Albert Camus e Pierre de Larivey: una riscrittura tra teatro e filosofia

Nel periodo che intercorre tra la sua giovinezza in Algeria e gli anni Quaranta, Albert Camus ha dedicato — parallelamente alla stesura dei romanzi più importanti — molto tempo alla sua passione per il teatro. Con il Théâtre du Travail e poi con il Théâtre de l’Équipe (compagnie da lui stesso fondate, rispettivamente nel 1936 e nel 1937), il giovane scrittore si è esercitato con assiduità nello studio della regia e della drammaturgia teatrale.

Prima di concentrarci in maniera più approfondita sul nostro soggetto — l’adattamento camusiano di Pierre de Larivey — è necessario dedicare un breve paragrafo alle sue prime esperienze sceniche nelle quali l’evidente apporto delle grandi teorie innovatrici dei cosiddetti Padri Fondatori del teatro occidentale contemporaneo — Adolphe Appia, Mejerchol’d e, soprattutto, Antonin Artaud, Bertold Brecht e Jacques Copeau — è sicuramente l’elemento da tenere in maggior considerazione. Storiograficamente, si fa risalire agli inizi del XX secolo la nascita dell’idea — tuttora insuperata — di regia teatrale: i grandi Padri, teorici e registi, drammaturghi e ‘operai’ allo stesso tempo, rivoluzionarono le forme classiche del teatro, seguendo — malgrado le grandi differenze teoriche e filosofiche che li distinguevano gli uni dagli altri — il fil rouge di una nuova concezione dello spazio teatrale, del testo, dell’attore e del suo rapporto con il regista. In effetti, sin dalle sue prime direzioni, Camus abbraccia la causa di quella totalità del lavoro teatrale che i Padri Fondatori concepirono non più come netta divisione di competenze tra attori, drammaturgo e regista, bensì come un saldo rapporto di cooperazione tra tutti i membri della compagnia.

Le fasi preliminari dell’allestimento di uno spettacolo erano le seguenti: attorno a un tavolo, gli attori e il regista (che qui è anche colui che scrive un primo canovaccio) discutevano e pensavano alle migliori soluzioni per la rappresentazione. Il teatro diventava così una vera e propria fabbrica in cui svolgere un vero e proprio lavoro da operai e dove il ruolo del regista, tradizionalmente concepito — volendo utilizzare una fortunata espressione di Fabrizio Cruciani — come figura di demiurgo (come veniva cioè pensato da Stanislavskij alla fine del XIX secolo), muta adesso verso quella di maieuta. Per Camus la vita all’interno della compagnia teatrale è tutto:

Monter un spectacle, c’est un mariage à plusieurs, pour plusieurs mois. […] Le théâtre est mon couvent. L’agitation du monde meurt au pied de ses murs et à l’intérieur de l’enceinte sacrée, pendant deux mois, voués à une seule méditation, tournés vers un seul but, une communauté de moines travailleurs, arrachés au siècle, préparent l’office qui sera célébré un soir pour la première fois.1

È certo che queste dichiarazioni possano sembrare ovvie a noi contemporanei, ma per l’epoca queste dinamiche teatrali erano totalmente innovatrici. Ai fini del nostro discorso è necessario evidenziare ulteriormente che, durante le prove e le discussioni, si decideva anche in che modo bisognasse operare sul testo originale per una rappresentazione efficace: se Antonin Artaud nel primo Manifeste du Théâtre de la Cruauté aveva dichiarato che ci fosse la necessità di rinunciare «à la superstition théâtrale du texte et à la dictature de l’écrivain»2 poiché «dans le théâtre tel que nous le concevons ici [in Europa] le texte est tout»3 e che «le théâtre, comme la parole, a besoin qu’on le laisse libre»,4 con il lavoro teatrale di Albert Camus, queste dichiarazioni — sicuramente suggestive ma che nella loro forza perentoria possono apparire sprovviste di solidi basi teoriche — acquisiscono una rinnovata vigoria scenica. Camus stesso lo ribadisce nella piccola ma preziosa introduzione allo spettacolo Révolte dans les Asturies:

Le théâtre ne s’écrit pas, ou c’est alors un pis-aller.

C’est bien le cas de l’œuvre que nous présentons aujourd’hui au public. Ne pouvant être jouée, elle sera lue du moins.  

Mais que le lecteur ne juge pas. Qu’il s’attache plutôt à traduire en formes, en mouvements et en lumières ce qui n’est ici que suggéré.5

La funzione testuale non deve essere più forzatamente letteraria, bensì le sue potenzialità sono subordinate al movimento dell’attore in scena: la parola si riverbera nell’aria, il teatro diventa linguaggio totale, una realtà di forme plastiche in espansione che hanno la stessa importanza nell’economia dello spettacolo.

Con la dialettica regista — testo — attore, Camus si fa erede diretto del suo più grande maestro — o come amava chiamarlo — suo seul maître: Jacques Copeau — soprattutto in quei vari riferimenti alla Commedia dell’Arte che in questa sede ci riguardano più da vicino. Nell’intemperie simbolista e surrealista d’inizio secolo che mirava (con un gusto estremamente avanguardista) alla, se non distruzione, perlomeno a una radicale revisione della cultura europea del passato e, all’interno della sfera teatrale, a un integrale capovolgimento del ruolo dell’attore e della drammaturgia in generale (gli esempi si sprecano: Alfred Jarry, Edward Gordon Craig, Antonin Artaud ecc.), il caso di Copeau ha rappresentato un’alternativa, una seconda via nel quadro del rinnovamento dell’arte europea. Con la fondazione nel 1913 del Théâtre du Vieux Colombier, Copeau rimette al centro del dibattito sull’arte scenica il testo e i suoi rapporti con tutte le altre micro-drammaturgie. Contrariamente ai teorici del teatro a lui contemporanei, Copeau teneva in altissima considerazione il testo scritto: secondo lui, il movimento, la scena, la prossemica degli attori e gli altri elementi dello spettacolo già giacevano — nascosti — nel testo stesso. È la ragione per la quale le sue innovatrici esperienze di regia muovono i primi passi da uno studio rigoroso dei testi capitali delle cultura occidentale. La priorità che attribuiva ai classici e alla tradizione l’aveva formulata già nel Manifeste del 1913 e sarebbe stata la marca maggiore delle esperienze drammaturgiche del Vieux Colombier. Copeau considerava il lavoro sul repertorio del teatro classico molto più impegnativo e ricco; un lavoro che poneva davanti al regista e agli attori questioni più numerose e interessanti, costituendo così una vera e propria scuola per ritornare alle radici dell’ispirazione drammatica.

In particolare, i suoi studi su Molière vogliono dimostrarci come il patrimonio testuale possa esprimere le sue reali potenzialità sulla scena, ma solamente dopo una scrupolosa inchiesta filologica, linguistica e culturale. Si tratta quindi di reinterpretare e di riscrivere un testo antecedente che possa così liberare nel miglior modo possibile la sua forza drammatica. Per Copeau l’efficacia dell’opera di Molière non risiede tanto nel contenuto teatrale, ma dipende interamente dalla scrittura drammaturgica che nel teatro del suo tempo poteva dare il massimo. Bisogna considerare allora la struttura stessa del testo, comprenderne l’economia dall’interno e cogliere quel dispositivo che comanda tutto e che costruisce la messinscena e l’azione degli attori. Questo processo d’interpretazione si fonda sulla cosiddetta tradition de la naissance: si tratta di sbarazzare le opere del passato da tutte le ridondanze che hanno pesato su esse nel corso dei secoli e trovarvi il movimento drammatico originario.

Entrer profondément dans la connaissance de l’œuvre. Le metteur en scène n’y entre pas de la même façon que l’historien ou le critique. Il a une faculté spéciale. Il fait son étude des caractères, de la péripétie, des détails du dialogue. Mais c’est une prise plus directe qui le met en possession du caractère de l’œuvre. Il en perçoit d’emblée le style d’ensemble, le ton, le mouvement. Oui, c’est d’abord un certain mouvement qui le révèle en lui. Un mouvement général qui peu à peu se pense, donne son sens à toute scène, à toute réplique.6

È sorprendente l’analogia tra queste parole con quelle di Camus rilasciate nel corso di un’intervista del 1959 in risposta alla domanda sui motivi del suo lavoro di adattamento:

On me dit aussi avec une sollicitude qui me bouleverse […] : « Pourquoi adaptez-vous des textes quand vous pourriez écrire vous-même des pièces ». […] Quand j’écris mes pièces, c’est l’écrivain qui est au travail, en fonction d’une œuvre qui obéit à un plan plus vaste et calculé. Quand j’adapte, c’est le metteur en scène qui travaille selon l’idée qu’il a du théâtre. Je crois, en effet, au spectacle total, conçu, inspiré et dirigé par le même esprit, écrit et mis en scène par le même homme, ce qui permet d’obtenir l’unité du ton, du style, du rythme qui sont les atouts essentiels d’un spectacle. […] Je peux ensuite [le] remodeler sur le plateau, lors de répétitions, et suivant les besoins de la mise en scène.7

Sin dall’inizio della sua carriera teatrale, Albert Camus si è interessato all’adattamento. È possibile constatarlo grazie a preziosi documenti che ci sono pervenuti dopo la sua morte. In una lista scritta dall’autore stesso e riportata dall’editore Roger Quilliot nelle sue opere complete,8 è mostrata una serie particolarmente eloquente di nomi della tradizione occidentale che Camus avrebbe voluto adattare per la scena: Shakespeare, Racine, Corneille, Molière, Marlowe, la tragedia greca ecc. . La predilezione dell’autore per i classici della cultura occidentale è sì evidente, ma — anche se la lista possa dare l’impressione di uno scopo eterogeneo e incoerente — si deve tener bene presente l’idea che il premio Nobel aveva della grande letteratura del passato: vi sono delle costanti universali legate al destino tragico dell’uomo che ritornano ciclicamente nella storia letteraria (il riferimento all’eterno ritorno nietzschiano è un topos essenziale nella filosofia camusiana). Bisogna allora avere l’ambizione di rinnovare la grande tragedia e di tramandarla al pubblico contemporaneo: il teatro diventa allora il mezzo più diretto e idoneo per farlo. L’adattamento appare quindi a Camus come una missione sia etica che letteraria i cui obiettivi mirano a trasmettere l’attualità dei grandi soggetti esistenziali del passato.

Da dove bisogna partire per adattare un testo appartenente a una cultura e a una società differenti dalle nostre? Come Copeau l’aveva già annunciato con il suo lavoro sulla grande tradizione comica francese e la Commedia dell’Arte italiana del XVI secolo, si deve prima di tutto ricercare una costante linguistica che possa riproporre in termini contemporanei il senso del movimento inerente alle pièce partendo da una minuziosa analisi del testo originale: approfondire lo scambio tra testo e scena preservando l’integrità del movimento e delle micro-drammaturgie annesse. Per Camus la traduzione erudita e intellettuale è inutile: «je pensais et continue de penser que les traducteurs de Shakespeare ne se soucient jamais de le traduire en fonction du comédien, de la diction, de l’action et du mouvement»9 e, sottolinea Quilliot, «il lui semblait [a Camus] que les traductions existantes étaient ou bien insuffisantes et inexactes ou peu théâtrales ; or, il entendait travailler pour la scène».10 Per integrare il movimento proprio a una pièce, bisogna prima di tutto decifrare i rapporti linguistici tra i vari personaggi e le situazioni, i tic linguistici, le risposte, la prossemica: solamente in questo modo è possibile reinterpretare la lingua e adattarla al presente. Il testo può così trasformarsi in movimento, cuore dell’interpretazione: movimento dell’attore, il solo che grazie al lavoro del regista può conferire la giusta significazione all’opera. Questa direzione interpretativa è brillantemente dimostrata da Camus stesso nell’Avant-Propos del suo adattamento del Chevalier d’Olmedo di Lope del Vega, vero e proprio manifesto dell’arte dell’adattamento drammatico che ci sarà utile per parlare dell’adattamento de Les Esprits di Larivey:

Il s’agit toujours de donner aux acteurs de la représentation un texte qui, tout en restant fidèle à l’original, puisse être dit.

De la libre adaptation au strict mot-à-mot, il y a plusieurs façons de concevoir la traduction d’une œuvre dramatique. Il me semble cependant qu’aucun traducteur ne devrait oublier que Shakespeare, par exemple, ou les grands dramaturges espagnols écrivaient d’abord pour des comédiens et en vue d’une représentation. N’importe quel acteur sait qu’il est difficile de dire une réplique qui commence par un participe présent ou par une subordonnée. Une telle phrase, courante dans les traductions dont nous disposons, manque de ce qu’on appelle au théâtre « l’attaque ». Une proposition principale, le verbe actif, le cri, la dénégation, l’interrogation, le vocatif sont au contraire les éléments d’un texte en action, qui exprime directement le personnage en même temps qu’il entraîne l’acteur.11

Si tratta quindi di rimanere fedeli al tono originale, ma componendo ex novo un testo che possa essere declamato facilmente e di riproporlo — attraverso modifiche formali e linguistiche — come testo in azione. Parlando di fedeltà semantica all’originale, vogliamo riferirci — in qualche modo, semioticamente — a quel processo letterario per il quale si modifica il significante testuale, preservando però la significazione del movimento drammatico. Camus opera così un’interpretazione creativa poiché cerca di creare dal nulla un inedito rapporto più contemporaneo tra il testo originale e il testo di referenza, scavalcando la paternità dell’autore del testo tradotto o adattato e scrivendo uno assolutamente nuovo: Camus si fa autore, non solo traduttore o regista, scrive letteratura.

Nel corso della sua carriera, Albert Camus ha esplorato molti campi dell’adattamento: passaggio da una lingua all’altra, ovvero la traduzione (La Dévotion à la Croix di Calderon de la Barca, Le Chevalier d’Olmedo di Lope de Vega, Un cas intéressant di Dino Buzzati); passaggio da un genere all’altro (Le Temps du Mépris di André Malraux, Les Possédés di Dostoevskij, Requiem pour une nonne di Faulkner); passaggio da uno stile all’altro con Les Esprits di Pierre de Larivey. Nel caso de Les Esprits — la pièce a cui ci interesseremo adesso — Camus adatta il francese del XVI secolo traducendolo in un francese contemporaneo. Si tratta di quel processo di transtilizzazione trattato dal teorico della letteratura Genette nei suoi Palimpsestes (di qui in avanti utilizzeremo la terminologia genettiana per analizzare le differenti operazioni effettuate tra ipotesto e ipertesto). Gli strumenti che Camus adotta per adattare questa interessante pièce sono le cosiddette trasformazioni quantitative: aggiungere o eliminare monologhi, alleggerire battute troppo lunghe, rimaneggiare alcuni dialoghi tra i vari personaggi. Ma prima di analizzare nel dettaglio queste trasformazioni, è necessario studiare brevemente la tradizione ipotestuale de Les Esprits e citarne le fonti dirette.

In una lettera del 1940 indirizzata alla sua compagnia, Camus offre delle direttive per la messinscena — che in realtà sarebbe stata allestita solamente qualche anno più tardi, in occasione del Festival d’Angers del 1953:

Cette comédie est en même temps une libre adaptation d’une pièce italienne de Lorenzino de Medicis et le modèle que prit Molière pour écrire son Avare. On y trouve en particulier le fameux monologue, que Molière modifia à peine, et un personnage d’avaricieux déjà poussé vers la comédie de caractère. Mais on y rencontre aussi, venues de la Commedia dell’Arte, d’authentiques figures d’arlequins et de ruffians que Larivey s’est borné à débaptiser.12

Les Esprits di Pierre de Larivey appartiene alla raccolta delle Six premiers comedies facecieuses, apparse in Francia nel 1579. La storiografia esprime oramai un giudizio unanime sul merito di Larivey di avere introdotto in Francia i temi e le situazioni della commedia erudita italiana grazie alla traduzione e alla reinvenzione di quei testi, inserendoli abilmente nel contesto culturale e sociale francese: tecnicamente, ha effettuato una trasposizione diegetica, innestando in Francia una nuova tipologia di teatro comico che avrebbe influenzato il teatro francese a venire. Certo, all’interno del panorama letterario cinquecentesco, la raccolta non rappresenta un evento esclusivo e originale per tematiche e intrighi, ma Larivey è riuscito a presentarla al suo pubblico come un’opera assolutamente nuova.

L’Aridosia di Lorenzino de Medici, composta a Firenze nel 1536 in occasione del matrimonio tra Alessandro de Medici e Margherita d’Austria, è l’ipotesto a cui il traduttore fa riferimento per adattare i suoi Esprits. Per ovvie ragioni di spazio, non è possibile in questa sede analizzare nel dettaglio le modifiche microscopiche apportate all’ipertesto lariveiano — ci limiteremo dunque a precisare che Larivey ha adattato il testo italiano conferendogli più ritmo dialogico, dotando i personaggi di una lingua viva, semplice e popolare, che potesse mettere l’accento sia sugli aspetti prettamente più psicologici dei protagonisti sia sul movimento comico generale. Ne risulta una pièce più espressiva e più comica rispetto all’originale del de Medici, semplificata e alleggerita grazie a molte, efficaci trasformazioni quantitative. A questo proposito, è significativo come anche il titolo sia mutato — dall’Aridosia si passa a Les Esprits — in quanto denota chiaramente gli effettivi intenti di Larivey nel direzionare l’interesse del pubblico sulle situazioni propriamente comiche dei gesti e della parola, piuttosto che sulla trama e l’intrigo; una modalità, questa, che ha permesso al commediografo di focalizzarsi sulla scena della casa infestata dagli spiriti. Il nuovo testo di Larivey si fa quindi erede non solo della commedia italiana del XVI secolo, ma anche delle situazioni tipiche del teatro comico latino di Plauto e Terenzio, fonti che avevano senza dubbio influenzato Lorenzino de Medici in ciò che concerne i temi e gli intrighi (soprattutto gli Adelphoe, la Mostellaria e l’Aulularia), ma che solamente con Larivey hanno potuto sprigionare le reali potenzialità sceniche.

Mettendo da parte le differenze linguistiche, strutturali e diegetiche, è evidente che il movimento drammatico di fondo — la casa invasa dagli spiriti — è stata trasmessa in maniera fedele tra i vari ipotesti della tradizione. Nel momento in cui Camus mette mano alla commedia si interroga sulla tradition de la naissance del testo e mette giustamente in evidenza qualcosa che la critica non ha mai preso in considerazione, ovvero la matrice di teatro all’improvviso che proviene chiaramente dalla Commedia dell’Arte italiana. Sempre Quilliot ne parla nell’edizione delle opere complete: «Camus définissait Larivey comme un continuateur de la Commedia dell’Arte et jugeait les Esprits réussis, mais tout à fait par hasard».13 Grazie a Camus, vengono per la prima volta evidenziati dei contatti evidenti tra la commedia di Larivey e la tradizione improvvisata della Commedia dell’Arte. A prima vista, ne Les Esprits, niente sembra legarsi a questa tradizione teatrale, ma volendo approfondire attentamente la trasmissione diacronica del tema della casa infestata nel corso del XVI e XVII secolo, possiamo constatare come l’episodio dello scherzo degli spiriti inflitto al vecchio avaro, sia stata una delle situazioni — ma qui è corretto definirli lazzi — più utilizzate nei canovacci della commedia all’improvviso. Volendo solo citare alcuni esempi, nella raccolta di canovacci di Flaminio Scala, Il Ritratto presenta questo tema, o ancora, nel libro mai edito dell’accademico del XVII secolo Basilio Locatelli, è presente un canovaccio il cui nome è proprio Li Spiriti: l’episodio diventa — come in Camus — l’asse attorno alla quale ruota l’intera costruzione drammatica. Riesumando il movimento profondo in comune, l’esercizio letterario e teatrale di Camus ha saputo dunque riunire due tradizioni alquanto differenti negli intenti — lo ripetiamo, la commedia erudita degli accademici del Rinascimento da una parte, la Commedia dell’Arte degli attori professionisti dall’altra — arrivando quindi a mettere in pratica le intuizioni sul lavoro sulla tradizione del testo del suo maestro Copeau e scoprendo la convergenza di situazioni e di temi tra i molti ipotesti ai quali si riferisce Les Esprits di Pierre de Larivey. Camus aveva presagito ciò che la storiografia italiana degli anni 70 (Zorzi, Ferrone) avrebbe poi confermato nei suoi studi, in cui si affermava proprio che il teatro degli attori di professione, opponendosi programmaticamente a quello degli intellettuali, era stato una riscoperta delle leggi di vitalità e di semplicità che avevano costituito il teatro del passato latino, ma che all’origine, i soggetti erano stati identici ed erano derivati proprio dalle situazioni narrative e drammatiche provenienti dalla confluenza della tradizione plautina con quella dei racconti del Medioevo.

Camus ha riscritto Les Esprits adottando lo stile dinamico ed estremamente teatrale della Commedia dell’Arte italiana, preservando quel movimento drammatico di fondo che — secondo lui — già Larivey aveva individuato nel tessuto di relazioni intertestuali che ruotavano attorno all’episodio della casa infestata ma che aveva messo su un piano meno importante per dare più spazio alla sua missione di rinnovamento linguistico del teatro comico francese. Se in Larivey il regime visuale è subordinato a quello verbale e se l’azione è più raccontata che mostrata, in Camus — così come nella Commedia dell’Arte — c’è un totale ribaltamento verso un senso più attivo per il quale i gesti e i movimenti degli attori prendono il posto della parola e dei piccoli intermezzi dal gusto spiccatamente teatrale vengono inseriti dal regista per commentare l’azione con delle suggestioni filosofiche certamente assenti nell’ipotesto del suo predecessore del Cinquecento.

La transtilizzazione di Camus si muove verso due direzioni precise: modernizzare il francese di Larivey per rendere più comprensibili i giochi teatrali e i controsensi del testo al pubblico del Festival d’Angers; riformare lo stile e le articolazioni narrative e drammaturgiche per esaltare al massimo il ritmo vivace e comico del movimento attoriale. Non possiamo analizzare qui tutti gli interventi apportati sul testo da Camus; è sufficiente quindi riportare qualche esempio per rendere evidente la volontà del regista di concentrarsi sulla velocità e sui mezzi utilizzati per far scaturire riflessioni profonde sullo spirito umano. A livello macro-strutturale, Camus ha ridotto il numero dei personaggi (da 12 a 9), degli atti (da 5 a 3) e ha eliminato lunghi dialoghi e monologhi che servivano a Larivey per enunciare più agevolmente l’intrigo e i problemi morali della pièce, come per esempio il prologo. Risaltano inoltre numerose didascalie che descrivono le azioni e i gesti degli attori. Quale è la funzione di questa apparente semplificazione testuale? Quali erano gli obiettivi di tutti questi cambiamenti di stile e di narrazione? Si tratta di voler mettere in risalto il servo Frontin che acquisisce così una funzione non prevista in Larivey: quella cioè del meneur de jeu, deus ex machina della rappresentazione. Vediamo che è lui a incarnare il movimento drammatico de Les Esprits e che instaura uno stretto rapporto tra pubblico e scena. Grazie alle sue brevi battute e soprattutto grazie alla pantomima della maschere demoniache organizzata da lui stesso durante l’episodio della casa infestata, Camus sottolinea la dimensione metateatrale della pièce di Larivey, suscitando suggestioni esistenziali assenti nella versione del XVI secolo: mentre Larivey fondava la sua scrittura sulla verosimiglianza della rappresentazione, l’homme de théâtre Camus utilizza le più moderne convenzioni sceniche del XX secolo (l’utilizzo della maschera, il gioco attoriale, la compresenza totale dello spettacolare in scena e in sala…) per porre delle questioni sul rapporto tra realtà e irrealtà, assurdità e finzione dell’esistenza. Tramite la voce e il movimento del servo Frontin, dunque, Camus ha saputo sapientemente invitare il pubblico a una riflessione critica e ontologica sull’essenza della vita. La commedia diventa allora filosofia, il teatro luogo di riflessione.

Il lavoro di adattamento di Camus si inserisce in quella corrente artistica che negli anni 40-50 cercò di stabilire un ponte tra tradizione e contemporaneità, riscoprendo e reinterpretando il filo oramai perduto del bagaglio culturale dell’Occidente. Nel caso specificatamente teatrale, si trattò di restaurare un rapporto più equilibrato e ponderato tra testo e messinscena attraverso la scoperta della tradition de la naissance che Copeau aveva presentito nella sua missione del Vieux Colombier. Grazie ai nuovi strumenti teatrali di inizio secolo, i temi sovratestuali e universali dei classici sarebbero così potuti essere riaffermati e ripresentati sotto una nuova luce. E ancora, in un senso più vasto e filosofico che va a toccare nel profondo la missione etica di tutta la letteratura, il teatro diventa il testimone non solo di un contesto storico e culturale preciso, ma anche dell’immutabile natura dell’essere umano. «Je considère le théâtre comme un fait de […] culture universelle, où tous les hommes peuvent se retrouver dans un monde où la culture est toujours menacée, et plus encore au théâtre qu’ailleurs, par l’argent, la veulerie, la haine, la politique, par les intérêts financiers ou idéologiques».14


  1. Albert Camus, Théâtre, récits, nouvelles, 1ª ed., Gallimard-La Pléiade, Paris 1962 [da qui in avanti: Œ], p. 1722. ↩︎

  2. Antonin Artaud, Lettres sur la cruauté, in Le Théâtre e son double, 1ª ed., Gallimard, Paris 1966, p. 148. ↩︎

  3. Ivi, p. 141. ↩︎

  4. Ivi, p. 142. ↩︎

  5. Albert Camus, Œ, p. 399. ↩︎

  6. Jacques Copeau, Registres II. Molière, 1ª ed., Gallimard, Paris 1976, p. 64. ↩︎

  7. Albert Camus, Œ, pp. 1726-1727. ↩︎

  8. Lista riportata Ivi, p. 1694. ↩︎

  9. Ivi, p. 1714. ↩︎

  10. Ivi, p. 1847. ↩︎

  11. Ivi, p. 1712. ↩︎

  12. Ivi, p. 443. ↩︎

  13. Ivi, p. 1848. ↩︎

  14. Ivi, pp. 1699-1700. ↩︎