1. Introduzione
En arché én ho lógos. L’espressione del Prologo del Vangelo di Giovanni è certamente una di quelle che, per la loro interna forza evocativa, più hanno suggestionato il percorso filosofico e teologico dell’Occidente. E ciò ha una rilevanza particolare soprattutto se si cerca di legare insieme i due termini chiave dell’intera tradizione filosofica occidentale, l’archè e il lógos. Per Ebner è stata una sorta di ossessione che lo ha accompagnato nel corso di tutta la sua breve vita.
La filosofia, è noto, nasce come questione dell’arché, e in tal modo si allontana dal mito e dalla religione. Nel suo senso profondo il termine ha una grande oscillazione di significato, può essere inteso come inizio, come principio nel senso di origine o di fondamento. Non è irrilevante l’accezione che si assume, soprattutto se a questa arché è correlato un lógos.
All’origine vera e propria della filosofia, nell’opera di Platone, c’è in effetti un altro lógos che è diventato il suo spazio specifico, quello che ne ha costituito il linguaggio e il proprio senso d’essere e che troviamo espresso in forma di domanda nella Repubblica:
Non chiami tu dialettico colui che sa rendere ragione (lógon) dell’essenza (tes ousías) di ogni cosa? E chi non ne è capace, in quanto non ne sa dar conto (didónai) né a sé né agli altri, per tale ragione non diresti che di questo non ha intelligenza? (534b).
Il lógon didónai tes ousías, la dialettica, è da allora diventata la specifica «attività» del filosofo, la sua preoccupazione fondamentale, il risultato della piena intelligenza. Conoscere è quindi dar conto dell’essenza delle cose. La domanda con cui il filosofo/dialettico incontra la realtà è, per utilizzare la formulazione polemica di Franz Rosenzweig in Il nuovo pensiero, la ist-Frage. Questo tema sarà presente anche in Ebner, come vedremo. Il lógos di cui si parla nelle due tradizioni di pensiero non ha soltanto l’antiteticità che si potrebbe facilmente giustificare e accettare di due diverse prospettive, filosofica e teologica, bensì rimanda alla costituzione di un paradigma che ha fatto da discriminante tra due livelli di discorso, ma che ha anche reso impossibile qualsiasi rimando reciproco, provocando la divaricazione/contrapposizione tra fede e ragione, ma anche tra spirito e vita. Provocatoriamente si potrebbe suggerire di trasformare la traduzione del testo platonico in quest’altro modo: «il dialettico è colui che è capace di dare la parola all’essenza delle cose, poiché egli è l’unico che ha la consapevolezza di avere la parola», ma questa formulazione suona sgradevole per l’impossibilità di far diventare parola parlante un’essenza, per definizione impersonale.
Forse per questa ragione la lettura dell’opera di Ebner appare ed è vissuta come una continua e provocatoria destrutturazione delle abituali categorie del pensiero determinante, proprio della filosofia. Ed è difficoltoso leggere e soprattutto accettare le molte critiche che l’autodidatta maestro elementare austriaco rivolge alla filosofia e che tuttavia costringono a fare i conti con dei problemi e delle prospettive che forse la filosofia ha dimenticato semplicemente perché il suo apparato categoriale non poteva rilevarli. Non si tratta quindi tanto di oblio, ma di congenita, strutturale, impossibilità di dire la verità di quelle realtà che sfuggono alla determinazione essenziale. Questa, infatti, si nutre di logica o, che è lo stesso, manca di tempo e di grammatica. La determinazione deve necessariamente porsi alla forma impersonale della terza persona, che è però anche la forma della presenza intemporale, immutabile e perdurante. Si tratta della determinazione oggettivante, della presenza, da cui si ritraggono i soggetti, le realtà spirituali, che vogliono dirsi soltanto alla prima e alla seconda persona, e che quindi esigono un radicale cambiamento di paradigma.
Il senso della svolta di Ebner sta proprio nella consapevolezza che occorre riprendere il discorso sull’uomo da altre angolazioni, imboccare altri percorsi, trovare nuovi criteri di dicibilità. Il contesto culturale e filosofico in cui vive il maestro elementare è la Vienna fin de siècle, espressione che, al di là di una semplice indicazione cronologica, si è caricata, com’è noto, di una valenza semantica propria, e che è diventata sinonimo di totale destrutturazione della continuità di una tradizione da cui si poteva uscire soltanto attraverso un radicale mutamento. Le provocazioni culturali e filosofiche che vengono dal pensiero austriaco del primi decenni del XX secolo hanno veramente messo a soqquadro le abituali categorie del pensiero occidentale tramutando la filosofia in una terapia, per dirla con Wittgenstein.1 La malattia spirituale dell’Occidente, perché non divenisse «malattia mortale» esigeva una svolta spirituale, o si potrebbe anche dire, una «ripresa» fondativa della «serietà» dell’uomo. Serietà che è il consapevole abbandono di un’ottica oggettivante per ritrovar-si; il pensiero veritativo non può porsi che come pensiero soggettivo. Nasce la filosofia del «punto di vista», per dirla con Rosenzweig, non meno rigorosa di quella dell’essenza, ma che non può più prescindere dalla singolarità ineludibile del soggetto, non più intercambiabile.
2. La filosofia messa in questione
È proprio a questo livello che appare un dato sconcertante per chi professa la filosofia, ne viene annunciata la fine, ma non nel senso del suo compimento, come voleva Hegel, bensì in quello di trovarsi di fronte a delle realtà che, sfuggendo alla presa del suo discorso totalizzante, per essere «incontrate» richiedono il suo «suicidio». Il termine è usato esplicitamente dallo stesso Ebner che scrive:
L’Io e il Tu sono le realtà spirituali della vita. Lo sviluppo delle conseguenze di ciò e la comprensione che l’Io esiste solo nella sua relazione con il Tu e mai al di fuori di questa, potrebbe anche porre di fronte a nuovi compiti la stessa filosofia (da sempre impegnata nell’affermazione dello spirituale), che è crollata per non aver saputo risolvere i suoi problemi consueti e per aver impostato i problemi in modo insostenibile — ammettiamolo pure — e che vive oggi una parvenza di esistenza. La soluzione di tali nuovi compiti comprende naturalmente anche il suicidio della filosofia. Poiché la conoscenza delle realtà spirituali della vita non significa ovviamente niente di meno che la fine dell’idealismo. Di idealismo però vive ogni filosofia, sia che vi aderisca, sia che lo combatta (S., I, p. 85).2
Quest’ultima affermazione potrebbe apparire eccessiva. In realtà per il pensatore austriaco idealismo è sinonimo di ogni pensiero che rimanendo al piano dell’idea o della rappresentazione, manca la vita. In questo senso «ogni filosofia vive di idealismo» (S., I, p. 191). Una lucida e densa pagina del frammento 10 descrive cosa intende il nostro quando muove questa accusa alla filosofia. Scrive Ebner:
L’Io della filosofia non esiste nella realtà. L’Io che si trova nella realtà, che io sono e che posso affermare di me stesso, è qualcosa di diverso dall’Io delle speculazioni filosofiche dei tempi andati e soprattutto è qualcosa di reale — sia nella mia volontà di essere come pure nella mia affermazione — e di molto concreto. Che l’uomo reale sei tu e sono io, questa è la più semplice di tutte le realtà, l’idealismo non è in grado di comprenderla. L’Io non «è», io però sono — è quello di cui la filosofia dovrebbe imparare a rendersi conto, per poi accingersi, se non le è passata tutta la voglia, a svolgere il suo assai precario compito. Ciò equivale a chiederle veramente molto. Finora essa è giunta a comprendere mezza verità, ovvero che L’Io non è. dell’altra metà, ovvero del fatto che il singolo, specifico e concreto uomo — e non una qualsivoglia idea astratta dell’uomo — può dire di sé «Io sono», intendendolo non altrimenti che in maniera oltremodo personale, di questo non si occupa affatto. Se pretendessi dalla filosofia che si interessasse del fatto che io esisto — pretesa che ai suoi occhi suonerebbe come una sfida arrogante — allora mi risponderebbe, dal suo punto di vista a ragione: «Cosa vuoi che importi alla filosofia di te e della tua esistenza? Ha cose più importanti da fare: deve finalmente condurre a soluzione i problemi del mondo e della vita, dell’essere e del pensare e di te potrebbe interessarsi solo qualora tu fossi L’Io “assoluto”». Si esprimerebbe così o in modo simile. A mia volta potrei — e non con minor ragione — controbattere: «Se le cose stanno così che mi importa della filosofia? Ho qualcosa di più importante da fare, devo esistere». E ciò non può essere compreso in ultima istanza se non in senso religioso, come l’imperativo a esistere in rapporto con Dio. Di fatto si mette la filosofia in un non lieve imbarazzo se da essa si pretende che si occupi del fatto che io esisto. Il suo rifiuto di tale richiesta non sarebbe altro che legittima difesa, benché naturalmente essa non lo ammetta. La sfera del personale le è estranea e insolita. E dovrebbe di fatto divenire personale se volesse entrare in tale dato di fatto. Non essa, ma semmai il filosofo ne è in grado; e allora egli non dovrebbe nemmeno presentarsi con la filosofia (S., I, pp. 189-190).
Le implicazioni teoretiche contenute in questo lungo passo, che ho voluto riportare per intero, sebbene ad un orecchio attento ricordino passi analoghi di Pascal o di Kierkegaard, sono veramente rivoluzionarie ed Ebner è ben consapevole di aver imboccato una strada impopolare per il filosofo «professionista». Lo ricorda nell’introduzione ai suoi Frammenti pneumatologici, parlando della recensione critica del professore universitario di Vienna e, tra altri possibili riferimenti, in due passi di per sé eloquenti. Nel «Vorwort» al Versuch eines Ausblicks in die Zukunft, richiamando ancora una volta il giudizio espresso dal professore Adolf Stöhr, che aveva scritto: «Dal punto di vista psicologico-scientifico e da quello filosofico-scientifico, l’opera è totalmente impossibile», Ebner con piena consapevolezza nota: «Tuttavia, la questione è se le realtà della vita spirituale — e in questo libro il discorso riguarda queste realtà, non idee ingegnose o profonde — possano in generale essere colte nello spazio d’osservazione della psicologia e della filosofia» (S., I, p. 722). Lo scetticismo del pensatore è evidente proprio se si riflette sulla «principialità» della parola. Con una punta di ironia, nelle Glossen zum Introitus des Johannes-Evangeliums, Ebner scrive:
Che all’inizio della sua vita spirituale sta la parola, la parola che era in principio, ciò l’uomo lo può capire in se stesso in una consapevolezza ultima che implica il proprio rapporto a Dio. E il primo che ha anche espresso questa visione è stato proprio l’evangelista Giovanni. Certamente i professori di filosofia, che, quando incontrano l’espressione logos, automaticamente, poiché pensano risparmiando, reagiscono con un «Ah, Neoplatonismo!» non comprendono ciò (S., I, p. 405).3
Ancora nei frammenti del Diario del 1916-17, Ebner aveva annotato:
L’inclinazione a intendere la vita come un sogno l’uomo la porta con sé già venendo al mondo. Egli nasce per così dire come filosofo idealista. È la «concezione dell’idea» che travia i filosofi a intendere la vita come sogno. L’uomo deve andare oltre il sogno della vita, anche se non è proprio filosofo, se vuol comprendere il significato spirituale della sua esistenza nel mondo. All’inizio di questa comprensione la vita è sempre un sogno. Il filosofo ritiene di essersi risvegliato dal sogno della vita perché analizza la natura di sogno della vita. Non sospetta di solito che il filosofare stesso non è altro che un sognare — un sognare dello spirito (S., I, pp. 27-28).4
In filigrana si può intravedere qui il senso profondo della svolta pneumatologica che si sostituisce alla filosofia. Una filosofia delle realtà spirituali sarebbe impossibile, come impossibile apparirà ad Ebner una «filosofia della parola». La radicale messa in questione della filosofia apre però lo spazio per una nuova autocomprensione del filosofo.5
«Comprendere il significato spirituale della sua esistenza nel mondo», qui è detta laconicamente tutta l’ansia che ha guidato la riflessione ebneriana e per far ciò gli è stato necessario un Umbruch des Denkens, perché il pensiero della determinazione categoriale non era in grado di pervenire a soddisfare quest’ansia, o, almeno, non rispondeva alle esigenze della vita di quell’essere singolare che era Ferdinand Ebner.6 Infatti la filosofia ha, fin dai suoi inizi, formulato il principio di identità, ma lo ha fatto in forma «rappresentativa», o, almeno «ricorsiva», cioè l’affermazione dell’Io aveva come paradigma l’io stesso. Nel frammento 12 Ebner dedica alcune pagine proprio al principio di identità, dove scrive:
Il senso della proposizione originaria era «Io sono» e non invece «Io sono Io»; dell’Io che si-pone-in-relazione (Sich-in-Beziehung-Setzen) con il Tu, non invece nell’assolutizzazione della sua chiusura di fronte al Tu come avviene nell’«autoposizione» che si ha nel principio di identità. Questo è senz’altro la premessa non solo per il principio logico, ma anche di quella presa di coscienza etica dell’uomo circa se stesso; eppure anche dall’«Io sono Io» inteso in senso etico deve derivare in maniera immediata la coscienza che io dovrei essere un altro rispetto a quello che realmente sono (S., I, pp. 231-232).
Le affermazioni che abbiamo appena lette, come pure quelle che seguono immediatamente il passo citato, ci pongono di fronte all’origine della Icheinsamkeit, a quell’io obliquo, al moi di Pascal come Ebner più volte ricorda, cioè all’io oggettivabile e sostanzializzabile nella sua chiusura dentro la «muraglia cinese».7 Alla solitarietà dell’Io viene contrapposta la Ichhaftigkeit che a sua volta è profezia della Duhaftigkeit, ma ciò significa la totale ridefinizione dell’identità dell’Io. Occorre abbandonare il paradigma matematico-rappresentativo se si vuole raggiungere la spiritualità dell’Io, ma ciò significherà immediatamente l’impossibilità della specularità A="A". Il secondo termine non potrà più essere identico al primo, poiché sarebbe un’identità irrelata, chiusa, mentre la possibilità originaria di dire Io è data dalla presenza di un Tu. A questo proposito nel frammento 2 leggiamo:
Quanto più l’uomo si comprende nella spiritualità della propria vita, nella Ichhaftigkeit del proprio esistere, e quanto più decisamente punta a vivere seriamente una vita nello spirito, tanto più chiaramente e nettamente comprenderà che Dio è il vero Tu del suo Io, che egli non potrebbe esistere altrimenti se non in rapporto con Dio — per quanto l’attuale ateismo e la dimenticanza dell’esistenza di Dio possano dire contro ciò. Tanto più chiaro gli diverrà però che esiste un solo Io e che L’Io è l’«unico» di fronte a Dio. Questo Io — e per esprimerlo non si può fare a meno di compromettere la propria persona e dunque di diventare «personali» — è in me stesso e in te … Piuttosto esso non è neanche in me, poiché l’Io non «c’è» di per sé, bensì «io lo sono» (S., I, p. 94).
Già nel Diario del 1916/17 aveva scritto: «L’Io non può mai trovarsi in se stesso e per questo si deve cercare nel Tu» (S., I, p. 34. Parola e amore, p. 57). Se correliamo queste affermazioni ancora con due passi del Diario del 1916 ci rendiamo conto che la radicale messa in questione della filosofia nasce da un’esigenza assolutamente nuova di dire il senso dell’espressione assolutamente originaria «Io sono». Scrive Ebner:
La conoscenza di sé, presupposta intrinsecamente dall’idealismo, non è del medesimo tipo di quella che deriva dalla religiosità di un uomo. la possibilità dell’una si radica nella conoscenza dell’idea. L’altra poggia sul rapporto dell’uomo con Dio. Chi si vede nella luce di un’idea — e può anche aver dilatato quest’idea fino all’idea del divino — non vede ancora se stesso come si vede uno la cui esistenza sta in un rapporto al divino come a una realtà spirituale, in un rapporto del suo vero io con il suo vero tu (S., I, pp. 51-52. Parola e amore, p. 73).
Poco oltre aggiunge:
Nel suo volgersi verso l’autoconoscenza l’idealismo non può mai preservare l’uomo dalla svalutazione della propria esistenza e della vita in genere. Qui si manifesta l’innata tendenza dello spirito all’autoannientamento, una tendenza nichilista che è sempre presente nel sognare. Nel suo rapporto con Dio invece, l’uomo salva il valore della propria esistenza, il valore infinito della vita. L’autoconoscenza dell’uomo religioso, di colui il cui io ha trovato in Dio il suo tu, è liberata da ogni disperazione, da ogni nichilismo e dalla tendenza all’autoannientamento — sebbene essa, più profondamente di quanto lo possa l’idealismo, penetri la frantumazione dell’esistenza umana, e penetri fino al nocciolo dell’esistenza umana (ivi, Parola e amore, p. 74).
Il rimando al dato religioso nei passi che abbiamo letti può apparire sviante, quasi come una «metábasis eis állo génos». In realtà mi sembra che si possa leggere in essi anche il recupero di quello statuto originario della filosofia come «passione per l’assoluto», per l’originario. Il filosofo dovrebbe essere colui che testimonia questa passione per l’assoluto che non può non aprire, pena il suo possibile occultamento, ma anche la scomparsa della pienezza del senso cercato, ad una dimensione sacrale del senso dell’esistenza. La messa in questione della filosofia acquista in Ebner proprio questa valenza di domanda di assolutezza che risponda e risolva la «frantumazione» dell’esistenza. Ogni altro percorso che non incontri un Tu assoluto rischia di tramutarsi in dispersione alienante, in disperazione nichilista o in autoesaltazione della ragione che speculativamente rappresenta soltanto se stessa.
Proviamo a comprendere ora come si è configurata la svolta del pensiero reclamata da Ebner attraverso la posizione principiale della parola.
3. Principialità della parola e questione dell’essere
«“In principio era la parola”, inteso nella pienezza del suo senso, ciò non significa nient’altro che la restituzione dell’essere nella parola». (S., II, p. 290). Qual è in questa prospettiva il vero significato dell’affermazione «io sono» se non può più essere assunta nella sua autosufficienza? Possiamo tentare una chiarificazione a tre livelli in cui il primo mette in risalto il pronome personale (io sono), il secondo il verbo (io sono) e infine il terzo l’intera proposizione (io sono).
L’affermazione alla prima persona circoscrive immediatamente i limiti e le possibilità. Ci dice innanzi tutto che si tratta di un soggetto personale che affermando qualcosa di sé, in questo caso la propria identità, lo fa attraverso una connotazione ontologica. L’affermazione della propria identità è una sorta di evento d’essere che acquista il suo senso compiuto nella relazione all’esistenza, ma è anche epifania di uno stupore ontologico dove il predicato non dice «qualcosa» del soggetto, ma semplicemente ne è la condizione di possibilità di affermazione. Dir-si significa riconoscer-si nell’essere, nella concretezza di un mistero, che è insieme mistero dell’essere e mistero della parola che cerca di esprimerlo: io. L’affermazione di sé non è autoaffermazione, manca la ricorsività, e, soprattutto, manca l’originarietà. Da un lato quindi, tutta la forza dell’affermazione dell’Io nella sua unicità di io personale, ma, dall’altro, il confronto con l’essere mostra che il soggetto si afferma in maniera «derivata». Io sono, perché sono dato a me stesso.
Credo che questa affermazione, che ci permette di passare al secondo livello di lettura, sposti completamente l’asse della riflessione. Quando io affermo di me che sono, riconosco la non principialità del mio io e insieme lo stupore di qualcosa che è in se stesso un evento. Io sono, ma non da me stesso. L’affermazione come autoaffermazione della propria esistenza è in qualche modo l’affermazione dello stupore di trovarsi ad essere. Sono costituito in una originaria passività, che si esprime nel riconoscimento di una «datività», che nel dirsi al «nominativo» della prima persona manifesta una struttura di bisogno, il bisogno d’essere o del proprio essere come bisogno. Questa ontologia «indigenziale» è, in un certo senso, la stessa che si può reperire nella Geworfenheit heideggeriana, soltanto che là assistiamo anche al tentativo di acquisizione di un’autenticità intraesistenziale che incatena l’esser-ci al suo ci, alla sua finitezza e non gli permette di aprirsi. In Ebner, al contrario la stessa affermazione io sono è l’indice dell’indigenza aperta e lo è proprio nella sua struttura di espressione.
Infatti, l’affermazione di sé nella sua interezza, io sono, ha il carattere grammaticale di un’espressione e come tale rinvia immediatamente a un fuori di sé che è il referente destinatario dell’espressione stessa. In questo senso «io sono» è la parola originaria. È la manifestazione elementare dell’aver-la-parola, ma anche della spiritualità, Ebner la chiama «asserzione esistenziale».8 Per illuminare meglio il problema ci possiamo richiamare al frammento 14 che, proprio illustrando l’asserzione esistenziale in riferimento alla personalità, si presenta come uno dei più densi e decisivi dell’intera opera ebeneriana:
L’asserzione esistenziale di se stessa nella «parola originaria» — scrive Ebner — da parte della «persona parlante» era l’autonominazione dell’Io, che però non costituiva ancora un nome. Quando l’Io divenne in essa consapevole della propria esistenza — mediante la parole — e al tempo stesso si pose in rapporto con il Tu, poiché questa è la premessa dell’asserzione, l’Io dovette ovviamente divenir consapevole anche dell’esistenza del Tu. Così all’asserzione esistenziale nella «prima» persona seguì immediatamente quella nella «seconda persona», all’«Io sono» quel «Tu sei» che gli sta già intimamente e spiritualmente alla base (S., I, p. 254).
Ciò che Ebner propone qui è veramente rivoluzionario; da un lato è la proposta di una sorta di ontologia linguistica, dall’altro, in maniera consequenziale, troviamo l’affermazione che il linguaggio ha ontologicamente una struttura tuale. Parlare è parlare a qualcuno e quindi la stessa asserzione «io sono» in quanto «detta» è l’inizio della consapevolezza di essere «di fronte» a qualcuno, un qualcuno di cui si è bisognosi per affermare se stessi.9 L’essere accede allo spirito, alla dimensione personale e in tal modo si trasforma in linguaggio. Scrive Ebner:
Come non si può affermare l’esistenza dell’Io nella terza persona senza sfidare la contraddizione del pensare come quella dello spirito del linguaggio, così nemmeno quella del Tu. Le cose stanno altrimenti con il moi di Pascal che è impegnato sulla via della «spersonalizzazione». Non l’Io «è», bensì «io sono» — e anche: non il Tu «è», bensì «Tu sei». Nelle proposizioni «io sono» e «tu sei» — e solo in esse — viene affermato ed espresso un essere «personale»; non però nel senso di un esistere «sostanziale», la cui affermazione non può avere altra forma grammaticale che quella della «terza persona» (ovvero con il verbo essere in «è» e «sono») e in una certa visuale dà come premessa l’entrata in vigore della «tendenza alla sostanzializzazione» del pensare con la sua oggettivazione di tutto l’essere e dal punto di vista linguistico la denominazione che con questa va a braccetto. L’«è» esprime sempre in certo modo un essere impersonale; non solo quando sta in relazione con qualcosa di impersonale di per sé (animali, piante, cose), bensì anche quando viene impiegato verso una persona sia questa un uomo oppure Dio. L’asserzione dell’essere nella prima e nella seconda persona è sollecitazione e appellazione di un essere «soggettivo» (e qui intendiamo «personale»), quella nella terza persona sollecitazione e appellazione di un essere «oggettivo», «impersonale», «sostanziale». La denominazione sostantiva di ciò che di fatto esiste nell’«Io sono» e «Tu sei», non tocca di per sé mai direttamente questo esistente — nella sua personalità — bensì indirettamente per la deviazione della «terza persona», ovvero tramite la sfera della denominazione nel suo divenire parola sostantiva e dell’affermazione d’essere «oggettiva». Nella spiritualità della sua esistenza, nel suo essere immediato e «personale», l’uomo è senza nome (S., I, pp. 254-255).10
La correlazione essere e parola che qui viene manifestata apre a una dimensione ontologica assolutamente nuova e provocatoria per il pensiero filosofico che, per brevità, possiamo chiamare ontologia «pneumatologica», e che in realtà pone fortemente l’accento sulla traduzione linguistica attraverso cui l’essere «è detto». In realtà, la pneumatologia la si può pensare a partire da una «grammatica filosofica» e anche da una «filosofia della grammatica» che ne costituiscono dei presupposti fondamentali (cfr. S., II, pp. 240-41).11 Il rapporto della filosofia con il linguaggio è tutt’altro che estrinseco ne è anzi una dimensione costitutiva.12 Il problema è però nella struttura fondamentale del linguaggio che è costitutivamente relazione13 dell’Io al Tu, a sua volta espressione dello spirituale nell’uomo, e la filosofia
non comprende del tutto questa relazione … Essa ha di mira soltanto un momento, il rapporto dell’Io a se stesso (l’io riflettente) e misconosce il rapporto dell’Io a quell’altro … Se la filosofia avesse considerato e inteso l’io nel suo rapporto al tu (nel quale e attraverso il quale esso esiste) immediatamente essa si sarebbe imbattuta dall’interno con il problema del linguaggio, riconoscendo in questo l’autentico centro, il centro gravitazionale dei suoi problemi, allora avrebbe anche compreso se stessa (S., II, p. 254).
Vorrei insistere ancora su alcuni aspetti che in questo orizzonte di riflessione vengono rilevati da Ebner e che riguardano il rapporto tra parola, pensiero e verità, da un lato e tra parola e proposizione dall’altro. Naturalmente è da qui che prende le mosse una riflessione sullo Sprachdenken per cui ogni pensiero non è altro che articolazione di proposizioni che rimandano alla concretezza temporale di un soggetto parlante, altrimenti siamo di fronte a un pensiero «muto», il che però è manifestamente assurdo.14 Anche il pensare è un parlare nella verità. Scrive Ebner:
La parola è la mediazione di realtà del pensiero. La relazione reale (Wirklichkeitsbeziehung) del pensiero è la verità. Nella parola è la verità — ma anche la menzogna. Nella parola, cioè nel rapporto dell’Io al tu. Verità è aprirsi, manifestarsi, rivelazione. La menzogna è un rinchiudersi. La menzogna è possibile soltanto nel rapporto dell’uomo all’uomo. la verità è possibile soltanto nel rapporto dell’uomo a Dio. L’uomo per vedere il regno di Dio, deve essere rinato nello spirito e nella verità. Davanti a Dio, all’uomo non è possibile alcuna menzogna. L’uomo nel quale c’è menzogna non esiste davanti a Dio, egli è lontano da Dio. Un’assoluta solitarietà del pensiero escluderebbe la verità del pensiero. Il senso ultimo del cogito che si compie in ciò, che esso cammina attraverso la parola (S., II, p. 260).
L’asserzione esistenziale «io sono» permette di cogliere, proprio per la sua principialità, il senso fondamentale della parola nella sua pregnanza spirituale e nella sua rilevanza personale. In un’annotazione del 19 giu. 1919 Ebner scriveva:
La parola non è un «materiale» per l’espressione artistica come suono e colore e, in un senso completamente diverso da questi, è di origine spirituale. Nella parola l’uomo è stato creato. La parola non è dall’uomo, ma essa ha creato in lui l’«io». L’io è però l’innalzamento della coscienza all’essere-cosciente. Suono e colore, anche vissuti nella «spiritualità» della loro origine, non potrebbero mai innalzare la coscienza all’essere-cosciente, creare l’io (S., II, p. 252).
Dalla coscienza (Bewußtsein) all’esser-coscienti (Bewußt-Sein), non è soltanto un gioco di parole, quanto piuttosto l’autentico passaggio dal Traum vom Geiste al Leben vom Geiste, ma ciò per il pensatore austriaco implica anche una vera e propria «mutazione genetica», che in lui significa l’adesione a quella Parola che era in principio che è la Parola di Dio che facendosi uomo è diventato il prototipo dell’aver-la-parola. Nelle sue Glossen zum Introitus des Johannes Evangeliums leggiamo:
Il valore conoscitivo della proposizione «la parola è da Dio» non sta nella sfera scientifica o filosofica, ma piuttosto in un orientamento del pensare e del conoscere in cui questi tendonoal senso autentico e ultimo del cogito. Questo è il comprendere-se-stesso dell’Io nella sua solitarietà, è la conoscenza del peccato nell’assoluto isolamento dell’uomo davanti a Dio. L’uomo nel suo aver-la-parola è capace di comprendere se stesso nella spiritualità del suo vivere, nella parola è capace di comprendere il suo rapporto a Dio e il senso dell’esigenza di questo rapporto e soprattutto egli nel suo aver la parola, come fondamento della sua spiritualità, è in grado di comprendere il rapporto di Dio verso di lui, poiché la parola è rivelazione di Dio. E in tal modo, la proposizione «la parola è da Dio» implica la conoscenza di una verità in sé, la verità del suo vivere spirituale, la conoscenza della verità e della grazia che è venuta attraverso il Cristo (S., I, pp. 408-9).
4. La pneumatologia come nuova condizione di possibilità di «dire l’umano»
Si comprende quindi, a partire da questi risultati, perché Ebner possa dire che «Ogni vera pneumatologia è Sprachwissenschaft nel senso più profondo, sapere della parola, e un’interpretazione del Prologo del Vangelo di Giovanni» (S., II, p. 249).
L’esigenza della svolta pneumatologica si presenta come l’unica condizione di possibilità di dire qualcosa dell’uomo e sull’uomo in quanto soggetto personale. L’uomo è un essere spirituale e la parola come dato oggettivo si manifesta come il luogo epifanico della realtà dell’uomo che è originariamente e primariamente realtà spirituale, che concretamente si realizza come Beziehung zwischen Ich und Du.
Come abbiamo ormai compreso, ciò che Ebner richiede non è tanto la negazione della filosofia, anche se ne annuncia il suicidio, bensì il suo oltrepassamento. La filosofia non può dire tutto perché non tutto l’essere può dirsi secondo le categorie dell’oggettività. L’autoconsapevolezza dell’indicibilità dell’individualità è antica, ma la filosofia ha semplicemente relegato questa individualità nell’inerzia apofatica e muta. L’uomo in quanto soggetto spirituale è l’indicibile che ha la parola e da questa consapevolezza inizia un percorso che trasforma il paradigma della dicibilità dell’umano come Beziehung.
In linea e in perfetta continuità con la domanda da cui muove il pensiero moderno, la domanda di Descartes nelle Meditationes de prima philosophia, il pensiero successivo ha coniugato l’io con la forma rappresentativa per eccellenza del verbo essere, la terza persona singolare è. È da notare che la scoperta cartesiana, nelle Meditationes, suona Je suis, j’existe, che però riflessivamente pone su di sé la ist-Frage propria del pensiero filosofico: qu’est-ce qu’une chose qui pense? Io sono è diventato une chose, una sostanza pensante che trasforma l’espressione io sono, a cui dovrebbe legittimamente seguire un tu sei, nella formula astratta che li abbraccia entrambi, ma negandoli come io e come tu, l’io è. L’io ha trovato il suo lógos rappresentativo che lo mantiene saldo nella sua presenza, ma ha perso la sua singolarità esistenziale e spirituale. Proprio questa è invece, l’esigenza di un pensiero che non vuole rinunciare alla concretezza del Leben in nome dell’astratto inverante Denken. Questo è il punto in cui si innesta la riflessione ebneriana sul problema dell’essere personale.
A dire il vero anche la filosofia contemporanea che si colloca nella direttrice cartesiano-kantiana era arrivata alla consapevolezza critica del fallimento delle possibilità della rappresentazione dei soggetti personali. Si pensi allo Husserl di Erste Philosophie, del 1925, dove viene affermata l’impossibilità che l’altro possa essere assorbito entro i miei schemi percettivo-rappresentativi. O, ancora all’impasse manifestata nel 1929 in Logica formale e trascendentale, quando viene affermata la «fattualità» dell’Io. Infine alla Krisis, dove troviamo un’espressione che ha fatto molto discutere e che ci avvicina al mondo semantico di Ebner: «Philosophie als strenge Wissenschaft, der Traum ist ausgeträumt». Infine un altro riferimento a un contesto culturale diverso, ma anch’esso profondamente significativo; nel 1934 Jean Nabert si chiedeva: La conscience peut-elle se comprendre?15 La questione resta certamente intraegologica, ma la si potrebbe cogliere come percezione dell’aporia dell’autorappresentazione. L’Icheinsamkeit, così, abbiamo visto, la chiamerà Ebner, perde la sua sicurezza soddisfatta come diviene evidente per esempio nella monadologia trascendentale di Husserl.
Ebner si colloca immediatamente oltre la filosofia, perché «Io e Tu non sono rappresentazioni» (6 feb. 1917). Il cambiamento di rotta si presenta dunque, nella svolta pneumatologica, come unica possibilità di dire l’uomo nella concretezza del suo vivere spirituale senza pietrificarlo nella rigidità impersonale della rappresentazione. L’uomo è originariamente spirito e la parola in lui è la manifestazione di una dimensione altra: «Das Geheimnis des Wortes ist das Geheimnis des Geistes» — «Il mistero della parola è il mistero dello spirito» (S., I, p. 35). Ebner fa anche notare, però, che esiste una grande differenza tra la concezione dell’uomo come spirito e come realtà spirituale. «Lo spirito nell’uomo deve essere inteso nella sua relazione alla problematicità dell’esistenza individuale» (S., II, 173), mentre «la realtà spirituale dell’Io risiede nella sua relazione al tu» (W., ivi). La personalità — nel senso forte che, come abbiamo visto, il pensatore austriaco assegna a questo termine, l’essere-persona — si manifesta nel sum-cogito-volo.16
A più riprese Ebner afferma che la pneumatologia è «la dottrina del significato delle tre persone. — La personalità è il Grundproblem della pneumatologia». Tuttavia, essa è, al tempo stesso, un «Wissen vom Wort und um das Wort» (S., II, p. 271). L’instancabile riflessione sulla parola, che ha fatto di Ebner il Bedenker des Wortes, ma anche, per una curiosa e interessante valenza del suo cognome, un Ebner des Wortes,17 nella sua tridimensionalità (haben-hören-machen), non poteva non riferirsi, come abbiamo mostrato sopra, anche all’articolazione nella proposizione che manifesta sempre una doppia logicità, una astratta, grammaticale e una concreta, pneumatica (cfr. S., II, p. 263). Riflettendo sui gradi e momenti dello sviluppo del linguaggio Ebner si chiede: «Dalla parola originaria, il cui senso era “io sono”, alla proposizione “tu sei”, al vocativo, dal verbo al sostantivo, dal vocativo al nominativo, dalla proposizione alla prima persona a quella alla terza — quali interni movimenti spirituali vi sono implicati?» (S., II, pp. 281-282). L’implicazione più rilevante è che «das Wort ist, geistig verstanden, Bewegung» (ivi), ma anche che «Urkasus ist der Vokativ» (ivi). Il nominativo non è che il risultato di un’astrazione? Certamente non è il caso originario. In un contesto molto diverso e a partire da presupposti totalmente altri ritroveremo posizioni analoghe nella riflessione di Emmanuel Levinas.
La svolta di Ebner può essere colta in una lucida pagina di sintesi:
Realtà fondamentali da cui dovrebbe procedere una pneumatologia pensata come un orientamento pensabile, «oggettivo», nelle realtà della vita spirituale: 1 — L’uomo è un essere parlante (questa sarebbe la cosa della pneumatologia: mostrare il significato dell’aver-la-parola come espressione della relazione dell’io nell’uomo al tu). 2 — Nella coscienza dell’uomo è dato come fattore costitutivo, in qualche senso il sapere su Dio (la pneumatologia dovrebbe mostrare che questo sapere risiede nella Duhaftigkeit della coscienza umana, in connessione con il fatto che l’uomo ha la parola, in un certo senso è identico con essa). 3 — L’uomo come uditore della parola è guidato dalla fede nella parola (S., II, p. 284).
Se accettiamo l’affermazione ebneriana che «Der Traum vom Geiste wird nur von jenem Ich geträumt, das sein wahres Du noch nicht gefunden hat» — «Il sogno dello spirito è sognato soltanto da quell’io che non ha ancora trovato il suo vero tu» (S., II, p. 347), forse siamo ancora nell’orizzonte del Vorstellungsleben, del Bewußtsein, non abbiamo ancora compiuto quell’«innalzamento al Bewußt-Sein» reso possibile soltanto da un salto: Leben vom Geiste. Essere io significa continuare a cercare il proprio tu. Aver bisogno del tu, per uscire dalla solitarietà della «muraglia cinese».
Testo della relazione tenuta all’Università di Trento in occasione del Congresso Internazionale Ferdinand Ebner filosofo della parola, i cui Atti sono in corso di stampa presso la Morcelliana Editrice di Brescia.
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Per un primo orientamento si possono vedere i saggi di N. Leser, «Der zeit- und geistesgeschichtliche Hintergrund des Werkes von Ferdinand Ebner», J.I. Jensen, «Ebner und seine Zeit», P. Kampits, «Der Sprachdenker Ferdinand Ebner», nel volume che raccoglie gli Atti del Simposio di Gablitz per il cinquantesimo della morte e il centenario della nascita di F. Ebner, Gegen den Traum vom Geist. Ferdinand Ebner, Salzburg 1985, rispettivamente alle pp. 12ss, 33ss, 88ss. ↩︎
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Le opere di Ebner verranno citate direttamente nel testo con la sigla S. (Schriften I-III, a cura di Franz Seyer, Kösel-Verlag, München 1963) seguita dal numero romano del volume e da quello della pagina. Anche i Frammenti pneumatologici verranno citati nell’edizione tedesca, tuttavia è facilmente reperibile la traduzione italiana che riporta anche la paginazione del testo tedesco. ↩︎
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Cfr. anche S., I, p. 419. ↩︎
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Traduzione italiana, Ebner, Parola e amore, Rusconi, Milano 1983 pp. 50-51, il corsivo è mio. Nel 1998 è stata pubblicata una nuova edizione. ↩︎
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Alcune affermazioni del Diario del giugno e luglio 1909 sono veramente molto dure. Cfr. S., II, p. 305. ↩︎
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È singolare quanto scrive il Nostro nel «Vorwort» al Versuch, già citato, ricordando il Grundgedanke con cui si aprono i suoi Frammenti pneumatologici: «Il pensiero fondamentale del libro che non mi è concesso di trattare esaurientemente nelle particolarità del suo sviluppo — se esso può in generale essere trattato esaurientemente in maniera astratta —, esso è un pensiero “rivoluzionario”, il pensiero più rivoluzionario che l’umanità dovrebbe pensare. Ma esso non è da me. E in me, da cui esso è, esso non è neppure un pensiero, bensì un vivere — il vivere. Tuttavia che il fatto rivoluzionario di questo pensare e vivere non possa essere percepito e quindi neppure giungere ad effetto è divenuto perciò da più di un millennio la preoccupazione più fondamentale. E che malgrado tutto esso sia ancora percepito come la rivoluzione del cuore e dello spirito questo libro è meno un tentativo e un contributo che un sintomo» (S., I, pp. 721-722). ↩︎
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«L’Io che si chiude al Tu non è il vero e proprio Io, bensì per dirla in termini grammaticali, il casus obliquus dell’Io, il mi-a me-me, il moi di Pascal: il tentivo dell’uomo di esistere senza Dio oppure in un equivoco circa il rapporto dell’uomo con Dio. È l’uomo senza Dio, dunque, che diviene “oggetto della psicologia”. Colui però che ha ritrovato l’autentico rapporto con Dio e in esso ha realizzato e salvato l’esistenza del proprio Io, cioè la propria personalità, è psicologicamente inafferrabile. Psicologicamente inafferrabile è anche l’essenza del linguaggio. Poiché esso è l’espressione oggettiva del fatto che l’Io nell’uomo ha un rapporto con il Tu; l’espressione dell’aprirsi-al-tu da parte dell’Io che proprio per tale motivo non è più comprensibile dal punto di vista psicologico. Il linguaggio non appartiene per sua essenza alla vita naturale e nemmeno a quella psichica, ma invece a quella spirituale; e perciò, per esser precisi, non è possibile alcuna psicologia del linguaggio e ciò che da questa viene elaborato …» (S., I, pp. 176-177). ↩︎
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Si può vedere ciò che Ebner scrive nel Grundgedanke ai suoi Frammenti (S., I, pp. 81-82). Intorno a questo Grundgedanke e alla sua elaborazione teoretica si veda il bel libro di A.K. Wucherer-Huldenfeld, Personales Sein und Wort. Einführung in den Grundgedanken Ferdinand Ebners, Wien-Köln-Graz 1985. Lo stesso autore aveva già dedicato un breve saggio, «Der Grundgedanke Ferdinand Ebners», nel volume di Atti di Gablitz citato. ↩︎
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Per un primo approccio a uno dei problemi che ritengo cruciali dell’intera proposta ebneriana rimando al bel saggio di B. Casper, «Bedürfen des Anderen und Erfahrung Gottes. Zur religionsphilosophischen und theologischen Bedeutung des Werkes Ferdinand Ebners», nel volume degli Atti di Gablitz citato, pp. 128ss. ↩︎
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Si veda anche la suggestiva annotazione del 1º set. 1921 (S., II, p. 285). Si comprende da queste annotazioni di Ebner perché «dare il nome» è una rinascita di un essere nello spirito. Cfr. p. 275. ↩︎
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Cfr. la suggestiva annotazione del 14 dic. 1917 (S., II, p. 245). ↩︎
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Infatti, scrive Ebner: «Il problema della parola è il problema dello spirito. Nel problema della parola, anche se non sono risolti tutti i problemi della filosofia, sono tuttavia sbrogliati. Presupposto che la filosofia ha il proprio autonomo significato accanto alla scienza della natura e che ha il proprio significato appunto nel fatto che fa suo il problema dello spirito, allora il problema della parola è giustamente il suo autentico problema. Finora essa lo ha eluso, lo ha sempre sfiorato soltanto occasionalmente. In un unico caso essa lo ha preso in un’intenzione totalmente scettica che era uno sbaglio e un errore nel senso più profondo. Infatti chi si accosta al problema del linguaggio senza fiducia nella parola, senza fede nella parola, costui non comprende assolutamente il significato ultimo della realtà che l’uomo ha la parola. Sta nell’essenza della parola esigere la fede. Sta nella sua essenza che nell’attualità del suo essere data implichi ed esiga la posizione della personalità. Posizione della personalità, proprio questa è la fede» (S., II, p. 255). ↩︎
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Tra i tanti passi possibili si veda quanto scrive Ebner il 29 lug. 1921: «Le realtà della vita spirituale, l’io e il tu, sono “soggettivamente”, la parola, in cui è dato il rapporto di entrambi, l’uno all’altro, è “oggettivamente”. Propriamente la parola nella sua oggettività è al di fuori dell’Io e del tu, poiché essa li comprende entrambi nel loro rapporto reciproco: l’io e il tu sono in essa. Ma d’altro canto, la parola non è nulla senza l’io e il tu; se essa non comprende in sé il rapporto di ambedue è un segno morto, una morta astrazione» (S., II, p. 275). ↩︎
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«Cos’è una proposizione? — si chiede Ebner — Un pensiero divenuto parola e quindi che parla a un altro, che rivolge la parola a un altro. (E che cos’è un pensiero? Un essere riflesso; non semplicemente coscienza, bensì essere nella coscienza, nella riflessione della coscienza, in altre parole, essere-cosciente [Bewußt-Sein]). Ma la parola non è forse in generale, il presupposto interiore, spirituale del cogito? La parola, cioè ciò in cui è posto e presupposto il rapporto dell’Io al tu, ciò in cui questo rapporto è realiter dato. Il cogito nella sua solitarietà (Icheinsamkeit) comprende se stesso tanto poco quanto il sum. Esso non trova il proprio fondamento nella parola. L’uomo pensa perché ha la parola. Una proposizione è un pensiero giunto a se stesso e alla sua chiarezza nel suo divenir parola … . Un pensiero falso è un pensiero che non ha trovato la sua giusta parola. Ogni vero pensiero implica la sua giusta parola. Il divenir parola è il rovesciamento della solitarietà del pensiero … . La parola come proposizione comprende in sé la relazione dell’Io — quella del pensante — al tu» (S., II, pp. 283-284). Cfr. anche l’annotazione del 27 giu. 1918, p. 249. ↩︎
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Testo rimasto inedito e pubblicato ora in appendice a J. Nabert, Le désir de Dieu, Cerf, Paris 1996. ↩︎
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Scrive Ebner: «La manifestazione della personalità nel sum-cogito-volo: il fondamento spirituale dell’autocoscienza, del pensare e volere è la realtà dell’avere la parola. Attraverso la parola è costituito lo spirituale nell’uomo e collegato a un rapporto con qualcosa di spirituale fuori di lui. L’io è possibile soltanto attraverso la parola. Dietro il sum come dietro il cogito sta il volo come la peculiare realtà dell’io. La parola e l’amore. Anche l’amore, come la parola, si comprende come rapporto dell’io al tu» (S., II, p. 178). ↩︎
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Ebner è in tedesco il «regolo», c’è in esso la risonanza della misura precisa, esatta, che vale soprattutto nell’arte del costruire. ↩︎