Il dialogo filosofico di Martin Buber come critica alla massificazione

Il nostro tempo ci propone due tentativi di comprensione antropologica, si tratta di Individualismus e Kollektivismus. Essi scaturiscono entrambe dalla solitudine profonda (e senza precedenti nella storia), dinanzi alla quale vive l’uomo della nostra epoca: la persona umana oggi si sente esposta ed isolata in un mondo in rivolta, indesiderata in un mondo caotico, isolata in quanto persona. Per quanto queste due Lebensanschauungen (concezioni di vita) siano opposte, Buber le disdegna entrambe e ci propone la via dialogica come l’unica che possa rendere accessibile all’uomo, soprattutto all’uomo di oggi, la comprensione di se stesso. «La critica del metodo individualista parte abitualmente dalla tendenza collettivista. Ma, se l’individualismo non comprende che una parte dell’uomo, il collettivismo non comprende l’uomo che come una parte. Né l’uno né l’altro procedono verso l’integrità dell’uomo, verso l’uomo come totalità».1 Mentre per l’individualismo esiste solo l’uomo in relazione con se stesso, per il collettivismo esiste solo la società.

Nell’individualismo la persona, esposta per natura ad un mondo tanto ostile, si sente obbligata ad accettare questa esposizione in quanto unico modo d’essere a lei confacente in quanto singola. Cosi accetta il suo stato di isolamento, non si sente legata a nessun’altra persona ma si sente libera di esaltarsi individualmente. In realtà, «al fine di sfuggire alla disperazione, incombente a motivo dell’isolamento, l’uomo sceglie come espediente la tematizzazione esaltante della disperazione stessa».2

Con il collettivismo abbiamo la tendenza opposta. L’individuo tenta di sfuggire alla solitudine e si fonde in un insieme di altri individui nella stessa situazione. Tanto più questo insieme di individui è massiver (massivo), tanto più si rende ospitale e confortevole agli occhi dei suoi componenti e li libera dalla coscienza di non avere una casa né nel cosmo, né nella società. «L’angoscia della vita non ha più ovviamente una ragion d’essere giacché non sussiste che il bisogno di conformarsi alla ‘volontà generale’ e di lasciare assorbire la propria responsabilità, verso un’esistenza fattasi troppo onerosa, dalla responsabilità collettiva, la quale dimostra di saper affrontare ogni complicazione».3 Le preoccupazioni cosmiche sono appagate dalla coscienza di avere a disposizione una casa artificiale che la tecnica sembra assicurare.

In questo lavoro, fra le due tendenze appena evidenziate, vogliamo porre maggiore attenzione sulla seconda. Infatti, se già nella prima metà del XX secolo Buber denunciava l’emergenza del problema collettivistico oggi, esso mostra una maturità ancora maggiore. Probabilmente non si tratta più neanche di una scelta: alla persona che nasce in questa epoca non resta che lasciarsi trasportare da quell’insieme di avvenimenti, informazioni, credenze ed usanze che coinvolgono gli uomini in un modo sempre più subdolo e strumentalizzato.

Il collettivismo moderno è illusorio perché nella massa include un numero considerevole di uomini aggregati ma non uniti individualmente. L’unione alla massa dell’individuo che ha paura dell’isolamento viene fatto ad un’insieme di esseri viventi in modo subitaneo e senza autentici contatti umani. Così la persona perde via via, la capacità di rapportarsi con l’altro; non supera l’isolamento, ne diventa insensibile, conosce sempre di meno cosa quest’isolamento sia per via di quella apparente unione. «Il collettivismo moderno è l’ultima barriera che l’uomo abbia drizzato a danno dell’incontro con se stesso».4 L’uomo potrà conoscersi soltanto quando incontrerà individualmente l’altro uomo, ma le illusioni individualiste e collettiviste dovranno essere già superate. Entrambe rendono infatti l’uomo incapace di aprirsi all’altro: o per via di una illusoria sazietà di vita, o a causa di un abbandono delle proprie potenzialità.

Buber ci conferma che il problema più grande oggi, è il collettivismo il quale, a differenza dell’individualismo, è al culmine del suo sviluppo. «Qui, il solo mezzo di evaderne sembra essere la rivolta della persona per liberarsi da tale rapporto».5 Il nostro filosofo intravede un grande malcontento che, al pari della crisi attuale, non ha precedenti nella storia. Il primo passo che questa situazione muoverà sarà la cancellazione della falsa alternativa fra individualismo e collettivismo per lasciare posto alla terza via, quella che vorremmo chiamare antropologia sociologica. Infatti «l’individuo è un fatto dell’esistenza nella misura in cui egli entra in una relazione di vita con gli altri individui; l’aggregazione ‘generale’ è un fatto pure dell’esistenza nella misura in cui vengono a costituirsi delle unità viventi di relazione».6

L’uomo può essere compreso solo se tenuto in considerazione nella relazione con l’altro uomo. Questo è dovuto al fatto che tra-uomo-e-uomo esiste un qualcosa che non ha l’eguale in natura. Il linguaggio è un segno, un mezzo; la relazione è l’entità di cui parliamo:

Essa ha la sua radice lì dove l’uomo vede nell’altro la sua alterità, vede quest’altro essere qui, ben determinato, posto lì per comunicare con lui, in una sfera che sia loro comune, in una sfera però, che oltrepassa l’ambito particolare tanto dell’uno quanto dell’altro. Chiamo questa sfera — come è connaturata all’esistenza dell’uomo in quanto uomo, ma che non è stata ancora compresa appieno, concettualmente — sfera di ‘interrelazione’ (das Zwischen). Sebbene essa sia realizzata a livelli diversissimi, è una categoria primordiale della realtà umana. È da qui che deve cominciare la ‘terza’ autentica alternativa.7

Per comprende veramente cosa sia lo Zwischen bisogna assegnargli una realtà propria. Esso non può più essere individuato negli uomini tra i quali avviene o nella circostanza che lo include. Questa entità che esiste-tra due persone non è qualcosa di ausiliario, bensì il luogo reale dell’incontro. Buber continua opinando che se essa non è stata fatta finora oggetto d’indagine individuale, probabilmente si deve al fatto che non è caratterizzata da una presenza costante e continua, bensì nasce sempre di nuovo.

In un dialogo vero (vale a dire, un dialogo che non sia concertato nei dettagli della individuale partecipazione, ma che sia del tutto spontaneo, in cui ciascuno parli direttamente all’altro e ne susciti direttamente l’imprevedibile replica), in una lezione vera (cioè, una lezione che non sia né ripetizione secondo un modulo scolastico né lezione in cui l’insegnante conosca già in antecedenza i risultati di essa, ma si snodi in reciproca sorpresa), in un abbraccio vero che non sia una convenzione abituale, in un duello reale che non sia fatto per gioco — in tutto questo, ciò che v’è di essenziale non si compie in un mondo neutro che li comprende tutti e due e, con essi, tutte le altre cose annesse, ma, in un modo molto preciso e puntuale tra-i-due, in una dimensione che, per così dire, non è accessibile che a quei due-lì.8

Ciò che succede nel momento in cui c’è una relazione autentica, benché si tratti di un qualcosa di fuggitivo e altresì molto intenso, non è nulla di psicologico, ma è una entità. É ciò che si costituisce tra ma che trascende ciò che sta agli estremi dello stesso tra. «Al di là del mero versante soggettivo, al di qua di quello oggettivo, c’è la sfera dell’’interrelazione’, o del ‘tra’, in quello stretto angolo appunto dove l’Io e il Tu s’incontrano».9 Buber riconosce che la scoperta dello Zwischen è un traguardo recentissimo e lascia alle generazioni future il compito di indagarlo in modo da poter indicare all’uomo quale sia la via che lo possa condurre dapprima alla comprensione di se stesso e poi ad una vita autentica. Tale autenticità, infine coinvolgerà la persona in quanto individuo e la comunità in quanto unità di persone autentiche.

L’essere umano per Buber è l’essere potenziale della natura. «L’uomo è la potenzialità nella sua delimitante realizzazione fattuale».10 L’animale non potrà mai realizzare la pienezza dell’esistenza nella propria vita, solo l’uomo è in grado di farlo, egli è la sorpresa della natura. Buber ribadisce che l’uomo ancora non si muove liberamente, tale libertà è quindi limitata, ma «questa limitazione non è essenziale, è solo fattuale. Ciò significa che l’azione dell’uomo è per genere e misura imprevedibile, che egli, quand’anche fosse per tutto il resto alla periferia del cosmo, resta il centro sorprendente del mondo».11 In questo senso comprendiamo che non soltanto abbiamo la possibilità, ma siamo titolari anche della capacità di andare oltre i nostri attuali limiti per liberarci in quella via di autenticità che Buber ci indica in modo concreto.

1. La filosofia dialogica quale viatico all’autenticità umana

1.1. All’inizio è la relazione

Nel saggio Urdistanz und Beziehung,12 Buber sembra voler far precedere la relazione da una distanza originaria, ma egli intende mettere in evidenza come a differenza degli animali l’uomo riesca a fare del mondo un altro, come sia capace di distanziarsi da esso e dalle cose di cui è composto; così che, esistendo fra uomo e mondo una distanza, si fonda il presupposto grazie al quale la persona può sempre di nuovo entrare in relazione. Riteniamo che quello originario sia un primordiale stato di relazione cosmica che concerne l’uomo in quanto essere. La vita personale è invece caratterizzata dalla coscienza di una distanza da ogni alterità, tale distanza si dice originaria proprio perché costantemente presente e perché partendo da essa è possibile sempre di nuovo tornare alla relazione.

La relazione era quindi la primordiale entità originaria, una totalità che avvolgeva tutto e tutti. Nei primitivi «le persone, indicate con un sostantivo o con un pronome, trovano posto in questa totalità, rilevanti, ma senza completa autonomia. Non si colgono qui i prodotti dell’analisi e della riflessione; si coglie l’autentica originaria unità, la relazione vissuta».13 Ancora fra i popoli primitivi il linguaggio comunicativo porta evidenti segni di una unità onnipresente, ciò che invece il nostro linguaggio ha ormai perso. Per esempio essi dicono «là dove uno grida: ‘madre, sono perduto’»,14 nel caso in cui noi invece usiamo il più evoluto: molto lontano. Dal mondo della relazione si è poi formato quello dell’esperienza in seguito ad un processo di scissione. Il primitivo dice io-tu in modo naturale ed inconsapevole dell’io, mentre solo dopo essersi compreso e riconosciuto come io, egli è in grado di dire io-esso. «L’io è incluso nell’evento primitivo della relazione proprio per l’esclusività di quest’ultimo. … Al contrario, l’io non è ancora incluso nel fatto naturale che trapasserà nella parola fondamentale io-esso, cioè nell’esperire riferito all’io».15 Colui che inizialmente vive in modo tanto inconsapevole quanto pieno la propria vita in relazione con tutto e con tutti, a mano a mano che diventa capace di dire tu a ciò che lo circonda, che diventa capace di individuare il chi o il che cosa gli sta di fronte in questo modo magico, inizia a prendere coscienza della relazione che si attua, benché essa rimanga qualcosa che lo trascende. Il corpo umano gli porta le esperienze sensibili, l’oggettivazione e così egli impara a conoscersi e distinguersi, quando con l’io si allontana da quell’unità che prima costituiva tutto. Ora egli è in grado di riconoscere gli esso, è in grado di catalogarli e differenziarli. Di qui nasce la possibilità dell’esperienza personale. Questo processo avviene nell’evoluzione di quest’uomo come qualcosa di naturale, egli prima viveva la magia degli avvenimenti, seppur non in modo continuo ma sempre di nuovo negli accadimenti quotidiani. Lentamente prende in considerazione l’altro con il quale vive questa magia. Dall’inconsapevolezza relazionale scopre l’io, riconosce l’esso e si inebria del tu. Di qui attestiamo di nuovo la predominanza dell’io-tu, ovvero della natura relazionale umana, nei confronti dell’io-esso e della natura individualista (e quindi del collettivismo — inteso come aggregazione). «Appena si dice la frase ‘vedo l’albero’ in modo tale che essa non racconta più di una relazione tra l’uomo-io e l’albero-tu, ma stabilisce la percezione dell’oggetto-albero attraverso la coscienza-uomo, ecco che essa ha già eretto la barriera tra soggetto e oggetto: la parola fondamentale io-esso, la parola della separazione, è pronunciata».16

La nascita della coscienza coincide dunque con la nascita della individuale possibilità di entrare nella relazione. Dove prima esisteva una inconscia unità primordiale in cui la relazione veniva vissuta in modo cosmico dagli esseri, ora vige il regno dell’esso, il regno dell’oggettivazione, ma la persona ha sempre di nuovo la possibilità di entrare nella sua propria relazione con il tu che di volta in volta incontra.

Analizziamo ora il bambino per continuare, con Buber, questa breve indagine sulla originaria sovranità della relazione nel ungeschieden vorgestaltigen Urwelt (indiviso mondo preformale originario). Qui è ancor più evidente come l’io-tu appartenga al legame naturale mentre l’io-esso alla separazione altrettanto naturale. Infatti «la vita prenatale del bambino è un puro legame naturale, scambievole flusso, reciprocità corporea»,17 mamma e figlio sono uniti in modo inscindibile, per di più il grembo materno è per il bambino il primo approccio con l’universo. Alla nascita il bambino perde il legame materno insieme alla relazione vitale permanente, ma gli resta il desiderio di relazione. Nascendo il bambino inizia la propria vita personale, ma il passaggio dall’unità della relazione primordiale-prenatale alla vita personale non è improvviso come la nascita. Il neonato nascendo entra nella creazione, ma non la ha ancora conquistata, non la ha fatta sua. Ora egli deve mettersi in ascolto ed esplorare tutto ciò che gli sta intorno. «Il bambino, come il primitivo, vive tra un sonno e l’altro (anche una gran parte della veglia è ancora sonno) nella luce fulminea, accesa e restituita, dell’incontro».18 Egli tende subito alla ricerca della relazione, questo è evidente dal fatto che senza alcuna necessità fisiologica cerchi una alterità: la cerca con la vista non ancora ben definita, la cercano le sue mani che si muovono a vuoto nell’aria. Cerca fino a quando si imbatte con la vista, e persevera nell’interrogazione visiva — e poi con il movimento apparentemente indeterminato delle mani, verso qualcosa di non precisato che può essere un qualsiasi oggetto intorno a lui. Quando questo bambino raggiungerà l’oggetto che cerca entrerà con lui in quel rapporto relazionale che lo sazierà. Lentamente egli inizierà ad emettere suoni che saranno per lui discorsi benché rivolti ad un qualsiasi oggetto. É presente allora un tu immaginato dal bambino, un tu che lui crede vivo. «Non che il bambino percepisca inizialmente un oggetto, e successivamente si ponga in relazione con esso; prima, è invece la tensione verso la relazione, il movimento convesso della mano nella quale si modella ciò che sta di fronte; seconda, la relazione con questa cosa, una prefigurazione inespressa del dir tu».19 Questa capacità innata di dire tu che riscontriamo già nel neonato è il eingeborene Du — il tu innato. É questo il segno palese ed indelebile dell’originalità della relazione rispetto al rapporto oggettivante. Il tu innato costituisce la possibilità di entrare in relazione con i tu che incontriamo nella vita. Nel bambino il tu innato crea il carattere ed il desiderio del tu, dà vita al desiderio di toccare, vedere, ma anche quello di creare. L’evolversi del tu innato può essere appagato o meno e questo segna la crescita dell’anima del bambino. Ne scaturisce la caratteristica individuale della persona ad entrare in relazione.

Nella relazione con il tu, l’io prende coscienza di se stesso. La relazione avviene: il tu è davanti all’io in modo esclusivo. La relazione finisce e l’io si rende conto di esistere. Da questo momento in poi, l’io ha coscienza di se: può entrare nella relazione oppure può rimanere in quello dell’esperienza dando spazio all’esso, può oggettivare, descrivere, analizzare. Il corpo diventa corporeità vivente, ricettore delle sensazioni ed esecutore degli impulsi; non è separato dall’io ma è la parte della persona che la orienta.

1.2. Io-tu e io-esso: antinomia necessaria

Chiariamo ora la difficile posizione in cui si trova l’essere umano. Egli in effetti, pur avendo la possibilità di vivere la relazione, è sempre di nuovo costretto ad uscire da essa. L’uomo è essenzialmente costituito da due atteggiamenti verso tutto ciò che lo circonda, il primo è quello relazionale, il secondo quello dell’esperienza; Buber li denomina Ich-Du (io-tu) e Ich-Es (io-esso, io-lui, io-lei). «E così anche l’io dell’uomo è duplice. Perché l’io della parola fondamentale io-tu è diverso da quello della parola fondamentale io-esso».20 C’è quindi una grossa differenza fra la prima e la seconda parola fondamentale: «la parola fondamentale io-tu si può dire solo [cors. mio] con l’intero essere. La parola fondamentale io-esso non può mai [cors. mio] essere detta con l’intero essere».21 Anche se su questo argomento torneremo in seguito,22 quello che ci preme osservare è che la relazione richiede la presenza totale dell’essere, ovvero un coinvolgimento che non può riguardare una parte o un aspetto ma deve riguardare l’intero essere.

La natura umana è caratterizzata, quindi, da una certa struttura bipolare permanente: l’uomo deve essere sempre preso in considerazione in base al suo rapporto con un altro, egli si determina proprio in base a chi o ciò che gli sta di fronte; da questo si chiarisce anche la differenza fra persona e individualità:

L’io della parola fondamentale io-esso si manifesta come individualità e diventa cosciente di sé come soggetto (soggetto dell’esperire e dell’utilizzare). L’io della parola fondamentale io-tu si manifesta come persona e diventa cosciente di sé come soggettività (senza un genitivo che ne dipenda). L’individualità si manifesta distinguendosi da altre individualità. La persona si manifesta entrando in relazione con altre persone. L’una è la forma spirituale della separazione naturale, l’altra del legame naturale.23

La grande differenza fra il tu e l’esso sta nel fatto che il secondo per l’io costituisce sempre un oggetto, un qualcosa privo di unità e di reciprocità. Il tu invece è sempre un altro con il quale entrare in relazione. Con un esso, l’io può avere un rapporto di utilizzo, un’esperienza: per esempio «fa esperienza di ciò che concerne le cose»,24 ne può prendere in considerazione un aspetto particolare piuttosto che catalogarlo o organizzarlo. Possiamo quindi già definire una grossa differenza tra Beziehung (relazione) e Erfahrung (esperienza). Questa seconda non concerne naturalmente solo l’utilizzo di oggetti esterni, si tratta più ampiamente di un rapporto che può riguardare anche un’esperienza interna. «Colui che fa esperienza non ha parte al mondo. L’esperienza è ‘in lui’, e non tra lui e il mondo».25 Invece nella relazione si entra in rapporto con il mondo, il mondo della relazione.

Esistono tre sfere in cui si instaura la relazione: vita con la natura, vita con gli uomini e vita con le essenze spirituali (geistigen Wesenheiten). La parola costituisce un evidenziatore dei limiti e delle differenze fra queste tre sfere. Nella prima essa non può avere un ruolo nel mediare la relazione, nella seconda essa è manifesta sotto forma di linguaggio: «possiamo dare e ricevere il tu»,26 nella terza la parola è creata benché sia muta: «non usiamo alcun tu e tuttavia ci sentiamo chiamati, rispondiamo — costruendo, pensando, agendo: diciamo con il nostro essere la parola fondamentale, senza poter dire tu con le labbra».27 In breve questo significa che il tu può essere di volta in volta ad esempio: un albero, naturalmente un altro uomo e Dio. Infatti non si tratta di incontrare un tu che sia sempre tale per noi, piuttosto uno solito gatto o una abituale persona di tutti i giorni diventa il nostro tu nel momento stupendo in cui in lei o lui non vediamo una serie di attributi, un oggetto fatto in un certo modo ma un altro avente una propria realtà integrale che si presenta davanti a noi. La relazione avviene, non è qualcosa che si ricerca: fra me ed il gatto è come se ci fosse un qualcosa in comune che ci unisce tanto autenticamente quanto incondizionatamente. Contemporaneamente richiede l’intero consenso da parte di io e tu. Essere scelti e scegliere sono entrambe necessari dopo che la scintilla dell’incontro abbia acceso la breve miccia della relazione. Essa coinvolge l’intero essere in modo esclusivo.

«Relazione è reciprocità»:28 nella relazione l’altro non è né un oggetto né si unisce all’io. Non esiste relazione se non fra due entità che sono distinte e non possono che restare tali affinché il rapporto tra loro instaurato permanga. L’io riconosce il tu in quanto essere, non se ne fa un’idea o un’immagine né totale né tanto meno parziale. Lo riconosce quale essere unitario: «come la melodia non è un insieme di suoni, il verso non è un insieme di parole e la statua non è un insieme di linee — occorre strappare e lacerare per arrivare dall’unità alla molteplicità — , così è per l’uomo, al quale dico tu. Posso considerare separatamente il colore dei suoi capelli, il tono del suo discorso, la gradazione della sua bontà: devo sempre di nuovo farlo; ma già egli non è più tu».29

Io vivo nel mondo degli oggetti, entro in rapporti di utilizzo o analisi con le cose e le persone che mi circondano fino a quando, come per incanto, mi viene rivolta la chiamata della relazione. Non importa chi o cosa sia il tu che mi appella, che mi chiama, in un preciso momento io mi trovo davanti a questo tu. Il mio tu adesso non è un’insieme di proprietà, pregi o difetti. É un essere unitario che ha intravisto la mia unità e mi chiede di donargliela. Noi ci sciogliamo allora in questo modo tanto naturale e sublime all’evento: alla relazione. Tutto il resto del mondo non ha più importanza, il tu assume tutta la mia attenzione. Ogni cosa che era in torno a noi fino al momento in cui io e il mio tu siamo entrati in relazione, ora non costituisce che uno sfondo sfocato. L’incontro è avvenuto, io ed il mio tu siamo entrati in relazione reciproca! Tuttavia questo stupendo avvenimento è così caratterizzato da non permanere, viene interrotto oppure, con lo stesso atto incantevole con il quale era arrivato, ora se ne va; in tutti i casi finisce. «Nel fatto che ogni tu nel nostro mondo debba diventare un esso, sta la sublime malinconia della nostra sorte».30 Colui o la cosa che fino a poco fa era diventato il mio tu, improvvisamente torna ad essere un esso fra altri esso. Se prima per me era una persona, ora torno a distinguerne le parti del suo corpo o del carattere, se era un albero, quell’albero che fino a poco fa vedevo come un essere indivisibile, ora torno a riconoscere le sue foglie e a distinguerle dal tronco e dalle radici.

La casualità non opprime l’uomo cui è garantita la libertà. Egli sa che per natura la sua vita mortale è un oscillare tra tu ed esso, e ne intuisce il significato. E gli basta, sulla soglia del santuario in cui non poté insediarsi, poter sempre di nuovo mettere piede; e così, il fatto che debba sempre riabbandonarlo, è per lui legato intimamente al senso e alla destinazione profondi di questa vita. Là, sulla soglia, si accende in lui sempre nuova la risposta, lo spirito; qui, in terra profana e indigente, la favilla deve dare prova di sé. Ciò che qui ha nome di necessità, non può sgomentarlo, poiché là egli ha conosciuto quella autentica, il destino.31

Ogni essere mondano con il quale entriamo in relazione ci permette di realizzare il nostro tu innato, tuttavia «il tu innato si realizza in ognuno [di questi tu mondani] e in nessuno trova compimento».32 Il compimento lo trova soltanto nel Tu eterno (o Tu assoluto) — in Dio, ovvero in quell’essere che è sempre tu e mai esso. Questo significa che ogni relazione è una tappa che l’io compie nella relazione verso Dio e che quest’ultima è l’idillio della vita reale. Ma «non si trova Dio restando nel mondo, e non si trova Dio allontanandosene. Chi, con l’intero essere, va verso il suo Tu e gli porta ogni essere del mondo [ovvero ogni essere con il quale entra in relazione], trova colui che non si può cercare».33 Il tu eterno non può essere cercato perché non c’è nulla in cui non lo si possa trovare, «Dio è colui che è immediatamente e innanzitutto e sempre di fronte a noi».34 In questa relazione che è esclusiva come tutte le altre, ma che a differenza delle altre è inclusiva dell’universo, l’io e il Tu eterno rimaniamo sempre due persone distinte al pari di ogni altra relazione che coinvolge due esseri mondani. Né io divento parte del Tu assoluto, né divento come Lui (assomigliante a Dio), neppure ne divento dipendente. Lo stupore della relazione rimane anche in questa che è assoluta: io vengo appellato dal tu ma resto libero di donare tutto il mio essere oppure di negarlo, anche nel caso in cui il Tu è quello assoluto di Dio. La differenza che caratterizza la relazione con il tu eterno rispetto a tutte le altre risiede nel fatto straordinario che Dio è sempre tu — mai esso, egli non può essere mai misurato, limitato, colto come somma di qualità, sperimentato o pensato. «Per natura ogni tu nel mondo è destinato a diventare cosa per noi, oppure a ritornare sempre di nuovo alla condizione di cosa. Solo in una relazione, quella che comprende tutto, la latenza è ancora attualità. Solo un Tu non cessa mai, per natura, di essere un tu per noi. Chi conosce Dio conosce bene anche la lontananza di Dio e la pena dell’aridità che opprime il cuore ansioso; ma non conosce l’assenza della Presenza. Solo noi non siamo sempre presenti».35 Questo non significa che l’uomo non possa parlare di Dio come di un oggetto, al contrario, questo purtroppo avviene sempre più spesso; nondimeno la presenza di Dio davanti agli uomini che lo vogliono riconoscere in quanto essere — quindi non semplicemente discuterne in quanto oggetto — è costante. Di qui Dio viene affermato come il centro delle relazioni che si instaurano nel mondo, il punto in cui «i momenti isolati della relazione si congiungono in una vita di universale solidarietà»,36 viene in evidenza inoltre la forza del tu sull’esso, la forza in grado di far sempre di nuovo nascere la relazione, grazie al continuo stato di presenza del Tu eterno. Questa è la continua possibilità che ha l’uomo di convertirsi ed entrare in relazione con il tu assoluto.

Essere nella relazione significa prendere parte alla realtà. Non ci sarebbe realtà senza partecipazione, per cui il tu permette all’io di vivere realmente. L’inevitabile sempre nuovo ritorno al mondo dell’esso, non significa che l’io capace di relazione smarrisca la propria realtà. Tale io, capace di dir tu, rimane partecipe della relazione e conscio di averla vissuta quando ritorna all’inevitabile mondo dell’esso. «L’autentica soggettività si può comprendere solo in modo dinamico, come l’oscillare dell’io nella sua solitaria verità».37

«Non ci sono due tipi di uomini; ma ci sono due poli dell’umanità».38 Tuttavia ci sono degli uomini, degli individui, che sono fortemente avvolti dal mondo dell’esso e tendono a volerlo vivere in modo esclusivo. Naturalmente ci sono anche uomini, delle persone, che sono sempre di nuovo in grado di aprirsi al tu. La realtà più profonda per l’essere umano appartiene senza dubbio a questo secondo polo, alle persone. Agli individui invece appartiene una irrealtà che si dipinge di realtà. Nessuno è definitivamente solo l’uno o solo l’altro ma tutti vivono in entrambe i poli.

1.3. L’io quale essere unitario presente all’incontro con l’alterità

Tenteremo ora di definire più chiaramente la necessità che l’io sia presente all’incontro con il tu, ovvero che riconosca dapprima se stesso quale unità e che sia poi capace di riconoscere la diversità dell’altro e di accettarla, ascoltarla e comprenderla al fine di entrare in relazione con lui. Infatti «è vero che il fanciullo dice tu prima d’imparare a dire io; mentre al vertice dell’esistenza personale occorre poter dire io in modo veritiero se si vuole apprendere il mistero del tu in tutta la sua densità».39 Un accenno a Kierkegaard può esserci d’aiuto per comprende come l’io debba prepararsi all’incontro con il tu. Infatti «Kierkegaard sa cos’è l’amore, almeno nei confronti di Dio, e sa anche che non c’è amore per se stessi che non sia autoillusione (perché la parte che ama, che è quella che conta, ama solo l’altro, non essenzialmente se stessa), e che tuttavia non c’è amore se non si è e non si rimane se stessi».40 Dei differenti spunti di riflessione che questa affermazione ci offre, a noi interessa ora in particolare quello che concerne l’unità dell’io. Sottolineiamo che non si tratta affatto di una rivalutazione dell’individualismo, affermiamo invece che il punto di partenza dal quale può nascere la relazione è la presenza dell’essere in modo unitario perché «la parola fondamentale io-tu si può dire solo [cors. mio] con l’intero essere».41 Infatti «per poter andare verso l’altro, occorre essere consapevoli di un punto di partenza, occorre essere stati, essere, presso di sé. Un dialogo tra semplici individui non è che un abbozzo: solo tra due persone si svolge».42 Anche in contesti più ampi quali quelli che tenteremo di sviluppare in seguito, vedremo che questo aspetto riveste un’importanza capitale. Buber ci ha insegnato che non può esserci vera relazione, vera realtà e vera vita se non tramite l’autentico impegno di persone che in modo individuale e responsabile cercano l’incontro con l’altro. La decisione di entrare nel dialogo è la decisione di riconoscere l’altro come tale, di accettarne le differenze e mettersi nel suo punto di vista per rispettarne l’alterità, è una decisione difficile ma necessaria.

L’unità e la totalità dell’essere che l’uomo deve cercare in sé prima di potersi dirigere verso l’altro riguarda tutte e tre le sfere di relazioni in cui egli ha la possibilità di entrare. Prendendo in considerazione in modo esplicativo la relazione con Dio questo significa che «porsi inseparabilmente di fronte al mistero inseparabile è condizione fondamentale di salvezza».43 Come detto, anche nelle relazioni fra uomini o con altri esseri della natura o con le altre essenze spirituali, l’essere umano ha sempre bisogno di riconoscere le proprie potenzialità in modo da poter poi essere pronto a donarsi all’altro. «Raccolto in unità, l’uomo è capace di mettersi in cammino verso l’incontro, che solo ora può compiutamente riuscire. … Ma può anche gustare la beatitudine del raccoglimento e, senza ingaggiarsi nel compito più alto, ritornare alla disperazione».44 La bellezza di cui si compone l’essere di cui siamo fatti non deve accecarci e spingerci a godere di auto-appagamento. L’unità che dobbiamo cercare in noi è necessaria per poterci rivolgere all’altro, non è certamente il fine della nostra esistenza. Raccogliersi in se stessi è un totale riconoscersi ed accertarsi della persona: questo significa che non riguarda solo l’aspetto spirituale ma concerne anche gli istinti, la sensibilità, l’emotività ed ogni altra particolarità. Il raccogliersi vuole che la realtà della persona venga identificata e riconosciuta, vuole l’io reale, «non vuole un io dimidiato, vuole l’uomo intero, senza diminuzioni».45

Le persone che ci circondano possono essere i testimoni dell’unità in cui, in modo individuale, siamo giunti; questa è una conferma di tutto quanto espresso fin qui in questo paragrafo e ci indica una peculiarità della vita della società umana. Infatti «nell’organizzazione sociale degli insetti il sistema della divisione del lavoro non solo esclude ogni variazione, ma anche, più precisamente, ogni riconoscimento individuale di una funzione; nella società umana, a ogni suo livello, le persone in una certa misura, si confermano praticamente a vicenda nelle loro caratteristiche e capacità personali, e una società può essere chiamata umana nella misura in cui i suoi componenti si confermano a vicenda».46 Il prender coscienza dell’altro corrisponde al distanziarlo da sé, al riconoscerlo come altro. «Il fondamento dell’essere uomo-con-l’uomo è questa duplicità ed unità: il desiderio di ogni uomo di essere confermato per ciò che è, per ciò che diventerà, e la capacità innata dell’uomo di confermare allo stesso modo gli uomini come lui».47 Ciò significa anche non volere che l’altro sia esattamente quello che io mi aspetto, ma volerlo proprio come è. Non desidero che l’altro cambi, ma che lo possa incontrare totalmente come egli è, «intuisco lui, intuisco ciò per cui egli è altro, essenzialmente altro da me, in questo modo unico, caratteristico, suo proprio, essenzialmente diverso da me, e accetto l’uomo che ho intuito, così da potere in tutta serietà indirizzare a lui, in quanto lui, la mia parola».48 «La conversazione autentica, come ogni compimento attuale della relazione tra gli uomini, significa accettazione dell’alterità».49 Io ed il mio tu ci ascoltiamo in qualsiasi conversazione possibile, ci veniamo incontro con la comprensione, non tentiamo di forzare l’opinione l’uno dell’altro ma ci confermiamo nell’alterità. Certamente io tento quanto più possibile di esplicare la mia posizione e il mio tu fa lo stesso, ma entrambe siamo consci che la giustezza di quello che diciamo non ha bisogno di essere mostrata con la forza ma vuole emergere, germogliare e crescere autonomamente. «L’elementare esser altro dell’altro, non viene allora assunto solo come necessario punto di partenza di cui prendere atto, ma viene affermato da essere a essere».50 Nel momento in cui uno dei due ha desiderio di trapiantare nell’altro la propria idea, egli ne fa un oggetto, lo vuole utilizzare. Se invece ognuno mette in mostra agli occhi dell’altro l’autenticità della propria posizione e lo lascia libero di osservarne e considerarne tutte le prospettive, allora c’è vera conversazione.

L’incontro avviene fra due esseri umani quando entrambi in qualche modo si immedesimano nei panni altrui, non per diventare l’altro ma per comprenderne ed accettarne la posizione. Buber chiama questa capacità di immedesimarsi, in altri luoghi definita intuizione, fantasia reale: è la capacità di una persona di rendere reale la presenza dell’altro uomo, anche in quegli aspetti di lui che non sono esperibili sensibilmente, «significa ciò che un altro uomo proprio adesso vuole, sente, percepisce, pensa, e non come un contenuto a sé stante, ma proprio nella sua realtà, cioè come processo vitale di quest’uomo».51

Buber dedica un capitolo del suo breve saggio Elemente des Zwischenmenschlichen alla sostanziale differenza fra essere ed apparire, in modo particolare nella sfera relazionale dell’interumano. La vita di un uomo può essere determinata in modo maggiore da ciò che egli veramente è oppure da ciò che egli vuole sembrare; comunque, a parte pochissime eccezioni, tutti gli uomini sono caratterizzati, in modo maggiore o minore, da entrambe: essere e apparire. Chi è maggiormente caratterizzato dall’essere è più spontaneo e meno preoccupato dall’immagine che l’altro ha di sé. Al contrario, chi si preoccupa di suscitare una certa immagine di sé nell’altro, si comporta in modo tale da produrre tale impressione, non spontaneamente pur tentando di apparire spontaneo. Qui incontriamo però un grosso rischio, perché «dove l’apparire nasce dalla menzogna e ne è impregnato, l’interumano è minacciato nella sua esistenza. … Talvolta, per soddisfare un’insulsa vanità, uno si gioca la grande chance del vero accadere tra io e tu».52 Nell’ambito dell’interumano la verità viene attestata dall’autenticità usata dagli uomini all’interno della loro relazione: «non è importante che uno dica all’altro tutto ciò che gli passa per la mente, ma è importante che non permetta a nessuna apparenza di insinuarsi tra lui e l’altro. Non è importante che uno si ‘lasci andare’ di fronte all’altro, ma è importante che permetta all’uomo con cui comunica di partecipare al suo essere. Essenziale è l’autenticità dell’interumano; dove essa manca, neanche l’umano può essere autentico».53 La sincerità sta nello sconfiggere l’apparenza.

Per entrare in relazione, conversare e vivere l’evento dialogico con un’altra persona, c’è bisogno del carattere d’immediatezza. «Tra l’io e il tu non vi è alcuna conoscenza concettuale, alcuna precomprensione, … alcun fine, alcun desiderio, alcuna anticipazione».54 L’assenza di preconcetti e di presupposizioni su l’altro è il viatico all’autentica percezione e accettazione di ciò che l’altro ora veramente è. «Quando andiamo per una strada e incontriamo un uomo che ci è venuto incontro e che andava anche lui per quella strada, conosciamo solo il nostro tratto di strada, non il suo; del suo infatti veniamo a conoscenza solo nell’incontro».55 La nostra preoccupazione deve essere il nostro tratto di strada, il cammino da noi percorso per arrivare all’incontro e l’autenticità con la quale ci siamo preparati, non dobbiamo indagare la via attraverso la quale il nostro tu giunge a noi. Il tu mi viene incontro e contemporaneamente io stesso vado incontro a lui. «Così la relazione è essere scelti e scegliere, patire e agire insieme».56 È qui che l’intero essere dell’uomo non si cura che del tu con il quale è in relazione, questo è il luogo «dove, racchiuso quieto nella sua interezza, opera l’uomo tutto intero; dove l’uomo è divenuto un’operante interezza».57 La relazione è esclusiva: il tu offusca quanto mi circonda; «questa sua estensione cosmica è, per tutto il tempo della presenza della relazione, intangibile. Tuttavia appena un tu diventa esso, l’estensione cosmica della relazione sembra un torto fatto al mondo, la sua esclusività un’esclusione dell’universo».58 Solo la relazione con Dio è fatta di esclusività, al pari di tutte le altre, ma anche di inclusività perché tutto l’universo è compreso in Dio. Anche io stesso che sono in relazione con Lui sono compreso in Lui ma «nella relazione perfetta il mio tu comprende il mio io, senza esserlo, il mio limitato conoscere si schiude in un illimitato esser conosciuto».59 Io e Dio restiamo pur sempre due persone distinte.

Abbiamo quindi assunto che nell’incontro dialogico ci sono due movimenti possibili: il rivolgersi ed il suo contrario che consiste nel ripiegarsi. Prima di entrare nella breve analisi di queste due azioni, bisogna porre attenzione al fatto che il contrario del rivolgersi non sia il distogliersi ma il ripiegarsi. Sappiamo che inevitabilmente dallo stato di relazione si debba tornare a quello dell’esperienza; detto con le parole di Buber: che dall’io-tu si debba tornare all’io-esso. Il distogliersi non è quindi l’opposto del rivolgersi, ma la necessaria conseguenza. Venendo invece a parlare del rivolgersi, «apparentemente si tratta di qualcosa di quotidiano e di insignificante: quando si guarda qualcuno, gli si rivolge la parola, ci si volge proprio a lui».60 Nel rivolgersi si accetta l’altro mentre nel ripiegarsi lo si rifiuta. Il ripiegarsi è tale per cui posso non accettare l’altro anche se sto in qualche rapporto di esperienza con lui. In questo caso però non lo sto riconoscendo in modo adeguato per quello che è e il dialogo diventa apparente.

Di seguito riportiamo un passo in cui Buber risponde al suo avversario ipotetico che gli obbietta che il dialogo di cui parla è qualcosa di non applicabile alla realtà. Sono righe molte stimolanti ed esplicative:

Una cosa prima di tutto, caro avversario: se dobbiamo intrattenerci l’un l’altro e non discorrere senza che le nostre parole si incontrino, la prego di notare che io non esigo. Non ne ho la vocazione e neppure l’autorizzazione. Tento di dire che c’è qualcosa e di accennare a come è fatta; riferisco. E come si potrebbe esigere, soprattutto il dialogo! Il dialogo non si impone a nessuno. La risposta non è dovuta; ma rispondere si può.

Si può davvero. La dialogica non è una prerogativa dello spirito come la dialettica. Non ha inizio agli ultimi piani dell’umanità, non inizia più in alto di dove ha inizio. Qui non ci sono dotati e meno dotati, soltanto coloro che si donano e coloro che si sottraggono. E oggi non si nota nulla in colui che domani si donerà; anch’egli non sa ancora di avere la capacità dialogica in sé, non sa che l’abbiamo in noi, la troverà e «quando l’avrà trovata, si meraviglierà».61

1.4. Responsabilità dell’incontro

È impossibile comprendere l’uomo solo tenendo in considerazione il punto di vista biologico. Questo aspetto può essere meglio compreso se lo rapportiamo alla responsabilità e contemporaneamente ci dà la possibilità di introdurre il tema importante che riguarda quest’ultima in tutta la sua centralità. Buber scrive che le belve non hanno storia, benché possono avere una biografia. Invece «l’uomo ha storia in quanto si è fondamentalmente avventurato in qualcosa che a una belva rapace apparirebbe insensato e grottesco: nella responsabilità; vale a dire nel diventare una persona che ha un rapporto con la verità. Ma così è divenuto impossibile comprendere l’uomo solo a partire da un punto di vista biologico».62

La responsabilità di cui, assieme a Buber, stiamo parlando, è la responsabilità di rispondere. La vita è colma di segni benché spesso noi ci chiudiamo ad essi; «vivere vuol dire essere appellati, occorrerebbe solo essere pronti, solo percepire».63 Ma molto spesso neghiamo la nostra risposta e «tutta la nostra scienza ci rassicura: ‘Sta’ tranquillo, tutto succede come deve succedere, ma nulla è rivolto a te, non si tratta di te, questo è appunto il — mondo — ; puoi sperimentarlo come vuoi nella vita, qualsiasi cosa tu faccia dipende solo da te, non ti si chiede nulla, non ti si interpella, tutto è silenzioso’».64 L’abitudine poi ci intorpidisce nel senso che per mezzo di essa non ci rendiamo neanche più conto della chiusura che abbiamo imposto agli appelli del mondo; qualora per incanto in una rara occasione ci aprissimo ad una relazione, questo ci farebbe pensare che tale evento sia qualcosa di raro e straordinario. Invece Buber si oppone perché i segni dell’appello sono sempre presenti nella vita di tutti i giorni e niente e nessuno può toglierci la responsabilità di rispondere perché la persona e la verità sono due realtà che si appartengono a vicenda per mezzo della stessa responsabilità. «Affinché essa, la risposta responsabile, esista, è necessaria la realtà della persona, che la parola incontra nell’accadere, esortandola; ed è necessaria la realtà della verità, a cui va incontro la persona con tutto il suo essere, e che proprio per questo può riceverla nella parola, non in generale, ma solo come verità che riguarda la persona nella particolarità».65 Agendo in conformità agli appelli dei tu che di volta in volta incontro nella mia vita, tramite la responsabilità di questa risposta attiva e fattiva acconsenziente alla relazione, faccio si che la verità presente fra me ed il mio tu diventi effettiva. Solo in questo modo, al cospetto della verità emersa nella relazione con il tu — quindi dopo aver riconosciuto ed accettato il tu, posso comprendermi quale io.

Il rispondere segue l’appello, ma questi elementi, sia il rivolgersi che il rispondere, non necessariamente si esprimono nel linguaggio, nondimeno esistono in una qualche comunicazione. La comunicazione dell’uomo-con-l’uomo ha un aspetto molto importante che la distingue da quelle degli animali: il rivolgersi la parola. «Il rivolgere la parola si fonda sul fatto di porre e riconoscere l’autonoma alterità dell’altro con il quale, proprio per questo motivo, si è in relazione, interrogando e rispondendo».66 Ciò significa che l’altro non è un mio oggetto e io devo responsabilmente porre attenzione a non considerarlo come tale. In secondo luogo, nel momento in cui qualcuno mi appella, in qualsiasi modo lo faccia — sia tramite il linguaggio sia in altri modi, io sono responsabile di rispondere alla sua chiamata. La chiamata del tu rimane sterile se non trova la risposta dell’io. A questo punto balza agli occhi l’importanza della responsabilità che consiste nel dare la risposta: la relazione, in cui si realizza la realtà della vita dell’uomo, resta impossibilitata a realizzarsi se non può coinvolgere interamente i due interlocutori perché la risposta rappresenta la presenza di chi è stato chiamato. Senza la risposta, quindi senza la presenza di uno degli interlocutori, la relazione resta non realizzata e con essa resta non realizzata anche la vita.

Possiamo ora definitivamente affermare con Buber che « [c] ‘è autentica responsabilità solo là ove ci sono vere risposte».67 Non ci si deve attendere delle chiamate straordinarie perché la vita di tutti i giorni è colma di appelli. Ma essere consapevoli di questo non basta, infatti «possiamo pur sempre far silenzio intorno a noi — risposta caratteristica per un tipo significativo della nostra epoca — o defilarci nell’abitudine».68 Invece non importa che la risposta che diamo sia un balbettio intimorito, l’importante è che sia autentico; rispondiamo agendo e non agendo, a seconda della domanda rivolta, entriamo con tutto il nostro essere nella situazione storica che ci capita. Resta fondamentale che la responsabilità si ha proprio per il suo carattere di risposta, non esiste auto-responsabilità in quanto tale. «Chi esercita la responsabilità reale, dialogica, non ha bisogno di nominare chi dice la parola a cui risponde».69 Con tutto ciò non si deve credere che sia necessario perdere ogni riservatezza, l’importante è saper rispondere con semplicità: «chi sa essere senza riserve nei confronti di ogni passante, non ha nulla di sostanziale da perdere; ma è vana la pienezza di colui che non sa essere immediato nei confronti di ognuno di quelli che incontra».70 È evidente che non si tratta di prendere una decisione che valga una volta per tutte, ma che invece la vita ci appella sempre di nuovo e la nostra responsabilità è in questo senso continuamente sollecitata.

La comunità a cui apparteniamo può sostituirsi a noi nel prendere le decisioni, quindi nel dare risposte e nella responsabilità; naturalmente è il lassismo di ogni individuo che si abbandona alle decisioni del gruppo a permettere ciò. Non che la comunità di cui facciamo parte dichiari in modo chiaro e preciso ciò che sia giusto o meno in una data situazione, al contrario, si divide in sottogruppi che pur avendo visioni differenti, talvolta opposte sulle questioni, pretendono di avere la soluzione migliore. «Ogni gruppo sa che cosa è utile al bene della comunità, ognuno pretende che tu lo condividi senza riserve per il bene della comunità».71 L’esempio più palese sta nella politica, nel momento in cui si prende parte ad un gruppo politico, la libera responsabilità individuale è superata, «da quel momento in avanti non occorre fare altro che mimare i movimenti del gruppo».72 Così il gruppo ci sottrae la responsabilità (in questo caso quella politica), e non siamo più costretti a dover sempre di nuovo sobbarcarci il peso delle decisioni. «Persone sono necessarie, non semplicemente ‘rappresentanti’ in qualsivoglia senso, scelti o insediati, che tolgano la responsabilità ai rappresentati; ma anche ‘rappresentati’ che proprio nella responsabilità non si lascino rappresentare».73

La via che invece ci suggerisce Buber è diversa. Per prima cosa «la persona umana, che voglia o no ammetterlo, che voglia o no prenderlo sul serio, appartiene alla comunità in cui è nata o in cui è capitata».74 Questo però non significa che da parte dell’individuo debba esserci un abbandono alla comunità, il contrario semmai: «il mio gruppo non mi può togliere questa responsabilità, non posso permettere che me la sottragga. … Ma non come se nella mia decisione il gruppo non mi riguardasse (mi riguarda moltissimo)».75 In altre parole, io vivo in comunità ed in comunione con gli altri, ma questo non significa che il mio personale punto di vista debba essere sacrificato; esso deve arricchirsi delle necessità della comunità a cui appartengo e nella mia risposta responsabile non risponderò solo in modo personale, ma come appartenente a quella comunità. Devo sempre di continuo restare in ascolto della situazione in cui vivo e «chi mi suggerisce una risposta in modo da impedirmi di sentire è un ostacolo, chiunque egli sia».76 In questo modo non ci stiamo negando la possibilità di giovarci dei consigli o di avvalerci delle direttive di chi regge il gruppo o, ancora, di seguire dei maestri. «Chi ha un maestro, può rimettersi a lui, affidargli la propria persona fisica, non la responsabilità. Alla responsabilità deve aprire se stesso, armato di tutti i doveri forgiati nel gruppo»,77 ma esposto in modo individuale. La coscienza è il punto d’incontro delle richieste esterne e della verità interna, nella coscienza troviamo la risposta alla sempre nuova responsabilità richiestaci. «La certezza che scaturisce da questa coscienza è certo solo una certezza personale; è la certezza dubbiosa; ma ciò che qui s’intende per persona è precisamente quella che è stata chiamata e che risponde».78 Anche il gruppo di cui una persona responsabile fa parte giova della responsabilità autentica che essa prende sulle sue spalle, «nessun dei gruppi oggi esistenti può sapere caso per caso che cosa sia giusto, se non perché gli uomini che vi appartengono vi impegnano la propria anima per capirlo».79

Le persone che ricoprono incarichi di responsabilità, sono facilmente verificabili nel loro porsi nei confronti del potere che hanno. «Quando vediamo un uomo di eccezione che aspira al potere piuttosto che al fine di esso, riconosciamo subito il male di cui è affetto. O, più precisamente riconosciamo che la sua posizione rispetto alla sua opera non è autentica».80 In questo caso l’assenza di responsabilità è palese.

Chiudiamo il paragrafo con l’esempio del matrimonio che ci mostra come la responsabilità sia fondamentale ed essenziale alla realizzazione della relazione e dell’esistenza umana. «Chi ‘ha contratto un matrimonio’, chi si è sposato, nell’intenzione sacramentale ha preso sul serio il fatto che l’altro è: che non posso legittimamente prender parte all’esistenza senza prender parte all’essere dell’altro: … che non posso rendermi responsabile senza coinvolgere in questa responsabilità anche l’altro, come colui che mi è affidato».81 Il matrimonio autentico rappresenta il vincolo esemplare di unione, esso aiuta a comprendere e ad accettare il diritto e la legittimità della diversità. «Quest’essere umano è diverso, essenzialmente diverso da me, e io intendo questa sua diversità, la confermo, perché intendo lui, voglio il suo essere diverso perché voglio il suo essere così com’è».82

1.5. Vivere la relazione nel proprio tempo

Abbiamo appena visto come il matrimonio sia il luogo dove si palesa la responsabilità e la profondità della relazione; questo, però, a condizione che sia una autentica unione. Per sviluppare il tema di questo paragrafo partiamo da una considerazione buberiana che sembra caratterizzare gran parte dei matrimoni del nostro tempo. Se è vero che il matrimonio autentico si basi sulla continua riscoperta di un tu che viene accettato nella sua peculiare alterità, oggi «chi intende rinnovare il matrimonio su altre basi, non è essenzialmente diverso da colui che lo vuole abolire: entrambe comunicano di non conoscere più quel fatto. E in realtà, che cosa rimane, quando si sottragga da tutto quel discorrere sull’erotismo della nostra epoca tutto ciò che è riferito all’io, ogni rapporto cioè in cui l’uno non diventa affatto presenza per l’altro, non è affatto reso da lui presenza, ma l’uno gode nell’altro solo se stesso?»83 Quindi consci del fatto che l’unione matrimoniale autentica, nella sua essenziale importanza per la vita umana, oggi si trovi in uno stato di difficoltà, continuiamo a tracciare i segni che il nostro tempo sembra mostrarci e magari ad intravedere qualche spiraglio.

La modernità in cui viviamo si oppone alla percezione e comprensione dell’uomo come essere unitario e unico che, con Buber, abbiamo visto caratterizzare la vita vera fatta di relazione. Oggi domina uno sguardo analitico e riduttivo: «tratta l’intero essere corporeo-spirituale come composito, e quindi scomponibile».84 Tale sguardo riduce l’uomo in modo schematico ad un insieme di elementi ripetibili, e così la realtà vera della persona, che si compone di una misteriosa unità, viene annullata per lasciar posto ad un livellamento.

«Il pensiero biologistico e storicistico di questo tempo, per quanto si siano considerati differenti, insieme hanno contribuito a consolidare una credenza nella fatalità. … Ciò è facilitato dai modi della pretesa; che si tratti della ‘legge della vita’ di una guerra di tutti contro tutti, in cui ciascuno deve combattere o soccombere; o della ‘legge dell’anima’, che costituisce senza residui la personalità psichica su innati istinti utilitaristici; o della ‘legge della società’ di un inarrestabile processo sociale, che la volontà e la coscienza possono solo accompagnare; o ancora della ‘legge della cultura’, per cui le strutture della storia si formano e scompaiono in modo inalterabile e regolare».85 Nella situazione in cui si trova ora, l’uomo è come costretto a non-vivere, ha perso la possibilità di cambiare il corso delle cose, la libertà.

La nostra epoca è inoltre caratterizzata da una crisi di fiducia che, concerne anche quelle forme di vita associata le quali, in altri periodi storici, erano servite a dare all’uomo una sicurezza. Nella comunità in cui l’uomo prende parte in modo autentico, egli si abbandona alla coesione in essa vigente, ha fiducia, è li che «i desideri si fondono frequentemente ai bisogni della comunità, … questa fusione non può compiersi realmente, ben inteso, che allorquando tutto nella comunità si attua in un certo accordo con tutti, allorché la fiducia che vi regna non è dunque una fiducia imposta o immaginaria, ma autentica, elementare».86 Mentre oggi è molto più evoluta la disorganicità della comunità, la sfiducia è palesata dal fatto che i propri desideri non si accordano più, né possono farlo in modo spontaneo, a quelli degli altri membri della comunità, «perché non c’è più vera fusione o conciliazione con ciò che è necessario»87 all’altro.

Quando Buber ci parla di vita dialogica, e con questo ci indica il modo più proprio di vita per l’uomo, così scrive: «vita dialogica non è quella in cui si ha a che fare con molti uomini, ma quella in cui si ha davvero a che fare con gli uomini con cui si ha a che fare».88 Il nostro filosofo conosce bene la vita per parlare di lei in modo astratto, ce lo dimostra quando, nell’ultima parte di Zwiesprache, risponde al suo avversario affermando che le cose di cui parla non riguardano un ideale mondo lontano, ma il reale mondo umano. Ci parla dell’uomo «in fabbrica, in negozio, in ufficio, in miniera, al trattore, in tipografia: l’uomo».89 Proprio perché si riferisce a ogni uomo Buber oggi ci parla in modo così pressante della necessità dialogica, oggi che quest’uomo vive in uno stato di ripugnanza repressa, di riluttanza, di assurdità; non uno in particolare, ma uno preso a caso dal mucchio, che come tutti gli altri può aprire alla relazione e alla vita vera nella quotidianità. È nella routine che a quest’uomo appare la vera realtà che gli viene affidata a patto che se ne voglia prendere la responsabilità. Buber strilla: «che non si lasci convincere!»90 all’uomo che pensa di doversi adeguare alla necessità della produzione moderna. Non c’è un posto di lavoro nell’intero mondo in cui non possa ergersi un autentico incontro, per quanto fugace.

L’attualità del pensiero buberiano è davvero travolgente quando continua a scagliarsi contro delle leggi non scritte della realtà in cui viviamo. Egli non accetta il carattere divisorio tra lavoro e vita «libera» e dice: «La vita dell’essere concentrato sul lavoro deve essere d’ora in poi, in ogni età del mondo, spaccata a metà, tra ‘l’estraneità del lavoro’ e ‘l’intimità del riposo’? E ancora: poiché la sera e la domenica non riescono ad affrancarmi dal carattere di giorno feriale, ma ne vengono inevitabilmente segnate, si deve dividere la vita tra lavoro feriale e lavoro festivo, senza resto di immediatezza, di eccedenza non regolata, di libertà?»91 E poi aggiunge una previsione secondo la quale gli appariva evidente che esisteva già un «desiderio di dialocizzazione del lavoro … desiderio di un’organizzazione del lavoro in cui l’impresa è penetrata dal dialogo vitale tanto quanto basta per garantire l’adempimento dei compiti richiesti».92 La vita non merita di essere ridimensionata al tempo libero, gli uomini non possono essere considerati strumenti che nel tempo del lavoro siano tenuti ad occuparsi esclusivamente delle mansioni che gli competono. La vita non merita di essere vissuta nel pieno della libertà solo di sera o nei fine settimana, ammesso che nel tempo libero si riesca a staccare dai pensieri lavorativi. Non ci sono momenti in cui si vive e altri in cui si sopravvive! Non ci sono periodi di vita e parti della giornata che possano essere considerati provvisori. Invece Buber ci insegna che è proprio nel posto di lavoro di tutti i giorni, con gli stessi colleghi e gli stessi macchinari, è proprio lì che, accanto all’onesto svolgimento della propria mansione, lo scorrere inesorabile del tempo mi propone di incontrare i miei tu. Addirittura ad una macchina si può dire tu perché «dove uno immette nel suo desiderio di dialogo una cosa senza vita, prestandole autonomia e quasi un’anima, egli deve già presentire un dialogo mondano, il dialogo con l’accadere del mondo; accadere che proprio nel suo ambiente lo avvicina, anche se questo è fatto di cose».93

L’analisi di Buber sui problemi e le mancanze della vita odierna proseguono con una chiarezza ed una precisione tale che si ritiene qui opportuno riportare per buona parte un passo di rara provocazione e illuminante realtà:

Inconfondibilmente nel corso di quest’epoca aumenta il condizionamento degli uomini dalle ‘situazioni’. Non cresce soltanto in assoluto la massa degli obbiettivi sociali, ma anche il loro potere relativo. Condizionato da questo potere il singolo sta in ogni momento di fronte alla concretezza del mondo che gli si offre e vuole ricevere da lui risposta; egli incontra le nuove situazioni, carico di situazioni. … Il condizionamento sociologico dell’uomo cresce. Tuttavia questa crescita è il mutare di un compito, non nel dovere, ma nel potere e nel bisogno, nel desiderio e nella grazia. Bisogna rinunciare alla brama e all’abitudine di una tecnica totalizzante, che ‘viene a capo’ di ogni situazione; bisogna assumere ogni situazione, dai misteri triviali della quotidianità fino alla maestà del destino che distrugge, nel potere dialogico della vita autentica. Il compito diventa sempre più difficile e sempre più essenziale; l’adempimento sempre più impedito e sempre più gravido di decisione. Tutto il regolato caos di quest’epoca attende che si apra un varco e là, ove percepisce e risponde, un uomo lo prepara.94

Per prima cosa bisogna smascherare la falsa concezione secondo cui nell’uomo moderno il rivolgersi verso l’altro apparterrebbe all’ambito del sentimentale, mentre la vita attuale avrebbe una diversa densità, il sentimentalismo sembrerebbe quindi qui inopportuno. Non è vero neanche che il rivolgersi all’altro sarebbe impossibile da applicare ad una vita così dinamica come quella moderna. Tutte queste concezioni non fanno che mostrare la debolezza in cui si trova l’uomo del nostro tempo nei confronti delle situazioni che si trova a vivere. Infatti «l’uomo moderno si lascia imporre dai tempi ciò che è possibile o ammesso, invece di accordarsi con i tempi, da sereno compagno»;95 invece di considerare il proprio ruolo in modo effettivo e attivo si lascia soggiogare dalle impressioni e dalle forze coercitive delle situazioni in cui vive. La prospettiva per liberarsi da questo giogo risiede unicamente nella capacità e nella volontà di dire sempre di nuovo: tu! Abbandonando l’isolamento dell’individuo e non abbandonandosi alla conformità massificante, si diventa se stessi nel momento in cui si incontra l’alterità. «La domanda con cui oggi si mettono in dubbio la persona e la verità è la domanda rivolta al singolo. La persona è messa in dubbio per il fatto di essere resa collettiva».96 La lotta contro l’individualismo non deve sfociare nel collettivismo; è fondamentale riconoscere che ogni uomo ha connessioni con il luogo in cui vive, il tempo o periodo storico, il popolo, la cultura, la famiglia, la società, l’ambiente professionale e quant’altro, che sono ambiti a lui peculiari. É però da escludere che lo stesso uomo debba essere asservito dagli ambiti in cui entra in rapporto con gli altri e con il mondo. Deve impegnarsi a restare sempre se stesso e dare il suo contributo in ogni situazione, agendo o non agendo, a seconda della domanda che gli viene rivolta. «L’accesso alla relazione non si può insegnare con prescrizioni. Si può solo indicare, tracciando un cerchio che escluda tutto ciò che non lo è. Allora diventa visibile ciò che è essenziale: la completa accettazione del presente».97

L’attualità del pensiero buberiano riguarda tanto l’ambito particolare di ogni uomo, appena accennato sopra, quanto il globale movimento del genere umano nell’attuale momento storico. Il mondo dell’esso oggi ha preso il sopravvento, «non più percorso e fecondato dal mondo del tu che vi affluisce come una corrente vitale, separato e arenato, come un immenso fantasma palustre, prevale sull’uomo. Venendo a patti con un mondo di oggetti che non diventano più presenza per lui, l’uomo soccombe. L’usuale causalità cresce a oppressiva, schiacciante fatalità».98 L’esso è necessario alla vita dell’uomo, sempre di nuovo dobbiamo tornare a viverlo. Ma nel momento in cui l’uomo si abbandona al predominio del mondo dell’esso, quando lascia che l’esso prevalga su ogni possibilità di dir tu, allora ha perso anche il più autentico valore della vita. Nei nostri giorni, i giorni della moda e dell’immagine, ciò che più sembra avere importanza è ciò che nella sua essenza non può essere che strumento, ma che nella sua apparenza oggi viene scambiato per il fine. Non parliamo di qualcosa di irreale quando affermiamo di vivere in un mondo in cui la riflessione e l’attuazione di ciò che concerne essenzialmente la vita viene relegata agli ultimi posti nella agenda piena di attività volte a valorizzare il possesso dell’esso e l’illudente benessere sperimentatore. Questo non è irreale perché è proprio ciò che sta succedendo oggi. Ciò che ci sconvolge è sapere che le dimensioni di questo catastrofico misconoscimento abbracciano decisioni non prese o incontri rifiutati che riguardano sempre più spesso la vita di intere comunità e nazioni. Non stiamo parlando di una disparità inevitabile in un mondo economicamente e politicamente così sbilanciato come il nostro, ci riferiamo invece alla prepotente pressione che la parte di mondo assoggettata dall’esso, in modo diretto o indiretto, fa su quella ancora aperta al tu.

La via indicataci dal nostro grande filosofo, quella che ci vorrebbe autentiche persone pronte all’incontro con il tu, la via che riconosce la necessaria presenza dell’esso ma che non vi si sottomette, non potrebbe essere ben compresa lasciando da parte la relazione con Dio. Sappiamo già che tutte le relazioni instaurate nel mondo si congiungono in quella con Dio, e sappiamo che il tu eterno non può mai diventare esso. Ciò significa che dipende solo da noi se entriamo in relazione con lui oppure no, in quanto Lui ci appella di continuo. La chiamata rivoltaci dal tu assoluto non riguarda esperienze mistiche, ma avviene sempre proprio nel mondo in cui viviamo. Buber scrive: «non posseggo niente di più del quotidiano, a cui non vengo mai sottratto. … Non conosco più una pienezza, se non quella pienezza di richieste e responsabilità di ogni ora mortale».99 Dio chiede usando il mondo, la sua creazione, per parlare con noi, ci apre così la possibilità di rispondergli, Buber scrive: «ciò che mi capita, è l’appello rivolto a me. In quanto è ciò che mi capita, l’accadere del mondo è appello rivolto a me».100 Dio mi chiama attraverso altri uomini, attraverso situazioni, attraverso la vita che vivo ogni giorno; è all’interno di questa stessa vita quotidiana che posso e devo rispondere.

2. Relazione e società

2.1. Interumano

Tutto quello che stiamo discutendo in questo scritto ci rende consapevoli che esiste una realtà interpersonale a cui prendiamo parte in diverse occasioni. Si tratta per esempio del fatto che una comunicazione completamente naturale e completamente inclusiva dei partecipanti non necessariamente abbia bisogno di parole, gesti o suoni, infatti «il linguaggio può rinunciare ad ogni cadenza sensibile e rimanere linguaggio».101 Stiamo parlando di una entità capace di unire due persone in un incontro che probabilmente nessuno dei due prevedeva ed in cui entrambi si liberano completamente l’uno all’altro. È questo un avvenimento in grado di accadere anche fra due sconosciuti dove entrambe si abbandonino ad una forma di comunicazione autentica con l’altro che, a seconda della circostanza, si realizza in modo diverso e risulta peraltro difficile da spiegare. «Il dialogo umano, per quanto abbia la sua vita propria nel segno, quindi nel suono e nel gesto … può dunque esistere senza il segno; certo non in una forma oggettivamente comprensibile».102 Per citare un esempio, insieme al nostro filosofo, possiamo parlare di «sguardi che nella confusione della strada si colgono al volo tra due sconosciuti che avanzano con lo stesso passo; tra questi ci sono sguardi che, incontrandosi casualmente, rivelano l’una all’altra due nature dialogiche».103 Ciò che avviene fra due persone in modo tanto istintivo quanto coinvolgente è qualcosa che «giunge al suo compimento al di là dei contenuti comunicati o comunicabili».104 Non dobbiamo pensare che questo sia un avvenimento mistico, è invece un accadimento effettivo che riguarda la vita reale dell’uomo e si realizza concretamente proprio in essa. È una realtà che prende vita fra due persone ma non ne riguarda nessuna in modo individuale. Buber ci parla di «ontologia dell’interumano»105 per mettere in mostra come questa realtà sia effettivamente esistente ed autonoma. La comprensione di questa ontologia «non si ottiene partendo dall’onticità dell’esistenza personale né partendo dall’onticità delle due esistenze personali, ma da ciò che si costituisce tra loro e trascende l’uno e l’altro».106 Ciò che prende vita nell’interumano, fra due persone che realmente ed autenticamente si incontrano, è il dialogo.

Il dialogo ha una caratteristica molto importante che è «la reciprocità dell’azione interiore. Due uomini, legati nel dialogo, devono essere apertamente rivolti l’uno all’altro, devono cioè essersi rivolti l’uno verso l’altro, non importa con qual grado di attività o, addirittura, di consapevolezza di attività».107 La predisposizione individuale al dialogo resta fondamentale e tenteremo subito di tornare sulla sua analisi. Prima abbiamo sottolineato che il peculiare aspetto di accadimento dell’evento relazionale non toglie ad ognuno dei partecipanti all’incontro le responsabilità di presentarsi, di essere pronto, non toglie quindi l’azione individuale.

Osservare, contemplare e intuire: questi sono i tre differenti modi con cui possiamo percepire un uomo con il quale siamo in contatto. Osservare comporta un annotare ogni particolarità possibile dell’oggetto che osserviamo. Contemplare significa essere aperti, lasciarsi andare, a cogliere ogni aspetto dell’oggetto in modo rilassato, attendere in modo rilassato quanto ci si offrirà. Sia contemplare che osservare include «il desiderio di percepire l’uomo che vive sotto i nostri occhi; inoltre, per [noi] quest’uomo è un oggetto separato da [noi] stessi e dalla [nostra] vita personale, e solo per questo può essere ‘correttamente’ percepito».108 Infine l’intuire (Buber lo chiama anche fantasia reale)109 è il modo di rapportarsi all’altro uomo (ma «non c’è bisogno che sia un essere umano ciò che io intuisco; può essere un animale, una pianta, una pietra»),110 è del tutto diverso dai due precedenti. «Molto in generale, intuire una cosa o un essere significa conoscerlo in tutta concretezza come totalità e tuttavia senza astrazioni riduttive. … In particolare, intuire un uomo significa quindi percepire la sua totalità come persona determinata dallo spirito, percepire il centro dinamico che imprime a ogni sua manifestazione, azione e comportamento, il segno comprensibile dell’unicità».111 L’intuizione è impossibile fintanto che l’altro resta per me un oggetto, solo nella relazione elementare con l’altro, quando l’altro diventa presenza, diventa allora possibile. L’intuizione avviene quando io percepisco che fra me e quest’uomo particolare sta accadendo qualcosa che non posso comprendere in modo oggettivo. «Non posso dipingere, né raccontare, né descrivere l’uomo di cui, attraverso cui, mi è stato detto qualcosa … quest’uomo non è il mio oggetto; mi è accaduto di avere a che fare con lui».112 La cosa che devo decidere è accettarlo. L’intuizione è la via percettiva che ci permette di entrare nel dialogo.

Perché ci sia vero dialogo c’è bisogno che si verifichino tre condizioni che abbiamo visto sopra e ripeteremo più volte all’interno di questo scritto, in breve: per prima cosa le persone che si rivolgono l’un l’altra devono essere autenticamente se stesse, senza il desiderio di apparire ciò che non sono. In secondo luogo ciascuno dei dialoganti deve accettare l’altro come persona, quindi come diversità. Infine nessuno deve volersi imporre.

Buber ci indica tre specie di dialogo: «quello autentico — non importa se parlato o silenzioso — in cui ciascuno dei partecipanti intende l’altro o gli altri nella loro esistenza e particolarità e si rivolge loro con l’intenzione di far nascere una vivente reciprocità; quello tecnico, proposto solo dal bisogno dell’intesa oggettiva; ultimo, il monologo travestito da dialogo, in cui due o più uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente contorto e indiretto, parlano solo con se stessi e tuttavia si credono sottratti dalla pena di dover contare solo su di sé».113 Continua, il nostro filosofo, asserendo che il dialogo autentico è diventato raro, mentre il dialogo tecnico è caratteristico della vita moderna. Anche il dialogo nella forma di monologo travestito da dialogo è oggi molto diffuso e caratterizzato da una prevalenza dell’io su tutti gli altri.

Il dialogo autentico si compone di relazione vera, reale. Non stiamo parlando di un avvenimento isolato che accade raramente, ma di qualcosa che riguarda l’essenza della persona umana e che, pur accadendo per grazia, si presenta molto più spesso a chi ne è predisposto. Ci si predispone riconoscendo negli avvenimenti della propria giornata le chiamate che i tu pongono. La responsabilità di rispondere è forte perché dà vita al dialogo che si svolge in modo esclusivo fra l’io ed il tu. Questo stupendo avvenimento non prende vita solo in contesti in cui sono presenti altri uomini. Si vive in ogni contesto della vita, anche in quelli solitari in cui si ha la consapevolezza che il mondo offre dei tu. «Anche nell’estremo abbandono, l’esistenza dialogica riceve un sentore aspro e fortificante della reciprocità; anche nella più affettuosa comunità, l’esistenza monologica non percepirà nulla al di là dei limiti del proprio io».114 A testimonianza di questo bisogna addurre che non necessariamente all’altruismo corrisponde una volontà di vero dialogo, ed all’egoismo il monologo. Buber ci porta l’esempio di persone che pur essendo molto impegnate in attività sociali non sono mai riuscite a dialogare in modo autentico con chi stava loro di fronte, mentre ce ne sono altre sempre pronte ad aprirsi ad un vero dialogo benché non abbiano altra relazione che con i propri nemici. Neanche «si può paragonare il dialogo all’amore. Ma l’amore senza dialogo, quindi senza un reale andare-verso-l’altro, giungere-all’altro, presso-l’altro-rimanere, è l’amore che rimane presso di sé».115

L’interumano è «una dimensione speciale della nostra esistenza, una dimensione che ci è così familiare che ancora non ci siamo realmente resi conto della sua peculiarità».116 Non è quindi un fenomeno sociale, «possiamo parlare di fenomeni sociali là dove la convivenza di una moltitudine di uomini, il loro legame reciproco, hanno per conseguenza esperienze e reazioni comuni»;117 ma l’avere un’esperienza in comune con altre persone non significa essere in relazione con le stesse. Più spesso accade il contrario per via del fatto che l’interesse del gruppo non è rivolto all’unione dei singoli ma ad un qualche obbiettivo. L’interumano avviene sia in casi molto semplici, «come quando in un tram sovraffollato due sconosciuti si scambiano uno sguardo di considerazione»,118 benché esso lasci subito il posto alla normale indifferenza, sia nelle situazioni più disparate, come avviene tra avversari. «Non dipende da null’altro che da questo: che a ciascuno dei due l’altro si presenti come questo determinato altro, che ciascuno dei due si accorga allo stesso modo dell’altro, e che si comporti di conseguenza nei suoi confronti; nel far ciò non considera e non tratta l’altro come un suo oggetto, ma come un suo compagno in una vicenda della vita, si trattasse anche di un incontro di pugilato».119 L’importante è che l’altro sia considerato non come un oggetto, ma come l’altro di cui abbiamo discusso nei paragrafi precedenti. L’uomo può certo essere percepito come un oggetto che può essere sottoposto ad osservazione, analisi, utilizzo, ma la peculiarità dell’essere umano è che lo si può percepire come unità vivente. Ciò che caratterizza l’interumano è l’incontro di due persone nella reciprocità. Così sintetizza Buber: «con la sfera dell’interumano intendo esclusivamente eventi in atto tra gli uomini, sia totalmente reciproci, sia tali da essere in grado di innalzarsi o di comprendersi immediatamente nella reciprocità, poiché la partecipazione dei due partner è per principio indispensabile. La sfera dell’interumano è quella del reciproco stare-l’uno-di-fronte-all’altro; il suo dispiegarsi è ciò che chiamiamo il dialogico».120

Chiudiamo questo paragrafo riassumendo i tratti di una conversazione autentica, ovvero il luogo dove l’interumano si realizza nella parola. Per prima cosa è necessario un rivolgersi in tutta verità nei confronti della persona con la quale si interloquisce. Devo cioè riconoscere l’altro come unità ed unicità. «I sensi, che sperimentano, e la fantasia reale, che completa quanto i sensi hanno sperimentato, agiscono all’unisono per rendere l’altro presente come totalità e individualità, cioè proprio come questa persona».121 Di seguito l’altro mi conferma facendomi suo interlocutore, tale movimento rende bilaterale il riconoscimento l’uno dell’altro. «Naturalmente ciò non vuol dire affatto che tale conferma sia già approvazione; ma, per quanto io possa essere contro l’altro, nella misura in cui l’ho assunto come interlocutore di una conversazione autentica, ho detto sì a lui in quanto persona».122 É poi necessario che sia io che il mio interlocutore partecipiamo in tutta verità, «ciò significa che ognuno deve essere disposto a dire quanto ha in mente a proposito dell’oggetto della conversazione. E ciò a sua volta significa che offrirà il contributo del suo spirito senza semplificazioni e tentennamenti».123 Questo non significa dire tutto né tanto meno parlare a vanvera, piuttosto consiste nell’abbandono: «dove c’è la parola di autentica origine dialogica, bisogna renderle giustizia abbandonando ogni riserva»,124 lasciare che la parola esca da me fin dove è necessario. L’apparenza non deve giocare nessun ruolo, nessuno degli interlocutori deve preoccuparsi dell’impressione che suscita nell’altro. «Se anziché dire quel che ho da dire, mi accingo a dar voce a un io che vuol farsi valere, ho irreparabilmente fallito ciò che avrei avuto da dire; la mia parola entra nella conversazione in modo falso e la conversazione diventa falsa».125 Lì invece dove gli interlocutori si aprono autenticamente l’un l’altro si realizza una fecondità comunitaria unica. Infine Buber ci fa notare che una conversazione autentica può avvenire anche tra più di due persone, le caratteristiche di autenticità e coinvolgimento dei partecipanti rimangono le stesse e «naturalmente non occorre che tutti coloro che sono riuniti … parlino; … ma ognuno deve essere deciso a non tirarsi indietro se, nel corso della conversazione, toccherà a lui esprimere quanto ha da dire, senza che nessuno naturalmente possa sapere in anticipo che cosa sarà».126

«L’interumano apre l’accesso a ciò che altrimenti resta inaccessibile»,127 è quell’entità in cui ha luogo la relazione fra due persone umane. Io e Tu rispondiamo al suo appello; la chiamata ci giunge dallo spirituale che ci coinvolge ma che non siamo noi. Infatti tornando all’esempio della conversazione autentica, «nulla può essere preordinato; l’andamento appartiene allo spirito, e molti scoprono ciò che hanno da dire non prima di aver percepito il richiamo dello spirito».128 Se non lasciamo vivere lo spirito della relazione nei rapporti umani, quello capace di dir tu, se facciamo prevalere l’interesse alla verità, allora anche la società non si compone più di comunità di persone, ma di un gruppo massificato di individui.

2.2. Massa: perdita di identità

Ora che abbiamo preso coscienza di quello che esiste o può esistere fra gli uomini nell’interumano, dove prende vita anche il dialogo, dove si realizza la vera vita dell’uomo e la verità su di esso, ci rendiamo ancora una volta conto che sempre più oggi «la persona è messa in dubbio per il fatto di essere resa collettiva».129 Ciò significa che la realtà della persona è resa problematica da una serie di costrizioni e convincimenti che la portano a perdere quanto di più individuale le appartenga. «Qui si attribuisce il primato a una collettività; essa detiene il diritto di tener legata a tal punto la persona a essa collegata, che a questa non compete nemmeno più la piena responsabilità. Il collettivo diventa ciò che ha esistenza vera, la persona ciò che ha un’esistenza derivata: in tutti gli ambiti in cui appartiene alla collettività deve esserle sottratta la risposta personale».130

È opportuno tracciare una importante distinzione fra «la comunità che si costruisce a partire dalla relazione e la massificazione di unità umane prive di relazione».131 La massificazione è un terrificante abbandonarsi al mondo dell’esso in cui non solo ci si apre al tu sempre più raramente, ma non si è interessati a farlo oppure si pensa che questo non sia possibile. In parte abbiamo già estrapolato dalle pagine di Buber la sua avversione per la massificazione, ma in questo paragrafo tenteremo di mettere in evidenza in modo definitivo l’altisonante ammonimento del nostro filosofo nei confronti di una delle sfide del mondo contemporaneo.

La bella maschera dell’esso travestito da tu del nostro tempo non deve ingannarci, il sembrare nel quale siamo immersi non deve abbindolarci. Con Buber sappiamo infatti che «articolare con le corde vocali il suono tu non significa ancora assolutamente dire l’inquietante parola fondamentale; fintanto che, seriamente, non s’intenda nient’altro che lo sperimentare e l’utilizzare»,132 l’esso di cui si compone l’età contemporanea non può sembrarci un tu per il semplice fatto che appare come tale. Dobbiamo guardare a fondo e non servirà scavare più di tanto per constatare la realtà delle cose. Ricordiamo bene che «senza l’esso l’uomo non può vivere. Ma colui che vive solo con l’esso, non è l’uomo».133 In un certo senso all’individuo fa comodo il mondo ordinato, «almeno in una certa misura questo mondo è affidabile, possiede spessore e durata, la sua articolazione si lascia osservare, … è il tuo oggetto, rimane a tuo piacere, e ti rimane fondamentalmente estraneo, fuori e dentro di te».134 Ma arrenderci a sopravvivere senza adoperarci per esprimere al massimo le nostre potenzialità, ovvero senza renderci conto che siamo esseri relazionali, vorrebbe dire che pur potendoci sembrare una grossa e comoda vita, questa non sarebbe e non resterebbe che una amputazione essenziale di quella che invece realmente è. «Non c’è bisogno di spogliarsi del mondo dei sensi, come se fosse il mondo dell’apparenza. … Non c’è neanche bisogno di un ‘superamento dell’esperienza sensibile’; ogni esperienza, anche quella spirituale, potrebbe darci soltanto un esso. Non c’è bisogno di rivolgersi a un mondo delle idee e dei valori: non può divenire presenza per noi».135 La cosa di cui c’è bisogno è il presentarsi all’incontro con il tu nell’interezza di cui siamo fatti, in anima e corpo. Possiamo farlo non in altri luoghi, ma in quelli in cui viviamo; non con altre persone o oggetti, ma con quelli con i quali abbiamo quotidianamente a che fare; non in modo irreale, ma nella realtà più piena.

Quello che succede oggi spesso nei gruppi o nelle società che accomunano gli uomini, è qualcosa che sovrasta la vita degli uomini stessi. L’unica cosa in comune tra gli individui così adunati è ciò che concerne il gruppo a cui prendono parte, ma tra di loro, tra individuo e individuo, non c’é alcuna relazione personale. La vita del gruppo a volte favorisce la nascita di tali relazioni mentre più spesso la rende difficile, ma tutto questo è lasciato al libero dispiegarsi dei rapporti tra persona e persona perché l’essere membro del gruppo non implica anche l’esistenza di relazioni. Leggiamo ora un tratto molto esplicativo a riguardo che assume un’urgenza sempre maggiore.

La conduzione dei gruppi, soprattutto nell’ultimo scorcio della storia umana, è più incline a reprimere l’elemento della relazione personale a favore di quello puramente collettivo. Dove questo elemento regna in modo incondizionato, o almeno in modo preponderante, l’uomo si sente sorretto dalla collettività, che lo solleva dalla solitudine, dall’angoscia del mondo, dallo smarrimento; e in questa funzione, essenziale per l’uomo moderno, l’interumano, la vita tra persona e persona, sembra indietreggiare sempre più di fronte al collettivo. Lo stare insieme collettivo è pensato per contenere e limitare l’inclinazione al rapporto personale. È come se coloro che sono riuniti nel gruppo dovessero insieme essere rivolti principalmente solo all’opera del gruppo, e solo secondariamente potessero rivolgersi ai compagni in un rapporto di tipo personale, tollerato dal gruppo.136

Ciò che sta succedendo nel catastrofico processo di massificazione è essenzialmente un aggregazione di individui. Non parliamo di un unico processo che si svolga cosmicamente, si tratta invece di una conformità di idee che coinvolgono tanto i piccoli gruppi quanto le grandi platee, coscienti o no di essere tali. «Non si libera la persona dal suo isolamento legandola a una comunione con gli altri esseri viventi che d’ora in poi vivono con lei: l’‘insieme di tutti’, esigendo l’‘insieme’ in ciascuno, finisce al contrario, logicamente e con successo, per ridurre, neutralizzare, devalorizzare e profanare ogni legame con ciò che è vivente. Si spengono gradualmente nell’essere personale, o almeno si anestetizzano, le delicate vibrazioni rivolte al rapporto con gli altri. Qui, l’isolamento dell’uomo non è superato; si è resi invece insensibili all’isolamento stesso [cors. mio]».137 Così accade che l’individuo ritenga impossibile la realtà della relazione e quindi della vera vita, che pensi di poter e, talvolta, dover vivere in un mondo di oggetti e di utilizzo in cui l’incontro con l’altro è un sentimentalismo ormai passato ed inadatto alla scientifica coscienza della vita di oggi. Ma la vita dell’uomo «non consiste soltanto in attività che hanno qualcosa per oggetto. Percepisco qualcosa. Provo qualcosa. Mi rappresento qualcosa. Voglio qualcosa. Sento qualcosa. Penso qualcosa».138 Al contrario, abbiamo ampiamente visto come essa sia profondamente segnata dalla relazionalità dell’incontro con il tu. Vivendo continuamente e soltanto con l’esso del qualcosa non facciamo che perdere il carattere a lei peculiare.

Buber ci parla di due fondamentali tipi di massificazione: quello derivante dall’entusiasmo per il momento storico e quello passivo in cui si sta dalla parte dell’opinione pubblica. Nel primo «la massa si attualizza, entra in azione e in essa si trasfigura, e la persona, sopraffatta da un’estasi inebriante, scompare nel movimento della vita pubblica».139 La folla in questo caso è un insieme di individui uniti a tal punto da sentirsi sentimentalmente legati (come gruppo), nell’impeto dell’entusiasmo comune. Buber ci fa l’esempio di due sconosciuti che si abbracciano come fratelli nei moti di piazza; più apertamente pensiamo si tratti anche di quelle collettività sterminate dei cortei partitici, di destra o sinistra, tipiche queste dell’Europa della prima metà del XX secolo. Nella massa passiva del secondo tipo, «la massa resta latente, non appare in quanto massa e, come è noto, si limita ad agire in modo tale che o vengo del tutto destituito dalla possibilità di formarmi un’opinione e di decidere, oppure, in un’offuscata interiorità, vengo per così dire convinto della non validità delle mie opinioni e decisioni, e al loro posto vengo fornito di un’opinione convalidata e autenticata. E con ciò non mi accorgo affatto degli altri, perché essi sono nella mia stessa condizione e la loro alterità è stata velata».140 Questo tipo di massificazione «ci convince con evidenza che l’uniformità è la realtà»;141 a noi pare in modo evidente che si tratti della massificazione oggi più pressante e minacciosa. Essa spesso si palesa in grosse platee di uniformati individui che la pensano allo stesso modo, un modo certo totalmente accettato e comodo da sostenere che non richiede responsabilità di scelta e particolare impegno personale. Ma un modo che contemporaneamente annienta le potenzialità individuali e ridimensiona la libertà fino a renderla solo una parvenza di libertà. In entrambe i tipi di massificazione «il fattore collettivo rivendica a sé la possibilità di fornire una sicurezza totale. Qui, nulla è immaginario, qui regna una realtà densa ed efficace, ‘il generale’ stesso sembra essere diventato realtà».142

Nella attuale vita comune degli uomini l’esso ha certamente preso il sopravvento sul tu. Questo significa che ci sono pochi eventi di relazione autentica in confronto alla normalità costituita di rapporti di interesse. Lo stato e l’economia sono i principali fautori di questa situazione in cui l’io è «nell’economia quello che utilizza i beni e i prodotti, nella politica quello che utilizza le opinioni e le aspirazioni».143 I grandi politici e i grandi imprenditori sono proprio coloro che vedono negli uomini non dei tu ma degli esso, ovvero dei centri di aspirazione, produzione e consumo, che vanno utilizzati secondo le loro capacità; se facessero altrimenti non potrebbero sostenere il pressante ritmo del successo. E nell’ambito privato, sia per quanto concerne il lavoro che per la suddivisione delle proprietà, l’organizzazione moderna sta ridimensionando sempre più gli spazi in cui si genera la relazione. Le macchine politica ed economica hanno ora iniziato a muoversi da sé, non sono più sotto controllo umano: «i loro portavoce ti addottrinano, dicendoti che l’economia ha assunto l’eredità dello stato; tu sai che non c’è null’altro da ereditare che la pullulante tirannia dell’esso, sotto la quale l’io, sempre più impotente contro la violenza, sogna ancora di essere il signore». É così che Buber ci rende ora evidente il carattere violento di questo stato di cose, non è un processo proposto a cui l’uomo possa decidere di sottrarsi in piena libertà. Oggi la massificazione si sta imponendo in modo sempre più subdolo e infimo. Non ci siamo dimenticati che la vita dell’uomo non può che tornare sempre di nuovo all’esso,144 non è questo che mettiamo in discussione, ma il fatto che la necessaria apertura all’accadimento relazionale sta diventando sempre più rara. «La volontà d’uso e la volontà di potenza dell’uomo agiscono naturalmente e legittimamente fintanto che sono congiunti alla volontà di relazione dell’uomo e ne sono sostenute. … L’economia, dimora della volontà d’uso, e lo stato, dimora della volontà di potenza, partecipano alla vita fintanto che partecipano allo spirito».145

Come detto, la massificazione dei nostri giorni è sempre più spesso quella del secondo dei due tipi sopra elencati. L’interesse che suscita negli individui è guidato da moventi di ordine primariamente economico; vorremmo quindi azzardarci a definirla: massificazione economica. Questo non significa che essa non riguardi direttamente anche la sfera politica, il contrario semmai visto che economia e politica sono sempre più legate. La caratteristica essenziale di questo enorme processo, ciò che dà valore all’uomo-aggregato-all’uomo, ciò che agli individui viene richiesto, è il consenso, la partecipazione. Per cercare consensi si utilizza la pubblicità che in modo diretto o indiretto ha lo scopo di convincere. La massificazione economica è governata da una precisa concezione utilitarista, in cui la pubblicità gioca un ruolo fondamentale.

La pubblicità è il segno evidente che la conversazione inautentica è divenuta strumento. Nella massificazione viene utilizzata per influenzare gli uomini per depredarli della loro opinione e conquistarne il consenso. Buber definisce propagandista146 il personaggio che si impone in questa maniera. Forzando l’opinione degli uomini «si vuole imporre all’altro se stessi, le proprie opinioni e il proprio comportamento, in modo tale che l’altro creda che il risultato spirituale dell’azione sia una sua visione, che l’influenza del primo ha solo fatto venire alla luce».147 Il propagandista non si interessa della persona in quanto tale, le qualità di cui essa è composta lo interessano nella misura in cui diventano strumento per asservirla. Continua quindi Buber parlando del propagandista politico: «questo genere di propaganda è legata per molti tratti alla costrizione, … non è null’altro che costrizione sublimata, … essa sottopone le anime a una pressione che ne permette l’illusione dell’autonomia. Lo strumento politico si realizza nell’effettivo annullamento del fattore uomo».148 E oggi sempre più, questo tipo di propaganda riguarda, come già detto, anche l’ambito economico in vista del quale tanta pubblicità diviene imposizione sublimata. Le imprese di convinzione propagandistiche si basano su presupposti sempre più lontani dalla realtà, per cui si rende necessario un lavoro sempre più grande al fine di ottenere lo scopo e per questo i mezzi utilizzati sono quelli della succube imposizione. «Il propagandista che s’impone non crede davvero neppure alla propria causa, perché non la crede capace di giungere a effetto con le proprie forze, senza i suoi metodi, il cui simbolo sono l’altoparlante e la pubblicità luminosa».149 Non importa che Buber si riferisse essenzialmente ad un tipo di propaganda caratterizzante il suo tempo. Con le riflessioni sopra proposte che valgono per la propaganda tipica della massificazione, sia essa politica o economica, egli ha colto nel segno.

Abbiamo visto sopra come nel primitivo la relazione fosse spontanea e che essa si palesasse anche in una più immediata spontaneità di linguaggio dove i caratteri dialogici erano evidenti. Negli uomini massificati di oggi avviene il contrario, la conversazione perde ancor più autenticità. In essa non si svolgono più conversazioni ma solo chiacchiere, in cui «in generale gli uomini non si parlano veramente, ma ognuno, pur rivolto all’altro, parla in realtà a un’istanza fittizia, la cui esistenza si esaurisce nell’ascoltarlo».150 Per quanto riguarda il dibattito pubblico le cose stanno ancora peggio: «ai nostri tempi, in cui è diventata rara la comprensione di ciò che è una conversazione autentica, un falso senso della pubblicità ne fraintende così profondamente le condizioni che si pensa di poter organizzare una tale conversazione davanti a un pubblico di uditori interessati con il supporto dei dovuti mezzi pubblicitari. Ma un dibattito pubblico, per quanto di alto ‘livello’, non può essere né spontaneo, né immediato, né senza riserve; una conversazione di tal genere, che si svolge come se fosse una recita, è irrimediabilmente separata dalla conversazione autentica».151 Abbiamo anche appurato che per entrare in relazione è essenziale aprirsi all’altro ed accoglierlo nella sua peculiare alterità. «Opposta a ciò sta la brama di utilizzazione da cui è ossessionato il ‘propagandista’ e il ‘suggeritore’, che si ostina nel suo rapporto con l’uomo come se fosse un rapporto con le cose, e per giunta cose con cui non entrerà mai in relazione, cose che con zelo assiduo deruba della loro distanza e della loro autonomia».152 Queste sono le figure chiave della massificazione economica, sono coloro che non hanno intenzione né interesse ad instaurare relazioni perché affascinati e conquistati dal mondo dell’esso. Dal loro interesse poi si diparte una catena di altri interessi per cui la mentalità che uniforma, quella che mostra come l’esso sia comodo ed adatto ad una vita deresponsabilizzata, trova larga diffusione in tutti coloro che vengono a tal fine massificati. Inoltre il propagandista e il suggeritore hanno bisogno di questa uniformità per poter continuare ad utilizzare il mondo, le cose e le persone, e a questo scopo devono derubare gli individui della loro libertà (soprattutto d’opinione) e massificarli. Non importa la coscienza individuale, l’interesse collettivo ha preso già vita propria: conviene così perché a tutti conviene così. Qualcuno potrebbe domandarsi: non sarebbe il caso di impegnarsi a comprende a pieno se davvero convenga così? La risposta è negativa perché tale indagine richiederebbe certo uno sforzo personale e, cosa ancor più dispendiosa per l’individuo della massa, trovata la verità, richiederebbe il sobbarcarsi le responsabilità e le scelte che dall’indagine apparirebbero imprescindibilmente di pertinenza della persona. Oggi invece tutto va bene perché così fanno tutti. Nessuno si sente davvero chiamato in causa fin quando può nascondersi nel gruppo, fino a quando può mimetizzarsi nella massa. «Lo zelo della nostra epoca per la collettività è una fuga dalla prova della comunità e dalla consacrazione alla comunità della persona, dal dialogo vitale nel cuore del mondo, che richiede l’impegno dell’io».153

Seguiamo ora brevemente un percorso critico adottato da Buber nei confronti della massificazione politica. Lo teniamo in particolare considerazione perché mette in evidenza caratteristiche della massificazione comuni anche a quella da noi definita economica. Il nostro filosofo parte fissando il concetto per cui «secondo il modo oggi corrente di considerare le cose, un modo politicamente determinato, nei gruppi è importante soltanto quanto si prefiggono e quanto realizzano».154 Per quanto riguarda le relazioni interpersonali, esse vengono favorite solo quando aiutano il gruppo nell’ottenimento del suo scopo. «Questo modo semplificato di considerare le cose non consente di comprendere il valore proprio ed essenziale di un gruppo; succede lo stesso quando giudichiamo una persona solo dalle sue opere e non per il modo in cui è fatta»;155 peggio ancora se alla realizzazione delle opere viene sacrificata l’esistenza stessa della persona oppure del gruppo. Neanche è possibile sacrificare l’esistenza per uno scopo futuro o per un successo passato, l’intera esistenza ha lo stesso valore che non varia nel tempo. Infatti Buber ci conferma che se si agisce insieme ma senza essere comunità per conseguire un fine qualsiasi, c’è solo un’attività comune ma la comunità non esiste: «la collettività non è solidarietà, è affastellamento: impacchettati insieme, individuo vicino a individuo, insieme armati, insieme allineati; fra uomo e uomo tanta vita quanta basta a infiammare il passo di marcia».156 Mentre la comunità si compone di persone che stanno insieme in relazioni reciproche.

Ora certamente bisogna riconoscere che quest’aggregazione di individui che noi chiamiamo massificazione economica, alla sua schiera indefinita di membri non ne aggiunge altri in modo automatico, come se gli uomini fossero impotenti al cospetto della sua azione. In realtà succede il contrario, sono gli uomini che si lasciano massificare benché spesso accada che non vedano altre possibilità. La spiegazione di questo eccezionale movimento di volontà individuali ha sicuramente diverse motivazioni; quelle che riguardano la deresponsabilizzazione e l’alleggerimento della vita, di cui abbiamo parlato, sono accompagnate da ciò che riguarda l’immagine. Se la nostra società ha preso il nome di società dell’immagine probabilmente è per il motivo che ci suggerisce Buber, essa «ha origine nel rovescio dell’interumano stesso: nella dipendenza reciproca degli uomini. Non è cosa facile venir confermato dall’altro nel proprio essere; così ci viene in soccorso l’apparire».157 Subito dopo il nostro filosofo congiunge la motivazione della facilità di vita con quella dell’immagine affermando che oggi c’è la tendenza a vivere badando molto alle impressioni che si suscitano negli altri; resta tuttavia chiaro che «accondiscendervi è la vigliaccheria propria dell’uomo, resistervi è il coraggio che gli è proprio».158 L’essere umano, in ogni caso, non è mai definitivamente asservito dall’immagine che suscita, ha sempre la possibilità di lottare contro il desiderio di apparire, per diventare quindi autentico. Questa lotta non è detto che porti dei risultati prontamente, nondimeno deve essere intrapresa. È la via che può condurre all’autenticità dell’essere e staccarci dalla falsità dell’immagine.

L’uomo che alleggerisce la propria vita e che si fa accettare dagli altri non per ciò che è ma per come appare, è quell’uomo che si lascia pubblicitariamente trasportare. Egli non dirige più la sua vita perché non ne è più responsabile, ed egli non dirige più la sua vita perché non è quello che è, ma quello che gli altri vogliono che lui sia. Lui così appare come gli altri lo vogliono.

Chi ha potere di dirigere la massa, chi comanda o converge la pubblicità e quindi le opinioni, è colui che con gli stessi mezzi con cui convince e persuade, fa crede a chi ha persuaso e convinto che l’adesione appena consegnata (e sempre di nuovo consegnata), rappresenti la migliore soluzione anche e soprattutto per se stesso. Per questo chi è massificato spesso ne è incosciente e pensa invece di essere libero. Buber ci spiega tutto ciò con poche parole che sono, al solito, estremamente espressive e coinvolgenti:

L’uomo nella massa è come un fuscello stretto in un fascio che galleggia sull’acqua in balia della corrente o che, con l’aiuto di un bastone, è mosso dalla riva, da una parte all’altra. Il fuscello non ha alcun movimento proprio, anche se talvolta gli sembra di muoversi per volontà propria, così come il fascio con cui galleggia, in cui vi è solo un’illusione di movimento autonomo. … Certamente la massa è il contrario della libertà.159

Abbiamo appurato che nell’organizzazione sociale gli uomini differiscono da altre specie viventi per il fatto che riconoscano l’un l’altro una funzione, quindi che si confermino a vicenda nelle peculiari caratteristiche di ognuno.160 Tuttavia la massificazione sta sconvolgendo anche questo aspetto della vita sociale, li dove la società lavorativa del capitalismo sfrenato uniforma le risorse umane in categorie grazie alle quali se una risorsa è impossibilitata a lavorare può facilmente essere sostituita da un’altra risorsa dello stesso tipo. É quello che succede ai primitivi con gli oggetti che scoprono di poter utilizzare: «l’uomo pone a distanza le cose che ha preso per usarle, le consegna a un’autonomia in cui la funzione acquista durata, le riduce, le potenzia a portatrici della funzione»,161 la cosa che ci appare catastrofica è che l’uomo ora riesce a porre a distanza anche l’altro uomo, non più soltanto gli oggetti. La risorsa umana prende sempre di più la parvenza di una risorsa qualsiasi, L’uomo diventa una cosa produttiva, elemento produttivo di una catena di elementi produttivi. Estraniato dal suo aspetto relazionale l’uomo è divenuto un oggetto; certo un oggetto che non ha un funzionamento matematicamente determinato, ma che per grosse linee può essere considerato, al pari di un automa, ovvero un elemento che sollecitato in un certo modo risponde nel modo desiderato. In questo senso può essere anche fortemente influenzato nelle sue aspirazioni, sfruttato nella sua produttività e nel consumo dei beni prodotti.

2.3. Prospettive per una società non massificata

In poche righe di estremo interesse Buber prende in considerazione l’imperativo categorico kantiano secondo cui non si deve pensare e trattare l’altro solo come mezzo, ma sempre contemporaneamente anche come fine. La dignità umana è ciò che accomuna l’imperativo morale kantiano e la riflessione antropologica del nostro filosofo: «l’uomo, antropologicamente parlando, non è un essere esistente nell’isolamento, ma nella pienezza della relazione tra l’uno e l’altro: solo l’azione reciproca rende possibile la comprensione adeguata dell’umanità».162 La dignità umana che per Kant è la base da cui deve scaturire il retto agire, per Buber è il punto decisivo nel mostrare l’essenziale carattere relazionale del genere umano. L’azione reciproca che sia vera relazione è il luogo dove l’uomo esiste pienamente, vive pienamente.

La massa annienta gli individui che ne prendono parte, invece «una vera comunità, un vero essere comune si realizzano solo nella misura in cui vi sono veri singoli, nella cui esistenza responsabile la dimensione pubblica si rinnova».163 Sappiamo che «contro le forze naturali l’uomo da sempre si pone come quell’essere autonomamente provvisto di uno strumento durevole, che costruisce le proprie associazioni a partire da singole vite autonome».164 La relazione e dunque il segno caratteristico dell’essere umano, è questo l’aspetto per mezzo del quale l’essere umano può essere compreso e contemporaneamente l’aspetto che rende vera e reale la vita degli uomini. Nella relazione deve essere cercata ed instaurata ogni forma di associazione fra più persone, in questo modo si può evitare l’inautenticità della massa. Infatti la rinuncia alla massificazione consiste nella rinuncia all’oggettivazione di se stessi, consiste nella volontà di rimanere fermamente signori della propria responsabilità, nel voler essere ciò che si è e non apparire qualcos’altro. Questo non significa che si deve abbandonare ogni rapporto sociale, ma soltanto quelli inautentici in cui si smarrisce la propria personalità in una individualità che rende tutti uguali; meglio ancora è trasformare questi rapporti in veri incontri relazionali. Buber ci ammonisce contro la distanza presa da Kierkegaard nei confronti di tutto quanto riguarda il rapporto con gli altri: «anche ammesso che la massa sia il contrario della verità, essa è solo uno stato particolare della dimensione pubblica».165 Non dobbiamo evitare di avere relazioni nella società, non dobbiamo evitare di impegnarci in essa; importante è che abbiamo sempre relazioni autentiche. In una serie di importanti affermazioni Buber ci chiarisce ancora meglio quale sia la differenza fra l’uomo della massa e quello della dimensione pubblica.

Certamente la massa è il contrario della libertà. … Si è resi affastellati nella massa e si crede ciò che essa crede, si vuole ciò che essa vuole, e si percepisce ancora solo ottusamente di essere così.

Completamente diverso è l’uomo che vive con la dimensione pubblica. Non è un affastellamento, ma un legame. … Se la massa che lo circonda è estranea e recalcitrante alla decisione, egli non l’accetta: dal luogo in cui si trova, elevato o umile, con le forze in suo possesso (consolidata autorità o flebile parola) fa la sua parte per sottrarre la massa a se stessa. … Anche quando deve parlare alla massa cerca la persona, perché un popolo può trovare e ritrovare la sua verità solo attraverso le persone, attraverso la loro conferma.166

Ognuno di noi ha il compito di opporsi alla massificazione. Come abbiamo visto ciò che ci concerne fare è solamente ciò che abbiamo la possibilità di fare. Dal luogo in cui ci troviamo elevato o umile, con consolidata autorità o flebile parola tutti abbiamo la possibilità e dobbiamo operare. Per prima cosa dobbiamo evitare di lasciarci affastellare dalla massa, poi dobbiamo agire in modo che nel nostro dominio d’azione, sottraiamo la massa a se stessa. Dobbiamo in questo senso portare la parola della verità, il segno che si può vivere una vita autentica e che le responsabilità ad essa collegate non devono spaventarci perché è solo attraverso di loro che possiamo giungere davvero ad essere noi stessi evitando di dover dare al mondo false immagini.

Gli uomini che lottano per realizzare la relazione in contrapposizione alla massa, sanno che non potranno mai fare a meno dei rapporti di utilizzo propri dell’esso, ma non gli si abbandonano: «nella vita collettiva non fanno niente di diverso da ciò che, nella vita personale, fanno gli uomini che, pur sapendosi incapaci di realizzare schiettamente il tu, lo attestano ogni giorno nell’esso, secondo la giusta misura di quel giorno, tracciando ogni giorno il nuovo limite — scoprendo il limite».167 La cosa più importante è dunque questa: lo spirito capace di dir tu rimanga vitale ed autentico, non si lasci mai conquistare dall’esso e cerchi, giorno dopo giorno, di realizzarsi instaurando quante più relazioni possibili; «solo per la sua presenza in ogni lavoro affluiscono significato e gioia, in ogni proprietà rispetto e spirito di sacrificio — se non pienamente, almeno in modo sufficiente. Solo per la presenza dello spirito tutto ciò che è lavorato e posseduto, pur rimanendo consegnato al mondo dell’esso, può trasfigurarsi in ciò che sta di fronte e nella rappresentazione del tu».168 In questo modo anche «le strutture della vita collettiva dell’uomo traggono vita dalla pienezza della potenza di relazione, che ne penetra i membri, e traggono forma corporea dal legame di questa potenza nello spirito».169 Dove c’è relazione c’è vita, se essa è presente non si è abbandonati al mondo fittizio dell’esso.

La solidarietà e l’amore caratterizzano l’atto relazionale, ma a chi accusa la filosofia dialogica di essere troppo sentimentale si può rispondere che non è così e nella dimostrazione di tale risposta, con Buber, mettiamo in evidenza anche i caratteri della comunità che qui vogliamo definire vera in contrapposizione alla massa: «la vera comunità non nasce dal fatto che le persone nutrono sentimenti reciproci (anche se non senza questi), ma da queste due cose: che tutti siano in reciproca relazione vivente con un centro vivente, e che siano tra loro in una vivente reciprocità».170 Sia la relazione reciproca tra due individui, sia la vera comunità — che si compone di relazioni reciproche, comprendono i sentimenti senza però nascere da essi.

Per comprendere meglio il rapporto che intercorre tra i sentimenti e la relazione, occorre tracciare una differenza anche fra i sentimenti e l’amore, dal quale può nascere la relazione. Per fare questo prendiamo spunto da una affascinante riflessione di Buber su Gesù perché l’amore di Gesù è il puro amore relazionale.

Il sentimento di Gesù verso l’indemoniato è diverso dal sentimento verso il suo discepolo prediletto; ma l’amore è uno solo. I sentimenti si «hanno», l’amore accade. I sentimenti dimorano nell’uomo, ma l’uomo dimora nel suo amore. Questa è la realtà, non una metafora: l’amore non coinvolge l’io, come se per l’amore il tu non fosse che il «contenuto», l’oggetto; l’amore è tra l’io e il tu. … L’amore è un’operare mondano. Per chi sta nell’amore e in esso guarda, gli uomini si liberano dal groviglio dell’ingranaggio; i buoni e i cattivi, i savi e i folli, i belli e i brutti, l’uno dopo l’altro diventano per lui reali, diventano un tu, cioè un essere liberato, fuori dal comune, unico ed esistente di fronte a lui. In modo meraviglioso sorge, di volta in volta, l’esclusività — e così l’uomo può operare, aiutare, guarire, educare, sollevare, redimere. L’amore è responsabilità di un io verso un tu.171

L’amore è quindi una entità in cui l’aspetto sentimentale è soltanto secondario. É la capacita di dire tu in ogni momento della vita ed ad ogni tu. Certamente nella relazione con ogni singolo tu ci saranno dei sentimenti di volta in volta diversi (come quelli di Gesù verso l’indemoniato e verso il suo discepolo prediletto), ma l’amore rimane ugualmente presente (Gesù è stato in grado di rivolgere il vero tu della relazione al di là dei sentimenti). Dire che l’amore accade coincide con l’affermare che la relazione accade: questo avvenimento lo si può preparare con la propria predisposizione, ma non lo si può creare. L’uomo dimora nell’amore nel senso che l’uomo dimora in quell’evento relazionale che si realizza tra io e tu, che l’essenza dell’uomo si compone della sua anima, del suo corpo e della sua relazionalità; non esiste amore tra io ed io. Sappiamo già che «non c’è amore per se stessi che non sia autoillusione (perché la parte che ama, che è quella che conta, ama solo l’altro, non essenzialmente se stessa), e che tuttavia non c’è amore se non si è e non si rimane se stessi».172 Essere se stessi per poter vivere l’amore è fondamentale, ma non si vive l’amore restando solo in se stessi, bisogna andare verso il tu.173

Anche la solitudine è importante per la relazione, è infatti positiva in un duplice senso. In prima analisi la solitudine come liberazione dai rapporti di sperimentazione e utilizzazione: «essa è sempre necessaria per giungere all’atto della relazione in generale».174 In secondo luogo la solitudine come ricovero, riposo dell’anima. Essa viene da Buber intesa come il momento in cui l’uomo riconduce a Dio tutte le relazioni mondane, al tu eterno tutti i tu. «Ma non può mai volerci strappare agli esseri, né può impedirci di entrare in relazione con loro, perché allora andrebbe contro la sua stessa legge e ci sbarrerebbe le porte della finitezza invece di renderci capaci, come è suo compito, di tenerle aperte».175 Questa solitudine è il riposo dalle relazioni mondane, essa è necessaria a tener viva la nostra partecipazione all’esistenza, a restare fedeli alla relazione con Dio; non ci allontana dalle altre relazioni, ci permette unicamente di dare loro compimento.

La comunità è il luogo dove l’uomo incontra l’uomo, ed è anche fondamentale per la realizzazione della vita di questo; «la relazione con l’uomo è la parabola autentica della relazione con Dio: in essa l’appello vero riceve risposta. Solo che, nella risposta di Dio, ogni cosa, l’universo intero si rivela come linguaggio».176 Dio non vuole che ci dedichiamo a lui se non per mezzo del mondo, lui è il Tu eterno e lo possiamo raggiungere solo tramite il fare ed il non fare nei confronti degli altri tu che incontriamo nel mondo. Il nostro operare si deve svolgere nella vita quotidiana. «A vivere nel monologo non è il solitario, ma colui che non è capace di rendere sostanzialmente reale la società all’interno della quale, per destino, si muove. … Colui che vive nel dialogo riceve, nel consueto scorrere delle ore, qualcosa di detto e sente che tocca a lui rispondere».177 Ognuno di noi è legato ad un popolo, ad una famiglia, ad un società, ad una comunità e ad un gruppo professionale. Chi riconosce che tutti questi ambiti societari lo influenzano a tal punto da essere una parte fondamentale della sua esistenza, si rende conto di essere solo una parte di un intero mondo, ma è anche consapevole che tramite questi ambiti societari trova davvero la realizzazione della sua vita.

É fondamentale rimanere costantemente in ascolto dei tu che ci vengono rivolti ogni giorno ed in ogni situazione. «Per colui che vi presta attenzione ogni ora concreta assegnata alla persona, con il suo contenuto mondano e destinale, è linguaggio».178 Tuttavia è come se l’apparato della nostra civiltà ci preservi dal prestare attenzione al linguaggio che ci viene incontro ogni giorno, impedendoci di tendere l’orecchio. «Infatti colui che presta attenzione non riuscirebbe più, come è abituato a fare, a ‘venire a capo’ in breve tempo della situazione che gli si presenta in questo istante: gli sarebbe richiesto di accoglierla e di entrare in essa».179 Così sarebbe certo aperto al tu, ma perderebbe tutte le comodità e le false sicurezze del mondo dell’esso. Ma è proprio questo che ogni persona umana deve sempre e di nuovo fare per giungere al compimento della propria vita. Non si tratta di qualcosa di spaventoso, né tanto meno di inadatto: ognuno deve perché può. Che l’uomo sia l’uomo lo si deve prima di tutto a questo.

Molte persone credono che oggi ci siano troppi idoli per poter creare delle relazioni autentiche e vivere veramente. Ogni uomo crede necessariamente in qualcosa, sia essa «la sua nazione, la sua arte, il potere, il sapere, il far quattrini»,180 un qualche idolo che spesso si interpone tra l’uomo e Dio. Bisogna però notare che il rapporto dell’uomo con il suo idolo, qualsiasi esso sia, non è uguale a quello dell’uomo con Dio. Il rapporto con l’idolo è caratterizzato dall’esperire, dall’utilizzare un oggetto di godimento. «Solo questo rapporto può occultare la vista di Dio: il rapporto con il mondo dell’esso che non si lascia penetrare; la relazione che dice tu la apre sempre di nuovo».181 Il cambiamento necessario a chi è così dedito alla realizzazione e al godimento del suo idolo non consiste semplicemente nel porre Dio al posto del denaro o del potere. Il mutamento richiesto è una conversione di vita. Non può di punto in bianco invocare Dio allo stesso modo in cui invocava il danaro, così facendo resterebbe nella irrealtà propria del mondo dell’esso. Per convertirsi c’è bisogno di vivere nella solidarietà della relazione, c’è bisogno di vivere nel mondo dell’esso ma solo nella misura strettamente necessaria avendo sempre la capacità e la forza di dire tu. Non bisogna disdegnare la patria, né non gioire delle proprie capacità artistiche, né rigettare il potere, né disdegnare il sapere, né sperperare il danaro. Tutti questi sono dei mezzi attraverso i quali potremmo avere la possibilità di rivolgere i nostri tu, ma non potranno mai essere il fine del nostro agire. Sono mezzi che in qualche modo ancora non detto, costituiranno gli strumenti di un fare e non fare, dire e non dire con il quale risponderemo alle chiamate dei tu che incontreremo.

3. Bibliografia

3.1. Letteratura primaria in italiano

  • M. Buber, Io e tu in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, Milano, San Paolo, 19973.
  • M. Buber, Dialogo in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, Milano, San Paolo 19973.
  • M. Buber, La domanda rivolta al singolo in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, Milano, Edizioni San Paolo, 19973.
  • M. Buber, Il problema dell’uomo, a cura di F. S. Pignagnoli, Bologna, Pàtron, 1972.
  • M. Buber, Distanza originaria e relazione in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, Milano, Edizioni San Paolo, 19973.
  • M. Buber, Elementi dell’interumano in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, Milano, Edizioni San Paolo, 19973.

3.2. Letteratura primaria in tedesco

  • M. Buber, Ich und Du in Das Dialogische Prinzip, Heidelberg, Lambert Schneider, 19947.
  • M. Buber, Zwiesprache in Das Dialogische Prinzip, Heidelberg, Lambert Schneider, 19947.
  • M. Buber, Die Frage an den Einzelnen in Das Dialogische Prinzip, Heidelberg, Lambert Schneider, 19947.
  • M. Buber, Das Problem des Menschen, Heidelberg, Lambert Schneider, 1948.
  • M. Buber, Urdistanz und Beziehung, Lambert Schneider, Heidelberg 19784.
  • M. Buber, Elemente des Zwischenmenschlichen in Das Dialogische Prinzip, Heidelberg, Lambert Schneider, 19947.

3.3. Letteratura secondaria

  • M. Buber, Briefwechsel aus sieben Jahrzehnten I-III, a cura di Grete Schaeder, Heidelberg, Lambert Schneider, 1972, 1973, 1975.
  • H. Kohn, Martin Buber. Sein Werk und sein Zeit, Köln, Melzer, 1961.
  • P. Vermes Martin Buber, trad. ital. di P. Stefani, Milano, Edizioni San Paolo, 1990.
  • P. A. Schilpp, e M. Friedman (a cura di), Martin Buber, Stuttgart, Kohlhammer, 1963.

  1. M. Buber, Il problema dell’uomo, a cura di Fabio Sante Pignagnoli, Bologna, Pàtron, 1972, p. 200. ↩︎

  2. M. Buber, Il problema dell’uomo, pp. 201-202. ↩︎

  3. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 202. ↩︎

  4. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 203. ↩︎

  5. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 204. ↩︎

  6. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 205. ↩︎

  7. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 206. ↩︎

  8. M. Buber, Il problema dell’uomo, pp. 206-207. ↩︎

  9. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 208-209. ↩︎

  10. M. Buber, La domanda rivolta al singolo in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, Milano, Edizioni San Paolo, 19973, p. 270. ↩︎

  11. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 270. ↩︎

  12. M. Buber, Distanza originaria e relazione in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, Milano, Edizioni San Paolo, 19973↩︎

  13. M. Buber, Io e tu in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, Milano, San Paolo, 19973, p. 72. ↩︎

  14. M. Buber, Io e tu, p. 72. ↩︎

  15. M. Buber, Io e tu, p. 75. ↩︎

  16. M. Buber, Io e tu, p. 75. ↩︎

  17. M. Buber, Io e tu, p. 76. ↩︎

  18. M. Buber, Io e tu, p. 77. ↩︎

  19. M. Buber, Io e tu, p. 78. ↩︎

  20. M. Buber, Io e tu, p. 59. ↩︎

  21. M. Buber, Io e tu, p. 59. ↩︎

  22. Vedi paragrafo “L’io quale essere unitario presente all’incontro con l’alterità”. ↩︎

  23. M. Buber, Io e tu, p. 103. ↩︎

  24. M. Buber, Io e tu, p. 60. ↩︎

  25. M. Buber, Io e tu, p. 61. ↩︎

  26. M. Buber, Io e tu, p. 62. ↩︎

  27. M. Buber, Io e tu, p. 62. ↩︎

  28. M. Buber, Io e tu, p. 63. ↩︎

  29. M. Buber, Io e tu, p. 64. ↩︎

  30. M. Buber, Io e tu, p. 71. ↩︎

  31. M. Buber, Io e tu, p. 96. ↩︎

  32. M. Buber, Io e tu, p. 111. ↩︎

  33. M. Buber, Io e tu, p. 115. ↩︎

  34. M. Buber, Io e tu, p. 117. ↩︎

  35. M. Buber, Io e tu, p. 130. ↩︎

  36. M. Buber, Io e tu, p. 123. ↩︎

  37. M. Buber, Io e tu, p. 104. ↩︎

  38. M. Buber, Io e tu, p. 105. ↩︎

  39. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 155. ↩︎

  40. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 233. ↩︎

  41. M. Buber, Io e tu, p. 59. ↩︎

  42. M. Buber, Dialogo in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, Milano, San Paolo 19973, p. 207. ↩︎

  43. M. Buber, Io e tu, p. 125. ↩︎

  44. M. Buber, Io e tu, p. 121. ↩︎

  45. M. Buber, Io e tu, p. 124. ↩︎

  46. M. Buber, Distanza originaria e relazione, p. 288. ↩︎

  47. M. Buber, Distanza originaria e relazione, p. 288. ↩︎

  48. M. Buber, Elementi dell’interumano in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, Milano, Edizioni San Paolo, 19973, p. 304. ↩︎

  49. M. Buber, Distanza originaria e relazione, p. 289. ↩︎

  50. M. Buber, Distanza originaria e relazione, p. 290. ↩︎

  51. M. Buber, Distanza originaria e relazione, p. 291. ↩︎

  52. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 300. ↩︎

  53. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 301. ↩︎

  54. M. Buber, Io e tu, p. 67. ↩︎

  55. M. Buber, Io e tu, p. 113. ↩︎

  56. M. Buber, Io e tu, p. 113. ↩︎

  57. M. Buber, Io e tu, p. 113. ↩︎

  58. M. Buber, Io e tu, p. 114. ↩︎

  59. M. Buber, Io e tu, p. 131. ↩︎

  60. M. Buber, Dialogo, p. 208. ↩︎

  61. M. Buber, Dialogo, p. 221. ↩︎

  62. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 265. ↩︎

  63. M. Buber, Dialogo, p. 195. ↩︎

  64. M. Buber, Dialogo, p. 195. ↩︎

  65. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 273. ↩︎

  66. M. Buber, Distanza originaria e relazione, p. 289. ↩︎

  67. M. Buber, Dialogo, p. 201. ↩︎

  68. M. Buber, Dialogo, p. 202. ↩︎

  69. M. Buber, Dialogo, p. 203. ↩︎

  70. M. Buber, Dialogo, p. 207. ↩︎

  71. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 259. ↩︎

  72. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 259. ↩︎

  73. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 275. ↩︎

  74. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 258. ↩︎

  75. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 260. ↩︎

  76. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 260. ↩︎

  77. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, pp. 260-261. ↩︎

  78. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 261. ↩︎

  79. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 262. ↩︎

  80. M. Buber, Il problema dell’uomo, pp. 110-111. ↩︎

  81. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 252. ↩︎

  82. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 252. ↩︎

  83. M. Buber, Io e tu, p. 90. ↩︎

  84. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 305. ↩︎

  85. M. Buber, Io e tu, pp. 98-99. ↩︎

  86. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 194. ↩︎

  87. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 194. ↩︎

  88. M. Buber, Dialogo, p. 206. ↩︎

  89. M. Buber, Dialogo, p. 221. ↩︎

  90. M. Buber, Dialogo, p. 223. ↩︎

  91. M. Buber, Dialogo, p. 223. ↩︎

  92. M. Buber, Dialogo, p. 223. ↩︎

  93. M. Buber, Dialogo, p. 224. ↩︎

  94. M. Buber, Dialogo, p. 225. ↩︎

  95. M. Buber, Dialogo, pp. 208-209. ↩︎

  96. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 273. ↩︎

  97. M. Buber, Io e tu, p. 114. ↩︎

  98. M. Buber, Io e tu, p. 97. ↩︎

  99. M. Buber, Dialogo, p. 199. ↩︎

  100. M. Buber, Dialogo, p. 196. ↩︎

  101. M. Buber, Dialogo, p. 187. ↩︎

  102. M. Buber, Dialogo, p. 188. ↩︎

  103. M. Buber, Dialogo, p. 189. ↩︎

  104. M. Buber, Dialogo, p. 188. ↩︎

  105. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 309. ↩︎

  106. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 208. ↩︎

  107. M. Buber, Dialogo, p. 192. ↩︎

  108. M. Buber, Dialogo, p. 193. ↩︎

  109. Vedi paragrafo “L’io quale essere unitario presente all’incontro con l’alterità”. ↩︎

  110. M. Buber, Dialogo, p. 194. ↩︎

  111. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 304. ↩︎

  112. M. Buber, Dialogo, p. 194. ↩︎

  113. M. Buber, Dialogo, p. 205. ↩︎

  114. M. Buber, Dialogo, p. 206. ↩︎

  115. M. Buber, Dialogo, p. 207. ↩︎

  116. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 295. ↩︎

  117. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 295. ↩︎

  118. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 297. ↩︎

  119. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 297. ↩︎

  120. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 298. ↩︎

  121. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 311. ↩︎

  122. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 311. ↩︎

  123. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 311. ↩︎

  124. M. Buber, Elementi dell’interumano, pp. 311-312. ↩︎

  125. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 312. ↩︎

  126. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 313. ↩︎

  127. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 312. ↩︎

  128. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 313. ↩︎

  129. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 273. ↩︎

  130. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 274. ↩︎

  131. M. Buber, Io e tu, p. 137. ↩︎

  132. M. Buber, Io e tu, p. 83. ↩︎

  133. M. Buber, Io e tu, p. 83. ↩︎

  134. M. Buber, Io e tu, pp. 81-82. ↩︎

  135. M. Buber, Io e tu, p. 113. ↩︎

  136. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 296. ↩︎

  137. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 203. ↩︎

  138. M. Buber, Io e tu, p. 60. ↩︎

  139. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 254. ↩︎

  140. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 254. ↩︎

  141. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 254. ↩︎

  142. M. Buber, Il problema dell’uomo, p. 202. ↩︎

  143. M. Buber, Io e tu, p. 92. ↩︎

  144. Vedi paragrafo “Io-tu e io-esso: antinomia necessaria”. ↩︎

  145. M. Buber, Io e tu, p. 93. ↩︎

  146. Non in senso strettamente pubblicitario, ma in un senso che concerne in modo diretto il propagandista politico e poi riguarda ogni altro tipo di propagandista. ↩︎

  147. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 307. ↩︎

  148. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 308. ↩︎

  149. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 308. ↩︎

  150. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 303. ↩︎

  151. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 314. ↩︎

  152. M. Buber, Distanza originaria e relazione, p. 290. ↩︎

  153. M. Buber, Dialogo, p. 218. ↩︎

  154. M. Buber, Dialogo, p. 217. ↩︎

  155. M. Buber, Dialogo, p. 217. ↩︎

  156. M. Buber, Dialogo, p. 218. ↩︎

  157. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 301. ↩︎

  158. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 301. ↩︎

  159. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 255. ↩︎

  160. Vedi paragrafo “L’io quale essere unitario presente all’incontro con l’alterità”. ↩︎

  161. M. Buber, Distanza originaria e relazione, p. 287. ↩︎

  162. M. Buber, Elementi dell’interumano, p. 309. ↩︎

  163. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 276. ↩︎

  164. M. Buber, Distanza originaria e relazione, p. 288. ↩︎

  165. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 251. ↩︎

  166. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 256. ↩︎

  167. M. Buber, Io e tu, p. 93. ↩︎

  168. M. Buber, Io e tu, p. 94. ↩︎

  169. M. Buber, Io e tu, p. 93. ↩︎

  170. M. Buber, Io e tu, p. 90. ↩︎

  171. M. Buber, Io e tu, pp. 69-70. ↩︎

  172. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 233. ↩︎

  173. Per quanto concerne il parallelismo fra dialogo e amore, Buber sembra dare due versioni discordanti. Vedi M. Buber, Io e tu, pp. 69-70. e M. Buber, Dialogo, p. 207. L’interpretazione che qui si propone è che il dialogo è un atto che avviene, al pari dell’amore, fra due persone. Il dialogo, a differenza dell’amore può prendere vita anche tra due persone che non hanno alcuna intenzione positiva l’una nei confronti dell’altra, ad esempio tra due avversari. In altre parole, l’amore è sempre composto di relazione e porta un operare positivo come, l’aiutare, il guarire, l’educare, il sollevare, il redimere. Il dialogo invece, è quell’immediata comunicazione fra io e tu che può avvenire anche senza l’amore, ovvero senza un interesse positivo reciproco, ma pur sempre nella reciprocità della relazione. ↩︎

  174. M. Buber, Io e tu, p. 134. ↩︎

  175. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, p. 245. ↩︎

  176. M. Buber, Io e tu, p. 134. ↩︎

  177. M. Buber, Dialogo, p. 206. ↩︎

  178. M. Buber, Dialogo, p. 202. ↩︎

  179. M. Buber, Dialogo, p. 202. ↩︎

  180. M. Buber, Io e tu, p. 135. ↩︎

  181. M. Buber, Io e tu, p. 135. ↩︎