1. Capacità razionale appetitiva
Il pretesto e lo sfondo da cui prende le mosse e su cui conseguentemente si articola lo svolgimento del saggio Sul Valore della Vita1 (Über den Wert des Lebens), scritto dal giovane Schleiermacher in seguito alla predica sul senso etico della vita e sulla fugacità del tempo tenuta in occasione del capodanno del 1792, è dato dal passaggio temporale ad un nuovo anno, e, in generale, a quella che si potrebbe definire, in rapporto ad un momento, ad un avvenimento determinato e concretamente fissato (il capodanno, il compleanno, un’esperienza particolare), come una nuova ed altra fase della propria vita. Il problema che ne consegue investe non solo la dimensione storica e temporale, entro la quale si colloca l’evento, ma anche e soprattutto quella etica in quanto sfera del vissuto. Non a caso il saggio in questione è nelle opere di Schleiermacher accompagnato da altri due saggi che sono quello sul Sommo Bene (Über das Höchste Gut) e quello Sulla Libertà (Über die Freiheit).
I due temi principali svolti nel saggio Sul Valore della Vita sono quelli relativi all’Humanität, quale contenuto di una vita qualificata dal valore, e alla Bildung, come possibilità di felicità a cui gli individui, o anche interi gruppi umani, tendono.
L’umanità è il contenuto, il valore intrinseco della vita che, in quanto degna d’esser vissuta, ha il proprio criterio di giudizio in se stessa, costituendosi, in netta opposizione alla zoè, cioè alla vita meramente animale e limitata, come bios. Ma come si realizza una vita qualificata dal valore? Una vita siffatta si realizza nell’armonia tra le dimensioni del conoscere e del desiderare. Il conoscere si caratterizza come quella facoltà e quella capacità che, rompendo e superando i limiti della percezione, consente di ampliare i propri confini spaziali e temporali. Possiamo ricondurre il conoscere alla Ragion pura teoretica kantiana, cioè a quella modalità precipua del vivere propria dell’uomo. Il desiderare è invece quella facoltà appetitiva2 che esprime il conatus, ossia il tendere dell’uomo verso qualcosa . Esso si collega a tutte quelle dinamiche che configurano l’azione, ossia la produzione. Detto in termini kantiani il desiderare è quella facoltà circoscritta dall’orizzonte della libertà intesa come il perno stesso dell’universo morale. Una vita indicizzata dal valore è quella vita in grado di sviluppare armonicamente queste due energie o dinamismi inerenti all’umano.
L’indice di questa armonia è il sentimento di piacere o di avversione. Il piacere è la sensazione che nasce dall’accordo tra una rappresentazione e ciò a cui il desiderio tende. In altri termini l’elemento che incrementa e favorisce la vita si configura come una congruenza, un equilibrio tra il mondo rappresentativo, fatto di idealità, informazioni, conoscenze, e il mondo appetitiva, fatto di finalità, ideali, valori. L’avversione è invece quella sensazione che nasce da una distonia, da una collisione tra i due mondi (rappresentativo e appetitiva); essa porta a fuggire, a ritrarsi, a deviare dall’oggetto che si presenta inadeguato e in antitesi con il proprio desiderio. Lo scaricarsi di una tensione o energia o desiderio è accompagnato sempre da un sentimento di realizzazione, di soddisfazione. La vita umana è legata in maniera notevole alla sensibilità che è, come anche Kant sostiene, una componente inalienabile sia del conoscere che dell’agire.
Bisogna precisare che l’oggetto dell’analisi che Schleiermacher conduce non è né il sommo bene, né il bene universale, né il fatto che ciò che per un uomo può essere indicativo di bene, suscitandogli il sentimento del piacere, per un altro uomo può anche essere causa del male e provocare la sua avversione. Il compito che Schleiermacher si prefigge è quello di esaminare formalmente le dinamiche sottese alla vita dell’uomo per il raggiungimento di quell’equilibrio costitutivo di una degna esistenza, a prescindere dalle innumerevoli, diverse e mutevoli circostanze dinanzi alle quali ci si trova (o, detto in termini heideggeriani, in cui l’uomo di trova «gettato»).
2. Capacità sensibile appetitiva
Da quanto detto si può riassumere che, per Schleiermacher, sul piano razionale l’obiettivo sempre in divenire di una vita qualificata dal valore risulta essere il continuo mantenimento dell’armonia tra la sfera del conoscere e quella del desiderare.
Sul piano della sensibilità (o animalità) tale armonia deve invece essere mantenuta tra la sfera della percezione e quella della appetizione. I bisogni e le necessità che il corpo esige vengano soddisfatti sono comuni a tutti gli essere viventi; ad esempio il desiderio di nutrirsi nasce dal sentire lo stimolo della necessità di garantire al proprio corpo le funzioni minime per la sopravvivenza. E anche in questo caso la capacità di rendere le cose oggetto del desiderio è accompagnata dal sentimento (nel senso di Empfinden, sentire, percepire). Sul piano razionale invece la rappresentazione di un desiderio mette in moto la dinamica della libertà. Schleiermacher afferma che sebbene vi sia duplicità nel dinamismo del desiderare, a qualsiasi livello, il sentimento resta quella facoltà, quella capacità di sentire che accompagna tutte le realizzazioni. L’incrociarsi di questi complessi fattori (razionali e sensibili) inerenti all’umano è alla scaturigine del mondo della vita.
Ne deriva che:
I. Conoscere
Sul piano razionale
= Vita
II. Desiderare
III. Sentimento (Ge-fühl)
I. Percezione
Sul piano sensibile
II. Appetizione
III. Sentire, Sensazione (Empfinden)
Questa struttura dell’ethos umano mette capo all’impalcatura etica proposta da Schleiermacher. Il desiderio mette in moto il conoscere che a sua volta è indirizzato verso l’oggetto (del desiderio). Il conoscere può dare luogo ad una semplice scansione corrispondente al vero, e ad un’altra corrispondente al falso. Il conoscere vuole afferrare l’oggetto e, nel possedere l’oggetto, realizza pienamente il suo fine collocandosi nella dimensione del vero, con conseguente soddisfazione dovuta al cosiddetto piacere della verità (che si configura come una nuova complicazione del sentimento). Vi sono due elementi per capire se ci si trova nel vero o nel falso: 1) la certezza (criterio soggettivo); 2) la determinazione delle condizioni per essere nel vero (criterio oggettivo). In questo senso è vero ciò che Platone afferma nei riguardi della filosofia il cui compito è quello di «dare ragione» (il lògon didònai è quella ragione che ragionando si scopre come la miglior ragione possibile), di comprendere (nel significato del das Verstehen diltheyano prima, heideggeriano poi), di portare a verità le istanze conoscitive dell’uomo, in definitiva di dare un senso alla vita e all’esistenza dell’uomo. Nell’ottica schleiermacheriana queste componenti istituiscono l’universo della moralità, ovvero dell’ethos. Non qualsiasi verità però conferisce quel tipo di piacere che è indicativo di una vita moralmente vissuta. Il piacere della verità risulta essere il piacere della congruenza delle singole cose con le regole. È la verità conseguita nell’afferramento delle regole, nel provare il piacere delle regole. La facoltà delle regole a cui qui ci si riferisce, sulla scia di Kant, è la ragione. Il piacere delle regole nell’agire etico denota la tendenza dell’essere razionale a progettare la propria destinazione che è l’Humanität da realizzare nella dimensione dell’ethos.
3. Fichte, Kant, Schleiermacher
Risulta utile (nonché consequenziale) a questo punto, in vista di una miglior comprensione del problema etico, richiamare il pensiero di J.G. Fichte. Per Fichte il significato e il valore umano della vita consiste nel compito che l’uomo si impone in rapporto e al servizio di un ideale razionale. La via che Fichte addita per l’efficace conseguimento di questo compito è il progresso incessante e innegabile dell’umanità. Una via già indicata da Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi prima, e nella Critica della Ragion pura pratica poi, e che è da Fichte sviluppata e riaffermata ulteriormente. Per Fichte la sola causa ragionevole che può avere l’esistenza risiede unicamente nell’indirizzo che ognuno dà alla propria vita in vista di un obiettivo da conseguire mediante l’utilizzo delle forze di cui si dispone. Nessuna cosa può essere concepita se non come oggetto di pensiero. Questo non vuol dire che gli oggetti esistono soltanto nel pensiero; il sensibile, anzi, si costituisce come limite dell’azione, cioè realtà altra e indipendente rispetto al soggetto. Per Fichte, come per Kant, l’uomo si rapporta al molteplice sensibile, che determina il contenuto della coscienza, in qualità di empfangende passivo; questa passività però è inscindibile dall’attività della coscienza, per cui il materiale sensibile si presenta ordinato, e non caotico, nell’atto stesso in cui è conosciuto, quasi come se fosse stato ordinato, o ancora di più fosse originariamente ordinato, dall’ esterno e in maniera indipendente dal soggetto.
Nell’atto conoscitivo sono congiunti Io e non-Io, vale a dire il soggetto che pensa, soggetto solo in quanto pensa, e l’oggetto che è pensato. Il non-Io è l’insieme delle cose particolari e contingenti che sebbene si presentino in un modo specifico potrebbero anche presentarsi in maniera diversa.
Ma l’Io e il non-Io sono due realtà che non possono essere collocate sullo stesso piano come ha fatto, con la teoria delle sostanze, Cartesio. Per Cartesio l’insieme delle cose esterne, che sono messe in dubbio, può condurre la coscienza all’illusione e al sogno se non fosse per quel cogito che, lungi dall’essere la piena e compatta realtà delle cose, si qualifica come il soggettivo criterio di certezza (la pietra di paragone) in funzione del quale, attraverso un’ulteriore mediazione che avviene fuori dal pensiero, può esser prodotto l’accordo tra res extensa e res cogitans.
A sua volta Kant dimostra che tutto quanto vi è di universale e necessario nella conoscenza, e in particolare nella scienza, non può derivare a parte objecti, ma solo a parte subjecti. La certezza risiede nella soggettività che si struttura come sintesi a priori, ossia come valore universale del pensiero. Valore che, come per la volontà buona, è tale nella misura in cui obbedisce alla ragione, cioè a quelle stesse regole della ragione di cui si è parlato nel § 2.
Sul piano etico è l’imperativo categorico che induce a pensare che nessuna azione ha valore morale se non è fatta puramente per il dovere, cioè in obbedienza all’imperativo formale della ragione, che è di agire in maniera incondizionata e in modo tale che il criterio dell’azione possa valere come legge universale.
Questo insegnamento Fichte lo apprende da Kant. La volontà etica si configura non solo libera ma anche, e soprattutto, autonoma in quanto risiede nella ragion pratica che si assoggetta esclusivamente alla propria legge e non è determinata meccanicamente da cause esterne. In Fichte l’Io risulta essere libero e autonomo in quanto non è cosa ma attività, produzione, non essere ma divenire.
Nella Prima Lezione de La Missione del Dotto (o anche Destinazione dell’Intellettuale) Fichte afferma che siccome nell’uomo vi è contrasto tra sensibilità e ragione (la stessa dualità che a più livelli anche Schleiermacher individua), l’una che lo trascina nel mondo della natura e del meccanismo, l’altra che lo rende autonomo, ne consegue che» l’uomo deve essere ciò che è perché è (= ragione)». Ossia:
[…] l’uomo è fine a se stesso […] egli non esiste perché debba esistere qualche altra cosa, bensì esiste semplicemente perché egli stesso deve esistere, null’altro che il suo esistere è lo scopo ultimo del suo esistere […] Egli è perché è. Questo carattere dell’essere assoluto, dell’essere che esiste di per se stesso, è il suo carattere o la sua missione, in quanto egli venga considerato puramente e semplicemente essere ragionevole.3
L’Io è valore perché è ragione che si produce in quanto ragione. È causa sui, non esse ma fieri. Se la ragione fosse semplicemente una realtà agente per propria natura, cioè senza potersi autodeterminare, non avrebbe alcun valore. La ragione invece si costituisce proprio in quanto è produzione e libertà. Valore è per Fichte tutto quanto è creazione dell’essere umano interamente razionale. È quello che Socrate chiama ta anthròpina, il mondo morale. Ciò che è conforme alle leggi della ragione è razionale ed ha valore morale.
L’uomo però non è un singolo isolato dal mondo, ma vive in una società che si costituisce nel costante e reciproco rapporto dei singoli. L’altro è riconosciuto nella libertà. Ma la libertà non si può porre bensì si deve realizzare. E il riconoscimento di tale realizzazione chiama in causa gli uomini, nessuno escluso, i quali, istituendo analogie con gli altri uomini, possono legittimarsi liberi. Per Fichte la libertà non risiede nella conoscenza ma nell’azione, o meglio in» un rapporto di azioni scambievoli a norma di concetti». In virtù di questo discorso Fichte afferma che l’uomo è moralmente obbligato ad agire nella società e per la società. Le azioni, per quanto diverse, si rivelano conformi a ragione in quanto obbediscono alla medesima legge universale (la forma nel linguaggio kantiano). Così il singolo mentre lavora per sé, modificando le cose per renderle conformi alle esigenze razionali, lavora anche per il mondo esterno, per la società. È questo il destino dell’uomo: vivere in società per realizzare il proprio compito di perfezionamento che, ormai risulta chiaro, è perfezionamento di tutta l’umanità. La legge morale prescrive l’esigenza che le differenze individuali, provenienti dalle empiriche differenze dei vari uomini e non dal principio razionale presente nell’uomo (l’Io puro della Dottrina della Scienza), vengano superate e conciliate nell’ideale di unità e di armonia razionale della società. L’uomo deve dunque operare per gli uomini e perfezionarsi all’infinito. Tale è la missione dell’uomo affinché l’umanità intera possa diventare portatrice di un valore sacro, del valore della vita.
Quando Fichte parla di dotto nel senso di uomo di cultura in generale, vuole indicare tutti coloro che si adoperano nella costante educazione dell’uomo. Qui educazione vuol dire Bildung, ossia formazione spirituale. Si chiama poi più specificamente cultura il complesso delle conoscenze necessarie all’educazione; e la cultura (che nella Quarta Lezione della Missione del Dotto Fichte chiama dottrina) è il mezzo per lo svolgimento dell’attività morale. La cultura è necessaria per realizzare il perfezionamento progressivo della società umana in quanto sviluppa l’attitudine educativa. Questa si esplica sotto due aspetti: l’educare, cioè influire sugli altri esseri liberi, e l’essere educati, cioè ricevere a propria volta educazione dagli altri. A tal proposito risulta particolarmente interessante e chiaro ciò che Fichte dice alla fine della Quinta, ed ultima, Lezione del saggio:
Quanto più nobili e migliori voi sarete, tanto più dolorose per voi saranno le esperienze che vi si preparano nella vita; ma non lasciatevi sopraffare da questo dolore, bensì pensate a vincerlo voi con le vostre azioni. Esso è preordinato e stabilito a bella posta nel piano provvidenziale del miglioramento del genere umano. Assistere e versar lamenti sulla corruzione degli uomini, senza tendere una mano per contribuire a diminuirla, è da donnicciola. Castigare o schernire amaramente, senza però dire agli uomini in qual modo potrebbero diventar migliori, non è atteggiamento da amico. Agire! Agire! questo è il fine per cui esistiamo. Vorremo forse adirarci perché gli altri non sono così perfetti come noi, quando noi siamo soltanto un po’ più perfetti di loro? E non è appunto questa nostra maggiore perfezione un monito chiaramente a noi rivolto perché ci ricordiamo che noi siamo quelli che debbono lavorare per il perfezionamento degli altri? Esultiamo allo spettacolo del vastissimo campo a cui dobbiamo dedicare il nostro lavoro! Esultiamo a sentire in noi la forza di agire e a vedere che il nostro compito è infinito!4
Nell’esistere concreto degli uomini il dinamismo, i complessi rapporti che coinvolgono sia la sfera della razionalità, sia quella della sensibilità (i due poli di cui si è parlato prima) si intrecciano a loro volta (generando un’ulteriore complicazione della dualità piacere-avversione) con la dinamica e la struttura del mondo sensibile-fenomenico. Tali livelli sovrapposti danno luogo alla dialettica dell’intero cosmo umano e della sua cultura. Kant pone distinzione tra virtù e felicità come duplice fine dell’esistenza umana, doppio movimento a cui l’ethos costantemente obbedisce. Virtù è tensione, sforzo che si origina nella conflittualità tra inclinazioni-impulsi e volontà di bene; la volontà buona è espressione dell’imperativo categorico in quanto risultanza dell’agire morale secondo la forma di tale imperativo. L’autonomia dell’agire morale si identifica con il dovere per il dovere. La felicità indica invece una condizione di appagamento e di gioia, e in parte corrisponde con la realizzazione dei desideri. Queste due istanze risultano però antinomiche in quanto la felicità non può mai ergersi a motivo del dovere perché in questo caso metterebbe in forse l’incondizionatezza della legge etica e quindi la sua formalità e la sua autonomia. Tuttavia la virtù, pur essendo il fine ultimo dell’esistenza umana, in quanto supremo bene, non è ancora quel sommo bene cui tende irresistibilmente la natura dell’uomo e che consiste, potremmo dire, nell’addizione di virtù e felicità. Ma in questo mondo virtù e felicità non sono mai congiunte in quanto lo sforzo di essere virtuoso e la ricerca della felicità risultano essere due azioni distinte o addirittura opposte poiché la vita etica implica la sottomissione delle naturali tendenze del desiderio verso l’oggetto. Di conseguenza virtù e felicità costituiscono l’antinomia etica per eccellenza, che è l’oggetto specifico della Dialettica della Ragion pratica.
Anche per Schleiermacher la vita etica è un modus esistendi in cui si istituisce una subordinazione della felicità, che è lo scopo proprio della natura sensibile-fenomenica dell’umano, alla virtù, che è la struttura dell’uomo nel mondo della cultura. Questa subordinazione consiste in una regolazione della tendenza al piacere secondo le leggi della virtù, ossia di quelle regole che sostengono l’equilibrio dell’asse conoscere-desiderare, e del corrispettivo sentimento scandito nella struttura antropologica dalla dinamica del piacere-avversione. Secondo Schleiermacher il tempo che scandisce la cultura, la storia umana, non è il tempo lineare basato sul principio di successione meramente cronologica, bensì la dinamica del sentimento la quale, muovendosi tra gli opposti di piacere e avversione, assume un andamento sinusoidale.5
La tesi proposta da Schleiermacher si può definire essenzialmente attraverso due punti cardine che possiamo sintetizzare come segue:
- Tutto ciò che è dato all’uomo dà valore alla vita nella misura in cui lo si valorizza, lo si sfrutta, se ne ricavano benefici.
- Dà valore alla vita ciò che l’uomo plasma e sviluppa in accordo con le proprie capcacità.
È l’equilibrio di razionalità e di sensibilità che genera la dimensione etica, la quale si configura come l’ideale dell’uomo (lo stesso ideale di cui Fichte parla nella sua Missione del Dotto). E sebbene l’etico si trovi a sviluppare possibilità in un contesto che è già dato (destino), spetta pur tuttavia ad ogni uomo realizzare al meglio tali possibilità.
La natura è infatti data come il campo d’azione in cui è possibile esercitare le possibilità di invenzione, di creazione, di esplicazione della struttura antropologica di fondo dell’uomo. La terra è un correlato del dinamismo antropologico. In quest’ottica anche il benessere risulta essere la capacità di produzione di beni orientata alla formazione di una società, di una cultura. La natura si configura quindi come il polo delle possibilità, proprie dell’essere umano, di agire, di plasmare la natura stessa.
E se Rousseau afferma che l’opera (l’uomo) che esce dalle mani della natura non abbisogna di nulla, è perfettamente in equilibrio, e soltanto successivamente, nell’atto di mettersi in rapporto con gli altri uomini, creando una società e dando luogo alla cultura, si generano grandi squilibri o sfasature, per Schleiermacher la cultura non allontana l’uomo dalla natura, anzi rende possibile una simbiosi tra cultura e natura.
Il termine cultura nel sistema etico proposto da Schleiermacher quindi assume un doppio significato:
- cultura è plasmazione, ovvero creazione delle condizioni per vivere bene.
- cultura è Bildung, nel senso di formazione di sé, di capacità di plasmare se stessi.
Ci giova concludere la presente trattazione, ovviamente limitata, con l’insegnamento che Schleiermacher offre a conclusione del saggio Sul Valore della Vita: «Tieniti sotto chiave i tuoi ideali, e non aspettare alimento per essi. Il loro campo è semplicemente la formazione delle tue azioni. Per il resto lascia che siano un vanto del santo dei santi della tua fantasia. Poi, rivestito solo dei loro paramenti da sommo sacerdote, perditi solennemente di rado nella loro contemplazione, quando il sipario della solitudine ti sottrae al mondo reale. Nulla vi sia nel mondo, cui ti dedichi interamente sotto qualche aspetto. Chi cerca in tal modo la sua felicità, la perderà. La tua intelligenza si abbeveri a tutte le sorgenti della conoscenza senza tralasciarne neppure una, senza inebriarsi a una soltanto. Il tuo senso morale si accontenti di singole soddisfazioni. Pur con tutto il tuo sentimento sociale, non amare nessun essere umano senza porti già in anticipo dei confini per la tua armonia con lui. E apprezza più le singole minuzie della vita sociale che non le grandi soddisfazioni. Certo solo un cuore sensibile, amorevole può evitare gli estremi in queste regole e scoprire per questa via vere tracce di felicità. Egli trova un gusto sincero nelle piccole gioie e accondiscende alle divisioni dell’anima senza perdere simultaneamente con questo smembramento la sensibilità per gli oggetti».6
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Friederich D.E. Schleiermacher, Il Valore della Vita, trad. it. a cura di S. Sorrentino, Marietti 1820, Genova 2000. Cfr. anche l’interessante studio di H. Spano, Filosofia pratica e individualità. Sulle meditazioni etiche del giovane Schleiermacher, Dante & Descartes, Napoli 2002, che attualmente risulta essere l’unica ricerca italiana condotta sulle «rapsodie etiche» («Sul Valore della Vita», «Sul Sommo Bene» e «Sulla Libertà»), scritte dal giovane Schleiermacher negli anni compresi tra il 1789 e il 1793. ↩︎
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In italiano il termine Begehrungsvermögen è reso con «facoltà di desiderare». ↩︎
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J.G. Fichte, La Missione del Dotto, Prima Lezione, pp. 10-11, La Nuova Italia, Firenze 1973. ↩︎
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J.G. Fichte, La Missione del Dotto, Quinta Lezione, pp. 133-134, op. cit. ↩︎
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Quest’ultima è un’ipotesi vagliata dal prof. S. Sorrentino durante una Lezione di Filosofia della religione tenuta nel mese di novembre 2003 presso l’Università degli Studi di Salerno. ↩︎
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F.D.E. Schleiermacher, Il Valore della Vita, trad. it. a cura di S. Sorrentino, Capitolo XIII, pp. 208-209, op. cit. ↩︎