Solo da poco l’attenzione di chi studia il pensiero di Levinas si è spostata dal problema dell’etica a quello della giustizia. Nonostante ciò, sempre più numerosi — fra tutti, per citarne uno solo, Miguel Abensour — sono ormai coloro che tentano un approccio interpretativo all’opera del filosofo lituano utilizzando come chiave di lettura le categorie concettuali di una teoria della giustizia, spostando così l’accento dalla dimensione etica a quella politica.
Causa principale di questa nuova lettura è sicuramente la consapevolezza crescente che il vero cuore pulsante di tutto il pensiero levinasiano, nonché la sua possibilità di sviluppo più feconda, risiedano proprio nella tensione che si instaura fra etica e giustizia, fra il mondo della responsabilità e quello dell’equità. Risulta infatti sempre più pressante l’esigenza di una rilettura di tale pensiero alla luce della figura del terzo, elemento realmente centrale per una corretta comprensione di Levinas, ma scarsamente preso in considerazione nelle tradizionali interpretazioni del suo pensiero.
Bisogna dire che sono effettivamente pochi i passi in cui l’autore orienta l’analisi direttamente in questa direzione, ma si tratta comunque di testi la cui importanza non può essere trascurata, testi indirizzati soprattutto a mostrare le conseguenze importantissime dell’irrompere del terzo sulla scena della relazione io-Altri.
La relazione etica è una relazione a due, si inscrive in quella che Levinas chiama «socialità intima», quella socialità cioè in cui c’è spazio solo per il soggetto e per Altri che si approssima con la carica sconvolgente del suo volto. Questa situazione di relativa semplicità viene però problematizzata al livello più profondo dalla comparsa di un ulteriore attore sulla scena, quel terzo che non è Altri e che anzi il rapporto con Altri esclude. La relazione etica e la responsabilità per Altri escludono la presenza del terzo, poiché costituiscono la base di un rapporto esclusivo di elezione e insostituibilità del soggetto. Il terzo uomo, dice Levinas,
turba questa intimità: il mio torto verso di te, che io posso riconoscere interamente partendo dalle mie intenzioni, si trova oggettivamente falsato dai tuoi rapporti con lui, che mi restano segreti, poiché, a mia volta, io sono escluso dal privilegio unico della vostra intimità. Se riconosco i miei torti verso di te, posso, persino col mio pentimento, ledere il terzo.1
È da qui che emerge allora la necessità di riconsiderare tutto il percorso proposto da Levinas, e non per esaminare ciò che potrebbe essere un’alternativa al rapporto etico — come se ci fosse da un lato la mia dimensione relazionale con Altri e dall’altro quella che riguarda invece il terzo, gli altri — ma per un motivo ben più radicale.
nella relazione con altri io sono sempre in relazione con il terzo. Ma esso è anche il mio prossimo. A partire da questo momento la prossimità diviene problematica: occorre paragonare, pesare, pensare, occorre fare della giustizia, sorgente della teoria.2
Non si può prescindere dall’importanza del terzo semplicemente perché non si può prescindere dal terzo. Levinas lo afferma molto chiaramente: in realtà la situazione etica non si presenta mai, perché non possiamo uscire dalla socialità allargata che già da sempre ci circonda. È allora evidente il motivo per cui l’irruzione del terzo non solo suggerisce, ma costringe ad analizzare sotto una nuova luce tutto ciò che era stato proposto all’interno dell’orizzonte dell’etica.
Le direzioni verso cui questo riesame si articola sono principalmente tre: innanzitutto, è necessario analizzare a fondo ciò che differenzia Altri dal terzo, con conseguente problematizzazione dei temi della prossimità e del volto. Da questa prima differenziazione discenderà, in secondo luogo, quella che separa etica e giustizia, per cui si cercherà di delineare, dell’una e dell’altra, le diverse prospettive e i diversi ambiti. Infine sarà intrapresa l’analisi della questione a nostro giudizio più problematica e feconda, della tensione cioè che deve generarsi fra queste due dimensioni, necessaria per riempire di senso l’una e l’altra e per fornire una chiave di lettura davvero adeguata all’intero edificio levinasiano.
1. Il terzo e la socialità
La differenza fra Altri e il terzo si inscrive all’interno del quadro di rapporti che li legano al soggetto, rapporti che non sono solo diversi, ma provocano anche una serie di mutamenti reciproci. Punto di partenza è sicuramente il rapporto con Altri, il più noto tema levinasiano, di cui non possiamo in questa sede che richiamare i passaggi fondamentali quali il risveglio al comando del volto, la responsabilità, la sostituzione, tutti momenti finalizzati alla descrizione del particolare rapporto che si crea fra l’io e Altri, rapporto in cui l’io si trova chiamato dall’altezza inscritta nel comando del volto a prendersene cura, a essere responsabile della sua nudità.
È a questo punto — come abbiamo visto — che si inserisce il problematico ruolo del terzo, intrusione inevitabile che complica la situazione etica fino a renderne necessario il superamento. L’etica infatti esclude il terzo, dunque nel momento in cui quest’ultimo appare ci troviamo costretti a riesaminare la posizione e il carattere di Altri.
L’irrompere del terzo pone il soggetto di fronte alla paradossale situazione di trovarsi al cospetto di due alterità che possono entrambe a buon diritto rivendicare la pretesa ad essere volto che comanda: a questo punto il problema investe il soggetto, perché è il soggetto a dover decidere quale delle due diverse alterità sia Altri e quale invece receda al ruolo di terzo. Decisione impossibile però, dal momento che Altri esclude il terzo: infatti il soggetto si trova nella necessità di dover considerare non solo il suo rapporto con le due alterità, ma anche e soprattutto la relazione che coinvolge le due alterità fra di loro. Dunque il soggetto non può più assumere una responsabilità infinita per una delle alterità che ha di fronte, perché ciò vorrebbe dire attuare una violenza nei confronti dell’alterità così esclusa. È allora lo stesso concetto di responsabilità universale ad essere messo in crisi: comprendiamo dunque che l’universalità della responsabilità riguarda Altri nella sua interezza, non la totalità de «gli» altri. È una responsabilità, si può dire, intenzionata verso una seconda persona singolare, non plurale.
Da questa situazione ingestibile il soggetto può uscire solo ridimensionando i contorni di trascendenza di Altri. Ciò non vuol dire tradire il principio — basilare in tutta l’opera di Levinas — dell’irriducibilità e dell’incoglibilità dell’altro, quanto piuttosto «mettere fra parentesi» il comando significato dal suo volto, sottrarsi cioè a quella subordinazione immediata e ineludibile a cui il soggetto viene chiamato nella responsabilità; senza questo presupposto è infatti impossibile uscire dall’inevitabile violenza che subirebbe il terzo, perché è anch’egli «prossimo» del soggetto.
bisogna che ormai io metta a confronto; che io metta a confronto gli incomparabili, gli unici. Nessun ritorno al «per sé di ciascuno». Ma bisogna giudicare gli altri. Nell’incontro del volto, non c’è stato da giudicare: l’altro, l’unico non sopporta il giudizio, immediatamente mi precede, gli debbo obbedienza. Giudizio e giustizia sono necessari non appena compare il terzo. Proprio in nome dei doveri assoluti nei confronti del prossimo, è necessario un certo abbandono dell’obbedienza assoluta che egli invoca.3
Ecco che allora emerge tutta la problematicità insita nella nozione di «prossimità»: prossimo, per il soggetto, è infatti Altri, con la convocazione che il suo volto significa, ma anche il terzo, che proprio tale convocazione giunge a rimettere in discussione. È quindi necessario distruggere l’asimmetria fra Altri e il soggetto, un’asimmetria su cui poggia tutta l’etica di Levinas ma che tuttavia va rimossa proprio perché con il sopraggiungere del terzo si verifica l’ingresso nella socialità allargata, autentica, dunque fra eguali: l’etica non si gioca fra eguali, perché si regge sulla responsabilità e sull’altezza del volto d’Altri, ma con l’arrivo del terzo è necessario «comparare gli incomparabili», dunque rivendicare l’uguaglianza.
Se la nozione di prossimità viene problematizzata in questo modo, passando cioè dal prossimo-Altri che mi convoca alla responsabilità e mi subordina al suo comando ad un prossimo-altro che racchiuda in sé sia l’alterità «depotenziata» dell’altro sia quella del terzo, qualcosa di analogo va sostenuto anche per la nozione di volto, centrale anch’essa nel percorso levinasiano.
Il volto è, nella prospettiva etica, ciò che il soggetto incontra come simbolo dell’irriducibilità dell’altro, ciò nella cui nudità si annuncia da un lato la possibilità della morte e dell’omicidio — dunque l’estrema debolezza — e dall’altro invece tutta l’altezza del comando e della convocazione alla responsabilità, tutta la potenza del «Tu non ucciderai» — dunque l’assoluta forza. L’apparire del terzo costringe a ridimensionare il ruolo del volto, ma solo per ciò che riguarda il secondo punto messo in evidenza: il volto deve necessariamente perdere — o quantomeno vedere ridotta — la potenza del proprio comando, ma ciò non vuol dire pregiudicarne la simbolicità relativa all’irriducibilità dell’altro al medesimo. Dunque è sì necessario «comparare gli incomparabili», presupporre l’uguaglianza, ma è altrettanto necessario inscrivere questa uguaglianza nel quadro di separazione e differenza che l’analisi fenomenologia del volto — si pensi a Totalità e Infinito — ci ha mostrato come irrinunciabile e imprescindibile.
2. Etica e giustizia
Da questa prima distinzione fra Altri e il terzo non può essere separata quella che si riflette sulle rispettive dimensioni di riferimento, cioè l’etica da un lato e la giustizia dall’altro. Se si può sostenere che l’apparizione del terzo costringa ad una «riduzione» di Altri, la distinzione fra etica e giustizia si basa piuttosto sull’astrattezza e sulla formalità che contraddistinguono la legge — che nasce nel quadro della politica e della giustizia — in opposizione al comando del volto nell’etica.
Il comando del volto si basa infatti sulla particolarità della situazione in cui si trovano coinvolti i due attori, l’io e Altri, facendo leva soprattutto sull’insostituibilità dell’io che risponde alla chiamata alla responsabilità. Il comando del volto è «Tu non ucciderai», perché è proprio l’io concreto ad essere chiamato in causa, è un comando che si rivolge a me e in quanto elezione mi designa come insostituibile. Non deve esserci reciprocità, quindi non è prevista una formalizzazione del comando che possa far posto ad un’inversione dei ruoli o ad una applicabilità universale astraendo dagli individui in gioco. Proprio perché si riferisce a me il comando non intende essere valido per chiunque convincendomi così, in maniera procedurale, della sua giustezza: esso mi convoca e mi reclama prima che io possa rispondere, prima ancora quindi che io possa interrogarmi sul suo valore e sulla sua validità. Di conseguenza esso non mi chiede di astrarre dalla mia dimensione esistenziale e di ridurmi, ad esempio, semplicemente a soggetto giuridico: è tutto me stesso ad essere convocato e soggetto all’ordine della responsabilità, non io-in quanto…, bensì semplicemente io.
Ma con l’apparire del terzo e della società emerge la necessità di giudicare, di «comparare gli incomparabili», quindi nasce il bisogno della formalità della norma, che sia applicabile in generale indipendentemente dai termini presi in considerazione: la funzionalità della legge che astrae dai soggetti permette infatti di rispondere all’esigenza di reciprocità che la società introduce, consentendo dunque lo scambio di ruoli e l’uguaglianza che l’etica non solo non presupponeva, ma di cui anzi non presupponeva neanche la possibilità. Ecco perché allora il comando «Tu non ucciderai» deve far posto alla formula della legge astratta: «Non si deve uccidere», legge svincolata dai soggetti chiamati in causa in quel «si» di cui con particolar forza va sottolineata l’impersonalità.
Il passaggio dal comando alla legge si concretizza, dal punto di vista politico, nella categoria dello Stato: e proprio esaminando questa nuova nozione ci troviamo subito di fronte ad un’interessante alternativa teorica rispetto al tradizionale schema hobbesiano.
Lo Stato della giustizia proposto da Levinas non nasce infatti da una limitazione della guerra permanente di tutti contro tutti, come appunto nello schema di Hobbes, bensì da una limitazione della responsabilità per l’altro. Cioè, Levinas pone come fenomeno originario non il conflitto, ma la prossimità: in questo modo può tracciare un’alternativa fra lo «Stato di Cesare» e lo «Stato di Davide».
Così, da un lato, lo «Stato di Cesare» — Roma — costruito sul modello di Hobbes. Una città che conosce la pace, ma sotto il segno del «contro», «il diritto degli uomini contro i loro simili»; si tratta della pace degli Imperi, «uscita dalla guerra» e che «riposa sulla guerra». Dall’altro lato, lo Stato di Davide — Gerusalemme — che proviene da una fraternità originaria, irriducibile e capace di far nascere una pace della prossimità, sotto il segno del per-l’altro. Anche se Israele non ignora la violenza nella storia, per esso non è da questa violenza che ha origine lo Stato, nonostante le prove del senso comune, ma piuttosto dall’evento etico dell’incontro.4
Necessariamente lo Stato porta con sé la violenza, perché richiede un ridimensionamento di Altri che, visto all’interno della prospettiva etica, non è altro se non una violenza nei suoi confronti. Ma si tratta di quel minimum di violenza richiesto dalla realtà della situazione sociale allargata in cui già da sempre ci troviamo e in cui non possiamo tener conto del terzo che sopraggiunge.
Ciò che l’etica reputa violenza finisce con l’essere la condizione della possibilità della giustizia. Questo però non vuol dire disconoscere tout-court l’etica, il volto e l’alterità d’Altri: ciò che è stato detto all’interno della prospettiva etica non va rigettato, ma posto in relazione feconda con ciò che emerso nel quadro della giustizia e del sopraggiungere del terzo.
3. Fra etica e giustizia. Il posto del soggetto
Giungiamo così alla necessità di riflettere sui punti di collegamento che costellano il rapporto fra le due dimensioni dell’etica e della giustizia. Fino ad ora infatti sembra si tratti di due elementi strutturalmente diversi, che nascono dal bisogno di affrontare situazioni radicalmente distinte quali l’incontro con Altri e la nascita della società con il sopraggiungere del terzo. Il rapporto sembra dunque scarsamente problematico, poiché come abbiamo visto più volte — e come Levinas non si stanca di ripetere — Altri esclude il terzo, e viceversa, aggiungiamo noi, il terzo esclude Altri.
In realtà il problema è molto più complesso, soprattutto per un elemento fondamentale cui abbiamo accennato all’inizio della nostra analisi.
io non vivo in un mondo in cui c’è un solo «primo venuto»; nel mondo c’è sempre un terzo: anch’egli è il mio altro, il mio prossimo.5
E ancora:
In un certo senso, anche se l’uomo mi perseguita, debbo rispondere, non posso lasciarlo alla sua responsabilità. Ma l’uomo che perseguita e che io posso avere da perdonare, tocca anche il terzo. Qui devo difendere il terzo perseguitato, prima del persecutore. In realtà, concretamente, non si esce mai da questa situazione.6
Dunque noi ci muoviamo sempre nell’ambito della giustizia, del politico, perché l’altro ha sempre accanto a sé il terzo: la nostra dimensione di riferimento è la socialità allargata, la società autentica, perché il terzo è sempre presente — o presente in quanto assente —, e comunque è colui che deve essere sempre preso in considerazione e ci spinge verso il giudizio, verso la giustizia. Non si esce mai dall’ambito della giustizia, dunque non si entra mai in quello dell’etica; ma in questo la dimensione etica non rischia di presentarsi solo come una sorta di «esperimento mentale», come la descrizione di una «situazione limite» che però è al soggetto preclusa in ogni modo?
Le conseguenze di questo problema sono molto rilevanti, perché ci portano a dubitare dell’effettiva validità di tutta la struttura etica del pensiero di Levinas — peggio, ci danno l’impressione che la dimensione etica così lungamente analizzata non sia altro in realtà che la descrizione di un vuoto, di un qualcosa che non può essere, sostanzialmente un nulla. E tale dubbio investe inevitabilmente tutti i fondamenti su cui si basa la prospettiva etica, costringendoci quindi anche a rilevare l’aporia perfino in Altri e nel volto, che finiscono con il risultare anch’essi semplici chimere inesistenti. Come si può infatti vedere Altri e il suo volto, se Altri non esiste, e se il suo volto altro non è che le linee e i contorni del suo viso, quindi un semplice dato fisico?
Un primo suggerimento sulla direzione verso cui indirizzarci per trovare una soluzione a questa aporia ci viene dal seguito della riflessione sullo Stato e sulla distinzione fra Stato di Cesare e Stato di Davide su cui ci siamo già soffermati.
Nell’ipotesi levinasiana, lo Stato è permanentemente attraversato, investito da una sursignificazione. Lo Stato nella sua effettività non cessa di indicare un al-di-là di se stesso. Ciò vuol dire riconoscere che l’ipotesi di Levinas ci rivela l’implicito dello Stato e dentro questo implicito ci mostra «il superamento dell’intenzione nell’intenzione stessa». Lo Stato contiene un più, o un sovrappiù che lo supera, un orizzonte sconosciuto che tocca all’analisi fenomenologia far risorgere e mettere in scena. Secondo questa sursignificazione che abita lo Stato, vi è nello Stato più che lo Stato. Ed è perché c’è nello Stato più che lo Stato che esso tende ad autosuperarsi, ad aprire la via a questo al-di-qua, altrimenti detto a questo sovrappiù che lo attraversa e lo porta ad estendersi al-di-là di sé stesso.7
La dimensione politica trova quindi nella relazione etica il modello con cui confrontarsi e da cui trarre fondamento. La politica deve quindi orientarsi sull’etica e trasportare sul proprio piano i principi della fratellanza responsabile, per poter in questo modo instaurare quello Stato di Davide che così tanto ricorda un’utopica civitas Dei.
Ma il problema è risolto solo in parte, perché ancora nulla è stato detto a proposito dell’effettiva presenza, nell’autentica prospettiva-di-vita del soggetto, della dimensione etica, che continua a proiettarsi come un vuoto artificiosamente riempito.
Le riflessioni su cui ci siamo appena soffermati ci forniscono però un indizio. Le tensione che deve generarsi fra etica e politica ci rimanda infatti a ciò che Kant dice a proposito della legge morale, da cui traiamo come prezioso suggerimento la nozione di ideale regolativo.
È allora proprio in questa direzione che deve orientarsi la nostra comprensione della dimensione etica. Dobbiamo infatti prendere atto, e non possiamo farne a meno, del non verificarsi mai della situazione etica: l’altro non è mai Altri, perché la presenza «già sempre presente» del terzo non permette ad Altri e al suo volto di convocarmi alla responsabilità universale con il loro ineludibile comando, ne spezza la suprema autorità. È quindi vero che, possiamo dire, Altri non esiste, ma è proprio la nozione di ideale regolativo a permetterci di recuperarne la forza e la validità. Bisogna infatti trasferire la nostra riflessione da un piano ontologico ad un piano deontologico, un piano che quindi abbandoni l’orizzonte dell’essere — esigenza basilare in tutto l’itinerario filosofico di Levinas — verso il dover-essere in cui propriamente si inscrive l’etica. È allora alla luce delle categorie del dover-essere che dovremo leggere ciò che viene detto di Altri, del volto e del suo comando: non come una descrizione di ciò che è, ma come una prescrizione di ciò che deve essere.
Altri e il suo volto sono allora simboli del comando stesso: il soggetto non incontra mai, a rigore, Altri e il suo volto, bensì sempre l’altro — che, pur nell’irriducibilità della sua alterità, non ha l’«altezza» che mi comanda di Altri; ma in questo incontro con l’altro il soggetto deve comunque pensare Altri, deve cioè considerare l’altro, che ha sempre di fronte, come se fosse Altri, che invece non ha di fronte mai.
In questo senso Altri e il volto devono essere «ideale regolativo»: non reali, dunque, ma ideali che orientino la relazione del soggetto con l’altro, rappresentazioni iperboliche — termine spesso associato alla proposta levinasiana — tramite cui il soggetto possa tendere ad adeguare l’essere al dover-essere, l’ontologico al deontologico. Levinas stesso ripete in più punti che il volto non è un fenomeno, non né una forma plastica o un ritratto, non è il viso che vedo di fronte a me nell’incontro con l’altro, ma è il simbolo del suo essermi prossimo, è il significato che esso deve ricoprire per il soggetto che lo incontra: è la sua simbolicità ad essere allora fondamentale, il suo fungere da rimando ad una dimensione ideale, quella etica, che non è reale ma che sul reale deve esercitare la sua influenza e con il reale deve generare una tensione che porti il soggetto sulla via dell’azione giusta. Con una sorta di gioco di parole, si può dire che il volto non è il volto, ma deve essere il volto, che l’altro non è Altri, ma deve essere Altri.
È questa tensione fra reale e ideale che può allora riempire di senso l’azione del soggetto, perché è tale tensione che permette il sorgere dell’azione giusta, quell’azione cioè che si svolge non sul piano dell’etica — anche perché, si pensi ad esempio a ciò che viene detto in Totalità e Infinito, la categoria chiave dell’etica non è l’attività ma la passività — ma sul piano della giustizia, senza però dimenticare l’«imperativo categorico» che l’etica, nella sua iperbolicità, prescrive.
Levinas lo dice chiaramente: «L’impossibilità di uccidere non è reale, è morale»,8 dunque ideale: nella tensione fra questi due piani si disegna l’azione giusta del soggetto, perché il terzo è entrato in gioco e ha causato un ripensamento — e un parziale abbandono — del comando. Al comando si obbedisce, l’azione giusta invece si compie: è allora anche la tensione fra la passività dell’etica e l’azione della giustizia a fornire senso autentico al ruolo del soggetto. È infatti lo statuto della legge nella sua differenza rispetto al comando che ci permette di intravedere in essa un elemento basilare che sottolinea il ruolo attivo del soggetto, cioè il suo essere frutto di autonomia.9
Giungiamo così ad un ulteriore punto problematico, che concerne appunto il ruolo del soggetto. È all’interno del suo agire che si inscrive infatti la parte più complessa della questione relativa al rapporto fra Altri e il terzo.
Nella prospettiva etica, di fronte ad Altri, il soggetto si trova schiacciato dall’altezza del comando del suo volto, preso in ostaggio dalla chiamata alla responsabilità che Altri gli impone come inevitabile, fino al culmine della sostituzione e della responsabilità universale. Abbiamo visto come l’emergere del terzo costringa il soggetto a ridimensionare questa responsabilità, portandola fuori dal piano dell’etica. Si pone allora come evidente nodo problematico il destino di questa responsabilità universale, la domanda relativa cioè alla sua effettiva permanenza anche sul piano della giustizia, e — in caso di risposta affermativa — a quali necessarie modifiche vada incontro in questo passaggio. È infatti in questa tematica che si inserisce il problema del soggetto, perché il suo ruolo sarà evidentemente determinato dalle forme che l’agire responsabile assumerà nel suo trasferimento sul piano della giustizia.
All’interno della società allargata, in cui il terzo ha già fatto la sua comparsa, si verifica un cambiamento di senso riguardo alla responsabilità universale: se infatti nell’etica abbiamo visto come tale nozione fosse relativa all’universalità degli aspetti di Altri di cui essere responsabile, ora invece il soggetto si trova a dover essere responsabile dell’altro e del terzo e del legame che fra loro si crea. È una responsabilità quindi che si limita, da un lato, perché deve ridimensionare la potenza del comando del volto, ma dall’altro si estende, poiché si trova a dover considerare anche «gli altri» che non sono Altri, e di cui il terzo è simbolo. È allora un nuovo senso quello che investe la nozione di responsabilità universale, perché ora cade nel suo ambito l’universalità dei membri della società e dei loro rapporti; e si tratta qui di una responsabilità autenticamente politica, sottratta sì al comando ma rispettosa della legge, non più basata sull’asimmetria fra il soggetto e Altri ma costruita a partire dall’uguaglianza dei membri, che rimangono alterità irriducibili ma necessariamente passibili di giudizio.
E la conseguenza più rilevante per il soggetto sarà allora quella di ricadere inevitabilmente all’interno della propria responsabilità: se devo essere responsabile di tutti, non più solo dell’altro in quanto Altri, devo allora essere responsabile anche di me stesso, non posso più subordinarmi al comando del volto di Altri, perché devo agire alla luce della legge, concretizzazione della responsabilità universale, quindi anche della mia responsabilità per me stesso.
Bisogna tornare al soggetto, bisogna tornare all’essere; non con un gesto semplice e aproblematico, ma tenendo ben presente l’ideale del momento etico e la tensione con l’essere che esso genera.
Il modo di pensare qui proposto non consiste nel misconoscere l’essere e neppure nel trattarlo, secondo una pretesa ridicola e sdegnosa, come cedimento di un ordine o di un Disordine superiore. Ma è a partire dalla prossimità che l’essere assume, al contrario, il proprio giusto senso. Nei modi indiretti dell’illeità, nella provocazione anarchica che mi ordina all’altro, s’impone la via che conduce alla tematizzazione e a una presa di coscienza: la presa di coscienza è motivata dalla presenza del terzo affianco al prossimo avvicinato; anche il terzo è avvicinato; la relazione tra il prossimo e il terzo non può essere indifferente all’io che si approssima. È necessaria una giustizia fra gli incomparabili. È necessario dunque un paragone tra gli incomparabili e una sinossi; messa insieme e contemporaneità; è necessaria una tematizzazione, un pensiero, una storia e una scrittura. Ma bisogna comprendere l’essere a partire dall’altro dell’essere. Essere, a partire dalla significazione dell’approssimarsi, è essere con altri per o contro il terzo; con altri e il terzo contro sé. Nella giustizia contro una filosofia che non vede al di là dell’essere, che riduce, abusando del linguaggio, il Dire al Detto e ogni senso all’interessamento. La Ragione, alla quale si attribuisce la virtù di fermare la violenza per raggiungere l’ordine della pace, suppone il disinteressamento, la passività o la pazienza. In questo disinteressamento, quando la responsabilità per l’altro è anche responsabilità per il terzo, si configurano la giustizia — che confronta, raccoglie e pensa — la sincronia dell’essere e la pace.10
In questa prospettiva ci troviamo allora di fronte ad un soggetto nuovo, che trova la possibilità dell’azione giusta sia sotto la guida della legge, sia nell’ideale del comando.
E questa situazione «a metà» del soggetto, teso fra il comando e la legge, diventa a nostro parere ben evidente nel momento in cui ci riallacciamo a quanto precedentemente detto a proposito del passaggio dal comando alla legge, dal «Tu non ucciderai» al «Non si deve uccidere». Il soggetto che si trova ad agire nella dimensione della giustizia, tenendo però ben presente l’ideale regolativo dell’etica, oscilla infatti fra il «Tu» dell’insostituibilità e dell’elezione e il «Si» che invece lo riduce a soggetto eguale agli altri, e questa tensione può essere esplicitata e simbolizzata se proseguiamo il percorso della formula aggiungendo un passaggio successivo.
Il soggetto della legge non può infatti essere semplicemente il fattore astratto ed impersonale che verrebbe dalla legge stessa richiesto, proprio perché ora dobbiamo considerare il richiamo ideale che la dimensione dell’etica esercita su di esso; se non teniamo conto di questo, il «Si» della legge non è più semplicemente impersonale, ma diventa spersonalizzante. Invece, anche la legge ha un destinatario ben preciso, ed è il soggetto immerso nella comunità, un soggetto — abbiamo visto — responsabile di tutti e anche di sé, un soggetto cosciente e consapevole di sé e del proprio ruolo. Ma allora il «Non si deve uccidere» diventerà «Io non devo uccidere»: l’accento verrà nuovamente spostato sul soggetto, ma in un modo profondamente diverso rispetto al momento etico. Nella dimensione etica, infatti, era il soggetto nella sua interezza ad essere convocato alla responsabilità come unico ed insostituibile, ma sotto il segno della passività: il comando si esprime nel «Tu». Ora, invece, la situazione è cambiata: è sempre il soggetto nella sua interezza ad essere chiamato all’azione giusta da parte della legge, ma è un soggetto che si è riappropriato di sé e della sua attività, un soggetto fra gli altri e non più solo al cospetto di Altri, un soggetto quindi che non deve più solo aspettare passivamente il comando ma può dire «Io», riconoscendo e valorizzando la propria attività. È l’io che interiorizza la legge, che in quanto tale non prevede più la passività di chi riceve l’ordine ma l’attività del cittadino che agisce secondo la legge dell’autonomia.
4. Conclusione
È dunque emersa nel corso della nostra analisi una serie di punti notevoli nel corso della nostra analisi, che ci hanno permesso di comprendere in maniera più approfondita alcuni nodi problematici dell’opera levinasiana scarsamente sviluppati dalla critica tradizionale, come il tema del terzo, la tensione fra etica e giustizia, la dimensione politica, il complesso ruolo del soggetto. Riteniamo che l’interpretazione da noi così fornita possa inoltre essere utilizzata con profitto per rispondere ad una serie di critiche mosse a Levinas da molteplici direzioni, colpevoli — a nostro avviso — di non aver tenuto nella giusta considerazione la distinzione basilare fra Altri e il terzo, fra etica e giustizia che qui ci siamo sforzati di sottolineare in maniera il più possibile chiara e precisa.
Ciò non vuol dire però non riconoscere dei punti deboli, o addirittura delle mancanze nella proposta di Levinas: specialmente su una di queste vorremmo ora richiamare l’attenzione, dal momento che ci sembra utile per completare il quadro del nostro discorso.
La distinzione fra Altri e il terzo risulta essere, potremmo dire, oppositiva: il terzo cioè si pone come opposto escludente di Altri, il suo ruolo è alla fine quello di far precipitare Altri dall’altezza dell’asimmetria per condurlo — e ridurlo — nella dimensione della giustizia. Ma con ciò non sarebbe del tutto esatto dire che Altri è «figura dell’etica» e il terzo «figura della giustizia», perché, se è pur vera la prima affermazione, non lo è la seconda: sul piano della giustizia non compare infatti solo il terzo, ma «gli altri», i membri della società allargata nella loro totalità. Il terzo è dunque la figura di passaggio, nodo cruciale della tensione fra etica e giustizia in quanto «figura di crisi» per entrambe le dimensioni: non è infatti possibile trovarlo nell’etica, ma bisogna riconoscere che non è neanche la figura chiave della giustizia, poiché in questa dimensione il quadro di riferimento è offerto dall’altro «de-enfatizzato» della società allargata, dal «voi» seconda persona plurale in cui il terzo, in qualche modo, è già incluso.
Qui arriviamo però al problema: manca infatti, in Levinas, un’analisi dell’alterità nel suo particolare modo di darsi all’interno del quadro della giustizia, come un altro che quindi non sia Altri ma non sia neanche il terzo. Manca in Levinas un’analisi dell’altro della giustizia, e non è un caso, a nostro parere, che proprio in questa direzione si orientino ultimamente autori che si sono dedicati con attenzione allo studio di Levinas, segno di una sensibilità diffusa a proposito dei nodi più problematici di un pensiero che continua a suscitare fascino e suggestione. Si pensi, oltre al già citato Abensour, al Derrida di Politiche dell’amicizia:11 emerge chiaramente la necessità di pensare l’alterità senza dimenticare le pagine di Levinas, ma senza dimenticare neppure da un lato le esigenze della dimensione politica e sociale in cui lo stesso Levinas situa l’agire umano, dall’altro il bisogno di ricondurre il centro del discorso alla possibilità dell’azione giusta — dunque all’attività — da parte del soggetto — dunque all’io.
È allora in questa direzione che deve muoversi, a nostro giudizio, chi voglia davvero raccogliere l’eredità di Levinas, evitando le secche dell’essere così come quelle dell’etica per non rimanere bloccato in una dimensione come nell’altra. In questo modo potranno essere utilizzati davvero i suggerimenti del filosofo lituano riguardo ai due problemi che risultano essere i veri temi di sfida per quegli autori che — a nostro avviso — meglio hanno raccolto gli spunti delle teorie del postmoderno: l’intersoggettività e la svolta verso la dimensione del politico. L’intreccio di questi due temi sarà allora il punto nodale su cui rivolgere l’attenzione, per poter portare avanti la riflessione oltre quei limiti per i quali Levinas, pur senza essere riuscito a percorrerla pienamente, ha tracciato una possibile via.
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E. Levinas, L’io e la totalità, in Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991; tr. it. Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, a cura di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, p. 47. ↩︎
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Id., Domande e risposte, in De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982; tr. it. Di Dio che viene all’idea, a cura di S. Petrosino, trad. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1983, p. 106. ↩︎
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Id., Dialogo sul pensare all’altro, in Entre nous…, cit., p. 252-253. ↩︎
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M. Abensour, L’Etat de la justice, in Magazine Littéraire, n. 419, aprile 2003, p. 56, traduzione nostra. ↩︎
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E. Levinas, Filosofia, giustizia e amore, in Entre nous…, cit., p. 138. ↩︎
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L. Ghidini, Dialogo con Emmanuel Levinas, Morcelliana, Brescia 1987, p. 54. ↩︎
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M. Abensour, cit., p. 57, traduzione nostra. ↩︎
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E. Levinas, Éthique et esprit, in Difficile Libertè. Essais sur le judaïsme, Albin Michel, Paris 1963; tr. it. parziale Difficile Libertà. Saggi sul giudaismo, traduzione, introduzione e note a cura di G. Penati, La scuola, Brescia 1986, p. 23, traduzione nostra. ↩︎
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Si confrontino ad esempio le pagine dedicate al tema della sostituzione in Altrimenti che essere [E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974; tr. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di S. Petrosino e M.T. Aiello, con introduzione di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983, p. 123-163]: tale problema designa una dinamica bidirezionale, cioè da un lato il tentativo di sostituirsi all’altro assumendosi la responsabilità di ogni sua azione o in-azione, dall’altro la necessità di «portare l’altro dentro di sé», interiorizzando il comando e trasformandolo così in una norma che il soggetto, certo sempre debitore originariamente nell’incontro, possa successivamente «trovare in sé». Ma questo processo presuppone diacronia, ripetizione, storia: elementi che ci permettono di comprendere come proprio qui, al culmine della sostituzione e del suo paradosso, ci troviamo nel momento decisivo del passaggio dall’etica alla giustizia. La responsabilità universale deriva infatti dal sostituirsi all’altro in ogni suo aspetto, ma è proprio questa nozione di responsabilità universale ad essere stata messa in crisi dal terzo: è quindi chiaro che è qui, nel nesso problematico che si instaura fra il terzo e la responsabilità universale la chiave del passaggio dall’etica alla giustizia. ↩︎
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E. Levinas, Autrement qu’être…, cit., p. 21-22. ↩︎
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J. Derrida, Politiques de l’amitiè, Éditions Galilée, Paris 1994; tr. it. Politiche dell’amicizia, traduzione di G. Chiurazzi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995. ↩︎