Corsi e ricorsi post-storici. Prontuario di nozioni-base per il discernimento dell'attuale

Introduzione

«Riflettere oggi sull’attualità storica non è affatto un sostituire alla ricerca intorno all’eterno una ricerca intorno all’effimero», ma corrisponde, come ha scritto Augusto Del Noce, «al senso preciso di una frase, spesso ripetuta, che il compito che oggi resta al filosofo è quello della decifrazione di una crisi».1 Tale compito si rileva tanto più urgente dal momento che sembrano declinate le pretese onnicomprensive di quelle ideologie che, fino a ieri, avevano mosso l’azione politica e alimentato i sogni di auto-redenzione dell’umanità.

In crisi sono sia la ragione indagante sia la ragione emancipante, in un mondo che annichilisce ogni certezza, delineando il nostro come tempo eminentemente incerto. In più, un sentimento diffuso di epigonismo fa da sfondo tanto alla speculazione dei pensatori quanto ai vissuti personali. La crisi non interessa tanto una specifica ideologia, quanto la matrice illuminista a fondamento di tutte le ideologie, quella matrice narrativa e progressiva che considerava la storia come segnata da un necessario ed indefettibile progresso. Nella postmodernità si coglie la presa di congedo dalla modernità innanzitutto nel senso di un sottrarsi alle sue logiche di sviluppo.2 Si può dire che viviamo il tramonto di un’intera epoca in quanto viviamo la fine di quelle logiche. Tramontata quell’illusione, la storia non pare più direzionata verso il meglio e il valore stesso del nuovo si dissolve nella misura in cui s’infrange il pregiudizio, assoluto quanto immotivato, che novus corrisponda sempre e comunque a melius. Contestualmente, la consapevolezza della decadenza sembra essere divenuta l’unica prospettiva condivisa.

Proprio il tema della decadenza, tuttavia, rievoca un modello alternativo di storiografia, non progressivo, non trionfalista, che si rifà a Vico, piuttosto che a Marx o al Positivismo. Alla sua teoria dei ricorsi storici sottostà infatti la convinzione che la civiltà non debba essere considerata come una conquista definitiva, ma che le sia insita la possibilità di degradarsi e degenerare. «È un fenomeno così inquietante, che generalmente viene rimosso […], così come viene rimossa la morte»,3 ha scritto, a tal proposito, Vittorio Hösle.

Post-storia

Per decifrare la crisi non servono i teorici dello sviluppo fatale. Smentiti dai fatti, essi figurano come falsi profeti di ventura. Il futuro che doveva essere non è stato e il presente pare più che mai angustiante. Cosicché, dopo il crollo del comunismo, la decadenza sembra essere divenuta la cifra del nostro tempo. Essa si riferisce alla generale caduta delle tensioni progettuali e ideali, non solo politico-ideologiche, ma anche religiose e metafisiche; tant’è che il post‒moderno dà luogo non tanto ad un’inversione di rotta, quanto ad una dissoluzione. Pertanto, chi vive la condizione postmoderna «sente di venire dopo la totalità della storia, con le sue origini sacre e mitologiche, la sua stretta causalità, la teleologia segreta, il narratore onnisciente e trascendente e la promessa di un lieto fine, in chiave cosmica o storica».4

L’idea di modernità sembra aver «perso la propria forza di liberazione e di creazione».5 La razionalità non ha affatto trionfato sui vecchi ordini; anzi, la barbarie, il male nella sua accezione più impermeabile al concetto, non è stata affatto vinta e ha prevalso non malgrado la modernità, ma a causa sua. Talché, come ha sostenuto J. F. Lyotard, «non è l’assenza di progresso, ma lo sviluppo scientifico, artistico, economico e politico che ha reso possibili le guerre totali, i totalitarismi, la disoccupazione, la deculturazione generale».6

La storia ha seguito sviluppi imprevisti. La strada non appare più diritta, ma involuta e ritorta. Quanto all’espressione «fine della storia», oggi di moda, essa si pone come mestamente conclusiva e nello stesso tempo disorientante, equivalendo a rottura dell’unità, e non a fine pura e semplice della storia. Né vale più, per gli storiografi postmoderni, l’idea di un unico tempo storico lineare, una freccia che dal passato va verso il futuro. Prevale semmai una nozione plurale, come se esistesse una molteplicità di tempi diversi, corrispondenti a diverse epoche, culture, situazioni, contesti, che si intrecciano e stratificano. «Ci si è resi conto — scrive Vattimo — che la storia degli eventi ‒ politici, militari, dei grandi movimenti di idee ‒ è solo una storia fra le altre».7 Se, dunque, come sostiene ancora Gianni Vattimo,

non c’è una storia unitaria, portante, e ci sono solo le diverse storie, i diversi livelli e modi di ricostruzione del passato nella coscienza e nell’immaginario collettivo, è difficile vedere fino a che punto quella dissoluzione come disseminazione di "storie" irriducibili ad un’unità non sia anche una vera e propria fine della storia come tale.8

Come non si può pretendere di avere il monopolio della verità, così non si può della storia, credendo di esaurirne a priori gli sviluppi possibili.9 Insieme alla storia si dissolve la categoria del nuovo. «Il post-moderno si caratterizza non solo come novità rispetto al moderno, ma anche come dissoluzione della categoria del nuovo»,10 afferma Vattimo. L’equiparazione cambiamento‒progresso è stata invalidata dai fatti e, nella misura in cui era stato ostinatamente evocato, il cambiamento si è svuotato di valore riducendosi ad uno slogan meccanicamente ripetuto.

Oggi l’attesa di una trasformazione rivoluzionaria pare sostituita piuttosto da un desiderio di novità inessenziale e routinario.11 La società dei consumi richiede infatti un rinnovamento continuo per la pura e semplice sopravvivenza del sistema. Ormai «la novità non ha nulla di "rivoluzionario" e sconvolgente, è ciò che permette che le cose vadano avanti nello stesso modo».12 Conseguentemente una sorta di "immobilità realmente non storica" sembra essersi sostituita al dinamismo e alla spinta che caratterizzavano il moderno.13

Tramontano al tempo stesso il futuro come orizzonte e il passato come memoria. S’impone un presente atipico, intemporale e vacuo, quello dei rotocalchi e del pettegolezzo. Ed è questo forse lo spirito del nostro tempo, volendo parafrasare Hegel. Perché, come ha scritto Vattimo,

la storia contemporanea […] è, in termini più rigorosi, la storia di quell’epoca in cui tutto, mediante l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione, la televisione soprattutto, tende ad appiattirsi sul piano della contemporaneità e della simultaneità, producendo anche così una destoricizzazione dell’esperienza.14

Il nesso vero-fatto

La decifrazione della crisi, in quanto compito assegnato al filosofo, ripropone nel contesto attuale il principio vichiano verum‒factum.15 Richiama, quindi, il motivo vitale della riflessione del filosofo napoletano: l’opzione per il mondo morale, politico, storico. Ed egli, in forza di tale principio, seppe essere più cartesiano di Cartesio applicando «sia pure in forma modificata, il moderno ideale scientifico alle discipline storiche [che invece erano state escluse dal filosofo francese] e costruirle così per la prima volta come vere e proprie scienze».16 In tal modo propose un’idea nuova di ragione, non escarnata,17 non autoreferenziale, ma discreta e volta ad indagare l’esistente. Mise quindi insieme il vero e il certo, il dover essere e l’esserci, l’idea (platonica) e la realtà effettuale, così da compenetrarli in una sintesi conoscitiva virtuosa.

Con quegli strumenti concettuali e con quel metodo si può tentare un’ermeneutica del presente, avvertendo che ci troviamo in un punto simmetrico della parabola della modernità. All’epoca di Vico si era infatti all’inizio della fase ascendente, sull’onda dell’affermarsi del razionalismo. Ora, invece, siamo in piena fase discendente, forse alla fine della parabola, come hanno evidenziato Lyotard e Vattimo, ove fa da sfondo la crisi. All’epoca di Cartesio, quest’ultima si poneva in relazione all’aristotelismo e al suo sistema di mondo fermo. Oggi si tratta della crisi di un mondo impigliato nel nichilismo della tecnica, quale esito estremo di quella stagione di pensiero. La crisi è il nostro orizzonte di verità, in cui il vero si pone col segno meno apposto davanti. Tutte le teoresi la presuppongono, cosicché il progetto della modernità sembra essersi trasformato in un radicalismo corrosivo, distruttivo di ogni fondamento.

A livello morale, mancando la meta, l’ordine nuovo da instaurare, si ha l’impressione di essere rifluiti in un vortice di permanente dissacrazione, che corrisponde alla fase estrema della secolarizzazione, secondo l’interpretazione di Del Noce.18 Nulla sopravanza il piano dell’effimero, del relativo, a volte, del biecamente edonistico. La società secolare è diventata il quadro di riferimento per ogni significato, per cui «il momento storico attuale è quello in cui le eresie e le utopie si sono date convegno, chiamando la scienza alla funzione di legittimarle».19 Non abbiamo più riferimenti forti e condivisi né, tantomeno, lo spirito aurorale che era della modernità ai suoi esordi, il sentimento, cioè, di essere a capo di un nuovo inizio. Domina quasi incontrastato il nichilismo, che fa da cornice immanente all’esistenza, fra disincanto, dominio tecnologico e caparbia volontà di dare vita ad un ordine morale chiuso ed autosufficiente.20

La crisi è anche il nostro orizzonte di fattualità, nella misura in cui la devastazione della cultura, la degradazione del costume morale, lo smarrimento di senso, lo stallo della politica, la senescenza dell’Europa e la sua progressiva marginalizzazione politica e culturale non sembrano fenomeni disparati. Il profondo si è fatto superficie, connessione rapida; la relazione è evoluta in comunicazione impersonale; il tempo in un che di virtuale, sincronizzato e linkabile. Nei fatti è anche il venir meno della fiducia nei confronti dell’uomo in quanto capace di assumere il ruolo guida nella storia.21

Questa sfiducia è intervenuta quando il cambiamento non ha portato i frutti sperati. L’ideologia, infatti, era partita da una prospettiva rovesciata ponendo il mito del cambiamento alla base del reale succedersi dei fatti, piuttosto che questo alla base del cambiamento. Ne è risultata un’ipostatizzazione che ha tradito il cambiamento vero, il novum della storia, e ha precluso il discernimento dei tempi, distogliendo il filosofo dal compito suo proprio.

La via che pare ora percorribile è quella di una ricerca attraverso le diverse connotazioni della crisi, al fine di «riconquistare l’essere a partire dall’esistenza e dalla storia»,22 così come Vico ha fatto per il suo tempo. Egli aveva infatti «individuato nel farsi dell’uomo nella storia ‒ che procede dalla barbarie alla costruzione di un ordine civile ‒ la rivelazione della verità»:23 la storia con il suo avvicendarsi di fatti in cerca di ricomposizione ermeneutica è il luogo dove il vero fermenta e sottotraccia "prepara" il nuovo. Questo non può che riscontrarsi nel superamento del secolarismo in un punto fondamentale: «un antropocentrismo bastante a se stesso non è in grado di fornire risposte a molte essenziali domande che ci pone la vita».24 Lo intuiva bene Franz Rosenzweig un secolo fa scrivendo che «la differenza tra pensiero vecchio e nuovo, tra pensiero logico e pensiero grammaticale, non consiste nell’esprimersi a voce alta o a bassa voce, bensì nel bisogno dell’altro o, il che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo».25 Tale via teoretica ci porta a battere un sentiero con vista sulla politica e sull’etica: sulla politica, in quanto esecutrice del compito di «correttore di un mondo imperfetto»;26 sull’etica, per quanto urgente si fa la domanda sull’uomo, sul suo nascere e sul suo morire, sul bene e sul male. Essa mostra, altresì, che è possibile leggere il cambiamento in atto senza prevenzioni ideologiche, cosicché la decifrazione della crisi possa avviarne la risoluzione.

Il mondo post-guerra fredda e il fattore religione. Il Medioevo che ritorna

La verità della crisi è certificata da come le cose sono evolute in questi ultimi decenni. Quando infatti nel 1989, in modo sorprendente e improvviso, cadde il muro di Berlino e il sistema internazionale della Guerra fredda si sgretolò, ci si illuse che si sarebbe estinta anche la conflittualità a livello globale. In Occidente, in particolare, si diede per scontato che la democrazia liberale avesse trionfato e che di lì a poco quel modello si sarebbe diffuso per tutto il mondo. È in questo clima che Francis Fukuyama ebbe a scrivere: «È possibile che siamo giunti […] alla fine della storia in quanto tale; vale a dire al capolinea dell’evoluzione ideologica dell’umanità e all’ universalizzazione della democrazia liberale occidentale quale forma ultima di governo dell’umanità».27 E fu allora che il termine «post-storia» cominciò a circolare e a indicare che si erano ormai estinte le contrapposizioni ideologiche che avevano caratterizzato la storia moderna. La profezia di Fukuyama, tuttavia, è stata drammaticamente smentita dai fatti. Una spirale tragica di guerre, odio, rivalse e contrasti insanabili ha impresso agli avvenimenti un’accelerazione imprevista, configurando quello che Zygmunt Bauman ha definito «nuovo disordine mondiale».28 E su questa nuova conflittualità si sono innestati motivi non solo economici, ma anche culturali e religiosi. Ciò è avvenuto quando, insieme all’internazionalizzazione della produzione e dei capitali, insieme alla diffusione della rivoluzione informatica, si è imposta la proliferazione di una stessa cultura di massa.

Proprio nel momento di maggior impatto della globalizzazione culturale, tuttavia, quando cioè il fenomeno economico e tecnologico è andato ad investire la sfera delle convinzioni e dei costumi, ecco che sono insorte le resistenze. Si è realizzato il fatto apparentemente paradossale di una modernizzazione rigenerante per reazione le culture tradizionali, i localismi e, in un senso più profondo, le identità dei popoli. È qui che gli illuministi sono stati smentiti. Bisogna considerare, infatti, che ancora negli anni ’70 le élite intellettuali occidentali erano convinte che la modernizzazione avrebbe portato alla scomparsa della religione dall’esistenza personale e collettiva.29 La modernità, del resto, era stata segnata dalla laicizzazione della società e, successivamente, dalla secolarizzazione: il collante che aveva portato all’assimilazione di nuovo e meglio era stato proprio la secolarizzazione, e cioè la convinzione che il progresso, la novità, sarebbe coinciso con l’emancipazione dai miti del passato e, quindi, dalla tradizione, dalla storia e dalla religione, ivi compreso lo stesso desiderio di Dio.

Secolarizzazione, come moderno, — ha scritto Vattimo — è insieme un termine che descrive ciò che è accaduto in una certa epoca e che viene assunto come suo carattere, e il "valore" che domina e guida la coscienza dell’epoca in questione, soprattutto come fede nel progresso (che è insieme una fede secolarizzata e una fede nella secolarizzazione).30

La scienza, il razionalismo e il pragmatismo avrebbero spazzato via le superstizioni e i rituali religiosi. Ciò che è avvenuto ha dimostrato l’infondatezza di quelle previsioni. Nel mondo post-guerra fredda, le principali distinzioni non sono, infatti, di carattere ideologico, politico o economico, ma di civiltà, cosicché «la fine della Guerra fredda non ha posto fine alla conflittualità, ma ha piuttosto fatto emergere nuove identità radicate nella cultura e nuovi canoni di conflittualità tra gruppi di culture diverse e, a livello più generale, di civiltà diverse».31 Le civiltà, le identità culturali, si sono dimostrate più radicate delle ideologie o delle economie. Fattori come l’etnia, i valori morali e spirituali, la religione, determinano, di fatto, le dinamiche della politica mondiale. A tal proposito, si è parlato di ritorno del sacro, di desecolarizzazione del mondo o, con suggestione maggiore, di «rivincita di Dio».32

Lo scenario mondiale che si profila appare variegato e complesso, ma, per certi versi, maggiormente simile a quello dell’epoca medievale. La religione ritorna con i suoi simboli e i suoi riti a determinare il corso storico: croci, mezzelune e persino copricapo tornano a contare più di ogni altra cosa. Si dimostrano capaci di motivare e mobilitare masse. Suscitano sentimenti profondi e reazioni radicali. La religione va, quindi, a cercarsi uno spazio ben al di là dell’ambito della coscienza individuale che il laicismo era disposto a riconoscerle. Riempie il vuoto lasciato libero dalle ideologie, come è apparso evidente già nei Paesi dell’Est europeo, dopo la fine del comunismo. Lo scontro fra identità religiose diverse alimenta ormai la conflittualità globale, in luogo di quello che, nell’epoca della divisione del mondo in blocchi contrapposti, era lo scontro ideologico.

La mente eroica

La Scienza nuova, ha scritto Eric Voegelin, «è un consapevole tentativo di restaurare una scienza della mente contro le pretesi esuberanti del metodo della scienza dei fenomeni di essere un modello per tutta la scienza».33 Ciò a dire che Vico afferma l’impossibilità di ricondurre il mondo umano a quel modello metodologico. «Se non che — avverte Montano — mentre Vico concepì il titanico disegno di ritrovare la mente umana nella pienezza della sua natura dentro la vita storica parimenti concepita nella pienezza delle sue manifestazioni, Cartesio e gli altri vollero ritrovare la verità in quella esangue realtà che è la nuda esistenza del soggetto pensante».34

Quindi, in contrapposizione alla scienza galileiano‒cartesiana, matematizzante, quantificante, uniformante, il filosofo napoletano richiama alla prudentia, che è attenzione ai casi singoli, al non uguale, al non catalogabile, apprendibile immergendosi nei fatti, sceverando il vero riposto nelle parole, nei costumi, nei miti, nelle espressioni artistiche, nei simboli religiosi, nei codici e nelle leggi delle nazioni. Da questo punto di vista, il principio del verum-factum si mostra alternativo a quello cartesiano del Cogito e alla sua presunta evidenza.35

L’idea chiara e distinta non può essere criterio di verità, perché la mente non è creatrice. Tanto più che essa può avere sì coscienza di se stessa, ma non scienza. Avere coscienza significa avvertire, avere una certezza psicologica, si direbbe oggi. Avere scienza significa invece conoscere le cause come solo chi ne è facitore può. Ciò implica che la conoscenza deve fare i conti con la sua limitatezza, perché l’uomo non può intendere le cause del mondo naturale, ma solo ri-conoscere quanto da sé ha prodotto.36

Vico si contrappone, d’altra parte, anche al pensiero scettico, perché nei limiti del sapere rintraccia una possibilità, non tanto un principio di relativismo. Quindi, confida nella mente eroica, nel senso platonico della tensione propria di Eros ad elevarsi ad abbracciare la totalità del sapere.37 Egli la lega all’esperienza concreta, «seguendo e mostrando l’itinerario di essa nel mondo dell’azione, […] dentro la vita storica parimenti concepita nella pienezza delle sue manifestazioni».38

Sulla scorta di Bacone, Vico prospetta una nuova sintesi conoscitiva, superante le divisioni fra ambito umanistico e scientifico, un sistema completo in cui tutte le scienze particolari avessero lo spazio dovuto. Impiega quindi l’ideale del metodo e l’esigenza di sistematicità, spinta al punto che «il mos geometricus diventò per lui un modello per la filosofia, sulla scia dei razionalisti del XVII secolo, in particolar modo di Spinoza»,39 per edificare una scienza della «natura di cose umane civili».40 E va a rintracciare i principi universali nei faticosi e contrastati processi di civilizzazione e umanizzazione delle nazioni. «Questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana»,41 scrive.

Tre arnesi della memoria storica

Nel suo «titanico disegno», Vico utilizza almeno tre concetti che sono anche essenziali per il nostro compito di decifrazione della crisi attuale.

a) Anzitutto la storicità, che non significa tanto che gli «imperi nascono e tramontano, che le forme di Stato si trasformano», quanto che la stessa natura degli uomini si trasforma.42 La natura dell’uomo non è un dato fisso, stazionario, ma «un continuo farsi».43 «Gli uomini prima sentono senza avvertire — sentenzia nella degnità LIII della Scienza nuova —, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente sentono con mente pura».44 Quindi, non vivono i mutamenti restando uguali a se stessi, ma come in un circolo ermeneutico mutano essi stessi, cosicché, cambiando la natura, avremo diverse conformità mentali a seconda delle diverse età. Questi cambiamenti, tuttavia, non sono indifferenti, casuali o illogici, bensì conformi a leggi. Si tratta di una logica concreta, riscontrabile nei fatti, nei lasciti del passato, nelle tradizioni, nei diversi contesti linguistici e culturali, nei vissuti e nelle attese, senza di cui non ci sarebbe storia, né tantomeno scienza della storia. Il discernimento, e non il pregiudizio, quindi deve permeare il giudizio dello storico. D’altra parte, senza principi universali la storiografia non può articolare e interpretare il materiale documentario diverso che si trova davanti. L’accertamento dei fatti si rende possibile grazie al vero, che è idea, paradigma, valore, ma questo deve compenetrarsi con il certo, ossia con il dato filologico. Per cui non vi è vero senza fatto né fatto senza vero. Le sintesi teoriche procedono insieme ai certosini accertamenti dei fatti; talché si invera il certo, per accertare il vero e così facendo si edifica la scienza nuova della storia. Questa, quindi, non si disperde nei rivoli dell’effimero e del contingente, ma segue un corso che Vico platonicamente determina come «storia ideale eterna», «sopra le quali corron’i Fatti di tutte le Nazioni, ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze, e fini»,45 scrive. A fronte dei naturalisti, che restavano ancorati «al persistente concetto di una natura immobile, di una struttura fissa dell’umano»,46 Vico ne rintracciava i palpiti fin dal primo conformarsi degli istituti fondamentali della religione, del matrimonio, dell’inumazione, i quali, ponendo fine all’erramento dei bestioni primitivi, segnano il passaggio fondamentale alla civiltà.47 Osserva Montano che

da quel momento all’agire puramente naturale dell’uomo subentra l’agire illuminato da un’idea, la quale immediatamente si articola e si condensa in tre principi: la Provvidenza, cui rivolgersi "nel terribile frangente della morte", il pudore, in quanto distacco dell’individuo dalla sua animalità, l’immortalità, come consapevolezza che il cadavere “è stato sede di qualcosa che al cadavere è superiore.48

b) L’altro elemento essenziale alla decifrazione della crisi è l’intersoggettività, potremmo dire con un termine appartenente al nostro orizzonte ermeneutico. Vico aveva imparato l’attenzione al certo, al dato empirico nella sua variegata disparità, dai filosofi e storici naturalisti, scettici e libertini. Questi, tuttavia, non vedevano altro che un ammasso di fatti, di accadimenti senza nesso e di evoluzioni dovute al cieco caso. Allo stesso modo, essi non vedevano che individui mossi da interessi e fini egoistici, incapaci di formare comunità. Quanto allo stato di natura, anteriore alla società, esso era per loro nient’altro che una finzione mentale e l’esito era, conseguentemente, già scontato: essa esprimeva correttamente l’itinerario logico del loro discorso, imperniato sull’idea di un individuo già fornito di bisogni, di interessi, di diritti e ragioni, che calcola l’opportunità o la necessità di uscire da uno stato di parziale o totale disagio e pericolo, a cui è costretto dall’isolamento. A queste prospettive, Vico oppone l’idea per cui il singolo uomo non è un individuo irrelato, un autonomo,

che possa in quanto tale (per natura) considerarsi latore di una determinata struttura razionale o spirituale. […] La ragione dell’uomo (quando è consapevole del suo effettivo e prima segreto fondamento e delle sue finalità) è più che scienza con‒scienza: con‒scienza di essere originata dalla con‒vivenza e di dover essere diretta verso di essa, pena il suo dissolvimento, lo smarrimento nella gran selva dei crudi bestioni.49

Quanto all’uomo, egli non è naturalmente insocievole, come pensano Hobbes e Spinoza.50 Semmai è vero il contrario, e cioè che il fondamento (e la destinazione) dell’umano è la socialità. «L’uomo è naturalmente sociale», afferma nel De uno,51 ed è questo che lo strappa dalla «gran selva» in cui erra per immetterlo nel processo di civilizzazione. Quindi è naturalmente socievole non nel senso che questa socievolezza sia già bella e sviluppata dall’inizio, ma nel senso che vi si dà in potenza, come pulsione, come spinta dapprima inconsapevole, poi sempre più diretta e voluta. Talché, divenuto riflessivo col progredire dei processi di astrazione, egli sarà in grado di riconoscere che è uomo solo tra gli altri uomini, in grazia delle comuni istituzioni, e che il suo compito razionale è di conservarle e perfezionarle. L’isolamento non è naturale. Esso caratterizza, semmai, le fasi di decadenza ed è incarnato da quelli che Vico chiama «Filosofi Monastici, o solitari», i quali abdicano al compito eminentemente civile e morale dei filosofi di «sollevar’, e reggere l’uomo caduto, e debole», non snaturandolo e abbandonandolo «nella sua corrozione» al fine di «giovar’al Gener’Umano».52 Il principio dell’utile, invocato dai materialisti, non spiega né il sorgere del diritto in quanto ricerca dell’equità, né la crescita civile che si attua nelle diverse società, seppure tra contraddizioni e ritorsioni, in vista del perseguimento della libertà.

c) Il terzo elemento, la peccabilità, viene a Vico dall’antropologia e dalla storia biblica, determinando, rispetto ai filosofi giusnaturalisti, una diversa ontologia genetico‒umana a fondamento dello sviluppo della società e delle sue istituzioni. Lo schema di riferimento non è più binario, come in Hobbes e Spinoza, ma ternario: non c’è solo l’uomo naturale, tutto corpo e appetiti, che rincorre il proprio utile prevaricando gli altri, e l’uomo istitutore della società e dello Stato, ma uno sviluppo scandentesi secondo il ritmo di nascita, crescita e decadenza.53 «La vera e assolutamente primigenia natura umana»54 è da rinvenire nell’integrità, non nello stato ferino, che è esso stesso uno stato storico, ingeneratosi quando, ristrettasi la vita alla mera utilità, la cupidigia alimentò la discordia fra gli uomini.55 Quello che, per Hobbes e Spinoza, è l’uomo naturale, per Vico, è l’uomo decaduto, segnato dal peccato in un modo che smentisce ogni pretesa di auto-redenzione.56 Ed è questa una possibilità ricorrente, perché la ricaduta è sempre in agguato dietro l’angolo della storia, per via di quelle che Giovanni Paolo II ebbe a definire «strutture di peccato».57 Il filosofo napoletano, quindi, oppone una visione realistica della storia al quadretto idillico dei primordi disegnato dai moderni pelagiani, che esaltavano piuttosto l’autonomia e l’autosufficienza della volontà. Il peccato condiziona pesantemente la storia. Lo fa nelle sue diverse metamorfosi della divisione, della lacerazione, dell’invidia, dell’avversione, che la segnano drammaticamente ritornando anche nelle epoche mature come fattore disgregante, ammalante, mortifero. Sono vicine nel tempo le immani tragedie delle guerre mondiali e degli stermini fatti in nome delle ideologie del Novecento, come quella degli ebrei o quella dei contadini ricchi, i kulaki, nell’Unione sovietica. Nella prospettiva vichiana, i primitivi bestioni stanno a raffigurare la fase storica dell’umanità degradata in cui i forti prevaricano sui deboli fino ad ucciderli, mancante ancora di leggi e di un potere autorevole. Pertanto, «contro l’assunto che l’uomo sia fondamentalmente buono e che possa creare un ordine sociale dalle sole risorse della propria sostanza immanente», ribadisce il «bisogno dell’aiuto della Provvidenza per innalzarsi sopra l’anarchia dell’amor sui».58 L’inclinazione al male non è affatto «una condanna metafisica inemendabile, una condizione permanente di cui l’uomo sia vittima e da cui non possa redimersi».59 Essa è, piuttosto, una condizione storica che non offusca l’immagine originaria evocante il Creatore né cancella lo slancio verso la promozione civile. La mente resta sempre «come forza vitale e operante nell’attività disordinata e notturna dell’umanità cupida e cupidamente utilitaria», mantenendo un legame con l’«idea dell’essere, dell’ordine, delle relazioni universali, dell’Essere Assoluto».60 Anzi, è proprio nella fase dell’erramento ferino dell’umanità atterrita da eventi naturali terribili che le menti, permeate di semi divini, di nozioni di eterna verità, si ridestano e producono gradualmente i principi fondamentali atti a istituire e ricostituire i germi della vita associata.

Il ricorso sempre possibile

La Scienza di Vico è nuova non solo perché rinnova una conoscenza altrimenti ferma a modelli teorici che non dicono nulla sulla crescita, sulla fantasia, sul vissuto, ma anche perché egli ha sempre osteggiato l’idea che la storia sia una galoppata trionfale verso il progresso; una storia siffatta avrebbe un corso obbligato e sarebbe senza novità. Più sottilmente, egli ha avversato la hybris dell’autosalvazione sottostante all’idea progressista della storia, indicando «nel sentimento di ottimistica fiducia nell’uomo concepito individualisticamente quale fonte dell’ordine» il sintomo della decadenza.61 Si può affermare che è questo il punto in cui egli si allontana maggiormente dal suo tempo e dalla rimozione che esso ha esercitato rispetto al tema specifico del limite dell’umano. Il filosofo napoletano ha tematizzato la decadenza dell’Occidente secoli prima che questa si materializzasse, quella decadenza di cui abbiamo dovuto patire le conseguenze «nel progressismo, nel comunismo, nel nazionalsocialismo e nelle Guerre mondiali fino al giorno d’oggi»62. Vico ha scritto che, nell’essenza stessa della ragione, agiscono forze disgregatrici, distruttive, negative, cosicché ad un certo punto il suo uso, che pure ha portato allo sviluppo, evapora in un formalismo senza nerbo e sostanza, civilmente sterile.

Della libertà, tanto decantata dagli illuministi venuti dopo di lui, ha sostenuto che può corrompersi «nella sfrenata libertà de’ popoli liberi»,63 ossia nella schiavitù delle passioni, del lusso, dell’avarizia, dell’invidia, della superbia e del fasto. Il filosofo napoletano ha assimilato il corso delle nazioni al ciclo della vita, circoscritto in una temporalità biologica che, come conosce un inizio, così conoscerà una fine. Nulla è acquisito una volta per tutte. A uguali dinamiche storiche corrispondono il ripetersi di eventi e vicende simili, come se l’umanità tornasse a ripercorrere strade già battute, come se, dibattendosi nei suoi limiti creaturali, finisse per incorrere negli stessi errori. La sua teoria dei corsi e ricorsi storici differisce quindi dalle interpretazioni cicliche dell’antichità, specialmente da quelle stoiche, in quanto egli ritiene che il ricorso sia solo una possibilità e non abbia un carattere necessario o definitivo. Essa, quindi, non è un richiamo ad una sorta di gnosi storica, quanto al realismo della storia a partire dal riconoscimento della precarietà delle costruzioni umane, sempre soggette alla barbarie come possibilità di auto-annichilimento. «Se il processo degli eventi non è svolgimento destinale ma salto, novità, interruzione e ripresa, allora il filosofo deve vestire i panni dell’umiltà, senza elevarsi a sacerdote dell’Assoluto, anzi volgendosi a conoscere adeguatamente la persona».64 Cosa che diventa tanto più urgente in tempi di crisi. Le cause della decadenza sono essenzialmente di natura spirituale, riconducibili ad un processo endogeno, per cui Vico usa l’espressione «barbarie della riflessione».65 Si tratta di una degenerazione che prelude alla fine di una civiltà, fotografando il configurarsi di una forma mentis, né più né meno per come avviene nelle diverse età che segnano il ciclo dello sviluppo (età degli dèi, degli eroi e degli uomini). Come infatti l’uomo arcaico vede il mondo, sente e addirittura pensa diversamente dall’uomo della ragione spiegata, così l’uomo della decadenza vede, sente e addirittura pensa diversamente: nello spettro decadente che lo segna dentro. La barbarie della riflessione ha un che di mortifero che la differenzia anche dalla primitiva barbarie, in quanto è vile e falsa, mentre quella era caratterizzata da una «fierezza generosa».66 Essa si materializza quando, perduta la memoria del passato, le energie vive, che si collegano all’infanzia dello spirito, si esauriscono e s’inverte il corso che indirizza alla verità, alla giustizia, al rispetto della sacralità della vita. Allora un cielo plumbeo si fa sovrastante sul pensare, sul sentire, sul vivere. È, possiamo dire con riferimento all’attuale, il cielo del relativismo che impedisce la vista sull’azzurro del cielo e ingrigisce anche gli orizzonti del quotidiano. Corifei ne sono intellettuali che non credono più alla verità e che coltivano malnate sottigliezze: il loro è sfoggio di un’erudizione fine a se stessa, senza relazione con la realtà, qualcosa che somiglia in modo impressionante ai radical chic dei nostri tempi. Ciò che rende il confronto ancora più intrigante è il fatto che Vico nota in costoro l’autocompiacimento quale segno non solo del prevalere di una passione come la vanità, ma anche di un’autoreferenzialità alienante. Quando, infatti, prevalgono le sofisticate e sterili astruserie della ragione o anche gli scetticismi ammantati di retorica, la sapienza diventa un vano esercizio di solitari dotti, mancante nel suo compito di promozione umana e di formazione civile. A livello sociale ne deriva tanto il declino delle forze e dei legami emozionali che tengono unite le nazioni, quanto un atteggiamento calcolatore nei confronti dei propri simili: il primo indica la senescenza di una civiltà che non sa immaginare nulla di veramente nuovo assistendo passivamente al dissolversi delle più elementari mozioni morali, il secondo fa riferimento al generale inquinamento delle relazioni umane.

Dall’annientamento di un’intersoggettività autenticamente vissuta derivano poi tanto l’assolutizzazione dell’interesse privato, quanto l’incapacità di cooperazione, il disprezzo delle leggi e la mancanza di fede in compiti che sopravanzino il mero interesse individuale. «La privatizzazione dell’individuo non è precorritrice dell’ordine magnifico che sorgerà dalla liberazione delle forze individuali», ma dell’anarchia scrive Voegelin.67 Si tratta una «riflessiva malizia»,68 una perversione che si è fatta riflessione e una riflessione che si è intricata fino alla perversione, come un morbo che ammala la pubblica virtù. Restano solo individui atomici, sospettosi l’uno dell’altro, che, mentre abbracciano i loro simili, si adoperano per la loro eliminazione, secondo una prospettiva che ricorda molto la condizione naturale descritta da Hobbes. Anche il diritto positivo si è fatto inabile, perché «non può da solo attivare e tenere sveglia la coscienza etica della società, anzi ne dipende fortemente; può però disarticolarla, corrompendo con la menzogna e la propaganda un intero popolo».69

Fede, verità e tolleranza. Il nostro compito in tempi di crisi

In un libro-intervista del 2003 dal titolo Fede, verità e tolleranza, Joseph Ratzinger ha proposto riflessioni che richiamano la teoria dei corsi e ricorsi storici di Vico, illuminandone l’ispirazione profondamente teologica. Ha scritto, in particolare, che «nell’ambito di questa nostra storia umana non esisterà mai la situazione assolutamente ideale, e non si erigerà mai un ordine di libertà definitivo»; e questo per un semplice motivo: «l’essere umano è sempre in cammino e sempre limitato». Né, tanto meno, esisterà mai l’ordine ideale delle cose, il diritto perfetto. Afferma Ratzinger che «là dove tale pretesa viene avanzata, non viene detta la verità» e conclude che «la fede nel progresso non è errata sotto tutti gli aspetti. Errato però è il mito del futuro mondo liberato, nel quale tutto sarà diverso e sarà buono».70 Quest’affermazione rappresenta il rovesciamento dei presupposti alla base delle visioni ideologiche della storia, irragionevolmente ottimistiche quanto presuntuose. Nello stesso tempo incrocia, quanto ai risvolti sul piano della filosofia della storia, la teoria vichiana. Quelle visioni corrispondono a tentativi di definire la storia a misura dell’umano. L’uomo, comunque limitato, se non altro perché i suoi orizzonti sono contestuali e finiti, pretende con esse di presentare i suoi progetti come ultimativi, cosicché gli sviluppi della storia sono pensati esauribili in senso lineare e il futuro come ipotecabile. «Noi raggiungeremo ogni cosa! Noi domineremo ogni cosa! Noi ricostruiremo ogni cosa!»,71 questo è lo slogan che Trockij soleva ripetere.

Ratzinger rimarca «noi possiamo erigere sempre solo ordinamenti relativi», che «possono sempre avere ragione ed essere giusti solo relativamente». Il definitivo non è per noi, ci sfugge. Il nostro impegno, rimodulandosi nell’ambito dell’imperfetto, del parziale, dell’incompleto, deve prodursi semmai nell’avvicinamento «il più adeguato possibile a quanto è veramente giusto».

In rapporto all’autentica natura morale dell’uomo, la storia non si svolge linearmente, ma con ripetizioni; in essa ci sarà sempre un progredire e un retrocedere. «Ogni escatologia intra-storica, non libera, ma di conseguenza inganna e asservisce». Di conseguenza, deve anche essere demitizzato il cambiamento, perché «il cambiamento non è un bene in se stesso» e se «è buono o cattivo dipende dai suoi contenuti e dai punti di riferimento concreti»,72 che, a loro volta, lo determinano.

Qual è, allora, il nostro compito in questi tempi di crisi? In altri termini, cosa ci resta da fare? Nostro compito è lottare di volta in volta nel presente per quella strutturazione relativamente migliore della convivenza, della pace, dell’esercizio e della promozione dei diritti umani; dobbiamo, quindi, custodire prudenzialmente quelli che sono le conquiste di civiltà che il passato ci ha lasciato in eredità, vincendo il negativo esistente e difendendoci dall’invasione delle potenze della distruzione. Tutto questo implica anche che dobbiamo prendere congedo «dal sogno dell’assoluta autonomia della ragione e della sua autosufficienza», perché la storia non salva: non possiamo attenderci da essa niente più di quanto essa può offrirci. Essa, infatti, «è e rimane polare, positiva e negativa, abitata da contrasti aperti e/o sotterranei».73 Quelle che sono state poste, più o meno surrettiziamente, come verità eterne devono essere interpretate non come qualcosa di fisso e stabilito per sempre, ma come qualcosa di «eternamente riconquistabile».74 Non salva la ragione, che si rivela irragionevole quando si pretende autosufficiente all’interno dei suoi circuiti logici autoreferenziali. Essa, semmai, «ha bisogno dell’appoggio delle grandi tradizioni religiose dell’umanità».75 Questo non significa che la ragione deve assumere le tradizioni religiose acriticamente. La religione viene intesa come capace di istituire la trama relazionale che rapporta l’uomo a se stesso, al mondo e a Dio:76 perché, come si legge nella frase conclusiva della Scienza nuova, «questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà, e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio».77 Ciò non significa che la ragione deve assumere le tradizioni religiose acriticamente. Al contrario dovrà esaminarle in modo critico. La «patologia della religione è — rimarca Ratzinger — la malattia più pericolosa dello spirito umano» e consiste nella pretesa di ipotecare il divino mediante il culto, il ritualismo, la precettistica, insomma il fariseismo. È anche vero, tuttavia, che quella stessa pretesa può insinuarsi «anche là, dove la religione come tale viene respinta e viene attribuito un ruolo assoluto a beni relativi: i sistemi ateistici dell’epoca moderna sono gli esempi più spaventosi di una passione religiosa alienata dalla sua essenza, il che significa però una malattia mortale dello spirito umano». I sistemi ateistici evidenziano infatti che «là dove Dio è negato, non viene costruita la libertà, ma le viene sottratto il suo fondamento e pertanto essa viene stravolta. Là dove le più pure e profonde tradizioni religiose vengono totalmente abbandonate, l’uomo si separa dalla sua verità, vive contro di essa e perde la libertà». Allo stesso modo, e per lo stesso motivo, anche l’etica non può rinunciare all’idea di Dio, né può rinunciare «all’idea di una verità dell’essere», perché «se non esiste nessuna verità dell’uomo, egli non ha neppure una libertà».78 Ed è qui che «la rivelazione cristiana si fa promotrice di umanesimo», umanesimo dell’Incarnazione come diceva Maritain, umanesimo della Resurrezione, umanesimo della vita vera, che supera il bios,79 mettendo la persona al centro, la sua verità e la sua libertà.

Conclusione

«Nell’accadere della storia emerge inesorabilmente la questione della salvezza dell’uomo, qualunque sia poi la specifica forma della risposta».80 Questa hanno ricercato anche i moderni movimenti di liberazione di massa, ma essi hanno confidato nell’auto-redenzione dell’uomo, pensando che non ci fosse il peccato ad impedirlo.81 Lo stesso dicasi della scienza, che ha declinato quella prospettiva nel senso dell’evoluzionismo biologico, e della tecnica. In ogni caso, ha dominato l’utopia dell’uomo liberato dal male nelle sue diverse forme: ontologico, fisico, materiale etc., nonché del male sconfessato, non riconosciuto, seppure sempre ricorrente sotto le forme della supponenza, della prepotenza e della violenza. Si è arrivati alla «negazione più completa della coscienza del peccato».82 Accade (ed è accaduto), tuttavia, che questo utopismo venga sbugiardato dalla storia, che la rivoluzione si riveli affatto utopica e che l’incremento delle possibilità, legato al progredire della conoscenza, proceda parallelo alla distruzione:83 l’homo saecularis viene a trovarsi «di fronte ad un mondo che non è in grado di trattare».84 Egli scopre non solo il rischio dell’autoannientamento atomico, ma anche la sua inerzia morale a fronte di tutto questo; avverte la mancanza di qualcosa di essenziale, forse di spirituale, ma non sa chiamarlo per nome, tantomeno sa evocarlo o invocarlo.

Nella crisi che è sopraggiunta c’è questo disorientamento unitamente ad un senso d’impotenza epocale: egli non sa decifrare. Al pensiero strumentale, a cui egli si è votato, mancano i mezzi per farlo. Abituato a ragionare in termini di calcolo e di quantità, egli si ritrova ad essere senza qualità e arranca nell’assumersi quel compito, dismesso anche dal filosofo, di decifrare la crisi.

Tantomeno le visioni della storia conformate all’ottimismo acritico si sono mostrate in grado di capirci qualcosa. Non contemperando la dimensione tragica dell’esistenza esse eludevano proprio «i problemi più temibili»:85 le difficoltà, le pene, la sensazione di fine, ovverosia quell’esperienza di morte che segna il limite di ogni azione umana. Ora che quel convitato di pietra bussa alla porta della storia e fa sentire la sua inquietante presenza, riemerge con forza solo una nostalgia indefinita della meta finale. Oggi, come già avvertiva Romano Guardini, «non è più assolutamente possibile avere nell’opera dell’uomo, e nemmeno in quella della natura, quella fiducia che si aveva nell’e-poca moderna». E scriveva che il corso della storia ha mostrato che

Lo spirito dell’uomo è libero di fare il bene ed il male, di costruire e di distruggere. E gli elementi negativi non sono antitesi necessarie nel processo generale, ma sono negativi in senso proprio: sono ciò che si fa sebbene non sia necessario farlo sebbene si abbia la possibilità di far diversamente, di far ciò che è giusto. Ed è proprio quello che e avvenuto nelle cose essenziali e su vastissima scala. Le cose hanno seguito un cammino sbagliato ed i fatti lo dimostrano. Il nostro tempo lo avverte e ne è inquieto nella sua intima profondità.86

Le cose hanno seguito un cammino incontrovertibilmente sbagliato (lo sterminio degli Ebrei, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki etc.) e si è precipitati, quindi, in una contingenza aggrovigliata, che inquieta il nostro tempo nella sua intima profondità. Questa contrita consapevolezza vede germogliare del pari una nuova grande speranza: «poter far breccia nell’ottimismo moderno e poter vedere la verità», concludeva Guardini.87 Ora, c’è molto di vichiano in queste riflessioni a partire dalla convinzione che solo se «messi in croce per conseguenza dei propri errori»,88 gli uomini riattivano la capacità di capire e si risollevano. Questo avviene non solo e non tanto perché nei successi e nelle conquiste non hanno tanto motivo di chiedersi, quanto perché «la Provvidenza, se salva, salva non nei trionfi, ma nelle cadute».89

La salvezza sta oggi, forse, nel ricercare la verità sull’uomo, al di là delle maschere ideologiche che gli sono state apposte sul viso, verità che è indirizzata al suo essere libero, anzi meglio, al suo scoprire la libertà «in relazione con le cose e con le altre persone».90 Si situa, quindi, nel concreto della storia, di cui i demoni del male governano la potenza «attraverso i suoi istinti, apparentemente naturali e in realtà così ribelli; attraverso la sua logica, apparentemente conseguente e in realtà così facilmente influenzabile; attraverso il suo egoismo, così impotente davanti a tutte le violenze».91 Incontra quindi il male che, lungi dall’essere sconfitto, soggioga l’uomo da dentro per poi prorompere fuori. Il male è tanto più pericoloso oggi che la sua potenza malefica si è ingigantita e autonomizzata. «Avevamo pensato — scriveva ancora Guardini — che l’uomo potesse semplicemente possedere la potenza ed usarne con piena sicurezza» assecondando gli automatismi della tecnica, ma non avevamo riflettuto su due effettualità.

La prima è che la potenza dell’uomo partecipa della sua libertà, ma anche della sua imperfezione, per cui il suo acquisto implica «molteplici possibilità sia negative sia positive» cosicché, potendo disporre della natura, ne «tiene in pugno in buona parte gli effetti immediati», incrementando il suo potere esponenzialmente, ma intanto non migliorando moralmente. Si mostra, pertanto, che «egli ha il potere sulle cose, ma non ha […] ancora potere sul proprio potere»,92 cosicché il rischio di una ragione strumentale sfuggita di mano appare oggi evidente non solo nella proliferazione delle armi nucleari potenzialmente distruttive della vita sulla Terra, ma anche, e drammaticamente, nei problemi collegati allo sfruttamento indiscriminato delle sue risorse.93

La seconda ci richiama alla vocazione relazionale dell’uomo e si intreccia con i grandi temi della storia personale e della storia in generale. L’uomo non si salva da solo né è salvato da solo. Non «vi è auto-salvezza nell’immanenza».94 La sua verità e la sua libertà, pertanto, non possono essere intese come possesso autonomo, ma in risposta ad una chiamata e ad un compito da assolvere. Come infatti è chiamato alla vita, così l’uomo è chiamato alla verità, laddove traspare il mistero di un’origine che non è da sé e di un cammino che porta oltre sé, oltre i propri limiti, le proprie miserie e la propria solitudine. Si può dire, infine, che «la storia terrestre possiede un prologo in cielo (come nel libro di Giobbe e nel Faust) e […] possiederà in esso un fine senza fine».95


  1. A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 10-11. ↩︎

  2. G. Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura postmoderna, Garzanti, Milano 1985, p. 11. ↩︎

  3. V. Hösle, Introduzione a Vico, Guerini e Associati, Milano 1997, p. 179. ↩︎

  4. A. Heller, F. Fehér, La condizione politica postmoderna, Marietti, Genova 1992, pag. 8. ↩︎

  5. A. Touraine, Critica della modernità, Il saggiatore, Bologna 1993, p. 14. ↩︎

  6. J-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 95-96. ↩︎

  7. G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p. 16. ↩︎

  8. Ivi, p. 17. ↩︎

  9. «Ma i padroni di ogni volta sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. L’immedesimazione nel vincitore torna quindi ogni volta di vantaggio ai padroni del momento». W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Sesto San Giovanni, p. 78. ↩︎

  10. G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p. 12. ↩︎

  11. Ivi, p. 110. ↩︎

  12. Ivi, p. 15. ↩︎

  13. «Quel che caratterizza, invece, la fine della storia nell’esperienza post-moderna è che, mentre nella teoria la nozione di storicità si fa sempre più problematica, nella pratica storiografica e nella sua autoconsapevolezza metodologica l’idea di una storia come processo unitario si dissolve, e nell’esistenza concreta si instaurano condizioni effettive ‒ non solo l’incombere della catastrofe atomica, ma anche e soprattutto la tecnica e il sistema dell’informazione ‒ che le conferiscono una sorta di immobilità realmente non-storica». Ivi, pp. 13-14. ↩︎

  14. Ivi, p. 18. ↩︎

  15. Esso è espresso per la prima volta nel De Antiquissima Italorum Sapientia, in cui Vico individua nella sinonimia fra verum e factum il principio della sapienza degli antichi popoli italici: «In latino verum e factum hanno relazione reciproca, ovvero, nel linguaggio corrente delle Scuole, si convertono. […] Da qui si può congetturare che gli antichi sapienti dell’Italia convenissero, circa la verità, nelle seguenti proposizioni: il vero si identifica col fatto; di conseguenza il primo vero è in Dio, perché Dio è il primo facitore…». G. Vico, De antiquissima Italorum Sapientia, in Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1971, p. 64. ↩︎

  16. V. Hösle, Introduzione a Vico, p. 38. ↩︎

  17. Charles Taylor ha parlato di escarnazione in riferimento alla ragione moderna, astratta e lontana dal concreto. Vedi Id., L’età secolare, a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2009, p. 934. ↩︎

  18. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano 1978, p. 6. ↩︎

  19. A. Del Noce, Alle radici della crisi, in AA. VV., La crisi della società permissiva, Edizioni Ares, Milano 1972, p. 113. ↩︎

  20. C. Taylor, L’età secolare, a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2009, p. 933. ↩︎

  21. R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1954, pp. 76-77. ↩︎

  22. R. Buttiglione, Del Noce maestro di filosofia, in AA. VV., Augusto Del Noce e il problema della modernità, Studium, Roma 1995, p. 113. ↩︎

  23. M. Ronco, Giambattista Vico: punto di riferimento nella modernità per una filosofia teistica nel pensiero di Augusto Del Noce, in Atti dell’incontro di studio su Augusto Del Noce, MarcoValerio edizioni, Cercenasco 2020, pp. 76-77. ↩︎

  24. A. Solženicyn, Ritorno in Russia. Discorsi e conversazioni (1994-2008), Marsilio, Padova 2019, p. 83. ↩︎

  25. F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, tr. it. di G. Bonola, commento di G. Scholem, Arsenale Editrice, Venezia, 1983, pp. 57-58. ↩︎

  26. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., pp. 336‒337. ↩︎

  27. F. Fukuyama, «The End of History», in The National Interest, n. 16, Estate 1989, p. 4 ↩︎

  28. Z. Bauman, in Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 27-28. ↩︎

  29. S. Huntinghton, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 1997, p. 131. ↩︎

  30. G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p. 108. ↩︎

  31. S. Huntinghton, Lo scontro delle civiltà, cit., p. 184. ↩︎

  32. Vedi G. Kepel, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991. ↩︎

  33. E. Voegelin, La «Scienza nuova» nella storia del pensiero politico, Guida, Napoli 1996, p. 104. ↩︎

  34. A. Montano, I testimoni del tempo. Filosofia e vita civile a Napoli fra Settecento e Novecento, Bibliopolis, Napoli 2010, p. 344. ↩︎

  35. G. Vico, De antiquissima Italorum sapientia, a cura di M. Sanna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005, pp. 19-21. ↩︎

  36. Ivi, p. 38. La conoscenza piena del Primo Vero spetta a Dio, facitore dell’universo. L’uomo ha solo una conoscenza limitata, imperfetta e superficiale. ↩︎

  37. «Coltivate la sapienza nella sua totalità; perfezionate la ragione umana nella sua interezza: celebrate la natura quasi divina delle vostre menti: […] ascoltate, leggete, pensate con sublime entusiasmo: affrontate fatiche erculee e una volta sopportatele, rivendicate a buon diritto la vostra divina discendenza dal giusto Giove Ottimo Massimo: e proclamatevi eroi, pronti a regalare al genere umano nuove affascinanti scoperte». G. Vico, De mente Heroica, a cura di E. Nanetti, edizioni ETS, Pisa 2014, pp. 82-83. ↩︎

  38. G. Capograssi, Analisi dell’esperienza comune, in Id., Opere, vol. II, Giuffré, Milano 1959, p. 21. ↩︎

  39. V. Hösle, Introduzione a Vico, p. 27. ↩︎

  40. G. Vico, La Scienza nuova 1744, Laboratorio dell’ISPF, XII, 2015, p. 75. ↩︎

  41. Ivi, p. 87. ↩︎

  42. V. Hösle, Introduzione a Vico, cit., p. 106. ↩︎

  43. E. Nuzzo, Vico, Vallecchi, Firenze 1974, p. 108. Questo si ricollega alla XIV degnità che storicizza radicalmente il concetto di natura e, quindi, di natura umana: «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose». G. Vico, La Scienza nuova 1744, cit., p. 63. ↩︎

  44. Ivi, p. 72. ↩︎

  45. Ivi, p. 339. ↩︎

  46. E. Nuzzo, Vico, cit., p. 110. ↩︎

  47. «Osserviamo tutte le Nazioni così barbare, come umane, quantunque per immensi spazj di luoghi, e tempi tra loro lontane divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione; tutte contraggono matrimonj solenni; tutte seppelliscono i loro morti…». G. Vico, La Scienza nuova 1744, cit., p. 87. ↩︎

  48. A. Montano, I testimoni del tempo, cit., p. 351 (in riferimento a G. Capograssi, L’attualità di Vico, in Idem, Opere, vol. IV, cit., p. 399). ↩︎

  49. E. Nuzzo, Vico, cit., pp. 108-09. ↩︎

  50. «…il punto a partire dal quale prende avvio il ragionamento di Hobbes e Spinoza è, dunque, la naturale ostilità tra gli uomini: per Hobbes, homo homini lupus, secondo la celebre espressione leggibile nella Lettera dedicatoria del De cive; e per Spinoza homines ex natura hostes, come si legge nel paragrafo 14 del capitolo secondo del Trattato politico». A. Montano, I testimoni del tempo, cit., pp. 39-40. ↩︎

  51. «Hominem esse nature socialem». G. Vico, De universi iuris uno principio et fine uno, in Id., Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, p. 59. ↩︎

  52. G. Vico, La Scienza nuova 1744, cit., p. 61. ↩︎

  53. Vedi G. Vico, De universis iuris uno principio et fine uno, in Id., Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, cit. p. 43. Vi si legge l’influenza delle Confessiones di Sant’Agostino, in quanto l’incorrotta natura umana sarebbe costituita dalla sapienza, dalla potenza e dalla bontà, vale a dire dagli stessi attributi di Dio. ↩︎

  54. A. Montano, I testimoni del tempo , cit., p. 40. ↩︎

  55. Ivi, p. 336, 347. ↩︎

  56. G. Vico, Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, in Id., Opere filosofiche, Sansoni, Firenze 1971, p. 10. ↩︎

  57. I. Paulus PP. II, Lettera enciclica Evangelium vitae, n. 24. ↩︎

  58. E. Voegelin, La «Scienza nuova» nella storia del pensiero politico, cit., p. 105. ↩︎

  59. A. Montano, I testimoni del tempo, cit., p. 47. ↩︎

  60. G. Capograssi, Dominio, libertà e tutela nel «De uno», in Id., Opere, vol. IV, cit., p. 15. ↩︎

  61. E. Voegelin, La «Scienza nuova» nella storia del pensiero politico, cit., 105. ↩︎

  62. Ivi, p. 106. ↩︎

  63. G. Vico, La Scienza nuova, cit., p. 343. ↩︎

  64. V. Possenti, Una nuova partenza. Teologia politica e filosofia della storia, Armando editore, Roma 2022, p. 114. ↩︎

  65. G. Vico, La Scienza Nuova, p. 344. ↩︎

  66. Ibidem↩︎

  67. E. Voegelin, La «Scienza nuova» nella storia del pensiero politico, cit., p. 105. ↩︎

  68. G. Vico, La Scienza nuova, cit., p. 344. ↩︎

  69. V. Possenti, Una nuova partenza, cit., p. 90. ↩︎

  70. J. Ratzinger, Fede verità e tolleranza, Cantagalli, Siena 2010, p. 274. Cfr. Eric Voegelin, Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, Rusconi, Milano 1990, p. 15. ↩︎

  71. L. Trockij, Letteratura, arte e libertà, Milano 1958, p. 194 ↩︎

  72. J. Ratzinger, Fede verità e tolleranza, cit., p. 274. ↩︎

  73. V. Possenti, Una nuova partenza, cit., p. 297. ↩︎

  74. A. Del Noce, Principi di politica cristiana, in Id., Scritti politici. 1930‒1950, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, p. 226. ↩︎

  75. J. Ratzinger, Fede verità e tolleranza, cit., p. 273. ↩︎

  76. F.P. Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme. Il «nuovo pensiero» di Franz Rosenzweig, Marietti, Genova-Milano 2009, p. 177. ↩︎

  77. G. Vico, La Scienza nuova, cit., p. 346. ↩︎

  78. J. Ratzinger, Fede verità e tolleranza, cit., pp. 273-274. ↩︎

  79. V. Possenti, Una nuova partenza, cit., p. 90. ↩︎

  80. Ivi, p. 12. ↩︎

  81. «Sono caratteristiche di questa coscienza utopica l’ottimismo circa l’auto-redenzione dell’uomo effettuabile per la prima volta nella storia dopo millenni di vita disumana, la fede nell’umanità, in una umanità nuova o meglio ancora avviata a diventare una super-umanità, la fede nella scienza e nel suo potere di delimitazione dei fini, l’abolizione della teologia e della filosofia come discorsi significanti sull’uomo e su Dio sostituite da una neo-politica, una forma nuova di prassi che ponga contemporaneamente i valori etc..». E.S. Lodovici, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Ares, Milano 1991, p. 38. ↩︎

  82. A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, cit., p. 312. ↩︎

  83. R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., p. 59. ↩︎

  84. V. Possenti, Una nuova partenza, cit., p. 25. ↩︎

  85. Ivi, p. 103. ↩︎

  86. R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., p. 76. ↩︎

  87. Ivi, p. 76-77. ↩︎

  88. G. Capograssi, L’attualità di Vico, in Id., Opere, vol. IV, cit., p. 403. ↩︎

  89. P. Piovani, Capograssi e Vico, in Id., La filosofia nuova di Vico, Morano, Napoli 1990, p. 336. ↩︎

  90. R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., pp. 79-80. ↩︎

  91. Ivi, p. 83. ↩︎

  92. Ivi, pp. 86-87. ↩︎

  93. «I sacrifici che una ragione strumentale sfuggita di mano ci impone sono abbastanza evidenti nell’irrigidimento dell’orizzonte atomistico, o nella nostra impermeabilità alle richieste della natura». C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Bari 2002, p. 112. ↩︎

  94. V. Possenti, Una nuova partenza, cit., p. 56. ↩︎

  95. Ivi, p. 222 (in riferimento a N. Berdjajew, Il senso della storia, Jaca Book, Milano 1977, p. 15). ↩︎