I Frammenti Pneumatologici di F. Ebner e La stella della redenzione di F. Rosenzweig furono pubblicati nel 1921 da autori che non si conoscevano tra loro e che operavano in contesti differenti. La loro gestazione risale agli anni della prima guerra mondiale. Essi precedono di due anni il famoso saggio Io e Tu di M. Buber, che segna per la storiografia più accreditata la nascita della cosiddetta filosofia dialogica.Così, nello spazio di due anni il paradigma dialogico può ritenersi configurato.
Parlo di paradigma, perché si può riscontrare fra le opere citate un’ampia convergenza di tematiche e tesi e una sorta di aria di famiglia, nonostante la diversità di contesti teoretici e di retroterra culturali (Ebner è cattolico, Rosenzweig e Buber provengono ed attingono alla tradizione ebraica e talmudica). Pertanto, i Frammenti Pneumatologici di F. Ebner e la Stella della Redenzione di F. Rosenzweig delineano i contorni del pensiero dialogico, che rappresenta uno delle più interessanti novità nel panorama del pensiero del ’900.1
1. L’opposizione all’idealismo
Un primo elemento accomunante Ebner e Rosenzweig è dato dal punto di partenza, individuabile nella comune opposizione all’idealismo.
Si può affermare, a tal proposito, che l’idealismo sta ai dialogici come l’illuminismo sta ai francofortesi. L’idealismo rappresenta, in particolare, per Ebner la massima dilatazione del solipsismo, ossia della tendenza propria del soggettivismo a chiudere il soggetto in un isolamento escludente ogni relazione. In particolare, l’Io di Fichte, l’Io creatore, che si autopone per poi dedurre dalla propria autoposizione il mondo intero, si rivela l’esito estremo di un processo iniziato già con Cartesio. E’, infatti, con quest’ultimo che la certezza viene a coincidere con l’atto di autorelazione del soggetto con se stesso, per cui «il soggetto, nell’atto di pensarsi, è al tempo stesso il proprio oggetto».2 Ciò eleva l’Io muto, senza parola e senza tu3 a punto archemideo su cui poggiare l’unità del mondo come unica totalità inglobante in sé uomini e cose.4 Ma ciò allontana altresì l’Io dal terreno dell’esistenza reale.5
Rosenzweig rintraccia il presupposto della filosofia occidentale nella convinzione, presente fin dagli inizi, che «l’unità del logos fonda l’unità del mondo come un’unica totalità».6 Ciò significa che «la pensabilità del mondo ha come conseguenza il fatto che esso diviene coglibile in quanto totalità». Un Tutto unico e universale abbraccia uomini e cose in un sistema totale ed onnicomprensivo.
Di questa idea, l’idealismo, con la sua intuizione di un unico spirito creatore, rappresenta il compimento. I sistemi idealistici sono, quindi, rigorosamente unidimensionali, intendendo il particolare come emanazione dell’universale e il reale come «ciò che può essere ricondotto logicamente» all’ideale: « I sistemi idealistici dell’Ottocento, quello di Hegel nel modo più chiaro, ma in germe anche quelli di Fichte e di Schelling, mostrano, nessuno escluso, un tratto che si é dovuto designare come unidimensionalità».7
Il mondo, in tale contesto, è pensato come logico e ordinato, sostanzialmente uno, perché il molteplice trova collocazione all’interno della sua architettura onnicomprensiva, come tessera di un puzzle. Ma dissolvendo il particolare nell’universale, l’idealismo finisce per perdere «il contatto con il vivo esistere». Ne è prova la sua logica che è indipendente dalla grammatica, ossia dalla lingua viva e creativa, ossia dalla vita. L’idealismo rigetta, infatti, il linguaggio come organon, tramutando ciò ch’è vivo in un regno di ombre. La logica dell’idealismo è tanto estranea al linguaggio quanto «alle spalle dell’umano», afferma Rosenzweig .8
Ma la messa in questione del pensiero idealistico sorge da una ancora più radicale crisi dell’uomo creatore, da una frantumazione dell’identità dell’io come Spirito Assoluto, dalla crisi irrimediabile del soggettivismo. Osserva, a tal proposito, Ebner:
… il tentativo, intrapreso (…) dalla filosofia tedesca, di salvare l’esistenza dell’Io in un idealismo orientato in senso soggettivo, è fallito e doveva fallire proprio per il fatto che non si era capito che non si aveva propriamente a che fare con l’Io vero e proprio, ma con l’io divenuto astratto e irreale nella riflessione e nella speculazione.^[9]
L’idealismo è rimasto fermo al concetto di un Io del tutto autoreferenziale, che crede di trovare esclusivamente in sé la propria sufficienza e assolutezza. Su questa conclusione ebneriana conviene anche Rosenzweig. La sua critica all’idealismo e alla sua logica corrisponde, infatti, perfettamente alla critica che Ebner rivolge al solipsismo idealistico incapace, scrive il maestro austriaco, di aprirsi alla parola viva e al dialogo.
2. La critica dell’oggettivismo e la ripresa della riflessione etica
Nel rifiuto del pensare astratto, logico e solitario, i dialogici comprendono non solo l’idealismo con le sue costruzioni sistematiche, ma anche il pensiero oggettivo, che nella tipologia della comprensione scientifico-naturale e matematica trova la sua massima espressione.
Il pensiero oggettivo e il pensiero idealistico sono entrambi, per Ebner, risvolti del solipsismo. Li accomuna la presunzione di poter sussistere autarchicamente, facendo a meno dell’interlocuzione e del dialogo. L’oggettivismo, come il soggettivismo idealistico, implica la solitudine dell’esistenza. Afferma Ebner: «Quanto più “oggettivo” egli diviene, tanto più solo diviene il suo Io, tanto maggiore la sua sofferenza per tale isolamento».9
Il linguaggio delle scienze mette tra parentesi gli aspetti soggettivi e dialogici, al fine di ricondurre la natura nei limiti di una rappresentazione impersonale ed astratta. Ma tale operazione nasconde una mistificazione, perché dietro il puro comprendere matematico agisce una volontà di dominio (evidenti sono qui le suggestioni di Nietzsche). Il soggetto vuole non solo disporre di sé e delle cose, ma pretende anche di ingabbiare il mondo intero nelle maglie concettuali da lui stesso predisposte,10 al fine di impadronirsene, prima teoricamente, poi praticamente.
Il Nostro tocca qui temi che saranno sviluppati da Buber e da Heidegger. Resta, ad ogni modo, caratteristico di Ebner e di Buber, a differenza di Heidegger, che il rapporto del soggetto esperiente con l’oggetto naturale viene letto in chiave dialogica e personale. Scrive Ebner: «La formula matematica è nella sua astrattezza l’espressione oggettiva per l’assenza di Tu dell’Io che conosce oggettivamente. Nella formula matematica l’Io (…) si è oggettivato e rifugiato nell’astrazione, cessando di esistere nell’assenza di parola di tale conoscenza».11
Il maestro austriaco esprime qui in forma immediata ed intuitiva quanto Buber svilupperà due anni dopo nel suo Io e Tu: la relazione che s’instaura nell’esperire oggettivistico è unidirezionale, mentre quella che avviene nell’esperire personale è reciproca, dialogica. Lì i termini sono l’Io e l’esso, qui sono l’Ioe il Tu. Lì la direzione è unica, dall’io all’esso, e non corrispondente, qui è reciproca e corrispondente. Ciò significa, e qui riscontriamo una stupefacente consonanza con alcune intuizioni ebneriane, che il mondo reso oggettivo (il mondo dell’esso, secondo la terminologia buberiana) è neutro, e cioè insignificante, restio, lontano. L’esperienza scientifica è — afferma Buber — «lontananza del tu».12 All’esperienza oggettiva manca la ricchezza dell’incontro e del confronto. Il filosofo ebreo si oppone, di conseguenza, non solo ad ogni tentativo di ricondurre il mondo umano all’esso, ma anche alla riduzione della natura ad un che di muto, con cui non è possibile una comunicazione autentica. Evidenti sono qui le assonanze con le riflessioni di Heidegger sulla tecnica.
Nel rifiuto del pensiero oggettivo è contenuto, più in profondità, il rifiuto di un pensare che crede di non accollarsi la responsabilità di pensare in prima persona, rifugiandosi nel neutro e nell’impersonale. La critica delle pretese onnicomprensive del pensiero sistematico e del pensiero oggettivo contiene, quindi, alle radici il rigetto di ogni discorso monologico, che rifiuti l’interlocuzione ed il confronto. E questo non ha un rilievo solo morale, perché si traduce nello scardinamento dei presupposti antropologici su cui si era impiantato il mondo moderno. Contestualmente, si ha una ripresa della riflessione etica, che diventa prioritaria rispetto a quella teoretica.
Nella pretesa dell’uomo di autoporsi, di dire Io sono Io, per poi dedurne il mondo nella sua totalità, è contenuta, quindi, una precisa opzione antropologica. Per Ebner, tutto questo si chiama solipsismo; potremmo dire autoconfinamento dell’Io in una solitudine priva di relazione o anche sostituzione del morto concetto alla parola viva. L’Io che si pone da sé sostituisce alla relazione con l’altro l’identità irrelata Io=Io, ma tale identità rinnega la realtà profonda dell’uomo. Il solipsismo, infatti, non è qualcosa di originario nella coscienza, ma è conseguenza dell’atto del chiudersi di fronte al Tu. La solitudine non è il principio dell’umano né il suo inevitabile destino, ma la sua degenerazione. L’esistenza autentica è dialogo, scambio, interlocuzione. L’intreccio tra antropologia ed etica è strettissimo. In particolare, la concezione dell’Io sottintende una posizione etica e, a sua volta, l’alimenta e la sostiene.
Ebner, sulla scorta di Pascal, è convinto che alla base del pensare non si trovi un’idea astratta, ma un Io esistente, concreto, con conati, desideri ed intime aspirazioni metafisiche (il volo). Intorno a questo Io volitivo si costituisce l’uomo, non solo nel suo pensare, ma anche nel suo essere. Pertanto, la comprensione di ciò che l’uomo è ruota intorno all’identità che si assegna all’Io.
In particolare, si pone un’alternativa: concepire l’io chiuso nel riferimento a se stesso, oggettivo ed oggettivabile, o concepirlo come aperto, dischiuso in direzione del Tu. In entrambi i casi i motivi etici si rivelano strettamente connessi a quelli teoretici in un circolo ermeneutico la cui chiave interpretativa è costituita dall’antropologia. Osserva Ebner:
La conoscenza etica ha una direzione diametralmente opposta rispetto alla tendenza alla sostanzializzazione. Quest’ultima dovrebbe produrre come sua meta ultima (…) il superamento fino all’annullamento della coscienza; la conoscenza etica, invece, è il compimento della coscienza specificamente umana (…) l’adempimento consapevole dell’esistenza.13
Mentre la direzione etica del pensare porta l’uomo alla consapevolezza, la tendenza alla sostanzializzazione «lo conduce all’assenza di coscienza», alla dimenticanza di se stesso e della «realtà del suo Esserci».14 Lo conduce, potremmo dire, usando le parole di Rosenzweig, «alle spalle dell’umano».
Osserviamo, infine, che nella rivalutazione dei motivi etici tanto Ebner quanto Rosenzweig partono da Kant, ma lo superano, nel momento in cui si accorgono che la sua idea etica è proiezione dell’Io ideale,15 non dell’io reale. Il confronto in Kant è, secondo Ebner, inesistente. Il Tu (il Tu devi! ), a cui si rivolge l’imperativo morale, è solo apparente. Figlia della presunzione dell’Io di bastare a sé, l’etica kantiana si rivela, quindi, priva di reale direzione verso il tu. Di conseguenza, manca di responsabilità e di dialogo. Non ci possono essere, infatti, responsabilità e dialogo laddove s’intenda l’io come autosufficiente ed autoreferenziale. L’io autentico non è quello che pretende di bastare a sé, ma quello che comprende di non essere senza il Tu, e cioè senza l’altro. L’Io autentico si realizza nel confronto.
Non è un caso che Lévinas si proietti verso un Umanesimo dell’altro uomo,16 a rimarcare il superamento di tutte le costruzioni etiche autocentrate ed autoreferenziali.
3. Oltre l’Io assoluto, in direzione dell’esistenza personale
Il punto cruciale per tentare una sintesi dei Frammenti ebneriani resta la questione relativa al soggetto.
Il pensiero di Ebner si definisce come soggettivo, ma rigetta il soggettivismo idealistico che si traduce in una logica senza parola e senza amore. Il fatto è che nel pensiero moderno, da Cartesio all’idealismo, passando per Kant, il soggetto è divenuto il «canone» dell’esperienza, in quanto fornisce le condizioni di possibilità del suo stesso darsi. Il soggetto che si rappresenta il mondo ha assunto, quindi, un primato sul mondo e sull’essere. Il reale è stato spodestato dal rappresentato, che ha sede nel soggetto trascendentale, divenuto, per Kant, legislatore dell’universo e legislatore etico.
Ora, tale posizione teoretica coincide, secondo Ebner, con il tramonto di ogni concreta singolarità. Il soggetto trascendentale, e, a maggior ragione, il soggetto creatore di Fichte e dell’idealismo, non è, infatti, il soggetto reale, esistente. Per l’idealismo, infatti, l’esistenza è mera manifestazione del concetto e la vicenda del singolo s’inscrive nella fenomenologia dello Spirito assoluto, in cui il particolare finisce per essere assorbito nell’universale astratto.
Su questo punto critico opera il rovesciamento operato da Kierkegaard con la sua filosofia dell’esistente, che costituisce il presupposto, potremmo dire l’antefatto, della posizione dialogica. Infatti, è proprio la distanza che si interpone tra il pensiero e l’esistenza ciò che distingue il pensatore rappresentativo, che Kierkegaard chiama oggettivo, dal pensatore soggettivo, esistenziale: «Il pensatore oggettivo è indifferente rispetto al soggetto pensante e alla sua esistenza, il pensatore soggettivo, come esistente essenzialmente interessato al proprio pensiero è esistente in esso».17
Il pensatore soggettivo non tratta di un oggetto distante dalla sua esperienza. Egli è direttamente coinvolto nel suo pensare. Ciò significa che si trova a scegliere e non a derogare ad una presunta logica impersonale, ad una sintesi che ricomponga le contraddizioni dell’esistenza passando al di sopra di lui. Kierkegaard è convinto, quindi, che partire dall’esistenza costituisca la vera alternativa al sistema della ragione. Sulla strada dell’alternativa al pensiero sistematico, Ebner incontra anche Nietzsche ed il nichilismo. Lo stesso vale per Rosenzweig, che si confronta, fin dalle prime pagine della sua Stella con il nulla in tutte le sue manifestazioni, fino a quello corrosivo della morte. Lo stesso vale per Buber che rimarca il suo debito teoretico non solo nei confronti di Kierkegaard, ma anche nei confronti di Stirner. La radicale destituzione della ragione operata da Nietzsche trova, quindi, senz’altro un riscontro nei dialogici, come anche lo «spodestamento del cogito dal suo piedistallo di autotrasparenza, di autoevidenza e di chiarezza illuminatrice»18 operata da Freud.
Resta che i dialogici si distanziano da queste posizioni e prendono una strada nuova in direzione di una nuova considerazione del soggetto, di una nuova visione etico-antropologica e di una nuova ontologia. In particolare, marcano una differenza nei confronti del nichilismo di Nietzsche, della psicanalisi freudiana, dell’ontologia di Heidegger, nel momento in cui vi vedono prevalere il neutro sul personale, l’essere anonimo sul soggetto avente nome e volto. Il soggettivo, considerato esistenzialmente, viene, quindi, a costituire come la via di uscita dalle secche del nichilismo, la risalita verso il senso, e, in modo ancora più forte, la direzione dell’essere. Ma per fare questo devono riconsiderare il soggetto, l’uomo e l’essere in un senso diverso anche rispetto a quello indicato da Kierkegaard.
Avendo come maestri non solo Kierkegaard, ma anche Pascal, Ebner è convinto del carattere personale dell’esistenza. Sa che questa non può mai essere compresa dal pensiero, quasi che il pensiero potesse in qualche modo imbrigliare la spinta che proietta l’esistenza oltre se stessa in cerca del Tu. Riscontra fra il piano concettuale-universale e quello esistente-particolare uno sfalsamento, in quanto lo scenario dell’uno è la totalità, l’essere concepito sub specie aeterni, mentre quello dell’altro è la mortalità che l’esistente sconta in prima persona. Scrive Ebner:
Cosa vuoi che importi alla filosofia di te e della tua esistenza? Ha cose più importanti da fare: deve finalmente condurre a soluzione i problemi del mondo e della vita, dell’essere e del pensare e di te potrebbe interessarsi solo qualora tu fossi L’Io assoluto.19
Il soggetto incarnato deve tenersi all’esperienza del vivere, imprevedibile ed impreventivabile. Conosce, quindi, le contraddizioni della vita e la sua problematicità. Ma, proprio per questo, l’esistenza particolare mostra un’eccedenza rispetto ad ogni idea universale. Nessun approccio teoretico è, infatti, in grado di determinarla. Non lo è, per il semplice motivo che la vita non è teorizzabile. Non a caso Lévinas attribuisce a Buber, ma la si potrebbe anche attribuire ad Ebner, l’espressione: «Indeterminato come la vita»,20 cogliendovi la sintesi più efficace del suo insegnamento.
Pertanto, l’Io assoluto, di cui tratta la filosofia, non è e non esiste. Ha, quindi, un rilievo meramente concettuale. Non a caso, se ne parla in terza persona. Ciò rimarca la lontananza dall’Io e dal Tu. Fra l’esibizione ideale di un io assoluto, di cui si parla in terza persona, e l’io che dice io sono c’è, infatti, la distanza che passa fra il rappresentato e il reale, fra l’impersonale ed il personale, fra ciò che è neutro ed universale e ciò che ha un nome particolare ed un volto inconfondibile. «L’Io non è, io però sono» — afferma Ebner.21
Questa è la differenza! Io sono, nei limiti di ciò che sono, che mi impediscono di pormi come assoluto, ma che mi proiettano in una sfera di possibilità che oltrepassa ogni necessità. Io che sono non posso essere, infatti, dedotto dall’universale, ascritto in una logica indipendente da me, dal mio volere, da ciò che sono. Così pure il tu, cui mi rivolgo nella parola, nell’interlocuzione e del dialogo, non può essere un Tu senza nome e senza volto, una mera proiezione ideale (il Tu devi kantiano). Io e Tu, semplicemente, non sono rappresentazioni, ma persone reali che si cercano e si ritrovano nella parola e nell’amore, là dove non arriva il concetto, là dove, tuttavia, si svolge la vita.
In questa resistenza che la persona, singola, reale, concreta, oppone ad ogni tentativo di inglobamento, di derubricazione, si riscontra l’elemento fattuale che permette di situarsi oltre la destrutturazione del cogito e oltre la crisi della ragione. «Finora essa è giunta a comprendere mezza verità, ovvero che l’Io non è» — scrive Ebner in riferimento agli esiti nichilistici della filosofia occidentale. L’altra parte di verità che manca è che «io sono».22
Scrive B. Casper in riferimento diretto a Rosenzweig ed indiretto ad Ebner:
Io, che sono realmente io stesso e realmente nella mia totalità, io che insomma riempio ogni possibile orizzonte, voglio e devo essere io stesso. Ma con questo mio assoluto voler-essere-“sé”, mi distinguo fin dall’inizio da ogni possibile universalità in cui potrei essere incluso.23
E Rosenzweig osserva:
Dopo che essa [la filosofia] ha accolto tutto in sé ed ha proclamato unica ed esclusiva la propria esistenza, l’uomo d’improvviso scopre che egli, pur filosoficamente digerito da molto tempo, è ancora qui. Io come normalissimo soggetto privato, io nome-cognome, io polvere e cenere, io ci sono.24
Nel mio esserci non si palesa la dissolvenza di un essere neutro, che agisce indipendentemente da me, di un essere parlante nel linguaggio, ma, al contrario, il mio personalissimo essere, con un volto «presente nel suo rifiuto di essere contenuto», perché «non potrebbe essere né compreso né inglobato»,25 come scriverà più tardi Lévinas approfondendo quelle riflessioni e quegli spunti di Rosenzweig.
Nessuna specie o categoria universale può, alla fine, comprendere il singolo io: «L’io (o il tu) considerato nella sua oggettività, è singolo semplicemente e direttamente, non per il tramite di una qualche molteplicità; (…) è singolo senza specie».26 Questo semplice e, per certi versi, inerme io diviene, per Rosenzweig, il solido punto di ripartenza in direzione del nuovo pensiero, «l’unica caravella sulla quale noi possiamo muovere alla scoperta del nuovo mondo della rivelazione, se ci siamo imbarcati nel porto del vecchio mondo logico».27
4. Oltre il nichilismo
Come in tutto il pensiero della destrutturazione del cogito, anche nei dialogici l’egoità perde la sua sicurezza soddisfatta. L’uomo conosce la lacerazione nel proprio intimo. Tale lacerazione riguarda, innanzitutto, la consapevolezza che ha di se stesso. Non si può nutrire, infatti, più nessuna ingenua sicurezza dopo il fallimento della storia e dopo la storia dei fallimenti delle molteplici visioni ideali. La domanda «chi sono io?» non trova, quindi, una facile risposta o resta elusa. Tutto ciò costringe i dialogici a cercare nuove modalità di dicibilità dell’umano che tengano conto della lacerazione intervenuta.
Ma la scissione, la negatività non è solo un fatto teorico. Il passaggio attraverso il nulla è un passaggio reale, incarnato. In mezzo c’è l’esperienza diretta della fine di un mondo. Nietzsche l’aveva preconizzata, ma i dialogici l’hanno vissuta. Per essi, sono gli avvenimenti tragici della guerra a marcare l’uscita dal mondo delle certezze, dei saperi onnicomprensivi, delle ideologie risolutive. La deposizione del cogito e l’impossibilità del sistema coincidono, quindi, con la bancarotta socio-politica della prima guerra mondiale, di cui si trovano ad essere, loro malgrado, testimoni.
Ma in mezzo alla sofferenza e alla violenza della guerra emerge pure un’urgente domanda di senso.
Per Ebner, parafrasando Cartesio, la parola originaria non è Io sono, ma Io sono e soffro, nel senso che la percezione stessa di ciò che sono coincide con l’esperienza del mio essere indigente, del mio essere ontologicamente insufficiente.28 In tal caso, la parola originaria, quella che viene prima di ogni concetto, di ogni sostantivizzazione, è una domanda rivolta oltre se stessi, domanda che richiede una risposta come quella di un grido di dolore che non si placa e rassegna.
Si capisce, quindi, che il nulla dei dialogici non è il nulla del concetto, ma è il nulla della morte e della sofferenza, la congestione del dolore penetrata nell’intimo della coscienza. Al posto del nulla universale, astratto ed intangibile, sono subentrati, scrive Rosenzweig, «le mille morti reali di mille morti reali».29
Nella sua autocomprensione, l’uomo può intravvedere il suo nulla, per cui anche la fine non ha per lui il significato di mero accadimento, perché egli la conosce in quanto fine. Il fatto che può soffrire e morire è, quindi, il presupposto della sua condizione esistenziale; non un che di universale e logico, ma l’elemento decisivo, da cui parte la conoscenza di sé, in quanto se stesso.30 Ciò significa che, alla luce della fattualità, il nulla è più del suo concetto. Esso si reduplica illimitatamente nelle mille morti che invalidano ogni senso e annichiliscono ogni conato: «Nell’oscuro retroscena del mondo si annidano, come suo inesausto presupposto, mille morti ed invece di un unico nulla, che sarebbe realmente nulla, stanno mille nulla…».31
Quale risposta possiamo dare a questi infiniti nulla reali, che costituiscono altrettante domande? Ma ancora più: è possibile rivolgere una domanda di senso? C’è qualcuno che potrebbe raccoglierla da qualche parte? «Chiuso fra cose mortali (anche il gran cielo stellato finirà) perché bramo l’eterno?» — si chiede il poeta, che dall’altra parte del fronte viveva un’esperienza altrettanto essenziale della guerra.32
A partire da queste domande prende forma una nuova visione dell’uomo, che non ha i caratteri della soddisfatta apprensione di sé, e un nuovo senso dell’essere, che si pone oltre la sua dimenticanza, oltre la sua riduzione a cosa disponibile al soggetto. L’Io non è né può divenire autarchico. La sua non autosufficienza è strutturale. L’affermazione di sé, Io sono, non è, né può essere intesa, nel senso dell’autoaffermazione e dell’autoposizione:
Il senso della proposizione originaria era Io sono e non invece Io sono Io; dell’Io che si-pone-in-relazione con il Tu, non invece nell’assolutizzazione della sua chiusura di fronte al Tu come avviene nell’autoposizione che si ha nel principio di identità. Questo è senz’altro la premessa non solo per il principio logico, ma anche di quella presa di coscienza etica dell’uomo circa se stesso…33
Occorre abbandonare il paradigma dell’autosufficienza dell’Io. «Quando io affermo di me che sono, riconosco, la non principialità del mio io e insieme lo stupore di qualcosa che è in se stesso un evento: Io sono, ma non da me stesso».34 Il soggetto si afferma solo in maniera derivata: Io sono, perché sono dato a me stesso. Infatti, l’affermazione di sé nella sua interezza, io sono, ha il carattere di un’espressione e, come tale, rinvia immediatamente a un fuori di sé, ad un referente destinatario. Ciò vuol dire che sono «costituito in una originaria passività, che si esprime nel riconoscimento di una datività, che nel dirsi al nominativo della prima persona manifesta una struttura di bisogno, il bisogno d’essere o del proprio essere come bisogno».35
Da un lato quindi, tutta la forza dell’affermazione dell’Io nella sua unicità di io personale, ma, dall’altro, la consapevolezza che il soggetto si afferma in maniera derivata. Da un lato l’Io che riemerge dalle ceneri del suo nulla, dall’altro la relazione che gli imprime una direzione e, quindi, un senso. Ma questo senso non dovrà essere inteso come una formulazione di una verità astratta, ma come coincidente con il Tu reale, consistente, che ci interpella direttamente.
5. Oltre la solitudine dell’Io
Il pensiero dell’Io, di cui è massima espressione l’idealismo, è rimasto fermo al concetto di un Io che si riferisce a se stesso, credendo di trovare in sé la propria sufficienza e assolutezza. Il nichilismo ne ha saggiato il limite e lo ha deposto, ma non è andato oltre. Esso si è fermato all’io e alla sua solitudine.
Ebner, invece, intende andare oltre la solitudine dell’io. La sua ontologia indigenziale non incatena l’io alla sua finitezza, alla sua immanenza limitata e limitante, ma lo proietta oltre se stesso, verso il Tu. In Ebner, quindi, la stessa affermazione io sono è indice di un’apertura all’altro. Ha scritto S. Zucal: «Riconoscersi deficitari, mancanti, bisognosi, carenti, finiti: questo riconoscimento — come ben segnalerà Lévinas — non è povertà, ma è la reale e peculiare ricchezza della condizione umana, paradossale positività della carenza, dell’essere feriti, impotenti, passivi, esiliati, viandanti»36
L’uomo è un essere rivolto. Compresa nel suo significato originario, l’affermazione Io sono ha, quindi, un valore di espressione che si dirige oltre l’io, in direzione del Tu. È invocazione e grido di aiuto. L’Io è costitutivamente direzionato e si dice in presenza di un Tu, di fronte ad un Tu. La persona non è autoposizione saccente né autoreclusione, ma appello, rivolgimento: «L’essere personale, dal punto di vista dell’uomo e in una maniera per lui assolutamente valida, è sempre l’esistere dell’Io in rapporto con il Tu».37
L’uomo non può, quindi, definirsi sul registro dell’autosufficienza, nella presunzione di bastare a sé. Al contrario, per essere, «l’Io ha bisogno del rapporto con il Tu».38 Il Tu ha il potere di «portare l’io concreto a consapevolezza di se stesso».39 L’aver dimenticato questo è il tratto comune del pensiero occidentale. Pertanto, la sua è la storia di una dimenticanza, che non è quella dell’essere, come per Heidegger, ma quella del Tu. Il Tu è l’assente della modernità!
Il nucleo di questa storia di dimenticanza è individuabile nel fatto che il pensiero moderno ha pensato nei termini della centralità dell’io. L’io è diventato fondamentale sia sotto il profilo teoretico sia sotto il profilo etico. Contestualmente, è andato perdendo i caratteri concreti legati alla prima persona ed è stato posto come assoluto ed impersonale. Non a caso, lo si è riferito in terza persona. Ne è scaturito come estrema conseguenza l’esclusivismo della ragione, che si è imposto tanto nei sistemi idealistici, in cui il particolare è stato assorbito nell’universale, quanto nel determinismo scientifico.
Occorrerà ora partire dalla seconda persona, perché l’io è radicalmente orientato verso il Tu. Ne ha un bisogno profondo, che si manifesta, prioritariamente, nella nostalgia che porta dentro di sé. Non sarà più possibile pensare l’uomo nei termini dell’ego-centralità, nella prigionia del proprio Io-solispismo. Il Tu costituisce la premessa della «presa di coscienza etica dell’uomo circa se stesso…».40 E solo «nel rapporto dell’Io con il Tu, nella sua attuazione, l’uomo trova la propria autentica vita spirituale…»,41 riemergendo dalla contrazione individualistica, che lo angustia.
Ma chi è il Tu dell’uomo?
Per Ebner, «nelle fondamenta ultime della nostra vita spirituale Dio è il vero Tu del vero Io nell’uomo42». Il Tu che l’uomo cerca nel profondo della sua coscienza è Dio, perché solo Dio è vero Tu. I tu umani non restano indifferenti, ma, quanto alla loro significatività, rimandano all’unico Tu che ci interpella da sempre, che ci richiama, che ci evoca: «Il vero Tu dell’Io è Dio; l’uomo quando afferma la propria stessa esistenza nell’autocoscienza della proposizione Io sono, presuppone implicitamente Dio».43
L’essere personale «è sempre l’esistere dell’Io in rapporto con il Tu, ossia l’esistere in rapporto a Dio».44 La persona esiste, e cioè consiste come persona, oltre le ideologie, oltre gli universali astratti e le totalità omologanti, in quanto fondata in un rapporto personale originario. Pertanto, in quel rapporto ha la garanzia di non confondersi o disperdersi nella folla anonima e nella massa senza volto. Quanto a Dio, in nessun modo potrà essere confuso con un’idea o con un’entità astratta. «Dio non è una proiezione dell’Io umano». Ridurre Dio all’idea umana del divino equivale a non riuscire «a comprendere il reale rapporto dell’uomo con Dio».45
Pertanto, le dimostrazioni dell’esistenza di Dio non sono, per Ebner, solo insufficienti, ma anche superflue, perché non colgono «la reale esistenza di Dio». L’affermazione oggettiva di Dio traduce in terza persona quanto invece si sperimenta, s’incontra, si realizza solo ed esclusivamente come Tu: «Il reale incontro con il Tu eterno crolla quando io voglio riportarlo in modo oggettivo a me stesso, dal momento che esso è reale solo nella misura in cui io incontro».46
6. Le realtà spirituali: la parola e l’amore
Anche su questo punto troviamo una stupefacente consonanza con Rosenzweig, per il quale il religioso abbandona il suo ruolo classico, confessionale, per assumere un ruolo centrale, addirittura ontologico. Vale come tessuto connettivo dell’essere, coincidendo con le pulsazioni profonde della vita. Si dimostra capace di una radicazione nel linguaggio, sconosciuta al pensiero logico. Pertanto, «coincide con l’universo della piú comune e concreta e quotidiana esperienza dell’uomo all’interno del mondo». Vale, quindi, come «una chiave ermeneutica assolutamente privilegiata per decifrare la complessa trama relazionale che fonda, sorregge e sostanzia da cima a fondo l’intero universo dell’esistenza piú concreta, piú immediata (…) — dell’uomo all’interno del mondo».47
Così, nel franare di tutte le sicurezze moderne, mentre il mondo brucia con la guerra, «è il concetto di rivelazione della teologia a gettare quel ponte tra l’estremamente soggettivo e l’estremamente oggettivo»,48 che la filosofia non aveva saputo gettare. È la religione ad offrire quell’uscita dalla solitudine e dall’incomunicabilità che sembrano diventati caratteristici della moderna condizione del vivere. La rivelazione, infatti, orienta l’uomo sottraendolo alla «nebbia dei forse».49
Quanto ad Ebner, egli non si ferma ad enunciare lo spirituale in astratto, ma si sforza di riscontrarlo fenomenologicamente, nel suo darsi, nel suo realizzarsi in quelle realtà spirituali che, non a caso, compaiono già nel titolo dell’opera («La parola e le realtà spirituali. Frammenti pneumatologici»). Il rischio che lo spirituale sfumi in concettosità o in sentimentalità priva di concretezza gli è senz’altro presente. Rinviene, quindi, l’estrinsecazione del rapporto dell’Io verso Dio nella parola e nell’amore. Scrive: «L’Io e il Tu — vale a dire in ultima istanza l’uomo e Dio — queste realtà della vita spirituale trovano nella “parola” la loro esistenza «oggettiva», come nell’amore quella “soggettiva”».50
Parola e amore vanno assieme. Entrambi liberano dalle preclusioni mentali. Entrambi conducono oltre la solitudine dell’io. Fra essi si dà complementarietà, perché quanto è «oggettivamente-dato-nella-parola», riceve «la sua sussistenza «soggettiva» nell’amore».51
La parola è qualcosa di oggettivo in cui la direzione spirituale ed ontologica si rende visibile, percepibile, udibile. L’amore è espressione intima, una sorta di parola approdata alla sua estrema sonorità, che sconfina nel silenzio e nello stupore. La parola istituisce un medium, una relazione che unisce l’uomo a Dio e l’uomo all’altro uomo. L’amore invera la parola. Le dà spessore, perché la parola, sgombrato il campo da ogni possibile equivoco, è amore. Essa nel suo significato ultimo è la Parola-Logos che «era in principio presso Dio ed era Dio» e che «si fece carne e venne a mettere le tende in mezzo a noi», come scrive Giovanni nel Prologo del suo Vangelo.
L’amore è il motivo di Dio ed è il senso di tutto. Nel rispetto dell’uomo concreto, esso realizza la forma di comunicazione più profonda, che supera la distanza che divide dall’altro, dilatando l’io al di là del proprio mondo chiuso. Nell’amore l’altro diventa il prossimo, che chiama a fare esodo dall’egoismo, a superare le barriere dell’incomunicabilità e della diffidenza, a infrangere la prigionia dell’individualità.
Rosenzweig, similmente, individua la parola e l’amore quali elementi fondamentali della rivelazione e della redenzione. Con la rivelazione Dio promuove l’uomo a suo tu, facendogli dono del linguaggio e costituendolo persona, ossia individuo non immerso nella specie. Con la redenzione l’amore si dilata, coinvolgendo e comprendendo tutti gli uomini e tutte le creature. Infine, l’amore indica «l’eterna vittoria sulla morte».52
Il timore della morte è ciò che muove la filosofia. Essa pretende di vincere la morte con il sapere, ma non riesce, perché, finché l’uomo vive sulla terra è destinato a «rimanere in questa paura».53 Tutto, infatti, accade sotto il marchio della morte, compresa ogni nuova nascita, che non fa che accrescere «il numero di ciò che deve morire». Ma la morte non ha l’ultima parola né è l’ultima realtà. Alla morte, infatti, «l’amore dichiara battaglia». E, se la morte è «chiave di volta dell’oscura voluta della creazione», l’amore è «la pietra di fondamento della luminosa dimora della rivelazione»: «La creazione, che la morte corona e conclude, non può tener testa all’amore, deve arrendersi ad esso ogni istante e perciò, alla fine, anche nella pienezza di tutti gli istanti, nell’eternità»54
Ora, per il cristiano, Ebner tutto questo si è realizzato in Cristo. Sulla croce la Kenosi di Dio, la sua compromissione con il mondo, ha raggiunto il suo punto culminante. Essa non indica solo l’assunzione della sofferenza e della morte da parte di Dio nella persona del Figlio, ma precisamente la vittoria dell’amore sulla morte, l’intronizzazione di un amore tale da vincere la morte.
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M. Buber, Per la storia del pensiero dialogico, in Il principio dialogico e altri saggi, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, pag. 322-23. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998, pag. 253. ↩︎
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Ibidem pag. 165. ↩︎
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cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005, pag. 12. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti etc., cit., pag. 254. ↩︎
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F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 12. ↩︎
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Ibidem pag. 52. ↩︎
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Ibidem pag. 144-45. ↩︎
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Ibidem, pag. 284. ↩︎
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Ibidem pag. 286-87. ↩︎
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Ibidem pag. 291 ↩︎
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M. Buber, Io e Tu, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., pag. 65. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti etc., pag. 283-84. ↩︎
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Ivi. ↩︎
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Ibidem, cit., pag. 250. ↩︎
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E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, il Melangolo, Genova 1998. ↩︎
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S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di Filosofia», in Opere, Sansoni, Firenze 1972, pag. 296. ↩︎
-
E. Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2002, pag. 56. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti etc., cit., pag. 248. ↩︎
-
E. Lévinas, Fuori soggetto, Marietti, Genova 1992, pag. 15. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti etc., cit., pag. 248. ↩︎
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Ivi ↩︎
-
B. Casper, Il pensiero dialogico, Morcelliana, Brescia 2009, pag. 94. ↩︎
-
F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, Venezia 1983, pag. 21. ↩︎
-
E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaka Book, Milano 1994, pag. 199. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, cit., pag. 192. ↩︎
-
F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., pag. 25. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti etc., cit., pag. 305-06. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 5. ↩︎
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Vedi B. Casper, Il pensiero dialogico, cit., pag. 98. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 5. ↩︎
-
G. Ungaretti, Il Porto sepolto, il Saggiatore, Milano 1981, pag. 97. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti etc., pag. 287. ↩︎
-
E. Baccarini, La soggettività dialogica, cit., pag. 115. ↩︎
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Ivi ↩︎
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S. Zucal, Premessa in B. Casper, Il pensiero dialogico, cit., pag. 14. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti etc., pag. 167. ↩︎
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Ibidem pag. 211. ↩︎
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Ibidem pag. 171-72. ↩︎
-
Ibidem pag. 287. ↩︎
-
Ibidem pag. 149. ↩︎
-
Ibidem pag. 145. ↩︎
-
Ibidem pag. 158. ↩︎
-
Ibidem pag. 167. ↩︎
-
Ibidem pag. 168. ↩︎
-
B. Casper, Il pensiero dialogico, cit., pag. 338. ↩︎
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F. P. Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme. Il «nuovo pensiero» di Franz Rosenzweig, Marietti, Genova-Milano 2009, pag. 177. ↩︎
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F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 113. ↩︎
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Ibidem ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti pneumatologici, cit., pag. 211. ↩︎
-
Ibidem pag. 156. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 169. ↩︎
-
Ibidem pag. 3-4. ↩︎
-
Ibidem pag. 112. ↩︎