Dialegesthai è una rivista di filosofia di prevalente orientamento antropologico-morale. Essa intende diventare non solo un luogo per pubblicare e diffondere studi scientifici, ma anche un forum dove coltivare la dimensione dialogica della filosofia. In questo modo Dialegesthai aspira ad essere un luogo di raccordo ideale con iniziative o istituzioni che riflettono sull’interculturalità, sui diritti umani, sul dialogo interreligioso.
La filosofia nel suo significato specifico, non soltanto come ricerca di un’arché, ma soprattutto come raggiungimento di una dimensione «sapienziale» (sophía) nasce tra le strade e le piazza di Atene nella forma del dialogo. Dialogo socratico innanzi tutto, dialogo di un uomo che si riconosce come «colui che sa di non sapere», poi dialogo platonico che fa del filosofo l’«amico delle idee» capace di rendere conto della verità della realtà nella comprensione «speculare-speculativa» di essa, e quindi capace di usare l’arte dialettica. Quest’ultimo termine avrà un’importanza tutta propria nella storia del pensiero occidentale. Il dialettico, come lo definisce Platone nella Repubblica, è colui che è capace di lógon didónai tes ousías («dar ragione dell’essenza»), a sé e agli altri, in altri termini capace di produrre un’argomentazione, o, che è lo stesso, capace di esibire e manifestare in un discorso vero la verità della realtà. Questo è il presupposto del procedimento categoriale di Aristotele dove la relazione tra l’essere, il pensiero e il linguaggio veritativo diventa ancora più cogente. Tuttavia, la categorialità, nella sua struttura argomentativa, si presenterà come reductio ad unum della verità dell’ente alla verità dell’essenza. Il filosofo è colui che risponde, o cerca di rispondere, alla questione «che cos’è?». La dimensione dialogica è praticamente scomparsa dalla filosofia che sarà sempre più esercizio dell’arte dialettica, fino a identificarsi tout court con essa nella dialettica speculativa di Hegel.
Il rigore dell’argomentazione, l’orthótes, la verità come esattezza e come conformazione all’essere, to ón hos alethés («l’ente come vero»), o l’adaequatio rei et intellectus, inaugurano un modello di scienza assolutamente nuova, la próte philosophía, il cui oggetto specifico saranno i rhizómata pánton («radici di tutte le cose»), la cui originarietà è metá ta physiká e da questi sorgeranno i principi, condizioni di possibilità della determinazione categoriale. Dialettica e metafisica assumeranno una relazione decisiva.
Non abbiamo naturalmente la pretesa di riscrivere semplicisticamente la storia del pensiero filosofico. Riprendendo l’antico termine dialégesthai («dialogare») vogliamo ripetere, da un lato, l’esigenza del rigore argomentativo del discorso vero, che oggi spesso scompare dietro fumose asserzioni incapaci di esibire una interna coerenza di verità, ma dall’altro, ritrovare la dialogica prima della dialettica, che significa anche offrire una «testimonianza» della verità, non soltanto argomentativa, bensì anche come «passione personale» di ricerca della verità. Vogliamo situarci in questo spazio intermedio che oggi si presenta con un’urgenza nuova, in gran parte ancora da pensare, senza arroganza e senza la pretesa antidialogica di essere portatori di una verità semplicemente da comunicare. Vorremmo proporre una sorta di apologia della verità (dialogo) contro la certezza (violenza).
Questa correlazione che, a prima vista, può apparire sconcertante, è stata elaborata e presentata da uno dei grandi testi della filosofia del Novecento, la Logique de la philosophie di Erich Weil che scrive:
L’uomo è un animale dotato di ragione e di linguaggio: ciò vuol dire ed è destinato a dire esattamente ciò che sembrava prima sorprendente, cioè che gli uomini non dispongono ordinariamente della ragione e del linguaggio ragionevole, ma che debbono disporne per essere pienamente uomini. L’uomo naturale è un animale; l’uomo quale egli vuole essere, quale egli vuole che sia l’altro perché egli stesso lo riconosca per suo uguale, deve essere ragionevole. Ciò che la scienza descrive è soltanto la materia a cui bisogna ancora imporre una forma, e la definizione umana non è data perché si possa riconoscere l’uomo, ma affinché lo si possa realizzare (p. 5).
Secondo la visione classica, il superamento non dialettico della negatività consiste nel vivere secondo ragione, cioè nell’eliminazione di quegli elementi di violenza presenti originariamente nell’uomo. In questo senso, per Weil, la riflessione del filosofo e della filosofia è il cammino della filosofia nel mondo perché la violenza scompaia dal mondo. Ma la vita secondo ragione non è una necessità, bensì una scelta, una «scelta prima» (p. 59) la definisce Weil. La violenza e la libertà sono gli elementi che definiscono l’uomo; la violenza è originaria, radicale e irriducibile e la libertà si afferma soltanto sul fondo della violenza. Prendere sul serio la violenza pura, significa mettere in luce il fondamento della filosofia che non è una qualche necessità, ma la libertà dell’uomo con la sua volontà di coerenza e di saggezza che in tal modo si innalza al di sopra della sua finitezza. Weil, ripetendo Kant, comprende l’uomo come «ragionevole» (nell’aggettivo è detta una possibilità), ridefinendolo come «animal rationabile». Egli può scegliere la ragione: «invece di dire che l’uomo è un essere dotato di discorso ragionevole, noi diremo che egli è un essere che può, se lo sceglie, essere ragionevole, che egli è, in una parola, libertà in vista della ragione (o per la violenza)» (p. 68). Quindi c’è la filosofia perché l’uomo è volontà di senso, volontà di un mondo sensato e la filosofia è il discorso di un essere ambiguo la cui altra possibilità è la negazione del senso o la violenza. «Il discorso si forma, l’uomo forma il suo discorso nella violenza contro la violenza, nel finito contro il finito, nel tempo contro il tempo» (p. 69).
La tentazione della violenza è quella del discorso esaustivo, totale e totalizzante, della certezza assoluta; è il discorso che si formula secondo la formula «tutto è…», con l’implicazione di una teoria della verità assoluta affermata come totalità. Gran parte del pensiero contemporaneo ha reagito alla filosofia della totalità, della determinazione completa, conscia che la finitezza è frammento, ma frammento di verità che ha bisogno del frammento di verità che altri può offrire come dono dialogico. Uno dei grandi maestri di questa prospettiva è stato certamente Franz Rosenzweig, quando asseriva in Il nuovo pensiero che «nel dialogo vero qualcosa accade sul serio», che noi abbiamo bisogno dell’altro e che ciò significa «prendere sul serio il tempo». Le riflessioni di Levinas che proseguono queste provocazioni sono note.
L’intera struttura dell’esistenza sarà quindi dialogica, sia perché abita uno spazio comunicativo costituito dal linguaggio, sia perché ciò che la costituisce intimamente è la domanda. Certamente noi siamo costituti più da domande che da risposte e ciò trasforma anche la nostra posizione nei confronti della verità. Una verità dialogica si pone nell’ordine della prospetticità relazionale, certa nell’incertezza, certa della propria porzione di verità che non esaurisce la totalità della verità. Verità finita disposta a lasciarsi integrare con le altre prospettive di verità, ma anche disponibile a donare la propria porzione di eredità di verità. Non proponiamo un pensiero rinunciatario, né relativistico, bensì relazionale, convinti che la verità, madre di tutti non è figlia a nessuno.
In questa logica la filosofia diventa pensiero militante, non più attento soltanto a rendere ragione di ciò che è stato, ma anche a cercare le faticose strade di umanizzazione e di senso di cui l’uomo contemporaneo ha bisogno. Per questo lo spazio della nostra pagina telematica, la nuova agorà, è aperto a quanti vogliano partecipare a questo lavoro e intendano porre a confronto i risultati sempre provvisori della loro ricerca con quello di altri. Questo cammino è certamente di libertà, ma anche di responsabilità.
I campi di questo lavoro sono quello etico-antropologico, religioso (in cui il dialogo è la vera sfida del prossimo futuro), interculturale, pedagogico, ma anche ontologico-metafisico, nel senso originario del termine. Un pensiero dialogico è un pensiero della differenza e le differenze ridisegnano l’identità come differenza, pensiero del dono e dell’interdipendenza relazionale in cui nessuno è il custode del segreto ultimo della verità.