La testimonianza

1. Introduzione

Continuando a sviluppare un approccio filosofico all’affermazione di Gesù contenuta nel vangelo di Giovanni «Io sono la verità»1 e dopo aver delineato in un precedente lavoro2 quali categorie di pensiero siano le più adatte alla riflessione sulla realtà della persona, proviamo ora a delineare quali forme conoscitive si accordino meglio alla possibilità che la verità si manifesti in una persona ed il processo della conoscenza non vada quindi concepito come qualcosa che va da un soggetto ad un oggetto più o meno passivo ma più specificatamente come una relazione interpersonale.

Tra le forme di processo conoscitivo che più direttamente rimandano all’interpersonalità, si può certo annoverare la testimonianza in quanto essa è legata in modo indissolubile alla persona del testimone ed alla relazione di fiducia che egli che riesce ad instaurare con i destinatari della testimonianza stessa.

Questa forma di conoscenza non ha goduto di grande stima nella filosofia in quanto ritenuta fonte di una conoscenza di ordine inferiore a quella risultante dalla speculazione intellettuale ed a quella prodotta dalla esperienza sensibile. In questo senso, è solo assai recentemente che si è sviluppata un’articolata riflessione filosofica in questo ambito,3 che abbia saputo svincolarsi dal riferirsi alla testimonianza solo per lamentarne l’insufficienza e la minor dignità rispetto ad altre forme di conoscenza.

Non si fa fatica ad immaginare come gli ambiti di riflessione filosofica della testimonianza siano quelli dove essa importa maggiormente e quindi l’ambito teologico essendo la testimonianza diretta od indiretta, attraverso i libri sacri, il veicolo più importante di trasmissione di una verità a cui, originariamente, si sia avuto accesso per via di rivelazione, e la riflessione sul diritto giudiziario essendo la testimonianza in processo, anche in questo caso, strumento privilegiato di accesso alla verità da cui poi si deve originare il giudizio.

Col tempo la riflessione sulla testimonianza si è arricchita di contributi derivanti dalla scienze del comportamento, in modo che essa ha preso un approccio multidisciplinare che affronta questo tema sotto varie angolazioni per analizzare questo fenomeno ed il suo valore epistemologico senza pregiudizi limitanti. Ed è bello dire che nel nostro paese si sono prodotte un paio di opere che sposano questo punto di vista e lo sviluppano in modo assai ricco: la prima edita dall’Istituto Italiano di Studi Filosofici nel 1972 raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Roma con titolo La testimonianza,4 il secondo è il risultato della recente riflessione di un gruppo di filosofi e teologi gravitanti intorno allo studio teologico delle diocesi della Toscana nord-occidentale, che fin dal titolo, Testimonianza e verità,5 evidenzia il tema che ci interessa.

Come abbiamo detto, la testimonianza è sempre stata considerata nella filosofia una via d’accesso alla verità di serie B e la conoscenza a cui si accede tramite essa, ugualmente, non poteva non essere compresa in questa valutazione. Fra le cause da cui nasce questa valutazione abbastanza negativa, c’è senz’altro il concetto di verità che nella sua versione dell’adeguazione obbliga a porre l’accento sul fatto che questa adeguazione nella testimonianza non può essere verificata se non in modo assai indiretto, producendo così una «verità depotenziata» e capace di attirare solo un assenso sempre instabile perché mancante di un fondamento inconcusso.

Se vogliamo rivalutare la testimonianza come via di accesso alla verità non possiamo non domandarci prima a quale concetto di verità stiamo riferendoci altrimenti rischiamo sempre di trovarci in un contesto in cui il testimone e la sua attestazione della verità rischiano di figurare come uno strumento di conoscenza sopportato solo in mancanza di meglio.

Eppure la testimonianza, per la sua stessa natura, si presta a comunicare al meglio le verità che non riguardano le cose e quindi tutti quegli asserti che si rifanno al senso che traspare non tanto dalla pura e semplice plausibilità delle parole pronunciate o dalla loro verificabilità mediante esperienze fattuali, quanto dal grado di coinvolgimento che il testimone mostra con la verità testimoniata per come questo coinvolgimento traspare dalla sua esistenza.

Questo ci porta a passare dalla considerazione distaccata della verità presa in se stessa, a considerare la persona che della verità testimoniata è il segno vivente ed imprescindibile. Il discorso, dunque, da concettuale diventa personale e l’adeguazione diventa, e con essa la verità, adaequatio rei et personae.

2. Fenomenologia della testimonianza

Per introdurci ad un esame fenomenologico della testimonianza, vorrei servirmi di un esempio tratto dalla letteratura, e precisamente dalla prima parte della scena del processo in I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij.6 Se, come abbiamo detto sopra, la pratica della testimonianza nell’ambito giudiziario, è stata uno degli ambiti da cui la filosofia è stata stimolata ad una riflessione più attenta su questo tema, il racconto di un processo, per quanto romanzato, può esserci utile a portare avanti il nostro lavoro.

Tutta la prima parte del processo a Dmitrij Karamazov, accusato dell’omicidio del padre, è costituita dall’interrogatorio di vari testimoni legati all’imputato dai più vari rapporti, strettissimi a volte (i suoi fratelli, l’ex-fidanzata, etc.) o più generici (un ex-seminarista, parassita frequentatore della casa della donna per cui Dmitrij nutre una passione irrefrenabile). Ed il modo con cui l’accusa e la difesa del processo interrogano questi testimoni ci mostra quali sono i caratteri che distinguono una testimonianza credibile da una che invece non lo è.

Il primo testimone è uno dei servi della famiglia Karamazov che viene però immediatamente squalificato nella sua deposizione dal fatto che la sera del delitto aveva bevuto:

— Era un bel po’, quel che avete bevuto? Pressappoco? Un bicchierino, due?

— Sarà stato un bicchierotto.

— Nientemeno che un bicchierotto! Ma forse anche un bicchierotto e mezzo?

Grigorij ammutolì. Si sarebbe detto che avesse capito qualcosa.

— Un bicchierotto e mezzo di spirito puro: non c’è male davvero, che ne pensate? Si possono vedere aperte anche le porte del Paradiso, altro che quella sul giardino!^[7]

Ancora, l’ex-seminarista Rakitin è squalificato nella sua deposizione dall’essere una persona che, pur propagandando idee liberali, si rifugia sotto la protezione dell’autorità ecclesiastica ed in più è una persona attaccata al denaro.

— Oh, molto bene! Un pensatore come voi, può, e anzi deve, conservare una grande libertà nei confronti di qualsiasi fenomeno sociale. Sotto la protezione del signor Vescovo, la vostra utilissima brochure s’è diffusa e ha procurato un non trascurabile utile… […]

— Conduceste voi Aleksej Karamazov dalla signora Svetlova e riceveste da lei venticinque rubli di compenso? Ecco che cosa desidererei sapere da voi.

— Si trattò d’uno scherzo… Io non vedo la ragione per cui questo vi possa interessare. Presi quel denaro per ischerzo… e con l’intenzione di restituirlo più tardi…

— Insomma, l’avete preso. Ma, credo, non l’avete mica restituito fino ad oggi… oppure l’avete restituito?

— Queste sono futilità… — borbottava Rakitin. — Io non posso rispondere a domande simili… In fin dei conti, lo restituirò!^[8]

È interessante notare come queste circostanze, contestate a Rakitin, non abbiano niente a che fare con l’oggetto vero e proprio della testimonianza ma è la squalificazione morale della persona che fa sì che anche ciò che essa ha deposto risulti, come minimo, assai meno credibile.

All’opposto, troviamo la testimonianza di Alësha Karamazov, egli, in quanto fratello dell’accusato, sarebbe teoricamente un testimone poco attendibile ma la sua personalità e la coerenza della sua vita lo rendono una persona le cui parole vanno considerate con attenzione:

La cosa avvenne di sorpresa allo stesso Alësha. Era stato chiamato a testimoniare senza giuramento, e io ricordo che tutte e due le parti si comportarono verso di lui, fin dalle prime parole, con eccezionale affabilità e simpatia. Era evidente che lo precedeva una buona fama.7

Altra caratteristica della testimonianza che traspare nella figura di Alësha è senz’altro la convinzione interiore, la «fede» in ciò che dice che va al di là della semplice accumulazione di indizi concreti che comprovino le sue affermazioni e questo delude chi cerca nelle sue parole dei fatti straordinari e sconosciuti agli altri che rendano la sua testimonianza inoppugnabili. Questa «fede» che traspare nelle sue parole è, allo stesso tempo la forza e la debolezza della sua testimonianza:

-Non potevo, io non credere a mio fratello! So che egli non è capace di mentire. Dal viso gli ho visto che non mi diceva una menzogna.

-Unicamente dal viso? Stanno qui tutte le vostre prove?

-Altre prove, non ne ho.8

Da questo rapido esame possiamo concludere che, la testimonianza così come si manifesta nella esperienza è, prima che oggettività consegnata al discorso, la soggettività del testimone stesso che parla per mezzo di se stessa prima ancora che attraverso le parole. Ed è prima di tutto questa soggettività che dà o fa perdere valore veritativo al discorso.

Per quanto riguarda i destinatari della testimonianza, così come Dostoevskij ce li descrive in questa scena del processo, ognuno di essi è mosso da un interesse, un interesse che non raggiunge mai la profondità del loro essere ma resta sempre, al livello dell’agire «strategico», per usare un’espressione presa in prestito dall’etica della comunicazione, nel caso dell’accusa e della difesa, o della curiosità più volgare nel caso del pubblico. La comunicazione non è accolta con libertà ma essa è subordinata al soddisfacimento di questi interessi diversi ma egualmente di corto respiro:

A tutti, forse, riuscì chiaro fin dai primi passi come qui non si trattasse neppure d’una questione controversa: come non ci fossero, qui, dubbi di sorta, e non ci sarebbe stato in realtà nessun dibattito: il dibattito non si sarebbe svolto che pro forma, e l’imputato era colpevole, palesemente colpevole, colpevole senza meno. Penso pure che tutte le signore, nessuna esclusa, pur desiderando con tant’ansia l’assoluzione dell’interessante imputato, fossero anch’esse, in quei momenti perfettamente convinte della sua piena responsabilità. E non basta: a mio parere, esse si sarebbero rammaricate, se la colpevolezza di lui non si fosse dimostrata in modo così massiccio, giacché allora non sarebbe stato tanto grande l’effetto al momento dell’epilogo, quando si sarebbe avuta l’assoluzione del criminale. […] Appunto per questo erano accorse qui. Gli uomini, al contrario, prendevano interesse piuttosto alla lotta tra il procuratore e il celebre Fetjukovic.9

La relazione che si instaura tra chi dà testimonianza e chi l’accoglie è mediata da una forma linguistica particolare sui cui val la pena di riflettere che è quella del racconto.

Il raccontare una storia che riporta qualcosa che sia realmente accaduto, diversamente dal raccontare una storia che si sa essere inventata, scatena delle dinamiche che sono assai differenti da quelle del discorso argomentativo, ritenuto la forma per eccellenza di trasmissione della conoscenza.

Ritorniamo qui al racconto di Dostoevskij del processo contenuto ne I fratelli Karamazov:

Ma cominciò Fetjukoviç. E alla domanda quando di preciso l’imputato avesse parlato a lui, Alësha, del suo odio verso il padre e della possibilità che arrivasse a ucciderlo, e se ad esempio gli avesse sentito dir questo nell’ultimo colloquio precedente alla catastrofe, Alësha, rispondendo, d’improvviso sembrò sussultare, come se solo adesso, gli trasalisse il ricordo di qualche cosa, e ne afferrasse il senso.

- Mi sovviene in questo istante una circostanza, che m’era completamente passata di mente, giacché allora mi riuscì tanto oscura, mentre adesso. . .10

La prima cosa che notiamo è che neppure Alësha Karamazov è consapevole di dove il suo raccontare lo porta, nell’atto stesso del raccontare si produce uno sguardo sui fatti che esplicita una potenzialità in essi contenuta che neppure chi li aveva vissuti aveva immediatamente colto. Il raccontare produce novità, esplicita nel presente ciò che il passato contiene per aprirlo al futuro:

Il narrare è dunque un modo particolarmente rigoroso del discorso. Esso esprime il reale in modo tale da congiungere originariamente la libertà trattenuta del possibile con la forza che preme in avanti di ciò che è convincente. Infatti in esso la storia ritorna indietro nell’elemento dal quale è scaturita: nel linguaggio. E proprio mediante questo ritorno al linguaggio la storia avvenuta procede come storia che avviene.11

Dopo questa breve fenomenologia del testimoniare proviamo ora a riflettere sui dati raccolti per esplicitarne il senso.

3. Le caratteristiche della testimonianza

Fedeli al nostro assunto di base, e cioè che, in una concezione personalistica della verità, l’interpersonalità è essenziale al processo conoscitivo, partiamo proprio di qui per la riflessione che ci proponiamo di fare.

La relazione interpersonale, nel quadro della testimonianza si struttura in un quadro specifico che è quello della narrazione: il testimone narra la propria esperienza e colui che ascolta si confronta con questa narrazione e prende posizione, immediatamente pro o contro di essa e mediatamente pro o contro il «messaggio» della testimonianza.

Per analizzare questo processo e le dinamiche che in esso si producono, vorrei usare uno schema ripreso da Paul Ricœur che, in Tempo e racconto, per analizzare i meccanismi della narrazione letteraria e storica utilizza la nozione di mimesi.12

Essa è ripresa dalla Poetica di Aristotele dove è definita come l’imitazione o rappresentazione dell’azione.

Il filosofo francese però, nel quadro di un tentativo di ricollegare la storiografia alla narrazione vista come maniera di esprimere ciò che si dispiega nel tempo, articola e sviluppa questa nozione in modo assai complesso e la distingue in tre livelli da lui chiamati mimesi I, mimesi II e mimesi III.

La prima, appartiene all’esperienza che sarà l’oggetto del racconto ed in cui avviene quella che potremmo definire una «prefigurazione» del racconto. La seconda che vede ancora protagonista il narratore è l’atto del narrare stesso in cui avviene la «configurazione» del racconto. La terza che vede invece come protagonista colui che, nello schema ricœuriano è il lettore o l’ascoltatore della narrazione, è il luogo dove nella ricezione del racconto avviene la sua «rifigurazione» e quindi l’appropriazione della narrazione da parte del destinatario.

Ed è proprio seguendo questo schema che cercheremo di sviluppare il nostro discorso sulla testimonianza.

Nella «prefigurazione» del racconto, che appartiene al livello di mimesi I, ciò che viene richiesto alla persona è una competenza che possa far comprendere le azioni in quanto tali, permetterne la comprensione simbolica e farne riconoscere la struttura temporale.13

Per quanto riguarda il primo punto si può dire che comprendere l’azione in quanto tale vuol dire la capacità di cogliere ciò che differenzia l’azione umana dal semplice movimento fisico, si parla qui di fini e motivi dell’azione, agenti che interagiscono con altri all’interno di quadri di circostanze e, infine, di esiti legati all’azione che possono influenzare la vita di chi vive l’esperienza.

Nel caso della testimonianza, questo vuol dire cogliere il «peso» esistenziale di queste azioni per colui che ne è spettatore-protagonista. C’è una serietà nel vivere, una non-frivolezza nello stare dentro situazioni ed avvenimenti, un sentirsi toccati da essi che è pre-requisito indispensabile perché l’esperienza parli a chi l’ha vissuta.

Colui che testimonia non è solo, come lo storico che narra avvenimenti passati uno che, pur nell’atteggiamento di chi si sente coinvolto emotivamente e intellettualmente in ciò che narra, riferisce di cose accadute ad altri ma qualcuno che sente che ciò che racconta lo riguarda personalmente e direttamente.

Ed arriviamo qui al secondo punto: se l’esperienza ha qualcosa da dire, si deve essere capaci di comprenderne il linguaggio.

Questo vuol dire la «competenza» a star dentro alle mediazioni simboliche attraverso le quali inevitabilmente l’esperienza viene recepita e quindi riespressa. Sono queste mediazioni a dare all’azione una prima leggibilità che ne permetterà poi la «messa in narrazione».

Da questo significato si arriva anche a quello di «regola» nel senso di un valore di tipo etico che permette di valutare l’azione, approvandola o disapprovandola. In questo modo l’esperienza non è mai vissuta in maniera eticamente neutra ma essa è sempre motivo di valutazione secondo le categorie di buono e cattivo.

Siamo quindi assai distanti da qualunque idea di avalutatività che si possa ritenere come pre-requisito indispensabile per una conoscenza «vera».

Credo che qui si tocchi un punto particolarmente delicato in quanto spesso si può constatare che i fatti sembrano essere muti per chi li vive ed infatti non di rado interventi educativi che vengono fatti ai più vari livelli e nei più vari ambiti mirano proprio a ridare alle persone le capacità necessarie a intendere di nuovo la «voce dei fatti». Questa sordità può essere di vari tipi perché questa capacità di cogliere la simbolica degli avvenimenti è fatta di intelligenza, di emotività, di ancoraggio ad una tradizione culturale e morale ed in ognuno di questi ambiti si può verificare un blocco che toglie la capacità di «ascoltare» le esperienze.

Dovendo usare un termine, forse più suggestivo che esplicativo, direi che è necessario avere una sensibilità «estetica» all’esperienza vissuta.

Il terzo punto, Ricœur lo spiega ricollegandolo al concetto di «inter-temporalità» che egli ricava da Essere e tempo di Heidegger, concetto che è collegato a quello, ancora più fondamentale nell’opera heideggeriana, della «cura».

Questo concetto, secondo il filosofo francese, permette di riscattare la temporalità dall’essere un’anonima ed insignificante successione di istanti per dare al tempo un senso che proviene dalla sua realizzazione con la maniera tipicamente umana di essere nel mondo.

Nel nostro contesto, potremmo dire, che questa capacità di collocare l’esperienza nella temporalità è la capacità di ricollocarla dentro una storia che è personale e collettiva, storia intesa come successione di avvenimenti che hanno un significato che viene dato dalla stessa persona che è protagonista di questa storia ed è quindi un riscattare l’esperienza da quell’insignificanza, da quel mutismo di cui dicevamo sopra che rende le esperienze, proprio perché non portatrici di senso, praticamente interscambiabili e quindi non portatrici di senso.

Il raccontare si riferisce a qualcosa di passato e quindi il tempo è messo subito in gioco ma esso è anche qualcosa che rende presente ciò che è trascorso e quindi diventa il ponte tra il passato dell’avvenimento narrato ed il presente di chi parla e di chi ascolta; ugualmente, nella narrazione che avviene nella testimonianza, c’è un’apertura al futuro perché il testimoniare, diversamente dal raccontare storie di fantasia, vuole agire su chi è coinvolto nel processo narrativo perché, nella testimonianza di tipo religioso o esistenziale, la sua vita vada in una direzione che è consonante con il senso che si dà alla storia raccontata oppure perché (è il caso della testimonianza giudiziaria), attraverso il narrare ciò di cui si è visto o sentito, si sa di influire sul destino di quella persona contro la quale o a favore della quale si sta testimoniando.

Il secondo livello, quello di mimesi II, è quello della «configurazione» del racconto là dove l’esperienza si fa concreta narrazione e, nell’ambito della nostra ricerca, narrazione dell’esperienza e cioè testimonianza.14

È qui che si coglie quanto il narratore non sia un semplice soggetto che disponga di un’informazione che egli ripete in modo meccanico. In quest’ottica la testimonianza perde di spessore e la persona del testimone si limita ad essere un strumento ripetitore rendendo così inutile ogni approfondimento filosofico, bastando la cautela, secondo i criteri della verifica giudiziaria o della critica storica, di controllare che il «canale di comunicazione» comporti meno «disturbo» possibile e che il ripetitore ripeta bene il messaggio.

La testimonianza per quanto «veridica» è sempre creativa.

In che ambiti questa creatività si dispiega?

Ricœur utilizza qui una categoria tipica della produzione letteraria che sembra fuori posto usata nel nostro contesto e cioè quella dell’intrigo inteso come complesso di vicende messe in relazione le une con le altre attraverso un processo di costruzione.

L’intrigo ha, nello sviluppo che a questo concetto dà il filosofo francese, una funzione appunto di configurazione dei fatti, di trarre da una serie di avvenimenti una storia che ha un senso e va verso una conclusione.

È sufficiente considerare, per cogliere il legame con il discorso che ci interessa, quanto le tradizioni orali e scritti su Gesù che si sono concretizzate nei quattro vangeli canonici abbiano configurato il materiale grezzo che era loro pervenuto attraverso i testimoni storici della vita del rabbi di Galilea ed abbiano prodotto delle composizioni molto complesse sia sul piano letterario che su quello teologico. Tutto questo è stato messo in opera a partire da un interesse che non era quello di ridire semplicemente dei fatti messi in ordine cronologico ma piuttosto quello di guidare il lettore alla conclusione aperta della vicenda terrena di Gesù che è data dalla resurrezione.

Una seconda caratteristica che viene dalla configurazione operata al livello di mimesi II è la schematizzazione e cioè il crearsi di una serie di regole che poi consentiranno la comunicazione con il destinatario della narrazione. Queste regole sono delle intuizioni giudicanti, come si è detto sopra a proposito di mimesi I, che si producono di fronte a ciò che costituisce il materiale messo in ordine dalla schematizzazione.

Nel nostro caso, questo può corrispondere alla possibilità di dare, di fronte a certi fatti che costituiscono la materia della testimonianza, dei giudizi di valore e di senso e questa possibilità deve essere comune a chi racconta ed a chi ascolta perché si possa creare una reale corrente comunicativa.

Da ultimo, la configurazione consente la costituzione di una tradizione vista come relazione dinamica tra sedimentazione e cioè un certo stabilizzarsi di forme e contenuti e innovazione e cioè quel processo che, a partire dagli elementi sedimentati nella tradizione, produce forme nuove magari anche per antitesi con le vecchie.

Ma, a differenza del racconto di fantasia, il racconto testimoniale ha la pretesa di rappresentare qualcosa di significativo, di «vero» per chi lo ascolta.

Quali sono dunque queste regole comuni a narratore ed ascoltatore che permettono a quest’ultimo di «verificare» il valore della testimonianza?

Per quanto detto sopra sull’adaequatio rei et personae questa domanda va piuttosto posta nel seguente modo: quali sono i criteri che contraddistinguono la persona del testimone affinché sia possibile scorgere in lui il riflesso della verità testimoniata e ad essa dare il nostro assenso? Cosa ci aiuta a capire quando la creatività insita nella narrazione testimoniale diventa affabulazione, invenzione fine a se stessa o, peggio, finalizzata a qualche recondita intenzione di chi racconta nei confronti di chi ascolta?

La caratteristica base del testimone, quella che muove a prestargli fede è, come abbiamo detto nella parte fenomenologica, la sua serietà, serietà che si esprime e si traduce in un duplice senso di responsabilità: verso l’esperienza testimoniata della verità che chiede di essere espressa e verso il destinatario della testimonianza poiché il testimone sa che la sua testimonianza può cambiare in qualche modo la vita di colui che la ascolta. Paradigma di ciò è la testimonianza data in tribunale con la sua possibilità di provocare la proclamazione di innocenza o colpevolezza di colui al quale la testimonianza si riferisce.15

Uno sviluppo dell’aspetto della responsabilità insito nella testimonianza lo troviamo in E. Lévinas che anche in questo ambito porta avanti il suo progetto della sostituzione della chiave ontologica uniformemente utilizzata dalla filosofia occidentale con una chiave etica come approccio riflessivo alla realtà.

Per il filosofo francese la responsabilità per l’altro, che è uno dei concetti fondamentali della sua filosofia, spinge il soggetto all’auto-espropriazione ed è precisamente in questo spazio vuoto che si crea lo spazio per la testimonianza, spazio che è quasi più il vuoto di un’assenza-presenza che non il luogo di un’apparizione di un essere che sia in qualche modo sostitutivo dell’essere soggettivo per costituire così un nucleo diverso da quello di partenza ma egualmente auto-centrato e proprio per questo diventa capax infiniti, non essendo più il «pieno» di qualcosa che per grande che sia resta sempre limitato ma il vuoto di una disponibilità sempre nuova.16

Possiamo dire che è proprio in questa caratteristica tipica della persona che è la relazione che si crea con l’altro, che è il destinatario della testimonianza, e la responsabilità che nasce da questa relazione il luogo dove la verità testimoniata risplende confermando in modo più profondo quanto la verità della testimonianza sia inseparabile dalla persona del testimone. Ed è proprio la persona del testimone a cui ci siamo rivolti per coglierne il rapporto con la verità che ci riconduce alla verità stessa attraverso l’ultima frontiera dell’adaequatio rei et personae che è il martirio.

Nel martirio non possiamo, certo, ricercare un criterio di verità come se fosse una regola logica di inferenza o una prova fattuale per un’affermazione; un atteggiamento di questo genere sarebbe un ricondurre il discorso di testimonianza al discorso argomentativo. Esso costituisce però il segnale che dice quanto il senso della verità testimoniata abbia preso possesso della persona del testimone, quanto la doppia responsabilità di cui sopra, verso la verità e verso il destinatario della testimonianza, abbiano condotto il testimone all’estremo gesto dell’auto-espropriazione che è quello del gettare la propria vita perché lo spazio di presenza-assenza sia totale essendo compiuto anche l’ultimo svuotamento.

Questo estremo accettare d’annullarsi perché la propria persona in qualche modo scompaia al fine di divenire trasparenza della verità che risplende in essa ci conduce a fare un passo avanti che è quello di cogliere in qualche modo un segno quella relazione tra verità e la persona che ci spinge qui a riflettere sulla testimonianza.

Infatti uno dei dati più ricorrenti della concezione della verità è quello di attribuire ad essa una sorta di «splendore» proprio che la rende manifesta agli occhi della mente di colui che conosce e quest’idea conduce a concezioni del conoscere che, attraverso un’intuizione che può essere frutto dell’attività del soggetto conoscente o dono che viene da fuori (basta pensare all’illuminazione agostiniana), pongono nell’auto-evidenza della verità da cogliersi, appunto, nell’intuizione, il criterio della verità.

Ma quando la verità è persona, secondo l’assunto di base della nostra ricerca, cosa diviene questo dato?

Credo che il concetto di testimonianza come ci viene presentato nel vangelo di Giovanni in relazione alla persona di Gesù possa essere un aiuto prezioso in questo passo ulteriore che facciamo nella nostra riflessione.

In questo vangelo il concetto di testimonianza sostituisce quello di annuncio tipico dei vangeli sinottici ed ancora del libro degli Atti ed ha come oggetto la persona stessa di Gesù ed il mistero che in essa si rivela. Questa persona non viene testimoniata limitatamente a qualche suo aspetto particolare ma è tutta la sua complessità e profondità e quindi il mistero del Verbo di Dio che in essa si rivela, che costituisce l’oggetto del testimoniare. Questo ha come ulteriore peculiarità, particolarmente scomoda per la mentalità ebraica, che la testimonianza è portata prima di tutto, anche se non esclusivamente, da Gesù stesso. Com’è risaputo infatti, questo, secondo il sistema giudiziario ebraico, era piuttosto un motivo per invalidare la testimonianza di Gesù piuttosto che una ragione per accreditarla e infatti, nelle discussioni fra Gesù e i Giudei, questo tema ricorre spesso17 e Gesù prova in molti modi a dimostrare come questa sua testimonianza riguardo alla propria missione sia invece degna di credito.

C’è un dato teologico che Giovanni evidenzia fin dal prologo del suo vangelo: se Gesù, attraverso la sua testimonianza, si rivela figlio di Dio e rivela così il volto del Padre suo e Padre di tutti, solo lui, il Figlio, il Verbo, e cioè il medium dell’auto-comunicazione di Dio verso il mondo è capace di portare questa testimonianza in modo adeguato. Dice infatti Giovanni:

Dio nessuno l’ha mai visto, l’unigenito figlio che è rivolto al seno del Padre, lui lo ha rivelato.18

Questo è riconoscibile per esempio attraverso il modo in cui Giovanni lega il testimoniare al vedere.

I due verbi hanno il medesimo oggetto soltanto se riferito alla testimonianza di Gesù: egli testimonia “ciò che ha visto” (Giovanni 3, 23; cfr. Giovanni 3, 11). Per i testimoni umani invece avviene una distinzione fra l’oggetto della visione e quello della testimonianza: l’avvenimento che il testimone ha visto diventa per lui il segno di un’altra realtà, questa volta invisibile ed è di quella che testimonia. Giovanni Battista al Giordano ha visto lo Spirito come una colomba scendere dal cielo e posarsi su Gesù (1, 32), ma egli rende testimonianza alla messianicità di Gesù (1, 34).

È partendo da questa affermazione che possiamo dire che differentemente da una qualunque testimonianza di tipo giudiziario o storico non è il numero dei testimoni che importa ma piuttosto la vicinanza del testimone alla realtà testimoniata e la trasparenza con cui il testimone si fa segno di questa realtà.19

Nel caso di Gesù la vicinanza del testimone alla realtà è assoluta, in quanto egli stesso è la realtà testimoniata, egli è il Verbo che fin dal principio è presso il Padre, egli è colui che può dire a Filippo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre».20

Per quanto riguarda la trasparenza, rifacendosi a quanto detto sopra sull’auto-annullamento del testimone come creazione dello spazio in cui risplenda la realtà testimoniata non possiamo dimenticare come l’apice della testimonianza di Gesù nel quarto vangelo sia il momento che si centra nell’«ora» della croce. Il verbo vedere è un verbo che in Giovanni per quanto sia dotato di un momento «fisico» non si ferma alla semplice visione oculare ma si conclude in un momento in cui la visione diventa contemplazione e ciò che è visto diventa segno di qualcosa che è visibile solo all’occhio rischiarato dalla fede. E questa visione profonda ha come suo oggetto primario Gesù nel momento della crocifissione, visto come la rivelazione suprema dell’amore del Padre che da il Figlio perché il mondo si salvi per mezzo di lui.21

Quindi in Gesù che sulla croce accetta di annientarsi per rivelare il Padre, la trasparenza diviene massima e la verità testimoniata risplende in massimo grado.

Potremmo concludere queste riflessioni dicendo che nella testimonianza, non solo il testimone «prefigura» e «configura» il racconto ma, con un processo graduale configura anche se stesso e la propria esistenza su ciò che racconta. C’è quindi una creatività duplice: dal testimone verso il racconto in cui, nella serietà e nella responsabilità suddette egli ricrea l’esperienza nella narrazione e dal racconto verso il testimone dove la persona è «ricreata» dal narrare, in misura sempre maggiore ad ogni ricorrenza del narrare stesso, in un’assimilazione della propria esistenza alla narrazione.

E non questo non vale solo per lui ma l’identità di tutti coloro che partecipano a questo processo, si costruisce attraverso il raccontare perché l’oggetto di questo atto linguistico, nel contesto della testimonianza che noi stiamo esaminando, è l’esperienza vissuta direttamente o indirettamente da chi racconta e di cui, egli, vuol far partecipe chi ascolta:

Ciò che il narratore racconta, lo ricava dalla esperienza, sua propria o narrata. E lo rende di nuovo esperienza per coloro che ascoltano la sua storia.22

In quest’ottica possiamo dire che il narrare può produrre una «comunità della narrazione» che si costituisce, forse solo per il breve spazio del racconto ma, nella possibilità dell’apertura al futuro di cui abbiamo detto sopra, anche con la prospettiva di una durata più ampia quando il raccontare che avviene nella testimonianza è accolto e fatto proprio da chi ascolta e a sua volta diviene testimone. È il caso tipico delle comunità di fede che si costituiscono sulla base del racconto dell’esperienza che le fonda e costruiscono la loro origine ed identità sull’accettazione e sulla ripetizione del racconto fondatore oppure delle culture orali dove le società costruiscono la loro identità narrando continuamente il mito che fonda la propria esistenza come popolo.

Il raccontare è quindi costitutivo dell’umanità dell’uomo, sia nella sua dimensione individuale che in quella collettiva, in quanto è al suo interno che la dimensione del tempo, co-essenziale al nostro essere nel mondo, diventa pienamente umana.

E potremmo fare anche un passo più in là dicendo che la parola della narrazione ha pure un valore performativo, può operare quindi, in qualche modo, ciò è narrato «configurando» così non solo il racconto ma anche il mondo.

Il raccontare fa accadere infatti qualcosa nelle persone che partecipano a questo processo linguistico.

Chi racconta e chi ascolta, se il processo comunicativo è autentico, vivono un nuovo accadimento di cui l’esperienza passata che viene narrata è il detonatore ma che non si esaurisce in una pura ripresentazione di ciò che è stato. Martin Buber dà questo bellissimo esempio della potenza del raccontare usando egli stesso un racconto:

Si pregò un rabbi, il cui nonno era stato ala scuola del Baalshem Tov, di raccontare una storia. ‘Una storia’, egli disse, ‘la si deve narrare in modo tale che possa esser d’aiuto’. E raccontò: ‘Mio nonno era paralitico. Un giorno gli si chiese di narrare una storia del suo maestro. Ed allora prese a raccontare come il santo Baalshem, quando pregava saltellasse e ballasse. Mio nonno si alzò in piedi e raccontò. Ma la storia lo trasportava talmente che doveva mostrare come il maestro facesse, saltando e ballando pure lui. E così, dopo un’ora era guarito. È questo il modo di raccontare le storie.23

Se ai livelli di mimesi I e II, è soprattutto la persona del testimone che è oggetto di riflessione in quanto vive l’esperienza ed in quanto la narra, al livello di mimesi III è la persona di colui che ascolta il racconto testimoniale ad essere esaminata. Infatti se ci sono delle disposizioni richieste alla persona del testimone perché egli sia degno di fede, allo stesso tempo c’è una disposizione necessaria in colui che accoglie la testimonianza.24

Nell’atto della lettura avviene un movimento che va dal testo al lettore e che è costituito da una riorganizzazione delle attese del lettore a partire dai paradigmi su cui il testo è costruito, e dal lettore al testo in quanto l’atto della lettura rende presente e rende il testo più leggibile producendo quello che il filosofo francese definisce un «incremento» del testo e cioè un liberarsi di significati che possono anche non essere stati inclusi nell’intentio auctoris.

Questo produce «un’intersezione tra il mondo del testo e quello del lettore»25 che fa sì che il testo non sia solo una pagina statica ma occasione di creatività e di produzione di significato.

Questi punti che vengono sviluppati dal filosofo francese a partire dall’esperienza della lettura di un testo, come possiamo declinarli nell’esperienza testimoniale?

Credo che il primo aspetto da sottolineare sia proprio la disponibilità dell’ascoltatore a lasciarsi strutturare nelle proprie attese, nei propri desideri e bisogni dalla testimonianza udita. Non opporre barriere o chiusure, non voler imporre in modo totale i propri schemi di pensiero e di giudizio a ciò che viene udito ma lasciarsi «parlare» da ciò che viene narrato dal testimone.

Lasciamoci aiutare ancora dal vangelo di Giovanni per capire meglio questa apertura: «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce».26

Ma cosa vuol dire essere dalla verità e come possiamo esprimere questo concetto in termini più prettamente filosofici che, accogliendo lo stimolo che viene dal vangelo, lo declinino in un modo che possa essere oggetto di riflessione anche per il non credente?

Proviamo prima a riflettere su quello che in Giovanni diventa ostacolo all’accoglienza della verità testimoniata da Gesù, per provare poi a rileggere tutto questo in termini filosofici.

Nel prologo del suo vangelo, sommario di tutte le tematiche che saranno sviluppate più ampiamente nel corso della narrazione, Giovanni dice:

Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.27

C’è un «venire fra i suoi» di Gesù verità fatta persona, c’è quindi alla base di tutto una consonanza tra il testimone e coloro che devono accogliere la testimonianza eppure questa consonanza naturale da sola non basta ed anzi può perfino diventare un ostacolo come vediamo nell’episodio di Gesù che parla nella sinagoga di Nazareth, c’è bisogno dunque di un accoglienza esplicita che è espressa nell’essere generati da Dio. Non è, nel quadro del vangelo l’essere membri di un popolo o di una discendenza ma l’essere generati dalla Verità che apre all’accoglimento della testimonianza che la Verità dà di se stessa.

Questo si gioca nell’accogliere la persona concreta di Gesù nel suo parlare ed agire storicamente situato perché è proprio questo il luogo del rivelarsi del Padre:

Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato.28

È quindi l’accettare una persona concreta ed il riporre fede nella sua testimonianza il discrimine fra accogliere e non accogliere. Evidentemente questa persona è accreditata da qualcosa e cioè da opere che sono in sintonia con la testimonianza data ma all’apertura della persona che si rivela, testimoniando di sé, deve corrispondere un’eguale apertura da parte di coloro che questa rivelazione, questa testimonianza devono accogliere.

Nell’ottica teologica cristiana, questa apertura ha un nome e cioè fede ma possiamo ritrovare nel pensiero filosofico qualcosa che ci permetta di riconoscere questa apertura esprimendola in termini non strettamente teologici?

Per questo ci rivolgiamo ad Heidegger che ha tematizzato come nessun altro nel ’900 l’atteggiamento di apertura dell’uomo all’Essere che gli si disvela nella verità.

Possiamo individuare nel suo cammino filosofico due momenti distinti di riflessione in cui l’accento è posto su due aspetti differenti ma che, credo, possono essere ricondotti ad una qualche unità.

Nella prima fase del suo pensiero, Heidegger centra nel domandare l’atteggiamento fondamentale che contraddistingue la filosofia. In relazione a quella che secondo Jaspers è la domanda fondamentale della filosofia e cioè: «Perché c’è l’essere e non piuttosto il nulla?», egli afferma:

Il porre effettivamente una simile domanda significa avere l’ardire di interrogare fino in fondo, di esaurire l’inesauribile mediante la rivelazione di quanto in essa richiesto. Laddove qualcosa di simile avviene c’è filosofia.29

È quindi la radicalità del porre domande alla realtà che dispiega lo spazio della filosofia che diventa anche lo spazio dove l’essere appare. Ed è qui Heidegger individua anche la differenza di fondo tra filosofia e teologia, laddove nella prima si interroga, nella seconda si è interrogati e il domandare portato fino all’estremo che contraddistingue la filosofia è, per il teologo, folle ed insensato.

Nel proseguire del suo cammino di riflessione, Heidegger approda ad una svolta, come lui stesso la definisce e questa Kehre coinvolge anche il fondamento della filosofia così come esso era stato precedentemente espresso.

Il tratto fondamentale del pensiero non è l’interrogare, bensì l’ascoltare quel che viene suggerito da ciò che deve farsi problema.30

L’interrogare radicale, in questa seconda fase, viene visto come il sintomo dell’atteggiamento di dominio che l’uomo esercita verso l’ente, convinto così di possedere anche l’essere che nell’ente si manifesta. Ma un pensiero che veramente voglia interrogarsi intorno all’Essere non può dettargli le regole del suo manifestarsi, costringendolo nei limiti del suo interrogare, anche quando questo si spinga all’estremo; piuttosto esso deve porsi in ascolto del silenzio in cui risuona il dire originario dell’essere.

Da qui l’attenzione posta al linguaggio come casa dell’Essere e l’atteggiamento dell’ascolto diventa un lasciarsi dire che crea lo spazio dove l’Essere si possa mostrare:

Il linguaggio parla in quanto dice, cioè mostra. Il suo dire scaturisce dal Dire originario, sia per quanto si è fatto parola sia per quanto è rimasto ancora inespresso, da quel Dire originario che trapassa il profilo del linguaggio. Il linguaggio parla nell’atto che, come mostrare, raggiungendo tutte le contrade di ciò che può farsi presente, fa che da esse appaia o dispaia quel che di volta in volta si fa presente. Di conseguenza noi porgiamo ascolto al linguaggio in modo da lasciarsi dire il suo Dire. Quale che sia il modo con cui ascoltiamo, ogni qual volta che ascoltiamo qualcosa, sempre l’ascoltare è quel lasciarsi dire che già racchiude ogni percepire e rappresentare. In quanto il parlare è ascolto del linguaggio, parlando, noi ri-diciamo il Dire che abbiamo ascoltato.31

È possibile trovare un’unità in queste posizioni apparentemente contraddittorie?

Credo che ci sia un concetto che possa in qualche modo unificare questi due atteggiamenti che il filosofo tedesco, tempi diversi, ha associato al filosofare come luogo dove l’Essere appare. Questo concetto è la libertà che egli associa alla verità. Nella sua opera Sull’essenza della verità egli scrive:

Questo libero offrirsi ad una conformità che obbliga è possibile solo se si è liberi per ciò che, in una apertura, si manifesta. Questo essere-liberi esprime l’essenza della verità che fino ad oggi è rimasta incompresa. L’apertura del rapportarsi, che rende possibile intrinsecamente la conformità, si fonda nella libertà. L’essenza della verità è la libertà.32

Ex parte obiecti la libertà è il libero darsi dell’essere, il suo svelarsi nella verità che si offre all’uomo che è chiamato ad accogliere questo svelamento con eguale libertà. Ma è evidente che questo discorso può trovare la sua piena realizzazione solo all’interno di una relazione interpersonale, altrimenti dalla parte dell’oggetto conosciuto si potrebbe parlare di libertà solo in senso analogico.

È questo un ulteriore indizio che ci può suggerire una comprensione personalistica della verità.

Sia l’interrogare radicale, infatti, con il suo rinunciare ad ogni certezza e quindi con una libertà verso se stessi ed il mondo, sia l’ascolto che ancora richiede questa libertà nei confronti di ogni posizione propria e preconcetta sono il segno di un atteggiamento che crea uno spazio. Se è vero che il fenomeno del domandare e quello dell’ascoltare sono assai diversi, credo che si possa dire che entrambi abbisognano della libertà come loro fondamento.

Questo accordo fra la libertà dell’essere che si scopre e quella dell’uomo che sia nel domandare che nell’ascoltare si fa spazio di questa apparizione è evidenziato da Heidegger stesso. Infatti, nella misura in cui l’Esser-ci si trova nel e di fronte all’Essere in un atteggiamento di Gelassenheit, di abbandono, può accogliere il dono dell’Essere, il suo es gibt, che si apre all’uomo nell’alétheia.

Questo atteggiamento di libertà che si esplicita nel domandare e nell’ascoltare diventa dunque lo spazio in cui la testimonianza viene accolta e questa testimonianza può, in questo terreno fecondo, aprirsi fino alla manifestazione di un di più che di per sé è inatteso ed imprevedibile, se si resta alla sola fattualità dell’orizzonte di colui che accoglie la testimonianza. In questo senso la testimonianza che la verità offre di se stessa diventa possibilità di una Rivelazione, questa volta con la maiuscola iniziale, e cioè lo spazio dell’avvento di Dio che si rivela.

Quanto la libertà possa essere il luogo di questa apertura e lo sia per la struttura stessa dell’essere umano lo possiamo cogliere per mezzo dello stimolo che ci viene dall’opera di Karl Rahner, teologo fra i più influenti del ’900.

Egli ha indagato il mistero cristiano alla ricerca di una mediazione fra il discorso teologico oggettivante che egli aveva ereditato dalla scolastica, eredità che, nonostante le molte critiche, ha sempre custodito gelosamente, e il pensiero della modernità che fa del soggetto il suo punto di partenza.

Egli trova questa mediazione nel concetto di «trascendentale» che egli sviluppa soprattutto nell’opera Uditori della parola. Questo concetto si propone come trait d’union fra l’orizzonte oggettivo e quello del soggetto perché, per quanto interno alle strutture del soggetto, essendo universale afferma il peso di universalità e di oggettività che queste strutture comportano. Questo concetto, che egli eredita dalla filosofia di Kant, è però al tempo stesso differenziato rispetto all’interpretazione che il filosofo delle tre Critiche ne da.

Rahner assume questa terminologia [«trascendentale»] non per caratterizzare le categorie del conoscere, come fa Kant, ma per determinare la struttura portante della esistenza umana. «Trascendentale» è per lui la stessa struttura antropologica fondamentale, l’esistenziale inteso come la condizione per la quale l’uomo costitutivamente si autotrascende, è posto cioè continuamente nella tensione ad uscire da sé, a superarsi.33

Se questa è la struttura trascendentale che costituisce l’uomo nella sua concreta esistenza, il passo successivo che Rahner compie è quello di determinare come questa struttura si dispieghi nel suo volgersi verso la rivelazione di Dio presentita come possibile, come, dunque, essa diventi effettiva apertura alla parola dell’Essere che si rivela, Essere non più indistinto come in Heidegger, ma personale e concretamente nominato.34

Sono tre i passaggi che Rahner individua: il primo passaggio si basa sul fatto che, secondo la dottrina scolastica dei trascendentali, ad ogni essere è coessenziale il verum come possibilità di essere conosciuto che nell’essere spirituale coincide anche con la capacità di conoscere:

La natura dell’essere dell’ente è conoscere ed essere conosciuto in una unità originaria, che abbiamo chiamato coscienza di sé, autotrasparenza dell’essere per se stesso o «soggettività».35

È in questo conoscere che si realizza la spiritualità dell’uomo ed in quanto spirito l’uomo è il luogo dove si tematizza la trascendenza dell’essere e questa trascendenza diviene apertura all’essere in quanto lo spirito dell’uomo fit quodammodo omnia ed in questa apertura alla totalità dell’essere egli è aperto al fatto che l’essere si autocomunichi nella sua totalità.

Il secondo passaggio Rahner lo esprime così:

L’uomo è l’ente che, amando liberamente, si trova di fronte al Dio di una possibile rivelazione. L’uomo è in ascolto della parola o del silenzio di Dio nella misura in cui si apre, amando liberamente, a questo messaggio della parola o del silenzio del Dio della rivelazione.36

Con questo passaggio Rahner vuole sfuggire alla necessità di un Dio che si debba rivelare come complemento obbligato alla crescente spiritualizzazione dell’uomo. Lo scoglio da evitare, qui, è la necessità intrinseca dello spirito di hegeliana memoria in cui all’uomo, che attraverso lo svilupparsi del suo spirito necessariamente si avvicina sempre più allo Spirito Assoluto, corrisponde un Dio che non può che rivelarsi, a sua volta obbligato dallo stesso dinamismo dello spirito.

Qui invece il libero autocomunicarsi di Dio si incontra con il libero aprirsi dell’uomo, dove il primo termine può essere in un certo senso vanificato da una non corrispondenza del secondo, ed il secondo mai può esigere alcunché dal primo come corrispettivo della propria apertura.

La libertà diventa dunque condizione necessaria dell’autotrascendenza che non può realizzarsi al di fuori di una autodeterminazione morale e quindi libera.

Se l’autodeterminazione libera è necessaria questa non può avvenire altrove che nel luogo dove la libertà dell’uomo si dispiega e cioè nella storia laddove nell’uomo nel libero progettarsi si concretizza e dove, in un certo senso «lo spirito si fa carne».

L’uomo è l’ente che nella sua storia deve tendere l’orecchio ad un’eventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana.37

In virtù di questa visione la rivelazione non può che avvenire nella storia laddove l’uomo si autodetermina e non può avvenire che attraverso la parola perché essa è il simbolo a cui l’uomo si riferisce per esprimere, pur senza pretesa di esaustività, la conoscenza.

Finché quindi l’uomo non partecipa della visione immediata di Dio, è sempre ed essenzialmente -in forza della sua costituzione fondamentale della sua esistenza- un uditore della parola di Dio, colui che deve prevedere una possibile rivelazione di Dio, che non consiste nella manifestazione diretta del contenuto dell’oggetto rivelato nella sua propria essenza, ma nella sua comunicazione mediante segni rappresentativi che indichino ciò che deve essere rivelato, pur essendo da noi diverso.38

Un ultimo argomento che dobbiamo trattare è lo statuto epistemologico della testimonianza.

Inizialmente, abbiamo visto come essa sia stata vista solo la sorella povera del discorso argomentativi e dimostrativo, ma cosa essa può darci di più rispetto a questo perché valga la pena di spender tempo a rifletterci sopra?

Il primo punto su cui dobbiamo concentrarci è che il linguaggio della testimonianza e del racconto differisce da quello della dimostrazione in quanto produce una conoscenza probabile e cioè quella che nella filosofia greca era la dóxa contrapposta all’epistéme e cioè la conoscenza dimostrativa.

In questo tipo di conoscenza, l’intelletto non è mai a riposo per la forza delle ragioni addotte a sostegno di ciò che è affermato, è la volontà, dopo un attento esame della testimonianza e della persona del testimone (adaequatio rei et personae!) che può decidersi per l’accoglimento di ciò intorno a cui si testimonia, la probabilità della conoscenza non esclude la certezza soggettiva ma questa nasce dalla decisione di chi ha ascoltato la parola della testimonianza.

Sembrerebbe dunque che, poiché la certezza è prodotta non dalla forza dell’argomentazione ma piuttosto da una decisione che arresta ad un certo punto le domande, inevitabilmente la testimonianza non possa far altro che produrre una conoscenza di qualità scarsa, adatta solo ad intelletti meno forti e meno capaci di restare in un clima di ricerca continua oppure di produrre inoppugnabili argomenti atti a giustificare i giudizi emessi. Sembra quindi che la sfiducia riposta nella testimonianza sia pienamente giustificata.

Eppure l’attuale clima culturale con la sua messa in crisi di ogni pretesa di assolutezza della verità, venga essa dalla scienza, dalla filosofia o dalla religione, può aiutarci a rivalutare la testimonianza.

Anche negli altri saperi, tradizionalmente più considerati, ci sono decisioni magari inconsce che indirizzano le domande o le osservazioni39 e quindi c’è una struttura fiduciale che struttura dall’interno ogni processo conoscitivo e lo stimolo che il nostro tempo ci sta dando è quello ad una riconciliazione fra la dimensione fiduciale e quella argomentativa del conoscere. Infatti, il divorzio tra queste due dimensioni che data dall’epoca moderna, divorzio che ha reso queste due polarità, di cui il soggetto dovrebbe essere luogo della sintesi, ha prodotto, laddove si dia fides senza ratio, quella morale del sentire che occupa tanta parte dell’agire dell’uomo contemporaneo e che spesso produce l’implosione del soggetto su stesso, laddove, invece, si dia la ratio senza fides, una figura dispotica della verità contro le cui manifestazioni evidenti ed occulte, giustamente, si erge la critica contemporanea perché produce l’alienazione totale dell’essere umano sacrificato all’ideologia di turno.40

Allo stesso tempo, riconciliando fides e ratio si debbono riconciliare verità e giustizia come cifre di una vita umana in cui conoscenza ed etica si intrecciano indissolubilmente.

Inoltre, ed è la seconda dimensione su cui vogliamo soffermarci, la testimonianza, per la sua irrinunciabile dimensione personale, è superiore alla conoscenza argomentativa per i valori che essa impegna. Mentre la dimostrazione fa appello soprattutto all’intelligenza, la testimonianza reclamando una intensità di fiducia che si misura dai valori che si mettono in gioco in essa, impegna non soltanto l’intelligenza ma anche, in diversi gradi, la volontà e l’amore. La possibilità di un dialogo tra gli uomini si basa, in definitiva, su questa fiducia richiesta dal testimone e sulla promessa, da lui fatta tacitamente, di non tradire questa fiducia. Da una parte dunque impegno morale del testimone, dall’altra fiducia, che è già inizio d’amore, di colui che aderisce alla testimonianza.

Ancora di più, quando noi lasciamo il mondo delle cose materiali, dove pure è possibile una qualche evidenza, per salire al livello delle persone, dobbiamo abbandonare il piano della dimostrazione per entrare in quello della testimonianza. Al livello dell’intersoggettività, che è quello delle persone, noi ci imbattiamo nel mistero. Ora le persone non sono problemi che si lasciano racchiudere in formule e risolvere in una equazione. Le persone non possono essere conosciute che per auto-rivelazione. Noi non abbiamo accesso alla intimità personale se non per la libera testimonianza della persona. E le persone non testimoniano di se stesse se non sotto l’ispirazione dell’amore. La conoscenza per testimonianza è superiore quando si tratta di quelle realtà che sono le persone dove la testimonianza è il solo modo di entrare in unione con la persona e di partecipare al suo mistero.

Quando qualcuno dice «Ti amo», non si può essere certi della sua affermazione per altra via che quella della coerenza fra la persona e le sue azioni e le affermazioni che essa fa, è quindi sempre una fiducia che le si accorda e non c’è ragionamento od analisi delle «prove d’amore» che possa aggirare questo aspetto.41

Concludendo possiamo dire, che coerentemente al nostro assunto di una concezione personalistica della verità, la testimonianza, non solo non è la sorella povera delle altre forme di conoscenza, ma addirittura può essere pensata come la tessitura che sottostà ad ogni processo conoscitivo in quanto la conoscenza è sempre impegno di persone non verso cose ma verso altre persone ed è solo nel quadro di una relazione interpersonale diretta od indiretta che essa trova la sua verità.


  1. Giovanni 14, 6. ↩︎

  2. D. Silvestri Basi per un epistemologia personalistica https://mondodomani.org/dialegesthai/ (31 gennaio 2003). ↩︎

  3. Per dare solo un esempio nella voce «Testimonianza» del dizionario di filosofia dell’Abbagnano, è riportata una sola citazione di Aristotele, dopo di cui si passa direttamente alla Logica di Port Royal, da qui a Locke e da Locke a Hamilton, filosofo scozzese della prima meta dell’800 con cui la voce si conclude. ↩︎

  4. A cura di E. Castelli, La testimonianza, Roma 1972. ↩︎

  5. A cura di P. Ciardella — M. Gronchi, Testimonianza e verità, Roma 2000. ↩︎

  6. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1993, pp. 868-908. ↩︎

  7. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, pp. 887. ↩︎

  8. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 888. ↩︎

  9. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, pp. 869-870. ↩︎

  10. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, , Einaudi, Torino 1993, p. 889. ↩︎

  11. E. Jüngel, Dio, mistero del mondo, Queriniana Brescia 1991, p. 398. ↩︎

  12. P. Ricœur, Tempo e racconto I, Jaca Book, Milano 1986 p. 90-139. ↩︎

  13. P. Ricœur, Tempo e racconto I, Jaca Book, Milano 1986 p. 94. ↩︎

  14. P. Ricœur, Tempo e racconto I, Jaca Book, Milano 1986 p. 108. ↩︎

  15. P. Ciardella, Testimonianza e verità. Un approccio filosofico, in P. Ciardella — M. Gronchi, Testimonianza e verità, Roma 2000, p. 46. ↩︎

  16. Per queste riflessioni su Lévinas cfr. F. Gaiffi, La filosofia contemporanea e la testimonianza in P. Ciardella — M. Gronchi, Testimonianza e verità, Roma 2000, pp. 30-32. ↩︎

  17. Gv. 5, 31-34; 8, 13-14. ↩︎

  18. Gv. 1, 18. ↩︎

  19. I. De la Potterie, Il Battista e Gesù testimoni della verità nel IV Vangelo, in Gesù Verità, Marietti, Torino 1973, p. 168. ↩︎

  20. Gv. 14, 9. ↩︎

  21. Il verbo horáo usato da Gesù nella risposta a Filippo è lo stesso che viene usato per tradurre la citazione dell’Antico Testamento dal libro del profeta Zaccaria relativa al volgere lo sguardo a colui che è stato trafitto e che costituisce la chiusa del racconto della passione nel vangelo di Giovanni. ↩︎

  22. W. Benjamin, Illuminazioni, p. 412. ↩︎

  23. M. Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1979, p. ↩︎

  24. P. Ricœur, Tempo e racconto I, Jaca Book, Milano 1986 p. 117. ↩︎

  25. P. Ricœur, tempo e racconto I, Jaca Book, Milano 1986, p. 126. ↩︎

  26. Gv. 18, 37. ↩︎

  27. Gv. 1, 12-13. ↩︎

  28. Gv. 5, 36. ↩︎

  29. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 13. ↩︎

  30. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1984, p. 139. ↩︎

  31. M. Heidegger, Ibidem, p. 200. ↩︎

  32. M. Heidegger, Sull’essenza della verità, Brescia 1973, p. 19. ↩︎

  33. B. Forte, In ascolto dell’altro, Queriniana, Brescia 1995, p. 87. ↩︎

  34. Seguiamo qui l’analisi di B. Forte, ibidem, pp. 88-90. ↩︎

  35. K. Rahner, Uditori della parola, Borla, Roma 1967, p. 73. ↩︎

  36. K. Rahner, Ibidem, p. 145. ↩︎

  37. K. Rahner, Ibidem, p. 208. ↩︎

  38. K. Rahner, Ibidem, p. 153. ↩︎

  39. Cfr. tutta la filosofia della scienza della seconda metà del XX secolo con la sua evidenziazione dei «paradigmi» e «programmi di ricerca». ↩︎

  40. Cfr. l’analisi condotta da P. Sequeri, Il Dio affidabile, Queriniana, Brescia 1996. ↩︎

  41. È interessante la ricerca che in questo ambito, con grande serietà, sta portando avanti il filosofo francese J.-L. Marion. ↩︎