal fantasma al simbolo», in Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1986. ↩︎