Il concetto di storia in Vico e il suo fondamento

L’originalità della posizione di Vico nei confronti della storia e della civiltà umana maturò in una cornice di polemiche che egli intraprese fin dalla prima fase delle sue opere.

Di fronte al rinnovamento della cultura napoletana, come di fronte alle grandi correnti del pensiero moderno, Vico assume tuttavia, fin dal 1710, un atteggiamento di critica e di rifiuto. Egli avverte, spesso con grande penetrazione, i limiti e gli aspetti negativi della cultura settecentesca, ma la sua critica, anche là ove coglie nel segno, è sovente espressione di conservatorismo culturale, sembra nascere dallo smarrimento di chi, “assistendo alla fine di un mondo famigliare, non sa scoprire i segni del sorgere di uno nuovo”.1

Nonostante i giovanili contatti con l’atomismo e il cartesianesimo, Vico prese presto le distanze da questi movimenti, fino ad un certo isolamento culturale: sia il meccanicismo che il deduttivismo cartesiano, ma in generale ogni apriorismo razionalistico, vincolavano infatti la natura ad una necessità non solo sorda alle esigenze della fantasia poetica e della memoria storica dell’uomo come singolo e come comunità (memoria da intendere in senso lato, nella quale dobbiamo farvi rientrare anche i suoi legami con la morale, la politica ecc. .), ma anche incapace di esprimere quel fondamento della natura umana che sarebbe stato essenziale per impostare scientificamente i risultati di riflessione raccolti, poi, nell’opera principale, La Scienza Nuova,2 che illustreremo brevemente nel presente lavoro. Sebbene la critica di Vico nei confronti della sua contemporaneità sia stata complessivamente caratterizzata, dunque, da un certo «conservatorismo culturale», essa seppe anche trasformarsi in un’originale rielaborazione che superava ogni sincretistica riduzione ai pur presenti elementi del pensiero passato (davvero negativi?), fra l’altro anticipando alcuni sviluppi che la filosofia e alcune scienze umane avrebbero preso nell’Ottocento:

Predicavano la ragione individuale, ed egli le opponeva la tradizione, la voce del genere umano. Gli uomini popolari, i progressisti di quel tempo […] stavano con le nuove idee, con lo spirito del secolo. Lui era un retrivo, con tanto di coda, come si direbbe oggi. La coltura europea e la coltura italiana s’incontravano per la prima volta, l’una maestra, l’altra ancella. Vico resisteva […]. Resisteva, ma li studiava più che non facessero i novatori. Resisteva come chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare. Accettava i problemi, combattea le soluzioni, e le cercava per le vie sue, co’ suoi metodi e coi suoi studi. Era le resistenza della coltura italiana, che non si lasciava assorbire, e stava chiusa nel suo passato; ma resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno. Era il retrivo che, guardando indietro e andando per la sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano.3

La premessa con cui abbiamo illustrato l’atteggiamento di Vico permette ora di inquadrare correttamente gli elementi caratteristici del suo pensiero sulla storia, da lui consapevolmente assunti e giustificati. La sua frequentazione di Bacone gli fornì lo «strumento polemico contro il razionalismo cartesiano»,4 privilegiandone «lo sperimentalismo e il congetturalismo»,5 ma condannando come ugualmente empia la pretesa di quel dominio sulla natura che, da motivo tipicamente rinascimentale, trovò la sua completa formulazione proprio con il filosofo inglese. In linea con tale congetturalismo, Vico assunse la certezza delle scienze essere tanto maggiore quanto più esse siano legate a nostre costruzioni mentali e alla capacità di gestire queste ultime:

Le scienze sono tanto meno certe quanto le une più delle altre che si addentrano nella materia corpolenta: come la meccanica è meno certa della geometria e della aritmetica, perché studia il moto, ma con l’aiuto delle macchine; la fisica è meno certa della meccanica […]; è meno certa la morale che la fisica, perché la fisica studia i moti interni dei corpi, che sono prodotti dalla natura, la quale è certa e la morale scruta i moti degli animi, che sono profondamente intimi e per lo più provengono dalla libidine, che è indeterminata. E per conseguenza nella fisica si danno per provate quelle cose meditate, di cui produciamo qualche cosa di simile: onde si ritengono sommamente chiare, e si accolgono con sommo consenso di tutti, le cognizioni della natura, se vi associano degli esperimenti con i quali facciamo qualcosa di simile alla natura [corsivi nostri, n. d. r.].6

È facile intuire dal testo precedente — del 1710 — come per Vico ci fosse uno stretto legame fra la chiarezza delle «cognizioni» umane e la fattiva esperienza della produzione per imitazione; anzi, più radicalmente, uno dei capisaldi dell’elaborazione del concetto vichiano di storia è la drastica identificazione del vero con il fatto: verum ipsum factum; in altre parole, si può conoscere con verità solo ciò di cui si sia autori. Ecco, allora, giustificato il nuovo e originale fondamento epistemologico che nella Scienza Nuova Vico avrebbe attribuito alla storia: la storia è massimamente conoscibile dall’uomo perché di essa è proprio lui l’autore.

A proposito della conversione vero-fatto è necessario puntualizzare che se il Rinascimento aveva avuto come filo conduttore un atteggiamento — sebbene per molti versi criticabile — di intraprendenza e autonomia dell’uomo e un intento pragmatico, non semplicemente contemplativo, di “aggredire” la realtà, e se il compimento emblematico di tali tendenze fu l’atteggiamento dello scienziato moderno delineato da Bacone, la figura di Vico rappresenta probabilmente la controparte umanistica di tale compimento, ma con premesse ed esiti totalmente differenti, che ci apprestiamo ora ad analizzare ripercorrendone i nodi teoretici fondazionali.

Per i Latini il “vero” e il “fatto” hanno significato reciproco, ossia, secondo l’elocuzione usuale della Scolastica, si convertono l’un con l’altro […]. Da ciò è dato congetturare, che gli antichi sapienti d’Italia convenivano in queste sentenze intorno alla verità: che “il vero è il fatto stesso”.7

Attraverso il metodo molto caro al nostro autore di rinvenire le proprie tesi in citazioni e in etimologie talvolta assai dubbie, nell’opera appena citata il riconoscimento dell’identità vero-fatto è indicato come risalente addirittura ai Latini. L’argomentazione così continua:

Che pertanto in Dio è il primo vero, perché Dio è il primo Fattore […]. Sapere, poi, si dica il comporre gli elementi delle cose: e perciò il pensiero si ritenga proprio della mente umana, l’intelligenza della divina: poiché Dio raccoglie tutti gli elementi delle cose, sia i più esterni che gli intimi, perché li contiene e li dispone; che invece la mente umana, perché è limitata, e sta fuori di tutte le altre cose, che non sono essa, per quanto proceda a raccogliere le cose più distanti, non le raccolga mai tutte; tanto che può pure pensare intorno alle cose ma non le può intendere; e perciò sia partecipe, non in possesso, della ragione.8

Dunque Dio conosce tutto in quanto sommo Fattore, mentre l’uomo deve limitarsi alle proprie costruzioni e alle relazioni con esse per conoscere qualcosa. Si palesa una differenza di grado sostanziale fra la creatura e il Creatore: quest’ultimo con la sua opera abbraccia la totalità del reale, uomo compreso, ma, proprio per tale totalità, vengono implicitamente sottese le stesse azioni umane che si esplicano nella storia; in questo modo rimane delineato un primo abbozzo del concetto vichiano di provvidenza, ma ovviamente Vico, ben consapevole delle esigenze argomentative dei cultori del suo tempo, non poteva limitarsi ad un riferimento alla sfera divina mutuato soltanto dalla sua personale fede cattolica: occorreva giustificare anche razionalmente l’esistenza di Dio e chiarire il suo intervento fattivo nella storia umana.

Sicché se l’ordine delle cose è eterno, la ragione è eterna, e da essa proviene verità eterna; se invece l’ordine delle cose non consta sempre né dappertutto né a tutti, allora nel campo della conoscenza la ragione sarà probabile […].

Ma l’uomo non potrebbe avere quelle nozioni comuni con altri uomini, se non avesse comune con loro anche un’idea di ordine, secondo la quale, per la quale e nella quale la mente compara gli attributi dell’ente col niente, pone le relazioni e le proporzioni del tutto con la parte; attribuisce maggior valore all’uno più che all’altro bene, e il massimo valore fra essi tutti alla felicità. Ora, quelle verità sono eterne, come abbiamo dimostrato: vi è pertanto un’idea di ordine eterno […]. L’idea di un ordine eterno non è idea di corpo: dunque è idea di una mente. Non è di una mente finita: perché unisce tutti gli uomini e pertanto tutte le intelligenze: adunque l’idea di un ordine eterno è idea propria di una mente infinita. Mente infinita è Dio; pertanto l’idea di un ordine eterno in un sol atto ci dimostra queste tre verità: e che ci è Dio, e che è una mente infinita, e che è per noi l’autore delle verità eterne.9

Dunque il ragionamento di Vico muove dal riconoscimento dell’idea dell’ordine universale, presupposto delle nozioni comuni con altri uomini e dell’esistenza di Dio. Ci si potrebbe chiedere se tale posizione ricada in un idealismo soggettivistico, ma l’analisi andrebbe oltre gli scopi che ci prefiggiamo; in ogni caso puntualizziamo che la stessa identificazione vero-fatto, a prescindere dalla correttezza o meno della sua fondazione, sembra piuttosto dimostrare il contrario. Per quanto riguarda la provvidenza, viene precisato quanto già accennato:

La sapienza di Dio, in quanto produce ogni cosa a suo tempo, si chiama “divina provvidenza”. Le vie della divina provvidenza, poi, sono le opportunità, le occasioni, i casi.10

La presentazione dettagliata svolta finora, riguardante le coordinate filosofiche — ontologiche e gnoseologiche — attraverso le quali si mosse Vico, facilita adesso l’analisi delle sue tesi sulla storia, che troviamo all’interno della Scienza Nuova. Innanzitutto si pone il problema della scientificità della storia:

La qual condotta della provvedenza divina è una delle cose che principalmente s’occupa questa Scienza di ragionare; ond’ella, per tale aspetto, vien ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina.11

L’opera lamenta fin dall’inizio, infatti, che la metafisica nel passato aveva occupato la mente dei filosofi solo rispetto all’«ordine delle cose naturali»,12 mentre era giunto il momento che essa

in quest’opera, più in suso innalzandosi, contempla in Dio il mondo delle menti umane, ch’è il mondo metafisico, per dimostrarne la provvedenza nel mondo degli animi umani, ch’è il mondo civile, o sia il mondo delle nazioni.13

Le ultime due citazioni si riferiscono all’interpretazione, fornita dallo stesso autore, del frontespizio dell’edizione del 1744, che riportiamo in figura 1.

Figura 1

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Dipintura allegorica riprodotta nell’edizione del 1744 della Scienza Nuova. [Fonte: G. Vico, La Scienza Nuova, op. cit., p. 77].

La donna con le tempie alate rappresenta appunto la metafisica che contempla Dio, dal cui occhio fuoriesce un raggio che va ad illuminare un gioiello sul petto della donna non piano, ma convesso, perché

la cognizione di Dio non termini in essolei, perch’ella privatamente s’illumini dell’intellettuali, e quindi regoli le sue sole morali cose, siccome finor han fatto i filosofi; lo che si sarebbe significato con un gioiello piano. Ma convesso, ove il raggio si rifrange e risparge al di fuori, perché la metafisica conosca Dio provvedente nelle cose morali pubbliche, o sia ne’ costumi civili, co’ quali sono provenute al mondo e si conservano le nazioni.14

Dalle citazioni appare chiaro come il criterio del vero-fatto non solo debba riferirsi alle singole azioni del singolo uomo che vive la storia, la sua storia; il criterio, infatti, si deve riferire ad ogni aspetto della vita dell’uomo, sia perché ne è lui l’autore, sia perché la provvidenza ricopre con la sua ombra i vari livelli di organizzazione umana; proprio queste due ragioni costituiscono il fondamento della scientificità della storia, come conoscenza universale, sistematica: una teologia civile.

La storia potrà avere carattere scientifico ove rinunci a presentarsi come una semplice raccolta di fatti, come pura erudizione,15 e riesca ad essere “insieme storia e filosofia dell’umanità”. Si tratta di determinare la legge e l’ordine secondo i quali si susseguono nel tempo i fatti della storia, di configurare quella “storia ideale eterna, sopra la quale corra in tempo la storia di tutte le nazioni”. E solo attraverso di essa si potrà “ottenere in iscienza la storia universale con certe origini e perpetuità”.16

Ma la possibilità di configurare tale «storia ideale eterna» risiede nella comune natura umana, che permette la ripetibilità di certe strutture comportamentali. Compito del filosofo è allora l’indagine di tali strutture in universale, da fare in stretta continuità con l’indagine filologica:

Qui si accenna che ‘n quest’opera, con una nuova arte critica, che finor ha mancato, entrando nella ricerca del vero sopra gli autori delle nazioni medesime […], qui la filosofia si pone ad esaminare la filologia (o sia la dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall’umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, de’ costumi, e de’ fatti così della pace come della guerra de’ popoli), la quale, per la di lei deplorata oscuratezza delle cagioni e quali infinita varietà degli effetti, ha ella avuto quasi un orrore di ragionarne; e la riduce in forma di scienza, col discorrervi il disegno di una storia ideal eterna […]: talché, per quest’altro principale suo aspetto, viene questa Scienza ad essere una filosofia dell’autorità.17

Dunque la filologia, il cui oggetto di studio viene esteso ben oltre l’aspetto linguistico e diventa «l’autorità dell’umano arbitrio»,18 è a sua volta oggetto della filosofia, ma per rinvenire cosa? Proprio in quanto quest’ultima scienza si occupa di rinvenire strutture universali, comuni al decorso delle nazioni, Vico si rese conto che

Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbono avere un motivo comune di vero.

Questa degnità19 è un gran principio, che stabilisce il senso comune del genere umano esser il criterio insegnato alle nazioni dalla provvedenza divina per deffinire il certo d’intorno al diritto natural delle genti, del quale le nazioni si accertano con intendere l’unità sostanziali di cotal diritto, nelle quali con diverse modificazioni tutte convengono.20

Nel De Uno Universi Iuris Principio et Fine Uno, Vico confessò che fu la lettura del De Civitate Dei di Agostino ad avergli dato l’occasione di intendere, attraverso una citazione di Varrone, che «il diritto naturale è una espressione formale, è l’idea della verità, che ci fa conoscere il vero Dio».21 Questo, oltre a confermare la ragione profonda dell’universalità delle strutture che si manifesta nel decorso storico delle singole nazioni, indica che la conoscenza di Dio è in fondo il motivo escatologico della provvidenza sulle nazioni stesse.

A questo punto abbiamo tutti gli elementi per illustrare quali sono materialmente le strutture universali che, seppur «con diverse manifestazioni», si ripetono nella storia di ogni nazione. Tutta la prima parte della Scienza Nuova è dedicata all’analisi storico-filologica (ora sappiamo che cosa si intende con questo) dei popoli antichi. Viene rilevato che ogni popolo immancabilmente passa dallo stato di barbarie verso l’ordine civile secondo

un ritmo che corrisponde a quello medesimo della mente umana: alle tre fasi del senso, della fantasia, della ragione corrispondono i tre successivi momenti del divenire storico: l’età degli dei, l’età degli eroi, l’età degli uomini. Ciascuna di queste età si presenta come una totalità organica nella quale le varie manifestazioni della civiltà e della vita sono l’un l’altra connesse da legami profondi: a certe istituzioni civili e politiche, a una certa vita sociale ed economica corrisponde un certo linguaggio, un certo tipo di mitologia e di fisica e di astronomia e di cronologia e di geografia.22

Osserviamo che la corrispondenza fra le tre fasi della mente umana e le tre fasi del divenire storico dei popoli è ovvia conseguenza dell’identità vero-fatto: è lo stesso uomo che agisce e conosce sia individualmente che collettivamente. Inoltre, contro la tendenza rinascimentale e in parte moderna di ritenere gli antichi sapienti depositari di una saggezza sublime,23 Vico, per «dare maggior forza all’esigenza di un senso e di una direzione presenti nel processo storico, di una teleologia in esso operante»24 a motivo del piano provvidenziale universale, fu tenace assertore delle origini bestiali, ferine,25 dei primi rappresentanti di ciascuna nazione; ciò, oltre ad essere conforme al dato rivelato sul peccato originale,26 sul peccato di Babele e sul rinnegamento della vera religione dai tempi del diluvio,27 rendeva conto anche delle coeve osservazioni della vita condotta dai selvaggi americani. Eccezione alla regola, però, è il caso della storia sacra del popolo ebraico, destinato a un ruolo tutto speciale dalla provvidenza e risparmiato dallo stato ferino. In ogni caso, lo stato di bestialità, caratterizzato da «robustissime fantasie»,28 non vede del tutto annullata la ragione dell’uomo, che ha la possibilità di essere risvegliata, riaccesa da qualche fenomeno, da occasioni

dalla divina provvidenza ordinate (che da questa Scienza si meditano e si ritouano), scosse e destate da un terribile spavento d’una da essi stessi finta e creduta divinità del Cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e si nascosero in certi luoghi; ove, fermi con certe donne, per lo timore dell’appresa divinità, al coverto, coi congiugnimenti carnali religiosi e pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figliuoli, e così fondarono le famiglie.29

Da questa scintilla, causata da qualche fulmine o altro fenomeno terrificante, rimane giustificata la progressiva nascita della civiltà: matrimoni, genealogie, città, fino al «raddolcirsi della vita civile nell’età della ragione spiegata, e la filosofia e l’eloquenza di Atene e di Roma e il sorgere delle repubbliche democratiche».30

La barbarie iniziale dell’uomo era anche legata, per Vico, alla rinuncia all’ipotesi comune che i miti rinvenuti nelle fasi primitive dei popoli fossero espressione, come accennato, di una riposta sapienza degli antichi; il mito, piuttosto, nasceva dalla naturale interpretazione degli eventi del mondo da parte di quegli uomini:

Co’ principi di questa nuov’arte critica, si va meditando a quali determinati tempi e particolari occasioni di umane necessità o utilità, avvertiti da’ primi uomini del gentilesimo, eglino, con ispaventose religioni, le quali essi stessi si finsero e si credettero, fantasticarono prima tali e poi tali dei la qual teogonia naturale, o sia generazione degli dei, fatta naturalmente nelle menti di tai primi uomini, ne dia una cronologia ragionata della storia poetica degli dei.31

Quanto illustrato spiega, dunque, perché Vico indicò come «età degli dei» la prima fase del divenire storico delle nazioni. Inoltre, «a differenza di quanto facciamo noi moderni, Vico identifica mito e poesia ed usa il termine “poetico” come sinonimo di “mitico” e di “primitivo”»,32 ma il primo risveglio operato, come visto, dai violenti fenomeni naturali, per mezzo delle vie provvidenziali deve portare a poco a poco a quella «sapienza poetica»33 dell’«età degli eroi» di cui Omero è stato l’emblema. Queste prime fasi, per Vico non ancora caratterizzate dall’astrazione mentale tipica dei popoli più evoluti, procedono attraverso ciò che il nostro autore chiama «generi fantastici»:34

I generi fantastici (o universali fantastici) hanno la caratteristica di personificare in un’immagine un intero campo di eventi naturali o di valori umani. Esprimono le diverse spezie o i diversi individui (e quindi generi), dice Vico, con identità non di proporzione, ma di predicabilità, cioè vengono identificati con l’immagine: ad esempio, il tuono, il fulmine, il lampo non sono “come” Giove, ma “sono” Giove. Ora l’allegoria […] è la traduzione logico-linguistica del genere fantastico […]. I miti dunque si compongono di allegorie, e mitologia e allegoria rappresentano sul piano dell’espressione (o della “logica poetica”) quanto favole e generi fantastici sono sul piano del contenuto (o della “metafisica poetica”).35

Riteniamo che quest’ultima citazione costituisca una motivata sintesi di come Vico intendesse la storia una filosofia che «esamini la filologia». Si comprende anche perché le moderne scienze umane come l’antropologia culturale, la sociologia, l’etnologia e simili possano trovare nell’opera di Vico forse il primo motivo ispiratore, storicamente parlando, dei loro statuti epistemologici.

Entro la cornice provvidenziale va inquadrata, infine, l’importante dottrina dei ricorsi storici. Quando in una civiltà che abbia raggiunto l’età della ragione astratta si producono divisioni interne o egoismi, si ripropone necessariamente un tempo di «barbarie seconda»,36 peggiore di quella originaria. Tuttavia, nel piano di Dio attraverso cui la civiltà possa ristabilirsi (ri-corso), Vico vedeva gli «ineffabili decreti della sua grazia»,37 che, lungi dal «determinismo ciclico tipico del naturalismo antico e rinascimentale (si pensi a Machiavelli)»,38 destinava gli uomini, piuttosto, verso quella prospettiva escatologica che sottende tutta l’opera del nostro autore.


  1. P. Rossi, «Introduzione», in G. Vico, La Scienza Nuova, a cura di Paolo Rossi, BUR, Milano 200810, p. 13. ↩︎

  2. Il titolo completo dell’opera nella sua terza e definitiva edizione del 1744 era Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni↩︎

  3. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Einaudi, Torino 1966, pp. 819-820, cit. in G. Vico, La Scienza Nuova, pp. 63-64. ↩︎

  4. P. Rossi, «Introduzione», in G. Vico, La Scienza Nuova, p. 17. ↩︎

  5. S. Landucci, «Vico», in Enciclopedia di Filosofia, p. 1173. ↩︎

  6. G. Vico, De antiquissima italorum sapientia, Liber primus, cap. I, cit. in AA.VV., Grande antologia filosofica, Marzorati editore, Milano 1973, vol. XIII, p. 337. ↩︎

  7. Ibidem, p. 336. ↩︎

  8. Ibidem↩︎

  9. G. Vico, De Uno Universi Iuris Principio et Fine Uno, de opera proloquium, cit. in AA.VV., Grande antologia filosofica, vol. XIII, pp. 353-356. L’opera citata è del 1720-22. ↩︎

  10. Ibidem, p. 357. ↩︎

  11. G. Vico, La Scienza Nuova, p. 87. ↩︎

  12. Ibidem, p. 86. ↩︎

  13. Ibidem↩︎

  14. Ibidem, p. 89. ↩︎

  15. Tanto di moda fin dal Rinascimento… ↩︎

  16. P. Rossi, «Introduzione», in G. Vico, La Scienza Nuova, p. 24. ↩︎

  17. G. Vico, La Scienza Nuova, pp. 90-91. ↩︎

  18. G. Vico, La Scienza Nuova, p. 178. ↩︎

  19. Vico, al modo di altri autori dell’epoca (Spinoza ecc..), per rivestire di scientificità la sua opera, volle presentarla more geometrico mediante degnità, ovvero assiomi, postulati, definizioni. ↩︎

  20. Ibidem, p. 179. ↩︎

  21. G. Vico, De Uno Universi Iuris Principio et Fine Uno, de opera proloquium, cit. in AA.VV., Grande antologia filosofica, vol. XIII, p. 353. ↩︎

  22. P. Rossi, «Introduzione», in G. Vico, La Scienza Nuova, pp. 31-32. ↩︎

  23. Opinione che Vico qualificava come boria dei dotti, «i quali, ciò che essi sanno, vogliono che sia antico quanto che ‘l mondo» [G. Vico, La Scienza Nuova, p. 175]. ↩︎

  24. P. Rossi, «Introduzione», in G. Vico, La Scienza Nuova, p. 30. ↩︎

  25. Cfr. G. Vico, La Scienza Nuova, p. 95. ↩︎

  26. Cfr. ibidem, p. 87. ↩︎

  27. Cfr. ibidem, p. 95. ↩︎

  28. Ibidem, p. 88. ↩︎

  29. Ibidem, p. 95. ↩︎

  30. P. Rossi, «Introduzione», in G. Vico, La Scienza Nuova, p. 31. ↩︎

  31. G. Vico, La Scienza Nuova, pp. 91-92. ↩︎

  32. P. Rossi, «Introduzione», in G. Vico, La Scienza Nuova, p. 33. ↩︎

  33. G. Vico, La Scienza Nuova, p. 249. ↩︎

  34. G. Vico, La Scienza Nuova, p. 282. ↩︎

  35. V. De Caprio, S. Giovanardi, I testi della letteratura italiana. Dal Cinquecento al Settecento, Milano 1994, vol. II, p. 1030. ↩︎

  36. G. Vico, La Scienza Nuova, p. 668. ↩︎

  37. Ibidem, p. 669. ↩︎

  38. S. Landucci, «Vico», in Enciclopedia di Filosofia, p. 1175. ↩︎