P. Farina/Maria A. Vito, In dialogo con Simone Weil. Le provocazioni della Lettera a un religioso, Effatà, Torino 2015.
Il testo curato da Paolo Farina e Maria Antonietta Vito, due eminenti studiosi di Simone Weil, vuole essere un invito a raccogliere le provocazioni lanciate da Simone alla Chiesa cattolica attraverso un confronto con il celebre testo della Lettera a un religioso (1951) .1 L’operazione suggerisce una certa cautela; ma non bisogna neanche abusarne. Le indicazioni, i segni, le suggestioni aperte da Simone rappresentano ormai una parabola ineludibile per ogni pensiero che abbia voluto o che voglia ancora oggi sondare e sfidare l’Ekklesia sul suo terreno, quello dell’obbedienza al Cristo, alla sua passione: «La crocifissione del Cristo è il modello di ogni atto d’obbedienza».2
L’indicazione non è ovviamente periferica alla testimonianza weiliana; la sorregge da cima a fondo. La contraddizione ne è il crogiolo archetipico, sin dalla creazione: un Dio infinito che si fa altro da lui — «follia d’amore» — sino a raggiungere, nella mors turpissima, l’esinanizione totale:
«La distanza infinita tra Dio e Dio, suprema scissione, dolore cui nessun altro assomiglia, meraviglia dell’amore, è la crocifissione. Nulla può essere più lontano da Dio di ciò che è stato fatto maledizione».3
L’«albero più bello» — «Nessuna selva ne possiede uno simile», chiosa più volte Simone riprendendo il Crux fidelis — , la distanza infinita, è ciò che estende le sue propaggini sino agli estremi confini del tempo e dello spazio, dentro e fuori la Chiesa. Per Simone quest’albero non può che radicare l’anima, orientata dall’intersezione della croce al di là dello spazio e del tempo, l’eterno, ad abbracciare ogni uomo, per il semplice motivo che le sembra assurdo pensare che esso stesso non l’abbia fatto. La questione è tra le più dibattute da parte di Simone, e credo che vada cercato qui — oltre e nonostante le «risposte» del Magistero ecclesiale che, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, hanno spezzato una lancia verso le questioni sollevate dalla Lettre a padre Marie-Alain Couturier — il motivo per rispondere negativamente ancora oggi all’ipotesi di una sua adesione alla Chiesa cattolica.
Il contributo di Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese, Dentro e fuori la chiesa: il carisma della soglia (pp. 56 - 88), lo afferma chiaramente. L’essere dentro e fuori la Chiesa di Simone, «membro di diritto, non di fatto», il suo voler solcare la soglia, nell’intersezione tra tutto ciò che è cristianesimo e che cristianesimo non è, va appunto considerato alla luce della sua avversione per ciò che, in forma istituzionale-identitaria, tende ad aggregare, a costituirsi come un fatto sociale, ideologico: «si tratta di un modo di approcciare la verità rifiutando ostinatamente tutto ciò che si presenta ideologico e, di conseguenza, «totalitario»» (p. 60). La contraddizione orienta questo atteggiamento, che va dalle «esperienze mistiche»all’«impegno rivoluzionario», dalla «contemplazione estatica dei tesori della Chiesa» al «rifiuto dell’appartenenza» (Ibi). Questa tendenza, a cui ella aderisce senza riserve, ne articola non solo i fendenti rivolti alla Chiesa, ma anche la sua indefessa probità che dischiude il carisma della soglia nella certezza della sua esperienza, l’incontro personale con il Cristo. Questo motivo è messo bene in luce anche dal denso saggio di Antonella Lumini, Libertà di pensiero e coscienza: «ripensare daccapo la nozione di fede» (pp. 103 - 150). La Lumini considera insufficienti le considerazioni sinora svolte come risposte ai quesiti di Simone, in particolare le Réponses4 e la Risposta del domenicano Guérard Des Lauriers (1970). La vocazione alla soglia di Simone non deve essere intesa come una rinuncia, una sorta di compromesso al ribasso, tutt’altro: essa rappresenta il dono di uno Spirito che scava, rompe gli argini, delinea nuovi sentieri — cattolici, appunto. «L’annuncio evangelico è universale, riguarda l’intera umanità, come il termine «cattolica» del resto implica» (p. 117). Questa dilatazione della coscienza, continua la Lumini, è agita dallo Spirito Santo: Simone Weil ne è uno degli esempi più fulgidi. Non si può scindere la vocazione alla soglia da quel che essa è, ovvero una vocazione; e la sua vocazione le «impone di restare fuori della Chiesa».5 Il dentro e fuori, il punto di cerniera è poi il portato della questione, implicita, che emerge dalla Lettera — il rapporto tra le opinioni e i sacramenti, se questi siano amministrati solo sulla base della fede in Gesù Cristo oppure su quella delle opinioni (p. 119). Una questione che ne sorregge a sua volta il cuore, il punto centrale: «la necessità di rivedere l’affermazione secondo cui non ci può essere salvezza al di fuori della Chiesa visibile» (p. 129). Essa richiede allora il capovolgimento essenziale, quello della nozione di fede; bisogna ripensarla daccapo.6
La fede nella Redenzione va collocata su un piano eterno, nessuna progressione o perfettibilità cronologica la può dominare. In tal senso la Chiesa è perfetta solo in quanto è conservatrice dei sacramenti. Ma questa perfectio è fondata sul corpo e il sangue di Cristo. Diversamente, essa si espone al circolo della sua impotenza: la fede si riduce a credenza, e questa per essere imposta deve irretire l’intelligenza. Ma là dove l’intelligenza è ingessata, lo Spirito non può esercitare il suo dono — la coscienza non viene dilatata, e la religione assume pertanto una funzione consolatoria e idolatrica.
Sempre su questo punto insiste anche il contributo di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, L’ombra dell’antigiudaismo e l’esigenza di un cristianesimo incarnato (pp. 151 - 202). Gli autori si soffermano anche sulle pagine furenti che Simone scrive contro Israele. L’imbarazzo non viene occultato, a ragione. Certo la requisitoria antigiudaica di Simone deve essere considerata alla luce del suo stile: radicale, estremo, consequenziale. D’altra parte tacere non si può, sorvolare neanche. Lo stigma della nazione elettache Simone riversa nelle sue pagine rivela senz’altro anche la sua buona dose di superficialità esegetica. Ma l’occasione non inficia la causa, anzi: ne rivela lo strascico polemico che ha sempre decretato il limbo totalitario dell’enracinement, lo «sradicamento» — «la più pericolosa malattia delle società umane».7 Il popolo ebraico, l’Impero romano, il Nazionalsocialismo costituiscono la cangiante metamorfosi della riduzione della religione a religio civilis; un collante che tenderebbe ad uniformare, livellare, e quindi a sottomettere l’anima individuale alla coltre magmatica di un collettivo uniforme. Le sferzate contro la metafora del «Corpo mistico» ne sono l’espressione più radicale — il Dio incarnato quaggiù per Simone, una «patria terrena», di contro al Padre celeste.
Tuttavia non si capirebbero questi riferimenti se essi non fossero ricondotti a quella sanzione del diritto, l’imperium della forza, che esercita la sua violenza nella legittimazione dell’ego ipertrofico. E così l’homo democraticus, ormai avvizzito nella religione della tecnica, deve trovare un altro fondamento al suo essere-con. È qui che il contributo di Cianciani/Vito assume il suo punto focale. Rilevare se e in quale misura l’ispirazione cristiana possa oggi muovere verso l’edificazione di un ethos condiviso, senza che questo assuma dei tratti prevaricatori nei confronti di chi non vi si riconosca. È qui adombrata la terza via perseguita da Simone, soprattutto negli ultimi scritti di Londra,8 la mistica. Il «carbone ardente» della morale, la differenza tra bene e male, può essere infatti gettato via attraverso tre modi: i primi due, l’irreligiosità e l’idolatria, degradano l’uomo; il terzo, la mistica, lo libera. E lo libera nella misura in cui pone la sua anima al contatto immediato con l’«infinitamente piccolo», il bene assoluto — posto al di là dell’opposizione tra il bene e il male.9 Da qui la necessità di salvaguardare la laicità del politico — contro l’idolatria — e al contempo di donargli quella «ispirazione spirituale capace di radicarsi nella realtà di questo mondo e di vivificarle» (p. 174) — contro l’irreligiosità.
È la Professione di fede, allora, a gettare una luce ulteriore sulla proposta di Simone Weil. Gli autori ne risaltano la straordinaria capacità profetica, non a torto. Se la questione dei diritti ha raggiunto oggi l’apice della sua infamia, Simone ne aveva già scorto i presagi. Qui si rivela il tratto ambiguo e luciferino della mimesi della violenza10: il diritto svela il suo esercizio nella pretesa; l’obbligo, al contrario, nell’attenzione. Questa non riempie l’absentia divina, la soffre, e ne espone i suoi effetti in una orto-prassi, azione non-agente, prossima al malheur; che anzi è tale solo perché essa stessa ha assunto nella sua carne la «sventura», il cui modello è la croce. Così nell’occultamento del Bene attraverso gli idola si rivela sempre l’incedere del grandeanimalesociale; ed è questo l’aspetto che gli autori rilevano in merito alla posizione espressa da Simone nella Lettera. Nel testo l’intenzione sottesa alla critica espressa nei confronti della Chiesa è quindi di carattere «politico» (p. 165) .11 Critiche che rivelano dei problemi di «una importanza capitale, urgente, pratica»12 — insomma, politica.
La matrice mistica di Simone, la sua costante attenzione verso quelle forme di spiritualità cristiana (san Giovanni della Croce, san Francesco, Meister Eckhart) che esprimono la stessa verità, la stessa luce divina, nella differenza delle rispettive tradizioni religiose — India, Grecia, Cina, Upanis? d indù, orfismo, pitagorismo, Eleusi, taoismo,— e che non hanno alcuna pretesa di racchiudere una verità sancita per diritto nell’imposizione dottrinaria, possono contribuire così all’edificazione di una città degli uomini all’altezza dei tempi. Compito incessante, sempre da ricollocare, almeno nella misura in cui, seguendo ancora Simone, esso voglia radicarsi nella contraddizione della realtà, esporla. L’attenzione alla verità non ha pertanto bisogno di essere investita dal di fuori da un’affermazione dogmatica che ne arresti la ricerca: «I dogmi della fede non sono cose che si possono affermare. Sono cose da guardare da una certa distanza, con attenzione, rispetto, amore».13
È così considerata la «pulizia filosofica» del cattolicesimo, che nelle intenzioni di Simone mira a concepire il carattere dei dogmi e delle verità di fede attraverso una declinazione spirituale — un’esperienza che anzitutto è quella della conversio. La libertà dell’intelligenza, non preordinata all’autorità, deve essere assoluta — illimitata. La tensione tra la ragione naturale e quella soprannaturale, tra il dominio delle scienze e quello di Dio, non può essere sciolta mediante l’imposizione autoritaria, anzi non deve neanche essere sciolta; essa deve rimanere tale. La ragione è una, e il crinale dal quale essa si rivolge all’eterno è quello dell’amore soprannaturale; d’altra parte questo sussiste solo come linfa che brucia, arde nelle anime che hanno abdicato a ogni falsa pretesa di costituirsi come soggetti di potenza in pianta stabile. La pulizia filosofica della dogmatica cattolica deve essere colta in questa dinamica, in questo movimento di approssimazione alla verità: il possesso di quest’ultima è qui escluso, così come la pretesa di definirne dei limiti dottrinali. Qui è in gioco un togliere, un ripulire, anziché un aggiungere. La Lumini riporta il noto passo di Simone — «San Giovanni ha detto: «chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio». Quindi, chiunque crede questo ha la vera fede, anche se non accetta nient’altro di quanto la Chiesa afferma»14 (p. 115).
Ma se il movimento di opposizione riguarda l’ambito della forza, della necessità meccanica, esso non può considerare il gesto di ripulitura filosofica se non come il portato innaturale - soprannaturale, quindi — che muove dal suo nomos, e che proprio per questo non potrà mai pensare di dominare. Questo aspetto è appena adombrato dai contributi della Lumini e di Canciani/Vito. In verità la polemica di Simone Weil nei confronti della Chiesa si avvale soprattutto di questa specifica lettura filosofica, a tinte gnostiche, che sottende una concezione tragica della verità, a cui il contributo di Canciani/Vito fa un breve accenno (p. 189).
Ne L’Iliade o ilpoema della forza i risvolti di questa tensione sono espressi in modo mirabile da Simone: chi può esercitare la forza, è illimitatamente portato ad abusarne. Nelle leggi meccaniche del mondo naturale, l’uomo che non frappone un breve intervallo tra il suo impulso e l’atto, il pensiero, è necessitato ad aderire al carattere cieco della forza. Ecco perché l’Iliade rivela agli occhi di Simone il paradigma perfetto della condizione umana, il battesimo della Terra del tramonto, l’Occidente: «Chi aveva sognato che, grazie al progresso, la forza appartenesse ormai al passato, ha potuto scorgere in questo poema solo un documento; chi, invece, oggi come allora, individua nella forza il centro di ogni storia umana, trova qui il più bello, il più puro degli specchi».15 Il malheur rappresenta il limite di questa parabola, così come il suo rovesciamento: la croce ne è la medaglia a due facce. A Simone, come è noto, le basta; anche se il Cristo non fosse risorto, la sua fede non vacillerebbe. Così il contraltare al destino cieco della forza è l’orientamento dello sguardo al Bene, l’amore, che ne fende l’incedere necessario, lo assume nell’obbedienza, e inchioda l’anima al vessillo della croce: «Null’altro che la necessità cieca può gettare alcuni uomini nel punto dell’estrema distanza, vicinissimo alla Croce».16 Ogni forma di imperium che voglia eludere questa condizione — compresa quella della Chiesa — è destinata al suo contrappasso, all’espressione collettiva di un corpo che si impone sulla via crucis individuale. C’è qui l’idea di un «vuoto morale», la decreazione, la quale non si manifesta che per la «durata di un lampo», e che soprattutto non si rivela se non mediante un rovesciamento, un «istante di arresto», attraverso l’adesione all’amor fati, alla necessità — «Il movimento ascendente è vano (e peggio che vano) se non procede da un movimento discendente».17 È la docilità al destino manifestata dagli uccelli e dai gigli del campo del Vangelo, così spesso citati da Simone Weil. È infine l’aderire a quel Bene che si trova al di là di questo mondo, all’amore soprannaturale, di contro a ogni finalismo soggettivo che voglia commisurare il suo agire sulla base di progetti, idee e scopi naturali. In ultima istanza è la morte a testimoniare la verità di questo movimento. Per risorgere bisogna morire — «la verità è dalla parte della morte».18 Questo aspetto è esposto molto bene dal testo della Lumini: «La resurrezione implica la morte a se stessi, quello stato dell’essere in cui realtà e verità combaciano poiché la percezione del reale è illuminata dallo Spirito Santo e non più velata da ripiegamenti e ombre di meccanismi egoici» (p. 134). Solo nel riconoscere l’imperio della forza, nel tremare dinanzi a essa, e tuttavia nel non rispettare la catena meccanica dei suoi effetti, è possibile corrispondere alla grazia dello Spirito Santo. È questa accettazione a generare la fede e la carità oltre i confini della Chiesa istituzionale — la via mistica — e a consentire di orientare lo sguardo altrimenti che nelle piaghe necessarie della forza — una necessità che appunto non si può mai eludere. L’amore per il prossimo, l’accettazione della sventura sono già per Simone l’indice di una salvezza che prescinde dall’appartenenza alla Chiesa.
A essa è poi riportata l’espressione di quell’altro metaxyche sorregge i gradini verso l’eterno: la bellezza. Il risvolto speculare dell’attenzione, la perfezione dell’ob-audire il Padre celeste ha nella bellezza la sua anima danzante, lo specchio in cui il desiderio dell’eterno si rinfrange. È la maledizione della croce la più bella delle testimonianze. Lo squarcio che definisce l’amore di Dio, che nella ferita lacera l’involucro egoico della forza illimitata, lo terge; Dio perviene a sé. Ma questo pervenire non implica alcuna sintesi definitoria, benché meno nella forma-istituzione dell’Ekklesia, la quale nelle intenzioni di Simone dovrebbe custodire questa contraddizione nella sostanza indefinita dello spazio e del tempo, inchiodata al legno della croce — dal momento che «Il Cristo è presente su questa terra ovunque ci sia crimine e sventura, a meno che gli uomini non lo caccino».19 Attraverso la bellezza, il suo enigma, è possibile scorgere l’altra faccia della necessità, l’amore di Dio. La bellezza ne incarna la distanza infinita, l’abisso che separa la creatura dal Pater. L’arte divinamente ispirata non è altro che l’obbedienza a questa pesanteur, alla «gravità». La musica, in particolare, per Simone dà voce al grido della croce, alla suprema scissione, alla lacerazione a cui si sovrappone la suprema unione che vibra all’interno della creazione, «armonia pura e straziante»: «Il grido del Cristo e il silenzio del Padre compongono insieme l’armoniasuprema, di cui ogni musica non è che un’imitazione».20 Sulla rilevanza di questo momento nella riflessione di Simone Weil si soffermano le ultime pagine del bel contributo di Danese/Di Nicola, in cui si sottolinea il carattere sacramentale che Simone attribuiva al bello (pp. 85 - 88), come anche quelle di Canciani/Vito (pp. 191 - 195). La bellezza squarcia il velo, lega la terra al cielo. È certo fragile, un fiore di melo, ma dal suo silenzio si può scorgere quella soglia, quel dentro e fuori la Chiesa che ne può rilevare la tensione mistica.21 Forse poche parole come quelle del grande compositore estone ArvoPärt possono oggi corrispondere alle intuizioni di Simone Weil:
Prima di risorgere bisogna morire. E prima di dire qualcosa bisognerebbe forse tacere. La mia musica è sempre nata dopo che ho a lungo taciuto, nel senso letterale del termine. Quando parlo di silenzio, intendo quel nulla da cui Dio creò il mondo.22
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La lettera in 35 punti è stilata da Simone Weil tra la metà di settembre e l’inizio di novembre del 1942 e inviata a padre Marie-Alain Couturier, un domenicano a cui ella espresse la sua «posizione spirituale» dietro invito di Jacques Maritain (cfr. S. Pétrement, La vita di Simone Weil, trad. it. Maria C. Sala, Adelphi, Milano 1994, p. 600 sgg. e G. Gaeta, Sulla soglia della Chiesa, in S. Weil, Lettera a un religioso, trad. it. G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996, pp. 97-128). ↩︎
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S. Weil, Attesa di Dio, trad. it. Maria C. Sala, Adelphi, Milano 2008, p. 51. ↩︎
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Ivi, p. 177. ↩︎
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Aa.Vv., Réponses aux questions de Simone Weil, Aubier-Éditions Montaigne, Paris 1964. ↩︎
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S. Weil, Attesa di Dio, trad. it. Maria C. Sala, Milano 2008, p. 45. ↩︎
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S. Weil, Lettera a un religioso, trad. it. G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996, p. 49. ↩︎
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S. Weil, La prima radice, trad. it. F. Fortini, SE, Milano 1990, p. 52. ↩︎
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S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, trad. it. D. Canciani-Maria A. Vito, Castelvecchi, Roma 2013. ↩︎
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Cfr. S. Weil, Questa guerra è una guerra di religione, inUna costituente per l’Europa, cit., pp. 68-76. ↩︎
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«Il diritto si regge esclusivamente su un tono di rivendicazione; e quando si assume quel tono, vuol dire che la sua forza non è lontana, ma gli sta dietro, per confermarla, altrimenti sarebbe ridicolo (…) Il diritto, per sua natura, è sottomesso alla forza» (S. Weil, La persona è sacra?, in Una costituente per l’Europa, cit., pp. 188-211: 197). ↩︎
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Il Canciani riprende così un motivo caro ai suoi studi decennali sulla figura di Simone Weil: non è possibile separare nella pensatrice francese la dimensione mistico-religiosa da quella politica; esse sono strettamente connesse (cfr. D. Canciani, Simone Weil. Il coraggio di pensare, Edizioni Lavoro, Roma 1995; Id., Tra sventura e bellezza. Riflessione religiosa e esperienza mistica in Simone Weil, Edizioni Lavoro, Roma 1998). ↩︎
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S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 85. ↩︎
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Ivi, p. 50. ↩︎
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Ivi, p. 40. ↩︎
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S. Weil, L’Iliade o il poema della forza, trad. it. di F. Rubini, Asterios, Trieste 2012, p. 39. ↩︎
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S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 179. ↩︎
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S. Weil, Quaderni, vol. II, trad. it. di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 162. ↩︎
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Ivi, p. 53. ↩︎
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S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 19. ↩︎
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S. Weil, La rivelazione greca, trad. it. Maria C. Sala-G. Gaeta, Adelphi, Milano 2014, p. 312. ↩︎
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Un riferimento critico in tal senso è stato espresso ultimamente da M.I. Rupnik, gesuita e teologo sloveno: «Non si può distruggere il cristianesimo se non si distrugge la bellezza. Ci hanno inchiodato sull’etica e sulla morale, sul bene, ma una Chiesa brava non attira nessuno, perché è solo una Chiesa bella che fa innamorare. Abbiamo una Chiesa intraprendente, stanca per quanto bene realizza, che però non affascina nessuno e dietro la quale non si incammina nessuno» (L’autoritratto della Chiesa. Arte, bellezza e spiritualità, EDB, Bologna 2015, p. 17). ↩︎
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Cit. da E. Jaschinski, Breve storia della Musica Sacra, trad.it. E. Costa, Morcelliana, Brescia 2006, p. 140. ↩︎