Silenzio e COVID-19

Silenzio! La bellezza del silenzio che fa scoprire i rumori della natura… lo scorrere dell’acqua, il fruscio delle foglie, il vento… Il silenzio che fa ammirare la bellezza della primavera con tutti i profumi dei fiori e dei suoi colori, le architetture della città. Troppo silenzio! Il silenzio che non fa più sentire le urla dei bambini che giocano, l’intervallo a scuola, la fila al pullman per tornare a casa, il tifo durante la partita di pallavolo, il suono a festa delle campane… Troppo silenzio Questo silenzio fa male… i primi giorni interrotto solo dal suono straziante delle ambulanze… Paura… oggi la consapevolezza di quanto si è fragili e il desiderio di un semplice abbraccio.

– (Eleonora, 16 anni)

Ho voluto iniziare questo mio semplice contributo con questo piccolo ma emblematico scritto che mi ha inviato una ragazza di 16 anni della mia parrocchia quando, durante i primi giorni di Maggio 2020, dopo circa 70 giorni dall’inizio della nostra Quarantena (incominciata Venerdì 21 Febbraio), ho chiesto a catechisti, educatori, giovani e adolescenti di Casalpusterlengo di mandarmi, se volevano, un loro scritto sull’esperienza che avevamo vissuto, come stimolo per ricominciare. L’idea di questa proposta era nata dall’ascolto di una bella omelia del vescovo di Mantova, Marco Busca, dove si metteva in guardia la gente dal rischio di ritornare alla «vita di sempre», invece che ripartire dalla «vita per sempre» e si invitava a mettere per iscritto le cose belle scoperte nelle settimane di «lockdown». L’omelia commentava il brano evangelico dei due discepoli di Emmaus, dove il Signore Risorto, senza essere riconosciuto, si affianca e cammina con loro; poi, interpreta i fatti appena accaduti, svelando il filo rosso del volere del Padre e del suo modo di fare, fino a far ardere i loro cuori duri e freddi e ad aprire le loro menti ottuse e stolte; rende infine possibile l’apertura degli occhi del cuore, il risveglio dei sensi interiori. Vorrei allora in queste pagine raccontarvi ciò che io e la mia gente, cittadini della prima zona rossa d’Italia, abbiamo vissuto e imparato in questi giorni di Quarantena, accompagnati dal Risorto.

1. Un tempo sospeso e gli affetti alla prova

L’esperienza dell’emergenza sanitaria che abbiamo vissuto sembra aver contagiato e colpito prima ancora dei corpi, le nostre carni. Una volta riconosciuto il pericolo e una volta attestata la sua presenza fra di noi, prima che il virus penetrasse nei nostri corpi aveva già attraversato e affezionato, da parte a parte, le nostre carni. E se ci sono stati corpi esenti dall’infezione virale, non ci sono state carni che siano rimaste indenni dal suo impatto affettivo. Il virus ha raggiunto tutti con un carico di affezioni a forte impatto, che hanno sconvolto i nostri ritmi, la nostra percezione della vita e del tempo e hanno scosso le nostre sicurezze. Ci hanno fatto accettare – anche a malincuore e dopo qualche iniziale resistenza – restrizioni al limite dell’insopportabilità, decretate a suon di DPCM che si rincorrevano uno dopo l’altro, con imposizioni di limiti sempre più forti alle nostre libertà. Ci hanno portato a cambiare per settimane i nostri stili di vita consolidati e a rinunciare a relazioni, attività lavorative, hobbies.

Tra i libri che il tempo libero creato dall’emergenza mi ha permesso di riprendere in mano e terminare di leggere c’è stato uno degli ultimi testi scritti dal fenomenologo francese Emmanuel Falque: Le livre de l’expérience. Il testo è dedicato alla filosofia monastica tra XI e XII secolo, da Anselmo d’Aosta fino a Bernardo di Chiaravalle, attraversata tramite il filo rosso della parola «esperienza». Fin dalle prime pagine del volume, il filosofo francese, precisa cosa si debba intendere per esperienza: non un vissuto interiore della coscienza (l’Erleben husserliano), ma una traversata, un cambiamento, una prova che la coscienza riceve da qualcosa che è altro da sé e che, toccandola, non le permette più di rimanere ciò che era prima (l’Erfahrung heideggeriano)1. Questo è il senso recondito del prefisso per contenuto tanto nel greco empeiria quanto nel latino experientia o nei corrispettivi termini delle lingue neolatine (il francesce expérience o l’italiano esperienza, ad esempio), così come dell’analogo prefisso fahr del tedesco Erfahrung. Fare esperienza è allora lasciarsi toccare, colpire, modificare dalla realtà; è lasciarsi mettere alla prova dalla vita; è viaggiare e attraversare il mondo non con il fare distratto del turista, ma con l’attenzione e l’apertura di cuore del viaggiatore che sa che quando tornerà a casa, non sarà più quello di prima.

Nella terza parte del testo, Falque prende in esame la filosofia cistercense del XII secolo, soffermandosi soprattutto su Aelredo di Rievaulx e su Bernardo di Chiaravalle. In questo ambiente monastico, il luogo principe del «fare esperienza» diventa quel mondo a noi così vicino eppure così lontano, che sono i nostri affetti. Per questa scuola di pensiero, infatti, gli affetti non hanno meno importanza dei nostri pensieri o delle nostre parole. Anzi, si potrebbe ipotizzare piuttosto il contrario: sono gli affetti che orientano, accompagnano e persino costituiscono i nostri pensieri. E ancora sono gli affetti che «comunicano», orientando le nostre parole e superando il potere espressivo delle nostre parole. L’affezione non va più intesa quindi come una tra le tante facoltà dell’uomo, quanto piuttosto come la modalità di ogni facoltà umana, il terreno in cui ogni altra facoltà si inserisce e si esprime. Anche Heidegger riconoscerà, secoli dopo, che il nostro rapporto con il mondo, con l’essere, avviene sempre già dentro e attraverso una Stimmung. Con Aelredo di Rievaulx, poi, il fenomenologo parigino ci permette di recuperare tre tratti dell’affezione. L’affezione è forte perché è il luogo di contatto tra anima e corpo, il luogo in cui io faccio presa con me stesso. L’affezione ha un suo segreto; affermazione, questa, da intendersi in un triplice senso: ogni affezione ha il suo proprio modo di esprimersi; non è facile esprimere agli altri la propria affezione; e, anche quando questo avviene, la portata dell’affezione non è mai esaurita dalla comunicazione avvenuta. L’affezione, a differenza del sentimento, infine, non è un fatto totalmente soggettivo, ma chiede di essere «provata» nella sua autenticità, tramite, ad esempio, la sua condivisione con gli altri.

Possiamo allora chiederci: che tipo di «esperienza» abbiamo fatto in questa quarantena? Con che affezioni l’epidemia ci ha colpiti, modificati, cambiati? Possiamo testare la forza, la pertinenza di queste affezioni e svelarne, almeno in parte, il segreto? Vi è, tra le varie affezioni registrate, una di esse che possiamo riconoscere come la Grundstimmung di questa pandemia? Se c’è, quale esperienza dell’essere ci ha raggiunto e colpito in essa?

Dai messaggi ricevuti dalla mia gente, la prima cosa che mi ha colpito è che questa emergenza ci ha toccati con un mix di affezioni molto diverse gli uni dagli altri e non sempre facili da portare a parola. Un mix di paura, fragilità, impotenza, insicurezza… ma anche rabbia, delusione… in qualcuno dolore, rimpianto… Ma paradossalmente abbiamo sperimentato anche affezioni del tutto opposte, come la gioia dello stare in famiglia o in mezzo alla natura, lo stupore di riscoprire l’importanza di cose prima dimenticate o trattate con superficialità, la speranza di ricominciare in modo nuovo, la voglia di impegnarsi, la gratitudine per gli esempi di solidarietà, la riconoscenza per le relazioni rimaste fedeli anche «a distanza», il tempo e l’occasione per riallacciare un rapporto nuovo con la famiglia o persino con Dio. C’è allora forse un’affezione che può racchiudere, accomunare o forse sostenere tutto questo mix, così magmatico? Vorrei tentare di avanzare una mia ipotesi: la Grundstimmung di questa pandemia potrebbe essere l’affezione della «sospensione». Così mi scriveva una ragazza di 17 anni:

Quante volte è capitato che mi chiedessero «come stai?». Spesso mi capitava di rispondere «bene», ma ora che ci penso non è la risposta giusta; quella giusta penso che sia «sospesa». Sospesa perché quasi non sembra di star vivendo nella realtà di tutti i giorni, ma come in un sogno, anzi un incubo. E si ha sempre la sensazione di essere sospesi (Bianca, 17 anni).

La pandemia ci ha raggiunti infatti come un agente perturbatore che ha mandato in aria in un attimo tutte le nostre certezze, i nostri ritmi, le nostre abitudini, persino quelle più forti come i modi di esprimere l’affetto tra parenti ed amici o i modi di vivere e di condividere il lutto per la perdita di persone care. Così scriveva una delle nostre catechiste cinquantenni:

All’inizio è la paura che ti prende perché non sai come e quando finirà e all’improvviso tutti i ritmi della tua vita saltano, devi riorganizzare la tua giornata perché non puoi fare quello che vorresti ma devi rimanere in casa; ti ritrovi spaesato, ti ritrovi ad avere tanto tempo che non pensavi di possedere (sono sempre le 24 ore di un giorno) (Elena, 50 anni).

L’esperienza di questa rottura – una sorta di «epoché pratica» – che si è aperta nella vita di tutti i giorni, ha permesso di vagliare, discernere, cercare, scegliere, tornare a desiderare. Ha spinto a non lasciarsi portare dallo scorrere delle cose e attività già preimpostate o programmate, ma a dover scegliere come e perché usare il proprio tempo. Ecco i pensieri di due altre donne, una sessantenne e un’altra appena diciottenne.

In molti hanno definito questo periodo come «tempo sospeso»; in effetti ti ritrovi a pensare a come impiegare il tempo e a riscoprire le cose semplici e vai alla ricerca dei ricordi e ti scopri come sei stata fortunata (Luisa, 62 anni).

Da questa situazione ho capito che spesso siamo troppo concentrati sui nostri progetti, sulla scuola, sugli amici e su noi stessi… E quando accade qualcosa di improvviso, ci stravolge e dobbiamo riabituarci ad avere una vita più o meno normale e a fare a meno di tutte quelle cose che pensavamo importanti ma che in realtà sono inutili (Erica, 18 anni).

La sospensione ha toccato anche le nostre certezze: è stata un’«epoché» delle nostre sicurezze, della nostra pretesa di poter avere e tenere tutto sotto controllo.

Le persone stavano male ma non si sapeva come gestirle, tutto era incerto e ancora adesso nessuno ha delle risposte. Per la prima volta all’uomo i click non sono bastati (Anna, 54 anni).

Ultimo tratto che vorrei mettere in luce di questa «sospensione» è che, come ogni autentica «epoché», anche questa rimane aperta a un duplice possibile esito. Essa può permettere di vedere più a fondo, più in profondità, più autenticamente la vita, per accendere nuovi e più autentici desideri, per tentare di costruire una più autentica normalità. Può sganciare dalle scelte obbligate o dalle consuetudini acquisite per rendere possibili nuove scelte, spazi di libertà inediti. Ma può anche rimanere una semplice parentesi, magari già anestetizzata da routine di vuote distrazioni (abuso di social, serie TV, programmi televisivi…), in attesa di essere ben presto rinchiusa e asfaltata dal ritorno alla normalità di prima.

E ogni volta che penso, «massì… sono in quarantena, ho tempo», in verità non ce l’ho e la giornata passa tra social, università e chiacchiere e arrivo a sera che anche oggi è stato come ieri. Un’altra giornata di pausa (Andrea, 22 anni).

2. Due diverse narrazioni: la massa degli individui, la pluralità delle persone

Un secondo aspetto su cui vorrei soffermarmi è la discrepanza forte che ho avvertito tra le narrazioni ufficiali dell’emergenza (come ci vengono restituite dai mezzi di comunicazione e dal clima dei post sui social) e le narrazioni personali. Mentre le prime sono stereotipate, quando non ideologicamente connotate (si nota facilmente se provengono da ambiente incline al governo o all’opposizione), concentrate su alcuni aspetti più immediati, superficiali e appariscenti (l’aperitivo ai Navigli, la coda ai supermercati, il blocco delle forze armate, il politico di turno senza mascherina, il rimbalzo delle responsabilità, la città deserta, i negozi chiusi…), le seconde, invece, esprimono una ricchezza e una pluralità di vissuti impossibili da ricompattare nelle due o tre posizioni ufficiali, e portanti alla luce significati profondi, vissuti forti, esperienze poliedriche. Insomma, quando ci si discosta dalle narrazioni ufficiali, le narrazioni guadagnano in intensità, verità, ricchezza, molteplicità di punti di vista, aderenza alla vita.

Vorrei tornare su questo aspetto grazie a una seconda lettura che ha accompagnato questi giorni di blocco delle varie attività. Si tratta dei primi due capitoli della traduzione italiana di un testo di un filosofo e teologo ortodosso, Ioannis Zizioulas, intitolato L’essere ecclesiale. In queste pagine, il teologo, metropolita di Pergamo, descrive con accuratezza la comparsa e lo sviluppo del concetto di «persona» nella cultura occidentale e la sua distanza da un altro concetto, solo a prima vista simile, che è quello di «individuo». Siamo abituati a sentire che il termine persona deriva da prosopon e che prosopon indicava la maschera teatrale, il personaggio interpretato sulla scena, la maschera apportata al volto attraverso cui risuonava la voce dell’attore. Questo è vero, ma solo a metà. Il significato classico della persona intesa come prosopon infatti (come anche l’analogo concetto del latino persona, legato al ruolo e compito del singolo all’interno della societas), indica l’aspetto insoluto, il dramma che la persona incontra nella vita (dramma ben espresso, non a caso, sulla scena della tragedia greca): la persona è un’aspirazione incompiuta, un anelito di libertà scritto nel cuore dell’uomo ma destinato a infrangersi contro lo scoglio della necessità stabilita dalle leggi di natura (dove l’essere imperituro è impersonale o dove l’essere, pur personale, del sinolo è destinato a disgregarsi e a sparire con la dissoluzione del composto) o dalle leggi della società. Quando i Padri Greci si trovarono di fronte al mistero trinitario, essi ricorsero ad una nuova idea di «persona» prendendo a prestito non più il termine prosopon ma il termine hypostasis. Prima di questa assunzione hypostasis indicava l’ousia, la sostanza, considerata nel suo aspetto concreto e individuale, ma dopo questa assunzione, questo termine riceve dall’accostamento con il mistero trinitario un senso tutto nuovo. Hypostasis è il riconoscimento che la sostanza concreta e individuale non va più cercata nell’essere, nell’ousia, ma nella Persona. Il principio personale, l’aspirazione alla libertà, l’aspirazione ad un’esistenza non più sottoposta ai limiti e ai giochi dell’essere impersonale trova la sua autentica possibilità nella teologia: l’essere di Dio non è un’ousia divina (come voleva Aristotele), ma l’hypostasis unica, personale, totalmente libera del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E l’unità delle tre persone divine non è data dalla partecipazione ad un’unica ousia impersonale e necessitante, ma dalla libera generazione del Figlio e dalla libera effusione dello Spirito da parte del Padre.

Per i padri greci l’unicità di Dio, il Dio Uno, così come il principio o causa ontologica della vita personale-trinitaria di Dio, non consistono nella sostanza unica di Dio ma nell’ipostasi, cioè nella persona del Padre. Il Dio unico non è la sostanza unica ma il Padre, che è la causa (aitia) della generazione del Figlio e della processione dello Spirito. […] Dio in quanto Padre e non in quanto sostanza, per il fatto che «è», conferma eternamente la sua libera volontà di esistere. […] Il Padre per amore – cioè liberamente – genera il Figlio ed effonde lo Spirito. Se Dio esiste, è perché il Padre esiste, colui cioè che per amore e liberamente genera il Figlio ed effonde lo Spirito. […] Al di fuori della Trinità, Dio, cioé la sostanza divina, non esiste; infatti il principio ontologico di Dio è il Padre. L’esistenza personale di Dio (il Padre) costituisce, ipostatizza la sua sostanza. L’essere di Dio si identifica con la Persona.2

Senza persona o ipostasi o modo di esistenza, non c’è ousia o natura; senza ousia o natura non c’è persona; tuttavia il principio o la causa ontologica dell’essere – ciò che fa sì che qualcosa è – non è l’ousia ma la persona o ipostasi. Così l’esistenza è ricondotta non alla sostanza ma alla persona.3

Che cosa comporta questo cambiamento? Se dalla teologia procediamo nella filosofia (l’inverso, secondo Zizioulas – ma non secondo lui solo – è impraticabile e non auspicabile), riconosciamo come il dramma prima evidenziato nel termine prosopon può trovare il suo senso nell’aspirazione umana al compimento dell’imago Dei racchiusa dentro di sé. L’essere, pur presentandosi a noi biologicamente come un’ipostasi fragile, aspira a realizzarsi in modo personale. L’essere trova il suo compimento non in una sostanza chiusa, individuale a cui capita, in seguito, di essere in relazione, ma in una realtà personale costitutivamente relazionale. L’essere pur presentandosi ai nostri occhi segnato non solo dalla distinzione, ma anche dalla divisione, trova il suo compimento nella comunione in cui i diversi non sono più divisi o antagonisti, ma uniti senza nessuna forma fusionale o alcuna funzione impersonale. Trova qui (e solo qui) compimento la libertà racchiusa nel cuore dell’uomo. L’uomo che nasce come ipostasi – sempre già minata dallo scadere nell’anonimato dell’individuo – e che quindi porta in sé il dramma tra l’aspirazione a compiersi in modo personale e il ritrovarsi schiacciato, spinto, sopraffatto da logiche individualizzanti, necessitanti e massificanti, può trovare così nell’accoglienza delle Persone divine (grazie alla libera adesione alla Persona del Figlio, resa possibile dallo Spirito) quel compimento che altro non può essere se non l’accoglienza nella sua fragile ipostasi biologica di una nuova ipostasi, una nuova vita (appunto, l’essere ecclesiale) in cui l’ipostasi biologica è come trasfigurata.

Il corpo, che nasce come ipostasi biologica, agisce come la fortezza dell’«io», come una nuova maschera che impedisce all’ipostasi di divenire una persona, cioè di affermarsi come amore e libertà. Il corpo tende alla persona, ma conduce in ultima analisi all’individuo. L’essere umano nasce come un evento ipostatico, come corpo, ma questo evento è profondamente legato all’individualità e alla morte. Nello stesso atto erotico con cui tenta di divenire estatico, l’essere umano è riportato all’individualismo. Il suo corpo è lo strumento tragico che conduce alla comunione con gli altri facendo tendere loro la mano, creando il linguaggio, la parola, il discorso, l’arte, il bacio. Nel contempo, però, è la maschera dell’ipocrisia, la fortezza dell’individualismo, il veicolo della separazione finale: la morte!4

La persona come esigenza di libertà assoluta presuppone una nuova nascita, una nascita «dall’alto», un battesimo.5

Possiamo ora tornare alla considerazione iniziale con l’arricchimento di prospettiva che ci ha aperto il teologo ortodosso. Osservavamo come i racconti della pandemia e della quarantena hanno ricevuto due forme di narrazione molto diverse tra loro. La prima, quella ufficiale, è stata una narrazione impersonale, stereotipata, frutto d’individui e delle loro chiacchiere (gli uomini del «Si», come li ha definiti magistralmente Heidegger). La seconda, quella raccolta a tu per tu, è stata una narrazione personale, originale. Mentre nella prima non s’incontra l’essere, se non già ridotto a una vuota forma, banalizzato e stereotipato, ideologicamente connotato, nella seconda si può incontrare l’essere di quanto è accaduto. Mentre nella prima l’unità è trovata nella forma dell’assorbimento in schemi, idee, posizioni date, utili per la manipolazione delle masse, nella seconda l’unità è data solo dal paziente ascolto delle voci differenti, dalla policromia dei vissuti tenuti insieme dalla forza della comunione.

E avviene una cosa singolare. Gli eventi della pandemia, così come ci sono stati raccontati hanno avuto un duplice registro di attori. Da una parte ci sono stati gli uomini che per noi contano, quelli che hanno potere: Trump, Bolsonaro, Boris, Rutte, Merkel, Orban, Conte, Salvini, Fontana, Gallera, Zaia… solo per dirne alcuni. Dall’altra ci sono stati uomini e donne sconosciuti, apparentemente anonimi, perché il loro nome c’è ma rimane in molti casi ancora oggi nell’ombra: medici che hanno fatto più del loro dovere, infermieri e sanitari che si sono trovati sul fronte, spesso sprovvisti di informazioni e di mezzi, e si sono chiusi negli ospedali per contagiare il meno possibile; volontari che hanno fatto turni su turni per guidare ambulanze o trasportare viveri; persone semplici che hanno recapitato negli ospedali pizze gratis per i medici o si sono offerte per fare la spesa per gli anziani del palazzo o hanno messo fuori di casa una cesta per chi era rimasto senza soldi per poter fare la spesa. A noi sembra che la storia sia il frutto delle scelte delle prime persone, eppure, se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato, è che al di là delle scelte, a volte anche scellerate, degli individui al potere, molto, molto fanno le scelte veramente libere e personali di tante persone, nascoste eppure non anonime come quei «personaggi teatranti» che appaiono spesso nei posti di potere. I veri eroi di questa emergenza sono stati gli uomini e le donne «della porta accanto».

Ciò che mi ha fatto riflettere di più è il fatto che siamo tornati a un concetto di comunità basato su rapporti veri, di reciproca fiducia, ai sentimenti altruistici. Tante persone aiutavano chi era più a rischio, nelle grandi città sono comparsi cesti alimentari con il cartello «Se puoi dona, se non puoi prendi», sui social sono apparsi milioni di hashtag. Chi stava soffrendo si è sentito meno solo, meno abbandonato, ci hanno insegnato quanto gli altri siano importanti per noi, ci hanno insegnato che come ha detto il Papa «Nessuno si salva da solo», neanche oggi che fin da bambini siamo chiamati a dare il massimo in una perenne competizione contro se stessi e gli altri (Anna, 54 anni).

Un ringraziamento particolare a tutti quelli che hanno curato la mia mamma. Hanno curato il suo corpo ma hanno saputo curare anche il suo spirito, con amore, dandole quell’affetto e quelle attenzioni, che noi non potevamo darle. Hanno curato lei e si sono presi cura di noi famigliari, dandoci sue notizie tutti i giorni (nonostante la situazione difficile, i turni massacranti, il pericolo per la loro stessa vita) come dei veri angeli custodi (Irma, 57 anni).

Non solo. La forza di queste persone autentiche ha anche portato allo scoperto e smascherato che dietro questi attori che si ergono a difensori di un popolo – ma solo dopo averlo già ridotto a un’anonima e appiattita massa – non c’è nessuna autentica libertà, nessuna autentica capacità di relazione capace di preservare, garantire, difendere le vite dei molti che costituiscono davvero il loro popolo, a cominciare da quelle dei più deboli (gli anziani delle RSA, ad esempio). Nessuna «persona», ma solo «individui» espressione di un essere impersonale (il profitto, il potere, il consenso). A questo proposito leggevo un articolo molto interessante apparso qualche giorno fa’ sul nostro quotidiano locale in cui si cercava di identificare il comune denominatore delle varie forme di «populismo», oggi in auge in diverse parti del globo.

Tutti questi leader e movimenti sono andati al potere, o ci vogliono andare tramite elezioni. È questa una questione di primaria importanza. Il riconoscimento democratico, il parlare in nome del popolo, il trarre la propria legittimità da esso sono appunto elementi fondanti in qualsiasi movimento populista. Allo stesso tempo, questi populismi tendono, pur in toni e modi diversi, a non considerare come ugualmente importante l’altra caratteristica fondante dei sistemi democratici contemporanei, ovvero il liberalismo. Il liberalismo è un insieme di regole – di solito esplicitate nella costituzione – che vuole garantire libertà fondamentali ai cittadini. Esso limita il potere del governo che potrebbe abusarne per poi togliere appunto tali libertà. Principi come la divisione dei poteri, la libertà di pensiero e di associazione non sono principi democratici, ma liberali. Non dipendono dal consenso popolare: ci devono essere e basta. […] Vi è poi, quasi a corollario del richiamo alla volontà popolare, una concezione nazionalista e spesso xenofoba per decidere chi fa parte di questo popolo. Il populismo di destra identifica immancabilmente un «altro» cui si pone in forte opposizione, che può essere l’immigrato, certo, ma anche una comunità considerata fuori dalla «vera» nazione,6

3. Una sfida epocale: continuare a volersi o ricominciare a volere?

«Ci eravamo illusi di poter vivere sani in un mondo malato». Così parlava papa Francesco nella serata del 27 Marzo 2020, in una piazza San Pietro deserta, sotto una pioggia battente. Certo la crisi sanitaria ha messo in luce, almeno per un attimo, quanto sia malato il mondo in cui ci troviamo a vivere. Malata la politica, malata l’economia, malata la società.

L’esplosione della pandemia ha fatto uscire allo scoperto tutti quei problemi che si trascinano da tempo e mi auguro veramente che da questa ripartenza possano nascere comportamenti più virtuosi per il bene di tutti. Non rimpiango la normalità; troppe cose diventate normali non sono però belle, sane, buone (Elisabetta, 42 anni).

Ma non con altrettanta chiarezza è apparsa, o almeno è stata ufficialmente riconosciuta, la malattia della terra. Non solo nelle narrazioni ufficiali, dove gli interessi economici hanno fatto di tutto per nascondere ogni legame tra la pandemia e lo sfruttamento a cui è sottoposta la natura in questo mondo malato. Cosa già avvenuta, del resto, nei confronti del movimento creato dalla ragazzina svedese Greta Thunberg. Ma anche nelle narrazioni personali, raccolte a tu per tu, si ha l’impressione che di fronte alla malattia del creato non ci sentiamo responsabili, né chiamati in causa e noi tutti, in fondo, siamo portati a considerare gli aspetti economici e finanziari più urgenti, importanti, decisivi rispetto alla cura dell’ambiente, tema avvertito dai più come l’attenzione snob di alcuni o la cornice green di eventi di tendenza o strategie di marketing.

Eppure, la malattia della terra è proprio la cartina tornasole della malattia dell’uomo contemporaneo. La crisi che ora è venuta ad avvelenare tutto – persino la terra, l’acqua, l’aria – ha radici lontane. Filosoficamente parlando, possiamo individuarle in quel cambio di paradigma che è avvenuto in occasione della Modernità, dove l’uomo si è posto al centro dell’universo, come l’unico soggetto, e si è arrogato il diritto di trattare tutto (e a volte anche tutti) come oggetto della propria coscienza e della propria volontà. È già Cartesio a scrivere in modo emblematico che la libertà «ci rende in qualche modo simili a Dio, facendoci padroni di noi stessi»7. E se dalla filosofia ci spostiam, o nella teologia, scopriamo che questa tendenza altro non è se non una tentazione tipica del cuore dell’uomo, talmente tipica da accompagnarlo fin dalla sua prima origine. Cos’è il peccato originale se non il rifiuto del dono e della relazione che esso comporta per riportare tutto sotto il controllo del proprio personale volere e potere, per ridurre tutto a uno scambio vantaggioso per sé, «economico» nel senso di un veloce e facile profitto personale? Staccare il frutto dall’albero della conoscenza prendendone possesso, invece che attenderlo, contemplarlo, «gustarlo», riceverlo ma non come una cosa propria, bensì salvaguardato nella comunione organica, vivente, rappresentata dall’albero, senza staccarlo da esso.

Potremmo esprimere questa malattia anche con un altro paradigma, soffermandoci proprio sull’espressione della «volontà». È già con Nietzsche che viene alla luce profeticamente l’esito ultimo della Modernità in cui si trova immerso oggi l’uomo contemporaneo: una «volontà di potenza» che vuole infinitamente ma solo nella forma del «volersi», ossia «del volere se stesso», del «volere il proprio poter volere», «il proprio voler potere». Paradossalmente questa forma di volere è una tragica impotenza. L’uomo che si costruisce come volontà di potenza può tutto, vuole tutto, ma solo sé stesso: non ha abbastanza tenuta, abbastanza costanza, abbastanza gratuità e capacità recettiva per poter volere qualcosa e qualcuno che non sia sé stesso, qualcosa o qualcuno che non sia il proprio guadagno, qualcosa e qualcuno che comporti una perdita, uno smacco al proprio potere. Ma l’uomo contemporaneo difficilmente si accorge di questo inganno, tanto è stordito dalle soddisfazioni immediate che gli apre l’ebbrezza del proprio volersi all’infinito. L’epoca medioevale conosceva invece un’altra forma di volere, un’altra forma di potere legata al volere. Ben l’esprime il monaco Guglielmo di Saint-Thierry quando, fin dai suoi primi scritti, ci parla di quel vehementer velle che null’altro è se non l’amore. Anche amare è volere. Anche amare è volere fortemente, volere all’ennesima potenza. Ma di una potenza di altro genere rispetto alla volontà di potenza profetizzata da Nietzsche. Non la potenza del volersi, ma quella del volere l’altro da sé, molto più di quanto si voglia sé stessi. Questo genere di potenza, apparentemente impotente e debole, è in realtà la forma di potere più forte, perché riesce, a differenza della precedente, ad uscire dal cerchio chiuso del proprio ego e a raggiungere l’altro proprio come «altro da sé» e non, al massimo, come un alter-ego, ossia un luogo in cui rispecchio ancora me stesso, le mie attese, i miei bisogni, i miei interessi8.

Questa è la malattia che sta infettando la politica, l’economia, la società e persino le istituzioni religiose. Non ci è sfuggito, infatti, quanto non fosse esente dal ripiegamento sul proprio interesse personale e dalla difesa del proprio «potere», il tono della dichiarazione della stessa CEI per affermare il proprio diritto, ancora in piena pandemia, a riprendere le celebrazioni eucaristiche in presenza.

E quale legame tra la crisi della volontà e la crisi ecologica? Ho ascoltato una volta in un convegno un’idea geniale proposta dal teologo russo Bulgakov. Egli sosteneva che l’uomo creato da Dio come il sacerdote, il liturgo dell’universo, si è ridotto ad esserne invece il consumatore. Rinunciando infatti ad essere il ponte tra Dio e il creato (in questo sta la natura sacerdotale) per aver rifiutato la relazione con Dio, ha perso il soffio divino – quel soffio che l’uomo può custodire in sé solo se l’accoglie nella forma in cui gli è dato, ossia come un dono – ed è rimasta in lui solo la materia psico-somatica, la polvere del suolo. E come il leggendario re Mida trasformava in oro tutto ciò che toccava, ora l’uomo, privato dello Spirito e rimasto solo polvere, riduce in polvere tutto ciò che tocca.

Del resto, la sospensione creata dall’emergenza, ci ha portati, almeno in alcuni periodi del nostro restare a casa, a poter frequentare non più i bar, i locali, i centri commerciali, le palestre, gli uffici… ma a tornare a camminare per le vie di campagna e qui riconciliarci con la natura, seguire i suoi ritmi, il suo lento passaggio dall’inverno alla primavera, il miracolo e lo spettacolo del suo rifiorire gratuito, che essa non smette di donarci anche se la calpestiamo, anche se ci passiamo davanti indifferenti, distratti, veloci o con gli occhi catturati dalle luci dei nostri schermi tecnologici.

La pandemia, insomma, ci ha riportati davanti a un bivio cruciale che è niente meno che una sfida epocale: vogliamo continuare a percorrere fino alla fine la strada morbosa della volontà di potenza o vogliamo riscoprire un altro genere di volere, un altro genere di potere che è l’amore autentico? Ne va niente meno che della sopravvivenza nostra e dello spettacolo della vita sull’intero pianeta.

Gli amici, la fidanzata, l’oratorio, il calcio, l’andare a scuola sono cose che per noi sono normalissime, solo in questi due mesi ho compreso bene quanto sono importanti e quanto siamo fortunati ad avere tutto questo da sempre e finito questo momento continueremo ad averli, al contrario ci sono persone che non avevano niente prima e continueranno a non avere niente dopo. […] Anche se secondo me purtroppo questa situazione non farà cambiare il comportamento di tante persone, purtroppo si continuerà ad essere egoisti pur avendo vissuto situazioni difficili sulla propria pelle (Gabriele, 18 anni).

È vero, mi sono sentita privata della mia libertà, mi sono sentita vulnerabile come mai prima, ma mai mi sono sentita ridotta in povertà nel senso di priva di beni, materiali e immateriali, necessari per le esigenze della vita. Perché credo che l’unica esigenza di cui ho capito di essere dipendente è l’amore, in tutte le sue forme (Paola, 20 anni).

4. Conclusioni. Un esercizio di immaginazione. La scuola della carità

Vorrei concludere con un esercizio di immaginazione. Un esercizio che trova spunto dalla lettura di un autore che ha accompagnato tutti questi mesi e che sta diventando una buona compagnia di tutta quanta la vita. Si tratta di uno dei grandi monaci medioevali del XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry. In uno dei suoi testi giovanili, il De natura et dignitate amoris, il nostro monaco ed abate, riprendendo una tradizione antica, mentre descrive il cammino evolutivo dell’amore, presenta la vita all’interno del monastero come «la scuola della carità». Del resto, fin dalle prime righe del testo, l’amore è definito come un’arte, o, meglio, come l’arte delle arti, l’arte per eccellenza. E come ogni altra arte, avrà chi la insegna (la natura e Dio) e un luogo d’apprendimento, un suo laboratorio (il monastero, sotto la guida degli anziani).

Contemplando la presenza fra loro della bontà divina nei comuni esercizi di pietà, e anche in una certa grazia dei volti e dei corpi e dei modi di fare, essi si sentono uniti da un sentimento così forte che, come i Serafini, s’infiammano vicendevolmente d’amore verso Dio, e il bene che ognuno trasmette agli altri non può assolutamente bastare a chi lo trasmette. Questa è la speciale scuola di carità. Qui si praticano gli esercizi per apprenderla, fervono le discussioni su di essa: le soluzioni non sono dettate tanto dai ragionamenti, quanto dalla ragione e dalla stessa verità delle cose e dall’esperienza9.

L’arte dell’amore è l’arte delle arti. Del suo insegnamento si sono incaricati la stessa natura e il suo autore, Dio. Perché lo stesso amore, ispirato dal Creatore della natura, se la sua genuinità non è stata corrotta da qualche sentimento (affectibus) adulterino, lo stesso amore – dico – insegna sé stesso, ma a coloro che sono disposti al suo insegnamento, all’insegnamento di Dio10.

Arrivo dunque all’esercizio di immaginazione. Questo nostro tempo ha bisogno di scuole di carità, di scuole d’amore, dove si assapori la sapienza dell’amore. Oasi di questa autentica sapienza che è vera filosofia, sapienza dell’amore. Oasi, che come le piccole oasi dei monasteri – in quel mondo antico che affrontava la crisi dell’impero, poi le invasioni distruttive dei barbari e il crollo della vita sociale, poi la prepotenza dei signorotti di turno e la corruzione dei vescovi e del clero – siano un luogo dove questa nostra umanità possa trovare ristoro, possa abbeverarsi ad un’acqua fresca e pulita, possa gustare il calore della fraternità. Oasi attorno a cui la natura torni ad essere custodita e possa ritornare ad aspirare a quel giardino di cui essa è immagine e chiamata.


  1. L’esperienza è «la "traversée de soi", l’"épreuve" ou la "mise en danger" du soi (ex-pér-ience ou Er-fahr-ung) par laquelle je suis métamorphosé» (E. Falque, Le livre de l’expérience. D’Anselme de Cantorbéry à Bernard de Clairvaux, Cerf, Paris 2017, p. 33-34). ↩︎

  2. I. Zizioulas, L’essere ecclesiale, Qiqajon, Magnano (BI) 2007, p. 39-40. ↩︎

  3. Ibi., nt. 40. ↩︎

  4. Ibi., p. 52-54. ↩︎

  5. Ibi., p. 12. ↩︎

  6. M. Ramaioli, «Da Donald Trump a Orban, mappa del "populismo di destra"», Il Cittadino (Lodi), 23-06-2020, p. 32. ↩︎

  7. R. Descartes, Le passioni dell’anima, in Id., Opere. 1637-1649, a cura di Giulia Belgioioso, Bompiani, Milano 2012, art. CLII, p. 2475. ↩︎

  8. Si veda J.-L. Marion, «L’impouvoir», Revue de métaphysique et de morale, 60, 2008, p. 439-445 e Id., «La conversion de la volonté selon "L’action"», Revue Philosophique de la France et de l’Étranger, 112, 1987, p. 33-46. ↩︎

  9. Guglielmo di Saint-Thierry, Natura e dignità dell’amore, in F. Zambon, ed., Trattati d’amore cristiani del XII secolo, vol. I, Mondadori, Milano 2008, p. 107-109. ↩︎

  10. Ibi., p. 57. ↩︎