La fallacia moralistica. Sulla parziale eteronomia dell’etica ecologica

L’etica ecologica, nel panorama contemporaneo, presenta alcuni tratti specifici e innovativi rispetto alle principali tendenze affermatesi nella modernità: anzitutto, si tratta di una morale della rinuncia e del sacrificio di sé e del proprio benessere, in favore di un ambiente il cui valore etico è considerato come primario, equivalente, co-essenziale o almeno non-accessorio rispetto al valore della vita umana; in secondo luogo, l’etica ecologica è sovente conservatrice e anti-tecnocratica, ovvero pone dei vincoli morali allo sviluppo tecnologico e al progresso della ricerca scientifica, e si preoccupa della salvaguardia e della tutela di certi beni e di un certo equilibrio ecosistemico (che sarebbe minacciato dall’attività umana); infine — ed è ciò che qui ci interessa maggiormente — l’ecologia propone un’etica eteronoma, in cui le norme che governano l’agire non provengono dalla sola scelta autonoma, e/o dalla pura riflessione teoretico-razionale, da parte dell’essere umano, bensì almeno anche, in vari modi, da fattori esterni con cui egli entra in relazione.

Porre un’ipoteca eteronoma1 sull’agire umano significa contrapporsi alla linea dominante dell’etica che si è imposta in Occidente a partire dalla tarda modernità (in primis con Kant), e che in epoca contemporanea ha trovato una formale elaborazione nella critica della cosiddetta «fallacia naturalistica».2 La fallacia consisterebbe nell’ammettere come giustificazione della bontà di una norma il suo fondarsi sulla «natura», ovvero sulle cose «così come stanno», sulla descrizione di dati di fatto. Ciò che è «naturale», in questa visione, avrebbe ipso facto una preponderanza etica rispetto a ciò che non lo è. Si pensi ad esempio alle odierne argomentazioni contro i diritti delle coppie gay che fanno leva sulla difesa della famiglia «naturale», fondata a sua volta sulla «naturalezza» del desiderio eterosessuale. Oppure al luogo comune secondo cui il cibo biologico sarebbe buono e sano perché «più naturale». Simili posizioni sono certamente discutibili per la loro presunta definizione oggettiva del significato del termine «natura»; ma anche ammettendo che un simile significato sia dato, esse rimangono metodologicamente criticabili proprio per il loro passaggio diretto dal piano dell’essere a quello del dover essere, dal piano ontologico a quello deontologico, dalla descrizione alla prescrizione: ad esempio, dalla proposizione «l’acqua di quel fiume è potabile» non dovrebbe seguirne logicamente alcuna norma d’azione, preferibile rispetto ad altre, circa l’utilizzo futuro di quell’acqua, mentre invece coloro che cadono nella fallacia naturalistica penserebbero di fondarsi su «come l’acqua è» per prescriverne un utilizzo buono rispetto ad uno cattivo, assegnando così alla «natura» non soltanto un senso che si crede univoco, ma anche un valore assiologico.

Come si vede da quest’ultimo esempio, tuttavia, la critica contro la fallacia naturalistica, che pure in astratto sembrerebbe inoppugnabile, mostra le proprie crepe non appena la si voglia far valere indifferentemente per qualsiasi problema morale. E in effetti alcuni eminenti filosofi contemporanei, recentemente, sono tornati a difendere un certo grado di naturalismo etico: tra gli altri, ricordiamo Peter Geach, Philippa Foot, Alasdair MacIntyre, Ralph McInerny e Robert Spaemann.3 Per quanto qui ci riguarda, ravviseremo un punto in comune tra queste diverse obiezioni alla stigmatizzazione della fallacia naturalistica,4 ossia il riconoscimento di una struttura teleologica inerente a certi fenomeni o enti. Un esempio classico è quello dell’orologio: la funzione dell’orologio è quella di tenere regolarmente il tempo; dunque un «orologio», per essere tale, deve tenere il tempo. O meglio, è possibile distinguere un «buon» orologio da un «cattivo» orologio sulla base della sua capacità di ottemperare alla propria funzione, di rispondere alla propria «ragion d’essere»; chi non è in grado di fare tale distinzione non sa che cosa sia un orologio. Potremmo fare altri numerosi esempi di questo tipo (le forbici per tagliare, le sedie per sedersi ecc…),5 che peraltro sarebbero convergenti con quella che Max Scheler, in una prospettiva anti-kantiana «continentale» del primo Novecento, chiamava etica materiale dei valori.6 Tuttavia, si potrebbe contro-obiettare che, se individuare degli scopi è possibile per enti che sono costruiti dall’uomo in vista di un loro utilizzo, più complesso è assegnare un telos ad enti «naturali». Spaemann prova a rispondere facendo leva sul concetto di «dovere naturale» connesso a quelli di «bisogno» e di «limite»: in quest’ottica, un viv-ente sarebbe un ente che presenta una struttura teleologica autonoma, indipendente dai possibili utilizzi che l’uomo ne può fare per raggiungere propri scopi. Il fine naturale è quella «ragion d’essere» all’interno della quale ci possiamo riconoscere come esseri viventi. Esso si presenta come «dovere» nel senso di obbligazione, di non-potere-non. Se si ha fame, non si può non averla. E non si può volerla avere. O la si ha, o non la si ha, indipendentemente dal proprio volere. Gli esseri viventi sono tali perché hanno esigenze normative, obbligazioni, limiti (potremmo anche chiamarli «istinti»). Un gatto che ha fame «deve» mangiare: o più semplicemente, anche senza il concetto prospettico di «dovere», esso fa di tutto per mangiare, alla prima occasione mangia, non-può-non mangiare. Il fine è insomma la condizione «limite» di un essere, ciò che lo circoscrive, che lo forma, ciò che consente a un essere vivente di esprimere la propria «natura». La conclusione di una simile concezione è che non ci si può adattare indefinitivamente a qualsiasi condizione ambientale: la vita esprime delle condizioni necessarie ad essa stessa, delle obbligazioni che possono essere rilevate a partire da azioni tese a rispondervi, cioè secondo una struttura teleologica. Esistono dunque dei «beni» naturali in rapporto a dei fini — tra cui vi è, almeno, il mantenimento della vita.

Estendendo su scala planetaria il dominio del rapporto limite-fine, che in Spaemann rimane confinato a livello individuale, il biologo statunitense James Lovelock, a partire dagli anni Settanta, ha sviluppato la celebre «teoria di Gaia», o più prosaicamente «geo-fisiologia». La prenderò come esempio principe della tesi che voglio sostenere, e cioè che l’etica ecologica, per sussistere in quanto etica, necessita di un’eteronomia relativa al riconoscimento dell’esistenza di alcuni beni naturali, connessa al riconoscimento dell’autonomia della scelta del soggetto umano rispetto al perseguimento di tali beni.

Secondo Lovelock, la Terra deve essere studiata come un macro-organismo teso a mantenere le condizioni ottimali per la presenza della vita sulla propria superficie. L’interazione tra i viventi, cioè, non può essere concepita soltanto secondo il modello (neo) darwiniano della lotta del singolo essere per la conservazione del proprio gene, ma anche secondo un modello collaborativo per cui la ragion d’essere di ogni essere sarebbe anche quella di svolgere il proprio compito per il mantenimento di un equilibrio energetico fragilissimo, che se si discostasse anche di poco da un certo range di valori non permetterebbe più la vita sul pianeta. La temperatura media, la composizione chimica dell’atmosfera, la salinità dei mari e altri parametri chimico-fisici fondamentali per la presenza della vita sulla terra presentano valori costanti pur essendo in uno stato di disequilibrio chimico, lontano dall’entropia massima. Questo è possibile, secondo Lovelock, grazie a processi di omeostasi e feedback attivo svolto in maniera autonoma e inconsapevole dal biota, cioè dall’insieme degli esseri viventi. Il limite individuale è necessario al fine globale.

Ogni essere mira al proprio interesse, ma così facendo risponde ad una legge sistemica ordinata teleologicamente a mantenere le condizioni geochimiche necessarie per la vita stessa sul pianeta: rispetto agli altri pianeti, la Terra è lontana dallo stato di equilibrio chimico, e la sua atmosfera è altamente reattiva. Ciò che ostacola il meccanismo di reazione a catena degli elementi chimici è la stessa presenza della vita sul pianeta, ovvero il metabolismo degli esseri viventi: il rispondere a dei «fini naturali», a dei doveri intenzionali non prescrittivi, a dei non-potere-non, come la respirazione e il nutrimento. La vita, per mantenersi, deve usare l’atmosfera come fonte di materie prime e al contempo luogo in cui scaricare i propri prodotti di rifiuto (per l’uomo l’anidride carbonica che viene espirata, per le piante l’ossigeno che viene emesso), producendo così uno scambio tra «produttori» e «consumatori» che modifica l’atmosfera in maniera anti-entropica: questo è il senso del feedback negativo degli esseri viventi. Come un singolo organismo vivente morirebbe subito se non si nutrisse e non espellesse, e tuttavia fa ciò in maniera incosciente, naturale, «istintiva», rispondendo ai propri «doveri naturali» che circoscrivono le condizioni stesse della propria esistenza, così il biota nel suo complesso morirebbe se «incoscientemente» non modificasse l’atmosfera planetaria in senso anti-entropico. La vita ha la tendenza inconscia (il «fine naturale») a mantenersi in vita.

La visione di Lovelock è chiaramente e apertamente olistica. Il «tutto» planetario vale più delle parti. È l’esigenza di contrastare l’entropia che regola i meccanismi naturali di sopravvivenza dei singoli esseri. Il teorico di Gaia è così affascinato da una vita come cosmo, che si oppone a una legge termodinamica di morte e disordine, da non spiegare perché una creatura che assecondasse la legge della termodinamica non potrebbe proliferare. Egli dice che non può farlo perché altrimenti il sistema-terra collasserebbe (e con esso — probabilmente — anche la creatura in questione). In altre parole, il sistema-terra (Gaia) in Lovelock è dirimente rispetto a ogni essere che in esso nasca: Gaia segue la legge dell’anti-entropia, e così come una madre non potrà che generare figli che abbiano in sé questa legge fondamentale, questo codice «genetico», questa informazione, questo fine.

Eppure, tra le pagine di Lovelock, si presenta a volte l’idea che un figlio illegittimo, un figlio ribelle e degenere, effettivamente esista: si tratta dell’uomo, che rappresenta una sorta di virus nella teoria di Gaia. Un virus da espellere, da uccidere per guarire: «noi esseri umani siamo soltanto l’evento più distruttivo nella storia biologica della Terra», scrive in maniera dichiaratamente anti-umanistica.7 Ma continuando a leggerlo si capisce che l’uomo non è soltanto questo, è qualcosa che non poteva esserci, che non doveva capitare: «gli esseri umani si comportano come un organismo patogeno, come le cellule di un tumore». L’azione di feedback positivo dell’uomo rispetto al pianeta è ormai a livelli pericolosi per l’equilibrio generale del sistema (Lovelock si riferisce, ad esempio, al problema del riscaldamento globale). E questa azione inquinante non inizia dall’ultimo secolo (che per Gaia è un infinitesimo del suo tempo), bensì dai primordi dell’umanità: «Quando decidiamo di fare gli agricoltori, è come se rompessimo i nostri legami con Gaia»;8 sostituendo le foreste naturali con coltivazioni o allevamenti di bestiame, infatti, abbiamo diminuito in modo considerevole la capacità della superficie terrestre di controllare il proprio clima e i propri processi chimici.

In sostanza, cosa sta facendo l’uomo? Sta deviando la natura dal suo fine. La sta usando come mezzo per dei fini che non rispondono più ai suoi limiti naturali. «Abbiamo dichiarato guerra a Gaia», scrive ancora Lovelock, «abbiamo usurpato la sua autorità» pensando soltanto al nostro benessere: «stiamo abusando così tanto della Terra da indurla a ribellarsi».9

Da qui deriva il radicale antiumanismo di Lovelock, e la sua rinuncia radicale ad ogni tipo di etica ecologica. L’uomo deve smettere di essere uomo e tornare a essere benignamente incosciente come tutti gli altri animali:

[…] bisognerebbe imparare a vivere assieme alla Terra come parte di essa, prendendo e offrendo con modestia i doni che ci permettono di vivere in questo pianeta […] Alcuni potrebbero considerare la mia proposta irresponsabile. Ci si può domandare se, come unica intelligenza organizzata, non abbiamo ovviamente il dovere, se non il diritto, di farci carico della Terra e governarla responsabilmente. […] Ritengo che persino il fatto di porci questo interrogativo, o di essere persuasi che sia nostro compito governare la Terra, costituisca un’arroganza eccessiva. […] Nessun destino potrebbe essere peggiore dell’obbligo di assolvere un compito così disperato, di essere cioè per sempre responsabili della buona gestione del clima, della composizione degli oceani, dell’aria e del suolo, di ciò che un tempo era un dono gratuito di Gaia, finché non abbiamo cominciato a distruggere la creazione.10

L’uomo, sembra dire Lovelock, non deve preoccuparsi delle conseguenze delle proprie azioni in termini ambientali, deve tornare a agire «secondo natura» come fanno gli altri animali: penserà Gaia, come un Dio onnipotente, a ristabilire eventualmente la situazione. Dobbiamo crederci. Ma questa non è forse la fine di ogni ecologia — in quanto etica dell’ambiente -, proclamata da uno dei suoi massimi guru? E soprattutto, non è forse questo apparente antispecismo egualitario niente altro che una nuova forma dell’eterno mito del «buon selvaggio», dell’innocenza perduta da ritrovare?

Un simile «superamento» dell’etica, o regressione dall’etica, è invocato da più parti nel dibattito ecologista, e giustificato con la tesi dell’uguaglianza ontologica tra l’uomo e gli altri esseri viventi, che sconfina sovente in un processo di unificazione «spirituale» tra l’io e il Tutto Ambientale. La deep ecology, fondata dal filosofo norvegese Arne Naess, è il migliore esempio di questo processo: contestando l’antropocentrismo dualistico occidentale, egli arriva a prospettare un’ecosofia dell’individuazione tra l’Io e quello che chiama il «Sé ecoico», principio di Relazione originaria tra tutte le cose. L’etica sarà soltanto una «naturale» conseguenza di questa visione: «sono favorevole a ciò che definisco un concentrarsi sull’ontologia ambientale — afferma Naess — , su come facciamo esperienza del mondo, su come lo vediamo, su come possiamo condurre la gente a vedere le cose in modo differente»:11 «la maggior parte delle nostre azioni è conseguenza di come vediamo la realtà»,12 anzi più recisamente «l’etica è conseguenza di come noi percepiamo il mondo».13 Perciò, Naess non ha difficoltà ad affermare che:

[…] più riusciamo a comprendere il legame che ci unisce agli altri esseri, più ci identifichiamo con loro, e più ci muoveremo con attenzione. In questo modo diventeremo anche capaci di godere del benessere degli altri e di soffrire quando una disgrazia li colpisce. Noi cerchiamo il meglio per noi stessi, ma attraverso l’espansione del sé ciò che è meglio per noi è anche meglio per gli altri. La distinzione tra ciò che è nostro e ciò che non lo è sopravvive solo nella grammatica, non nei sentimenti.14

L’etica ecologica risulterà «meccanicamente» da una corretta comprensione/visione del nostro essere e dell’essere del mondo, che è quella dell’uguaglianza ontologica di tutti gli esseri: ecco il nucleo comune alle posizioni di Lovelock e di Naess, e condiviso da molti ambientalisti odierni. Ed ecco precisamente il venire allo scoperto di quella che chiamo fallacia moralistica, speculare alla fallacia naturalistica dal cui superamento simili dottrine, come abbiamo visto, sorgono.

La fallacia moralistica consiste nel presentare enunciati prescrittivi come fossero descrittivi, nel mascherare un oughtda un is, nel travestire un’ingiunzione da un’attestazione. Ad esempio, il principio etico per cui «l’uomo deve amare/rispettare il suo prossimo» diviene «l’uomo è naturalmente empatico», o viceversa, il principio per cui «l’uomo deve rispettare le leggi civili» diventa «l’uomo è naturalmente violento senza la società»: l’idea di natura, cioè, in positivo o in negativo, viene utilizzata strumentalmente e ideologicamente per rafforzare una determinata posizione etica, presentandola così come inoppugnabile. Una posizione apertamente morale è certamente più esposta ad essere criticata per la sua parzialità e relatività, rispetto a una presentazione delle «cose così come sono in realtà». Si evince dunque che la «fallacia moralistica» è in realtà una forma particolare di fallacia naturalistica: mentre cioè nella fallacia naturalistica il passaggio dal piano dell’«essere» a quello del «dover essere» è palesato, e perciò anche apertamente criticabile, nella fallacia moralistica esso è sottinteso, ma sempre valido. Anzi, il rafforzamento della prescrizione arbitraria consiste appunto nel travestirla da descrizione oggettiva, senza porre in questione che uno «stato di cose», per quanto autentico, possa in generale essere fondamento di una norma d’azione.

Nel caso delle posizioni ecologiche sopra descritte, l’imperativo etico prefisso, per cui «l’uomo deve rispettare la vita degli altri esseri viventi», viene sovente travestito da illustrazione di una realtà oggettiva: «la vita dell’uomo è uguale a quella degli altri esseri viventi». Giacché, se le cose stanno effettivamente così, allora certamente rispetterò la vita degli altri esseri viventi! Questo escamotage è pero smascherato non appena si riconosca che le «cose così come sono in realtà» non rappresentano affatto l’esperienza autentica dell’uomo nei suoi rapporti con il mondo, bensì derivano da credenze di base di tipo ideologico quando non religioso, in ogni caso non ulteriormente giustificabili. Nessun uomo si sente totalmente parte della natura; credo piuttosto che sia più facile sentirsi totalmente diversi da essa, visti i disastri ecologici che derivano dal nostro comportamento.15 Ma più ancora, dobbiamo francamente riconoscere che la nostra esperienza nel mondo è di tipo dialettico, tensionale, tra due poli che chiamiamo l’uno «natura» e l’altro «cultura» (sociologicamente) o «libertà» (filosoficamente). Noi chiamiamo «natura» ciò che esiste indipendentemente dalla nostra volontà, di cui facciamo continuamente esperienza. Mutuando e mutando il titolo del capolavoro di Schopenhauer, possiamo dire che la natura è «la rappresentazione del mondo della non-volontà». La natura è il dominio del «non-potere-non»: non possiamo non fare esperienza di qualcosa che magari non vogliamo eppure «c’è», dagli impulsi alla pioggia. E la libertà, al contrario, si configura invece come un «potere-non» seguire tali obbligazioni naturali, ovvero si configura in senso negativo e formale, e non positivo e contenutistico. La libertà può rientrare nella «nostra» natura, così come l’abbiamo definita, solo in un senso neo-esistenzialista per cui io, essere umano, non-posso-non-potere-non seguire ciò che sperimento come «fine naturale». Ciò significa che rispetto a qualsiasi cosa sia definibile come «naturale», non possiamo non rendere conto moralmente delle nostre azioni, anche quando semplicemente esse consistono nel soddisfare un bisogno: l’argomento «in mancanza di motivi più importanti, è giusto seguire i propri istinti», è già un argomento morale! Per questo, in fondo, giudico ecologicamente pericolosissimi gli imperativi morali a «tornare a essere parte della natura»: nella misura in cui questo imperativo è formulato, accettato e praticato volontariamente, esso non è più naturale. Non si può tornare soltanto a essere natura. Se l’uomo pensasse solo al proprio interesse, a soddisfare i propri istinti, a «stare bene» per sé, alla propria autoconservazione, anche alla sola «ecologia umana»,16 allora ne risulterebbe un disastro ecologico, giacché egli sfrutterebbe oltre ogni misura la natura, non avrebbe alcun limite naturale. Eserciterebbe la propria possessione naturale nei confronti della natura a livelli ipertrofici, la sottometterebbe a proprio mezzo in vista dei propri fini.

Esattamente questo è successo con la società della tecnica, che ha fatto esplodere la crisi ecologica: la tecnocrazia non va interpretata soltanto in senso anti-naturalistico come allontanamento dall’animalità, ma allo stesso tempo come la manifestazione ipertrofica di una modalità di rapportarsi al mondo propria dell’animalità, che è quella del concentrarsi unicamente sulla propria sussistenza specifica. Se l’uomo massimizza il profitto, massimizza il dominio.

In questo senso, l’ecologia è una sorta di etica della tecnologia. Essa rappresenta la necessità di tenere in considerazione l’impatto di ogni atto sulla materia in cui si esercita, secondo le leggi proprie di tale materia. Non soltanto l’uomo deve commisurare la propria azione rispetto al telos virtuale che intende raggiungere, bensì anche rispetto al nomos reale dello strumento che intende utilizzare per raggiungerlo.

La questione ambientale ci chiede seriamente di ripensare il rapporto tra uomo e ambiente non obliterando lo scarto «morale» esistente tra l’essere umano e la natura, anzi partendo da questo come un dato fondamentale. L’esperienza tra l’uomo e il «naturale» è di natura dialettica: c’è un altro da me, una realtà esterna alla mia libertà su cui tale libertà si esercita. L’etica ecologica è dunque la ricerca e la continua rimodulazione del delicato equilibrio tensionale tra questa libertà e i limiti naturali — anche teleologici — che la scienza è chiamata a indicare. In definitiva, la natura indica dei «beni» rispetto ai propri fini (eteronomia della norma), e l’essere umano non-può-non chiedersi se, quando e in che misura rispettarli o meno, rispetto anche ai suoi fini (autonomia della scelta). L’etica ambientale detta le occasioni e i limiti entro cui l’utilizzo strumentale delle risorse naturali è lecito. La morale, e la riflessione morale, è dunque necessaria, poiché se l’uomo non-può-non provare o riconoscere francamente certi limiti/fini naturali, può però certamente scegliere di non assecondarli. Se accettiamo, contro la fallacia naturalistica, che alcuni caratteri descrittivi del mondo contengano un valore normativo sotto la forma dell’obbligazione, del fine e del limite; se ammettiamo al contempo che tali valori non siano sufficienti per pervenire ad un sistema di etica ambientale, giacché non riflettono compiutamente l’esperienza autentica dell’uomo nel mondo, e richiedono dunque l’apporto di una fenomenologia antropologicamente valida; allora il ruolo dell’etica, in questo campo, sarà quello di indagare e specificare la bontà o meno di certe azioni in relazione agli scopi prefissi e ai beni naturali riconosciuti (incluso il bene della natura che ci è più prossima, ovvero il nostro corpo). L’ecologia, da sola, non potrà dire niente su cosa l’uomo debba o non debba fare nei confronti dell’ambiente, se prima non è disposta a riconoscerlo come uomo libero di non seguire i suoi dettami. Ma se lo fa, allora riconosce al contempo la necessità di un’autentica bio-etica, un’etica del bios, e di un’autentica eco-nomia: un’amministrazione saggia della nostra casa.

Bibliografia

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  1. Riprendo questa espressione dalla relazione di Luigi Alici, Persona e vita morale. La «differenza etica», tenuta il 10 settembre 2015 a Vercelli, nell’ambito del convegno I fondamenti dell’etica organizzato dal Centro Studi Filosofici di Gallarate. ↩︎

  2. L’espressione, come è noto, è stata coniata da G. E. Moore nei Principia Ethica [Moore (1903)]. In Moore essa aveva una pluralità di significati, mentre in seguito è stata utilizzata univocamente come critica logica contro l’eteronomismo morale, soprattutto dopo l’accostamento operato da R. Hare tra la «fallacia naturalistica» mooriana e la is/ought question, o «legge di Hume» — una legge che Hume, fiero naturalista, non avrebbe mai accettato di avere scoperto, né tantomeno sottoscritto. Per un approfondimento sul tema, cfr. Donald & Hudson (1969); Pidgen (2010); Berti (1986). ↩︎

  3. Cfr. Foot (2003); MacIntyre (1981); McInerny (1982); Spaemann & Löw (2005). ↩︎

  4. Sarebbe interessante, ma non è questa la sede, approfondire in particolare una tesi di MacIntyre circa l’invenzione del concetto di «fatto» come derivante da una concezione moderna della natura, e utile per favorire la ricerca scientifica senza remore morali: la natura «fattualizzata» viene privata di qualsivoglia «valore», ridotta a misura oggettiva e canone di descrizione. ↩︎

  5. Peter Geach e Philippa Foot ritengono che tale dinamica valga analogamente anche per l’uomo: ad esempio, non diremmo che un padre è «buono» se picchia sistematicamente il figlio anche senza motivo. La questione tuttavia si fa molto più complessa e problematica allorché si voglia definire un «buon essere umano», al di là di ogni ulteriore specificazione. Foot in merito ritiene di poter recuperare motivi aritotelico-tomisti per far dipendere l’attribuzione della bontà, anche se in maniera non deterministica, da certe caratteristiche essenziali dell’essere umano. Cfr. in proposito Micheletti (2007). ↩︎

  6. Scheler (1913-1916). ↩︎

  7. Lovelock (1991), pp. 17, 153-154. ↩︎

  8. Lovelock (1992), p. 171. ↩︎

  9. Lovelock (2006), pp. 47, 50. Riprendendo un passo della Zarathustra di Nietzsche, la biologa gaiana Lynn Margulis rende bene questa idea: «La Terra ha una pelle; e questa pelle ha malattie. Una di queste malattie si chiama, ad esempio, uomo». L. Margulis (1997), pp. 247-261. ↩︎

  10. Lovelock (1991), pp. 78, 184-185 ↩︎

  11. Light & Naess, (1997), p. 84. ↩︎

  12. Rothenberg (1992), p. 153 . ↩︎

  13. Fox (1990), p. 219. ↩︎

  14. Naess (1976), p. 223. ↩︎

  15. Per illustrare ciò che intendo, c’è un interessante, cortometraggio di Steve Cutts del 2012, intitolato significativamente Man (<https://www.youtube.com/watch?v=WfGMYdalClU>). Il video inizia con un uomo che piomba dall’alto in un giardino edenico popolato da scoiattoli pacifici e allegri uccellini. Il solo rumore del suo atterraggio sul suolo terrestre fa scappare gli altri esseri. Egli comincia dunque a camminare liberamente, compiendo un’escalation di atti terribili ai danni delle altre forme di vita: schiaccia per diletto una coccinella, si fabbrica stivali con la pelle di due serpenti, gioca a basket con un pollo ingrassato, taglia le zampe di un tenero agnellino vivo e se le mangia, scuoia una foca e indossa la sua pelliccia, getta i propri rifiuti nel mare uccidendo migliaia di pesci, rinchiude un povero orsacchiotto in una gabbia per farlo ballare, tramuta una foresta in pile di scartoffie, erige città, ponti, autostrade piene di automobili inquinanti, industrie farmaceutiche che tramutano conigli in mostri… il tutto ridendo gaio, sulle note incalzanti di In the Hall of the Mountain King di Edvard Grieg. L’uomo diviene appunto, alla fine del video, un «re della montagna»: troneggia sulla vetta di una gigantesca pila di rifiuti, nel mezzo del mondo apocalittico che lui stesso ha diabolicamente voluto e creato. Il cortometraggio si chiude con una «vendetta dall’alto»: mentre l’uomo fuma felice un sigaro contemplando il suo inferno di morte, arriva dal cielo un’astronave aliena da cui scendono due esseri che guardano il mondo, si rendono conto di come l’uomo l’abbia distrutto, e infine uccidono l’uomo stesso pesticciandolo come uno zerbino, per poi andarsene. Ciò che mi ha colpito maggiormente di Man non è il ricettacolo di luoghi comuni dell’ecologismo contemporaneo che ne compone il nucleo, bensì l’inizio e la fine: l’uomo «piomba dal cielo» in un luogo che subito gli si dimostra estraneo, e viene ucciso infine da due esseri «celesti», in una versione secolarizzata del giudizio divino. Egli non è mai presentato come «parte della natura»: giunge dall’alto, irrompe in un mondo «altro», e gli unici esseri che ci vengono presentati come suoi pari, se non superiori, sono appunto alieni. L’uomo, qui, è completamente non naturale: tutte le altre forme di vita sono ugualmente innocenti, parimenti sottomesse al suo volere utilitaristico o alla soddisfazione del suo piacere sadico. ↩︎

  16. Con il termine «ecologia umana» si intende solitamente l’attenzione rivolta dal mondo cristiano-cattolico e da certa filosofia politica al rapporto «armonico» tra uomo e ambiente come necessario per pervenire ad un’autentica convivenza umana, o viceversa alle condizioni socio-politiche atte a garantire uno sviluppo ecologicamente sostenibile. Come dice il nome, l’impostazione dell’ecologia umana considera strettamente legate l’ecologia e la società civile, e indirizza la propria primaria attenzione alla vita umana per poi allargare il raggio d’azione a quella degli altri esseri, in vista della costituzione di una ecologia integrale che comprenda anche quella ambientale. Cfr. Commissione Teologica Internazionale (2009), n. 82; Derr (1974); Jacob (1999); Crepaldi, Togni (2008); Damonte (2013), pp. 235, 248. Rispetto a questa impostazione, penso che se l’ecologia vuole mantenersi come una forma di etica, come bio-etica, essa dovrà strutturarsi come un’etica eteronoma anche rispetto al bios umano. Concentrandosi soltanto sulla vita umana, sulle condizioni di vita dell’uomo in quanto essere materiale-corporale o sociale, si può finire col giustificare qualsiasi attitudine che favorisca lo sviluppo e il benessere dell’uomo, annullando così nei fatti la presupposta differenza ontologica tra uomo e altri animali. Che cosa fa un qualsiasi essere vivente, infatti, se non mirare alla propria conservazione e sopravvivenza? Una simile impostazione può essere letta in due modi antitetici ma ugualmente fuorvianti: cioè come una proposta incapace di uscire dalla logica darwiniana dell’individuo naturalmente irrelato, o come una riproposizione di quell’ingenua mentalità ecologista per cui se l’uomo si «pensa» naturale agirà ipso facto in conformità e armonia con la natura. Penso invece che l’accettazione dell’acquisizione «gaiana» dell’esistenza di fenomeni teleologici in natura, unita ad una reinterpretazione fenomenologica del concetto stesso di «natura», possa quantomeno suggerire la possibilità di costruire una nuova ecologia bio-antropo-logica. ↩︎