1. Introduzione
Come ha osservato M. Theunissen «il pensiero dialogico è nelle sue radici un movimento di opposizione».1 Questa opposizione è primariamente rivolta all’idealismo, visto come esito finale della filosofia moderna,2 cosicchè un anti-idealismo radicale accomuna tutti i dialogici. Rosenzweig ed Ebner maturano, in effetti, il loro pensiero «non solo in una generica presa di distanza dall’idealismo tedesco, ma nel tentativo di scardinare fin alle radici il sistema idealistico ed ogni forma di idealismo in senso lato».3 Identificato l’idealismo come l’esito finale del pensiero moderno, l’opposizione ad esso si apprende come presa d’atto di una crisi epocale. Diviene consapevolezza della crisi del pensiero moderno, che, partendo da premesse astratte, aveva formulato la pretesa di un sapere assoluto e totale, con conseguenze dirompenti a livello etico e politico. Questa consapevolezza non matura in una riflessione generica e distaccata, ma attraverso l’esperienza della prima guerra mondiale.4 In questo luogo storico essenziale Rosenzweig individua il momento in cui al posto di «quell’unico ed universale nulla che nasconde il capo sotto la sabbia all’udire il grido della paura della morte» subentrano le mille morti reali.5 Fu, quindi, «la vita mescolata all’enorme sofferenza della guerra», a spingere i dialogici alla ricerca dei significati essenziali e della parola autentica, in vista di un pensare capace di offrire orientamento di fronte al naufragio di ogni senso e valore.
Accade qui qualcosa di simile a ciò che interviene nella misura poetica di Ungaretti, che al fronte scopre la parola essenziale, capace di ristabilire un rapporto fra l’uomo e le cose, la parola evocativa ed il suo senso analogico.6 Pertanto, come al poeta non si domanderà «la formula che mondi possa aprirti»,7 così ai dialogici non si richiederanno il sistema e la sintesi estrema, che sono esattamente ciò che essi contestano, ma piuttosto la storta sillaba e secca della riscoperta delle relazioni essenziali, delle fratellanze e delle prossimità di fronte al mistero dell’essere.8 L’uomo è incapace di formulare risposte alla domanda: chi sono io? ma le dimensioni di senso che si aprono in questa incapacità non sono negative, perché costringono a ripensare i percorsi e a cercare «nuove modalità di dicibilità dell’umano». Nella consapevolezza della crisi, i dialogici segnano, quindi, un passaggio da una tipologia di pensiero ad un’altra e, più specificamente, «dalla rappresentazione del mondo alla costituzione di senso».9
2. Il pensiero autofondantesi: Cartesio e il solipsismo dell’Io
Secondo Rosenzweig, esiste un filo diretto che dalla prima riflessione della Jonia si riconnette a Jena,10 e cioè all’idealismo. Lungo questa direttrice il pensiero di Cartesio rappresenta lo snodo essenziale, il momento in cui s’impone l’idea del soggetto come fondamento imprescindibile ed intrascendibile di certezza.11 «Solamente con Cartesio […] — afferma Hegel nelle Lezioni di storia della filosofia — perveniamo propriamente ad una filosofia autonoma […], consapevole che l’autonomia è momento essenziale del vero».12 L’autofondazione del pensiero avviene attraverso un procedimento che rompe la relazione del soggetto col mondo. Cartesio si applica, a rifondare dalle fondamenta il sapere, avendo azzerato tutti i rapporti coll’esterno. La solitudine rispetto alle cure del mondo gli appare, quindi, come pregiudiziale per la distruzione di tutte le antiche opinioni: «Ora dunque, che il mio spirito è libero da ogni cura, e che mi son procurato un riposo sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione generale di tutte le mie antiche opinioni».13 Il dubbio, che è parte integrante della via che porta alla certezza, risponde ad un atteggiamento di chiusura, nell’ambito di un discorso che è del tutto autoreferenziale. Rappresenta una forma di derealizzazione di tutta la realtà operata nel quadro di un estremo solipsismo14. Il dubbio è radicale, destabilizzante, e nulla sembra resistergli, destruttura ogni convinzione, invade e pervade ogni constatazione, considerazione e discorso. Tuttavia, arrivato alla coscienza pensante, si involve in una contraddizione e inverte la sua direzione. Il dubitare di sé è, infatti, un pensare che sottintende un sé: «Ma, subito dopo, — scrive Cartesio nel Discorso sul metodo — m’accorsi che, mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni cosa, bisognava necessariamente che io, che la pensavo, fossi pur qualcosa».15 Nel dubbio relativo al sé, pensato e pensante, punto di partenza e punto di arrivo, coincidono. La dimostrazione disegna, quindi, un movimento che ritorna su se stesso, cui corrisponde l’identità di un pensiero che nel pensare non esce da sé e non si riferisce ad oggetto alcuno, pretendendo di essere oggetto di se stesso.16
La certezza è individuata, allora, sulla base dell’autorelazione del soggetto. In altri termini, l’io si pensa in maniera assoluta, al di là di ogni rapporto o riferimento esterno. Osserva F. Ebner:
Si potrebbe dire che l’Io è per il fatto di pensarsi. Ovvero ancora cogito, ergo sum. Così esso diviene identità di pensare ed essere: è, perché si pensa e si pensa perché è; e anche all’identità tra soggetto e oggetto: è il soggetto che, nell’atto di pensarsi, è al tempo stesso il proprio oggetto.
L’Io diviene identità di pensiero ed essere, di soggetto ed oggetto. La proposizione Io sono appare, quindi, come affermazione del «principio d’identità nella sua sottrazione e mancanza di oggetto»17: nulla che abbia a che fare con l’esistenza reale, con l’incontro fra persone o con l’esperienza del mondo. Si pensa all’interno di un discorso del tutto privato ed intimo, che si sottrae al confronto e fa astrazione dal linguaggio e dalla parola.18 Questa identità, sottolineata da Ebner, è la stessa che in altro modo Rosenzweig determina come presupposto unico di tutta la riflessione filosofica dalla Jonia fino a Jena: l’idea di un Tutto unico e universale, che comprende in sé cose e uomini. Osserva Rosenzweig:
Il de omnibus dubitandum di Descartes era valido — partendo dal presupposto di un Tutto unico e universale. Di fronte a questo Tutto stava un pensiero unico e universale e, strumento di questo pensiero, il dubbio de omnibus parimenti unico e universale.19
Di tutto è lecito dubitare, ma non del Tutto, che costituisce l’asse intorno al quale ruota il pensiero sistematico. Questo vecchio arnese esemplifica da sempre la pretesa di comprendere il differente nell’identico, di omologare il diverso, di unificare il molteplice. Ed è quanto esattamente la filosofia, fin dai primordi, ha elevato ad antidoto contro la paura della morte, che affligge l’uomo nella sua esistenza particolare. L’uomo muore, ma «il Tutto non morrebbe e nel Tutto nulla morirebbe».20 L’uomo è irrimediabilmente solo, particolare, singolo, ma il Tutto è universale, totale e onnicomprensivo.
3. La verità-certezza, la scomparsa della dimensione relazionale dalla nozione di verità
Cartesio attua, rispetto alla filosofia classica, un’inversione nel rapporto fra pensiero e realtà. Il pensiero non pensa tanto la realtà, nel senso che la presuppone, ma la anticipa logicamente. Tale inversione è riscontrabile nella trasformazione del significato della verità, che si opera a partire da lui nella filosofia moderna. Che cosa pensa il pensiero? Cartesio afferma che il pensiero pensa se stesso. Questa certezza gli appare come immediata e avvalorata dallo stesso dubbio che vorrebbe inficiarla. Il soggetto, identificato con la sua mente, ha di essa una visione privilegiata, in quanto i propri stati mentali gli sono noti senza possibilità di dubbio. Se egli pensa di averli, allora li ha e, se li ha, ne è cosciente. Né può commettere errori su di essi (almeno nel momento in cui li ha). Il sé del soggetto, quindi, non è solo l’unica cosa assolutamente certa, ma è anche una cosa distinta da qualunque altra si possa pensare o immaginare. Mentre tutto il resto, infatti, abbisogna del soggetto che pensa per essere pensato, la coscienza, che si coglie intuitivamente senza uscire da sé, pensa se stessa e basta a se stessa. Questo io muto, senza parola e senza tu21 diviene, per Cartesio, l’unico punto fisso e immobile capace di offrire un’evidenza rassicurante e definitiva, il punto archemideo su cui elevare l’unità del mondo come unica totalità.22 Nell’atto di pensare se stesso l’Io è, infatti, certezza evidente, rassicurante, definitiva, che per certificarsi non ha bisogno di appoggiarsi ad altro che alla sola percezione immediata di sé.23
Si attua qui un passaggio dalla verità intesa come adeguazione alla realtà alla verità come esperienza soggettiva identificabile con ciò di cui si è certi, ciò che si discerne, si vede e si tocca.24 La nozione di verità come adeguazione alla realtà intende, infatti, la verità come frutto di un’apertura dell’intelletto alla realtà, all’esteriorità del dato conoscitivo. La nozione della verità come certezza soggettiva la intende invece come frutto di un’adeguazione fra il soggetto pensante e il frutto interiore della sua attività di pensiero, come coerenza del pensiero con se stesso.25 La verità non corrisponde a qualcosa che è altro rispetto alla coscienza, ma, per dirla con Rosenzweig, pretende di inverare la realtà, anziché lasciare che la realtà la contenga e la preservi.26 Il soggetto, quindi, non s’imbatte nella cosa saggiandone la differenza e alterità rispetto al pensato, ma si accerta da sé autocertificandosi in funzione di un’evidenza che è tale per lui. L’essere o la ressono intesi, di conseguenza, come immanentemente dati sotto forma di idea o di oggetto rappresentato.27 Ma se la verità diventa certezza, e cioè qualcosa che il soggetto vede (cerno = vedere) primariamente in sé, essa si riduce ad una pura costruzione di ragione. Scompare la resistenza dell’oggetto alla comprensione e, insieme, il riconoscimento del limite del pensiero di fronte al mistero inesauribile dell’essere. Scompare la differenza incatturabile, il non inquadrabile, il non categorizzabile. «Questo mondo che basta alla sufficienza dello spirito — scrive E. Levinas —, non disturba più, opponendo con la sua esteriorità uno scarto alla ricerca del vero».28
Ciò che qui i dialogici sembrano cogliere, con accenti e sensibilità diversi, è qualcosa di estremamente importante: la scomparsa dalla nozione di certezza dell’elemento della relazione. Nel conoscere certificante ciò che sembra venir meno in spessore ed autonomia è il termine di riferimento, quello che nella nozione della verità come «adaequatio rei et intellecti» era la res, e cioè la realtà nella suo essere altra dal pensiero. La verità della cosa viene a dipendere, infatti, dall’evidenza stabilita nel cogito, per cui il pensiero può permettersi di pensare restando in sé, di discorrere senza dialogare e senza confrontarsi. Può permettersi di stabilirsi su un’autorelazione (l’autocoscienza), anziché sulla relazione vera che lo proietta verso l’essere,29 oltre se stesso.
A partire da Cartesio e fino agli estremi sviluppi dell’idealismo, su questo Io astratto e disincarnato,30 si edifica una ragione «oggettiva e impersonale, speculativa e creatrice d’idee».31 Ma essa è una ragione inumana, i cui pensieri generano «una parola che non parla né al Tu ideale né al Tu concreto nell’uomo».32 Il conoscere filosofico si allontana, quindi, dalla parola autentica,33 radicata nell’esistenza. «Con il fatto di pensarsi — spiega F. Ebner — l’Io non esce dal suo solipsismo» e si allontana dal significato reale dell’esistenza.34
La sfera del personale resta, conseguentemente, del tutto estranea e insolita alla filosofia35: la parola filosofica non si rivolge ad un essere personale, ma è «sollecitazione e appellazione di un essere “oggettivo”, “impersonale”, “sostanziale”». «A partire dall’Io e ignorando completamente il Tu» i metafisici credono — spiega Ebner — di poter comprendere l’esistenza, ma essi originano qualcosa di mostruoso, e cioè un «Io assoluto e intelligibile».36 Tale Io non ha più nulla di personale e umano, caratterizzato com’è dalla chiusura di fronte al Tu. E ciò si concretizza in un parlare che, lasciata la prima e la seconda persona, si formula in terza persona.37
4. L’idealismo e la perdita di contatto con la vita.
L’idealismo incarna, per i dialogici, l’espressione compiuta del pensiero monologico, astratto e intemporale.38 Nelle sue diverse formulazioni, presenta una filosofia del soggetto del tutto generale. Restituisce un’immagine falsa dell’uomo e dell’io, sia che intenda l’Io come «colui che sa se stesso», sia che l’intenda come «identità del soggetto e dell’oggetto» o come «ritorno del sapere in se stesso». «Che l’uomo reale sei tu e sono io, — osserva F. Ebner — questa che è la più semplice di tutte le realtà, l’idealismo non è in grado di comprenderla».39 Pertanto, «è l’inevitabile conseguenza dell’idealismo in genere che si ponga […] il «solipsismo dell’Io» quale principio della vita spirituale in sé, 1’Io quale «prima persona» assoluta».40 E questo io intemporale viene addirittura divinizzato, all’interno di un solipsismo che diviene assoluto e che elimina anche le riserve che sussistevano in pensatori come Cartesio e Kant.41 La filosofia del soggetto universale, dell’Io puro o dello Spirito assoluto si esprime, quindi, in forma totale. Genera i sistemi onnicomprensivi, in cui prevale l’impersonale ed l’universale, che si affermano al di là e al di sopra del personale e del particolare. Da questo punto di vista, l’idealismo con l’intuizione centrale di un unico spirito creatore porta a compimento la tendenza di base della filosofia occidentale all’unificazione del reale. Per esso, osserva F. Rosenzweig: «il mondo non è ciò che è paradossalmente reale, ciò che è meta-logico in quanto «fattualità miracolosa», bensì ciò che può essere ricondotto logicamente». È «il Tutto onnicomprensivo prodotto dal pensiero, nel quale tutto ciò che è particolare è solo un’emanazione del generale». L’identificazione fra pensiero ed essere è totale. L’unico Tutto universale riempie ogni particolare elemento naturale «sulla via del regresso logico»,42 attraverso una riduzione sistematica che abbraccia «l’intero mondo delle cose come oggetto del conoscere».43
Il mondo idealistico risulta, quindi, interamente circoscritto da due vie: quella che porta dall’universale al particolare e quella che va dal particolare all’universale. Di entrambe l’universale «si dimostra essere il presupposto, ciò che è già posto in precedenza»,44 il punto di partenza e di arrivo di un movimento che si chiude su se stesso. Il senso del mondo è ormai trasposto dal reale al pensato, dal particolare all’universale.45 Questa riduzione dell’esistente all’universale è esattamente il motivo per cui, alla fine, l’idealismo appare incapace di «liberarsi da quella «discrepanza tra idea e realtà» sulla quale si fonda e che egli stesso postula».46 Osserva F. Rosenzweig:
All’idealismo non era lecito concepirlo come spontaneo, poiché ciò equivaleva a negare la suprema signoria del logos: l’idealismo quindi non gli aveva mai reso piena giustizia ed aveva dovuto trasformarne artatamente la spumeggiante ricchezza nel morto caos del dato. L’unità del tutto pensabile non permetteva in fondo alcuna concezione alternativa. Il Tutto in quanto Tutto unico ed universale può essere tenuto unito solo da un pensiero che possegga una forza attiva, spontanea. Ma ascrivendo la vitalità al pensiero si deve, bene o male, negarla alla vita, negare alla vita la vitalità.47
Dissolvendo il particolare nell’universale, l’idealismo finisce per perdere «il contatto con il vivo esistere». Ascrivendo la vitalità al pensiero, deve, infatti, negarla alla vita.
5. L’idealismo come parabola della modernità: Fichte ed Hegel
Per F. Ebner, il limite dell’idealismo, che coincide con il suo fallimento spirituale, sta nell’aver condannato l’Io al solipsismo, nel momento in cui lo ha pensato per sé, fuori da ogni relazione. L’essere-per-sé dell’Io non è qualcosa di originario, «bensì — scrive il maestro austriaco — il risultato di un atto spirituale interno a esso ovvero del suo chiudersi al Tu».48 L’atto primitivo dell’Io non è l’autoposizione, ma la possibilità di affermare «la propria esistenza intesa in senso personale». Nella proposizione originaria «Io sono» non è contenuta l’affermazione dell’autosufficienza e dell’autoreclusione dell’Io, bensì una stretta «relazione con il Tu, con la persona appellata».49 Dicendo «Io sono», in altri termini, ci si rende consapevoli di essere Io, autocoscienza, persona, in un senso che non è autoreferenziale:
Il senso della proposizione originaria era Io sono e non invece Io sono Io; dell’Io che si-pone-in-relazione con il Tu, non invece nell’assolutizzazione della sua chiusura di fronte al Tu come avviene nell’autoposizione che si ha nel principio di identità.50
La persona non si pone nell’isolamento del per sé, ma nella relazione al Tu tramite la parola, che vibra nelle realtà spirituali della vita. Gli idealisti, e Fichte in particolare, non hanno compreso che «l’autocoscienza non è identica se non con il fatto che l’uomo è un essere parlante».51 L’autocoscienza non è un’identità irrelata, che pretende di porsi in modo assoluto e astratto, ma il soggetto che si rende consapevole di sé nel momento in cui viene appellato attraverso la parola. L’identità è, quindi, figlia della relazione. Detto in termini buberiani, all’inizio non c’è un io che si pone nell’isolamento, ma la relazione.52 Pertanto, l’Io di Fichte, con la sua pretesa di autoporsi, di dire Io sono Io (A=A), di proclamare la propria identità ed autosufficienza per poi dedurre da questa il mondo intero,53 si rivela solo l’esito estremo di un processo di chiusura, «il sigillo di tutta la parabola teoretica della modernità a partire da Cartesio»54. F. Rosenzweig individua, invece, in Hegel il momento estremo della parabola. Partito dal presupporre che «l’unità del logos fonda l’unità del mondo come un’unica totalità»,55 il pensiero occidentale è pervenuto, secondo lui, con il sistema di Hegel al suo estremo esito. Con esso:
il lavoro filosofico di secoli […] raggiunge la sua meta nello stesso istante in cui il sapere circa il Tutto perviene a conclusione in se stesso. Perché è di una vera e propria conclusione si deve parlare quando questo sapere non abbraccia più solo il suo oggetto, il Tutto, ma attinge esaustivamente […] anche se stesso.
Questa chiusura del cerchio è avvenuta «con l’inclusione della storia della filosofia all’interno del sistema operata da Hegel».56 In quel preciso momento teoretico la coscienza, superando ogni finitezza ed ogni scissione fra essere e dover essere, perviene — volendo usare le parole della Fenomenologia — ad «una certezza eguale alla sua verità»,57 in quanto crede di poter piegare definitivamente il mondo alla propria razionalità.58 Il cerchio dell’unico Tutto, già pensato da Parmenide, si chiude e il pensiero pare non poter «procedere oltre il porre in evidenza se stesso, e quindi il dato di fatto che gli è più intimamente noto, come parte dell’edificio del sistema e naturalmente come la parte conclusiva».59 La filosofia assolve, pertanto, con Hegel «il compito che si era posta: giungere alla conoscenza pensante del Tutto. Comprendendo se stessa, nella storia della filosofia, non le rimane più nulla da comprendere. […] Qui trova la sua rappresentazione giusta ed adeguata. L’unidimensionalità è la forma della unità e totalità del sapere che tutto include senza residui. Il manifestarsi, sempre molteplice, dell’essere è risolto assolutamente in quell’unità in quanto Assoluto…».60 Tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale.61 L’identificazione è piena e compiuta. Scrive Rosenzweig in un passo di grande forza espressiva:
Ed ora diviene chiaro il senso ultimo dell’idealismo: la ragione ha vinto, la fine risale all’inizio, l’oggetto supremo del pensiero è il pensiero stesso, non c’è nulla di inaccessibile alla ragione; l’irrazionale stesso è soltanto il suo limite, non un aldilà. Vittoria dunque su tutta la linea, ma a quale prezzo! Il grande edificio della realtà è distrutto: Dio e uomo sono volatilizzati nel concetto limite di un soggetto della conoscenza; mondo e uomo, d’altro lato, nel concetto limite di un puro e semplice oggetto di questo soggetto; ed il mondo, per conoscere il quale l’idealismo in un primo tempo si era messo in cammino, è divenuto un semplice ponte tra quei concetti limite.62
La ragione ha vinto, ma a costo di distruggere la realtà, eliminando ogni distinzione ed ogni differenza, e di devastare il mondo e la coscienza. E quanto Hegel compie a livello ideale e filosofico preannuncia quanto le ideologie avrebbero svolto a livello materiale e storico nel secolo a venire.
6. L’idealismo e la caduta della parola
In Hegel si realizza l’ambizione dell’idealismo nelle forme estreme di una ragione che si autoproclama assoluta. Ma questa posizione nasconde la costituzione di un’identità negante ogni alterità, di un sapere forte e uniformante che pretende di inglobare nel suo modularsi dialettico tutta la realtà, che diviene razionale per forza. Il potere della ragione semplicemente non ha limiti. Non c’è altro e non c’è oltre, né in senso orizzontale, in direzione dell’alterità del reale, né in senso verticale, in direzione dell’Alterità del trascendente. Scrive Levinas a proposito del sistema hegeliano: «Tutto mi appartiene, tutto è preso, tutto è com-preso».63 Ogni realtà diventa, quindi, comprensibile nei termini del pensiero razionale.64 La ragione dialettica pretende, infatti, di superare opposizioni e situazioni, differenze e particolarità, speranze e colpe.65 Lo spirito, erede dell’io trascendentale kantiano, diviene qualcosa di assoluto, che marcia trionfalmente nella Storia secondo uno sviluppo necessario e indefettibile. Scrive M. Buber:
Ogni insicurezza, ogni inquietudine alla ricerca di senso, ogni errore di decisione, ogni problematica senza fine, sono vinti. La Ragione universale procede nel suo indefettibile corso attraverso la storia, e l’uomo, mediante la conoscenza, riconosce quel corso, o piuttosto, è la conoscenza il vero scopo, il fine reale del cammino in cui la verità, realizzandosi, riconosce se stessa nella sua realizzazione.66
La proposizione hegeliana “ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale” non esprime, quindi, la sola possibilità che la realtà sia compresa dalla ragione, ma «la necessaria, totale e sostanziale identità della realtà e della ragione».67 Ma in Hegel si rende anche palese il limite del pensiero sistematico. «Il sistema è il mondo in forma di terza persona»68 — sentenzia Rosenzweig. Ciò significa che quello che scompare è il soggetto in prima e seconda persona. Il Sé della coscienza viene, infatti, disancorato dalla sua finitezza e perde ogni concreta fattualità.69 La persona, nella sua irripetibile unicità, si dissolve nella legge del sistema. Potremmo dire in termini kierkegaardiani che scompare il singolo, l’individuo concreto, e Kierkegaard ha senz’altro influenzato i dialogici. Ma, detto questo, non avremmo detto tutto, perché i dialogici guardano al singolo come necessariamente implicato nella relazione. L’Io sono è necessariamente implicato nel Tu sei, l’affermazione di sé nell’appellazione dell’altro e nell’interlocuzione. Ora, in Hegel la perdita della sussistenza individuale si accompagna anche al declinare dell’elemento relazionale proprio della persona. Il rapporto con l’altro (e con l’alterità, in genere) si riconduce ad una relazione impersonale in un ordine universale. L’altro da sé, non è, per Hegel, infatti, che un semplice momento del sé, privo di consistenza propria. All’interno del circolo vizioso del sistema l’altro è funzione del sé, è posizione ideale, non tu reale. In Hegel — come ha scritto Levinas — «gli enti si riconducono al Neutro dell’idea, dell’essere, del concetto».70 Al posto delle persone troviamo, quindi, le idee, al posto dell’interlocutore il tema, al posto dell’esteriorità dell’interpellazione l’interiorità del rapporto logico. Il confronto è escluso, la differenza è negata, il ponte dialogico interrotto.71 Trionfa l’identità della ragione dove «l’altro si dissolve nel medesimo».72
Il sistema, pertanto, è il manifesto di un’interiorità, che è ormai un mondo chiuso, dove ogni rapporto è reciso. La filosofia intesa in senso idealistico «tradisce ogni possibilità dialogica, consacra l’autoreclusione dell’Io nella sua solitudine».73 Erige nel pensiero, al di sopra della vita dialogica, una rocca «inaccessibile ad essa, in cui l’uomo, il singolo, gloriosamente soffre e trionfa in solitudine con se stesso».74 Si può dire anche, con Ebner, che i filosofi idealisti non hanno «visto il radicamento e l’ancoraggio del linguaggio nelle realtà spirituali della vita».75 Con essi il conoscere filosofico si è allontanato dalla parola viva in direzione di concetti e idee astratti.76 Tolta la parola all’uomo, là dove trionfante sembra la ragione, si realizza una prigionia dello spirito. Il sistema finisce, infatti, per essere «una gabbia in cui il soggetto si rinchiude con le sue stesse mani».77 L’Io arroccato su se stesso è ormai confinato in una solitudine disperante. Allontanandosi dalla parola gli idealisti hanno tradito l’umanità dell’uomo, il suo volto vivo ed espressivo. Non hanno saputo parlare «alla concreta personalità nell’uomo», ma solo alla sua personalità ideale.78 Hanno misconosciuto del tutto l’origine spirituale e personale della parola.
Per Rosenzweig, nel momento in cui l’idealismo si sottomette a quel prodotto del suo stesso pensiero che è la logica, si evidenzia quello che è il suo limite maggiore, e cioè la sua lontananza dal linguaggio, dalla parola viva che spumeggia in superfice come il fenomeno particolare. All’idealismo — osserva Rosenzweig:
mancava la schietta fiducia nel linguaggio. L’idealismo non era disposto a prestare orecchio ed a rispondere a questa voce che risuona nell’uomo, apparentemente senza motivo, ma proprio per questo tanto più realmente. Esso richiedeva ragioni, giustificazioni, calcolabilità, cose queste che il linguaggio non poteva offrirgli, e così s’inventò la logica che gliele potesse dare. La logica gli offrì tutto questo, ma non ciò che il linguaggio invece possedeva: la sua ovvia comprensibilità, per cui esso è sì radicato con le parole originarie nei fondamenti sotterranei dell’essere, ma già con le parole-matrici germoglia alla luce della vita di superficie; ed in questa luce sboccia in molteplicità colorata, come una pianta nata in mezzo a tutta la vita che cresce, di cui essa si nutre come quella di lei, ma anche differente da tutta questa vita proprio perché non si muove libera a suo arbitrio sulla superficie, bensì affonda radici negli oscuri fondamenti che giacciono sotto la vita.79
L’idealismo ha inteso costruire un mondo logico perfettamente ordinato, in cui ogni particolare trovasse collocazione nell’architettura onnicomprensiva del sistema. Ma, cercando di sviluppare una logica indipendente dalla grammatica,80 ha rigettato il linguaggio come organon, tramutando ciò ch’è vivo in un regno di ombre. Il mondo idealistico — osserva ancora Rosenzweig — «non è creato dalla parola, bensì dal pensiero». È «un pensare estraneo al terreno naturale del linguaggio, che pensa opposizioni dialettiche», per cui «la diffidenza nei confronti del linguaggio rimane un’eredità permanente dell’idealismo…».81 Nei sistemi idealistici non arrivano gli echi delle parole, degli sguardi, dei richiami che sostanziano la vita degli uomini. Manca, quindi, la relazione autentica, comunicativa, che si realizza nella condizione del vivere reale. Si realizza una logica pura che è «alle spalle dell’umano».82
7. Conclusione: l’antropologia della solitudine
Se stiamo ai risvolti strettamente antropologici della posizione cartesiana, si può dire che essa appare improntata ad una visione dell’uomo prevalentemente inteso come io, ossia come coscienza pensante. Individuata come certezza fondante, l’autocoscienza, muta il significato della coscienza, che diventa relazione con sé,83 anziché apertura verso il trascendente, luogo della tangenza fra Dio e l’uomo. Cartesio, quindi, non nega l’esistenza degli altri, ma se «l’ego è conosciuto con primaria evidenza, immediatamente e senza intermediari, l’esistenza di altri soggetti umani, al contrario, è priva di questa immediata certezza, ed è conosciuta solo indirettamente».84 Inoltre, privandosi del suo strutturale rapporto con il mondo, l’uomo, proprio nella sua intimità coscienziale si separa dalla sua stessa natura fisica. Una cesura netta lo allontana, infatti, in quanto essere pensante, dal suo corpo e dalla natura, di cui fa parte attraverso il suo corpo. Separata, poi, l’interiorità dal mondo, la coscienza tende a trasfigurarsi in qualcosa che è fuori da ogni esperienza e da ogni legame, qualcosa di generale e non più individuale,85 elemento che si evidenzierà negli sviluppi successivi del trascendentalismo dell’Io penso di Kant. A tutto questo, sottolineano i dialogici, corrisponde l’elevazione del meditare solitario (del linguaggio privato) a linguaggio privilegiato.86
Fichte è molto vicino a Kant. (se ne riteneva un interprete), ma con Fichte viene compiuto il salto del Rubicone, ossia la traduzione ontologica del soggetto trascendentale in autoposizione assoluta. Ciò significa che «l’Io pone se stesso» e che si proclama attività creatrice. Il soggetto trascendentale, l’Io penso di Kant, diviene, quindi, Io assoluto (Fichte) o, ancora, Spirito assoluto (Hegel).87
In questa assolutizzazione il taglio di ogni relazione implica insieme l’innalzamento dell’io e l’abbassamento di Dio all’idea. L’oggetto supremo del pensiero è, quindi, il pensiero stesso, o, se preferite, è Dio ridotto a oggetto del pensiero. Scrive F. Ebner:
È l’inevitabile conseguenza dell’idealismo in genere che si ponga […] il «solipsismo dell’Io» quale principio della vita spirituale in sé, l’Io quale «prima persona» assoluta. Di fatto non si ha in mente altro se non la divinizzazione dell’Io, la sua identificazione con Dio.
La ragione, a questo punto, sembra aver vinto, ma a costo di annullare ogni relazione personale e di neutralizzare l’essere. La ragione sembra aver coronato la sua tendenza a racchiudere il tutto nell’ambito del logicamente comprensibile, ma a costo di porlo sotto l’agghiacciante sigillo dell’impersonale. «Divinizzare l’Io e identificarlo con Dio equivale — infatti per Ebner — al non sapere nulla del Tu»^[88]. Ciò esclude strutturalmente che la persona sia sostanziata nella sua stessa costituzione ontologica dalla relazione che intrattiene con le cose e con Dio. Contestualmente, l’uomo è sempre più pensato come sussistenza e sempre meno come relazione. Essenzialmente, l’uomo basta a se stesso. Egli non abbisogna per essere, volere e pensare, di essere sostenuto. Non è strutturalmente inconsistenza e precarietà. È, al contrario, stabilità, ultimatività ed inizio. L’autosussistenza dell’uomo fa tutt’uno con l’autonomia morale e con l’autosufficienza teoretica. Esclude di principio ogni relazione, in quanto non sostanziale, accessoria e aggiuntiva.
Ora, la necrosi della relazione come elemento strutturante l’umano coincide con una chiusura. Già in Cartesio, il mondo è come messo tra parentesi, in quanto l’autocertezza non solo non abbisogna di supporti esterni, ma prescinde da ogni riferimento all’esterno, nascendo da un autoriferirsi del pensiero a se stesso. All’estremo di questo processo si situa l’autoposizione dell’Io fichtiana, in cui il mondo è meramente non-Io, pura negatività posta nell’Io e dall’Io. Laddove il pensiero è costituzionalmente legato al corpo, permeato di emotività, e riflette la fisionomia di una determinata cultura e di una determinata epoca, Descartes postula che l’uomo è essenzialmente ragione disincarnata. È un’individualità che è una mente senza corpo, un pensiero senza età, un’astratta configurazione razionale priva di debolezze e di affettività. Si delinea, in tal modo, un soggetto umano senza volto, che non «conosce il patire» né vive i drammi dell’esistere reale, le fragilità e la vulnerabilità della finitezza. Kant, definisce ancora più espressamente la personalità come «l’indipendenza dal meccanismo di tutta la natura». Determinando la coscienza essenzialmente come autonomia morale, scrive che l’uomo «è soggetto alla sua propria personalità, in quanto appartiene al mondo intelligibile».88 La personalità è, dunque, essenzialmente interiorità e l’interiorità esclude ciò che è esteriore; è indipendenza da ciò che apparenta l’uomo al mondo naturale. Il dualismo fra la coscienza e il corpo ingenera, quindi, una concezione dell’uomo che lo separa prima dal suo corpo, dalle sue emozioni, dai sapori e dai ricordi, e poi dalla natura.89 D’altra parte, un soggetto che prescinde dalla propria fisicità è un soggetto che ha perso gli elementi caratteristici che lo sostanziano come questo uomo con questo corpo, con questa fisionomia etc. Inoltre, l’effimero, il limite e la morte, i caratteri cioè più segnatamente temporali, sono cancellati dalla sfera della soggettività. Il soggetto trascendentale kantiano (l’Io penso) è, pertanto, qualcosa di mostruoso e di impersonale che, prescindendo dalla corporeità, non ha carattere ed è privo di memoria. Non ha inquietudini né incertezze, non ha inclinazioni e non custodisce ricordi. È una coscienza adulta che non ha conosciuto mai la minore età, le sue fantasie e i suoi capricci. È una ragione innaturale, che si è fatta distante dai ritmi e dai cicli della natura, qualcosa senza crescita e senza maturazione.
Il soggetto pretende di fondarsi su se stesso e di sostituire alla relazione vera, che lo collega al Tu, l’astratto artificio dell’idea. Ma «con il fatto di pensarsi — scrive Ebner — […] l’Io non esce fuori» dalla sua solitudine né dal mondo falso che si è costruito a partire da essa ed in essa. Il solipsismo ricaccia l’Io in un circolo vizioso, lo porta ad avvitarsi su stesso, a rinserrarsi negli scenari tanto irreali quanto soffocanti dell’autoillusione. A questo Io solitario si contrappone non una teoria o un’idea, ma un esistere reale. Scrive Ebner che «il vero Io esiste laddove e quando si muove verso il Tu», non quando si pensa, ma quando si esprime ora soggettivamente nell’amore, ora oggettivamente nella parola.90 L’amore e la parola liberano dalle preclusioni mentali e indirizzano l’uomo verso un cammino esodale in cui «riceve senso e direzione la sua intima realtà» volitiva, il desiderio inespresso di quello che Pascal soleva chiamare cuore.
Misconosciuto e adombrato, l’io concreto si agita con i suoi conati inespressi al di sotto del pensato e di ogni teoria o ideologia. «Nella sua attualità — osserva Ebner — un pensiero è sempre anche un “Io penso”, per quanto l’Io si possa nascondere fino al punto da non riconoscersi più esso stesso». Resta piantato nell’esistenza reale, di cui trattiene le volizioni fondamentali. «Dietro il cogito», dietro anche il pensiero apparentemente distaccato e impermeabile, si indovina sempre un volere reale.91 Pertanto, la realtà interiore dell’Io va cercata in quell’inclinazione della volontà che è alla base della scelta fra il ripiegamento egoistico in se stesso e l’apertura al Tu trascendente. Anzi, l’uomo si costituisce proprio intorno a quell’opzione fondamentale che dà l’indirizzo all’esistere. «Il volo — sentenzia Ebner — sta alla base anche del sum e del cogito».92 Ma quando l’uomo si chiude nella sua presunta autarchia, muore alla relazione e muore spiritualmente. Le due cose coincidono, per Ebner, giacchè la capacità di aprirsi all’altro, costituisce il nucleo dell’esistenza personale e spirituale. Il momento in cui l’uomo perde la capacità di relazionarsi coincide, di conseguenza, con il momento in cui l’uomo non può più capire e capirsi. L’autosufficienza si rivela allora autoreclusione dell’Io nella propria solitudine.93
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M. Theunissen, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, Walter de Gruyter, Berlin 1965, p. 244. ↩︎
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Vedi G. Bonola, Franz Rosenzweig ai lettori della «Stella», in F. Rosenzweig, La stella della redenzione, ed. it. A cura di G. Bonola, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. XXV. ↩︎
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S. Zucal, Premessa a B. Casper, Il pensiero dialogico, Morcelliana, Brescia, p. 7. ↩︎
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Il legame con tale esperienza è indicato anche dalla cronologia. Le due opere principali di Ebner e Rosenzweig, rispettivamente i Frammenti Pneumatologici e La stella della redenzione, sono pensate e scritte in tempi coincidenti o immediatamente successivi (sono pubblicate nel 1921). ↩︎
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«Nell’oscuro retroscena del mondo si annidano, come suo inesausto presupposto, mille morti… invece di un unico nulla». B. Casper, Il pensiero dialogico, cit. alla nt. 3, p. 99. ↩︎
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«Il poeta constata che non ha più certezze o miti da proporre col canto a gola spiegata, oratorio e parenetico, ma può solo salvare qualche relitto da un naufragio, può solo offrire qualche storta sillaba e secca». S. Guglielmino, Guida al Novecento, Principato editore, Milano 1971, p. 214. ↩︎
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E. Montale, Ossi di seppia, 1925. ↩︎
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«Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte. Foglia appena nata». G. Ungaretti, Allegria di naufragi, 1919. ↩︎
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B. Casper, Il pensiero dialogico, cit. alla nt. 3, p. 86. ↩︎
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Vedi F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, p. 12. ↩︎
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«Il sapere che il sé ha di se stesso, l’autocoscienza, ha fama di essere il sapere meglio garantito». F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, cit., p. 63. Anche per F. Ebner, la parabola teoretica della modernità parte da Cartesio per chiudersi con l’idealismo ed, in particolare, con Fichte. Vedi F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998, p. 247. ↩︎
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G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1944, vol. III, 2, p. 66. ↩︎
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R. Descartes, Meditazioni metafisiche, a cura di E. Garin, Laterza, Bari, 1967, vol. I, p. 199. ↩︎
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«Esso si vede spinto sulla via della propria “derealizzazione” da quella tendenza alla sostanzializzazione che scaturisce dal «solipsismo dell’Io», divenendo così insicuro di tutta la realtà in genere, della realtà di ciò che esperisce. Presentare come dubbia o semplicemente possibile l’esistenza di ciò che si afferma nella proposizione «Io sono» o che viene affermato nel «Tu sei», è altrettanto inaccettabile quanto la sua negazione diretta. Poiché la proposizione «Tu non sei» — che nella sua espressione concreta presuppone il Tu e la sua esistenza — sarebbe ovviamente altrettanto insensata quanto la proposizione «Io non sono», che solo un folle potrebbe pensare», pp. 316-17. ↩︎
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R. Descartes, Discorso sul metodo, Laterza, Roma-Bari, p. 81. ↩︎
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Vedi F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit. alla nt. 11, p. 253. ↩︎
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«Si faccia però anche attenzione al fatto che la proposizione non può di per sé essere pensata senza parole, ovvero senza una relazione magari ideale con il Tu — sebbene l’Io che si pensa e che esprime la propria esistenza non è chiaramente consapevole di tale relazione o magari non lo è affatto — proprio per il fatto che l’Io non esiste al di fuori di tale relazione. Se davvero viene pensata senza parole, allora non si tratta della proposizione stessa, bensì del principio d’identità nella sua sottrazione e mancanza di oggetto. Si pensa il pensiero senza un oggetto cui si riferirebbe, ovvero, 1’Io si pensa in maniera assoluta senza in ciò capire se stesso. Può infatti capirsi solo nella relazione con il Tu». F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit. alla nt. 11, p. 253. ↩︎
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Cartesio instaura una sorta di monologo interiore. Non cerca interlocutori né si riferisce ad un comune orizzonte di senso. Si ritira «in un regno isolato dalla realtà fisica» (R. Scruton, La filosofia moderna, La nuova Italia, Firenze 1998, p. 57), dove va alla ricerca di fondamenti che possono avere un valore solo interno. Il procedimento, come rileva Wittgenstein, appare zoppicante, in quanto, se è vero che posso essere assolutamente certo dei miei stati mentali, è vero altresì che a questa certezza arrivo tramite regole di un linguaggio pubblico. Queste sì sono ammesse senza essere giustificate. Restando confinato in un discorso tutto intimo, non avrei nessuna garanzia che anche la credenza di aver scoperto dei fondamenti non sia vittima di una colossale costruzione che fa capo ad un linguaggio finto. Pertanto, il linguaggio privato della mente è impossibile (vedi L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it. R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983, p. 202). ↩︎
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F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, p. 42. ↩︎
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Ibidem, p. 4. Lo stesso concetto pare riscontrabile in F. Ebner: «Giusto è, come ebbe a dire Goethe, che in natura non v’è alcuna totalità; essa infatti non è un fatto della natura ma dello «spirito», un atto (ovviamente solo estetico) dello spirito…». Frammenti Pneumatologici, cit. alla nt. 11, p. 273. ↩︎
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Vedi F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit. alla nt. 11, p. 165. ↩︎
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Vedi F. Rosenzweig,La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, p. 12. ↩︎
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R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit. alla nt. 13, pp. 199-202. Chiarezza e distinzione, segni distintivi della certezza, sono presenti nell’intuizione stessa del sé. ↩︎
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«L’oggetto tradizionale della ragione, la verità, non venne più accolta nella sua nozione di adaequatio rei et intellectus, ma modificata in quella di consenso/convenzione generale». G. Colombo, Dalla Aeterni Patris alla Fides et ratio, in Teologia, n. 3, 1999, p. 268. In ciò si palesa la scomparsa della nozione della verità ontologica delle cose e la caduta del riferimento alla verità trascendente dell’intelletto creatore. ↩︎
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V. Possenti, Filosofia e Rivelazione, Città Nuova, Roma 1999, p. 118. ↩︎
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«Non la verità invera la realtà, ma la realtà contiene e preserva la verità. L’essenza del mondo è questo preservare (e non «inverare») la verità. Il mondo allora fa a meno di quella protezione verso l’«esterno» che la verità aveva garantito al Tutto da Parmenide fino ad Hegel». F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, p. 15. ↩︎
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Smettendo il pensiero di tendere verso le cose, s’instaura un circolo di autoreferenzialità del tutto interno al soggetto. Cartesio e i suoi eredi, come osserva J. Maritain, «ricusano fin dall’inizio proprio ciò su cui fa presa il pensiero e senza del quale esso non è che sogno —la realtà da conoscere e da capire, che esiste, vista, toccata afferrata dai sensi… la realtà sulla quale e a partire dalla quale un filosofo è nato per interrogarsi». (J. Maritain, Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia, p. 152). Il valore ontologico della verità si perde in favore di un valore puramente logico. La realtà diventa riconoscibile per sola inferenza a partire dal pensiero, «così che — scrive Levinas — l’esteriorità dell’oggetto rappresentato, appare alla riflessione come il senso che il soggetto rappresentante dà ad un oggetto, riducibile esso stesso ad un’opera di pensiero» E. Levinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1994, p. 126. ↩︎
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E. Levinas, Totalità e Infinito, cit. alla nt. 26, p. 62. ↩︎
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Per Tommaso d’Aquino, la verità è il frutto di una relazione fra l’intelletto e la realtà (vedi Commentum in IV libros sententiarum, I, d. 19, 5, 1), nascendo all’incontro fra l’apertura intenzionale dell’intelletto, che tende verso le cose, e l’intelligibilità che è propria dell’essere. «Nell’atto stesso dell’intelletto — osserva Tommaso — si compie quel rapporto di adeguazione in cui consiste l’essenza della verità» (Tommaso, Commentum in IV libros sententiarum, I, d. 19, 5, 1 (si vedano pure le Quaestiones disputatae de veritate, I, 1 e la Summa Theologiae, p. I, q. 16, a. 3). Nella concezione moderna, postcartesiana, invece, la verità non è frutto della relazione fra intelletto e realtà, ma unicamente opera del pensiero, che certifica l’esistenza stessa delle cose. Pertanto, Cartesio individua il luogo della manifestazione della verità esclusivamente nel soggetto (res cogitans). Siamo al «pensiero che risponde a se medesimo e che si controlla da sé». Ch. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Bari 2002, p. 120. ↩︎
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«Questo non è di certo l’Io reale ma è — dato che pensa se stesso, che pensando si riferisce a se stesso e si rende dunque «oggetto» — il moi di Pascal divenuto astratto, il mio-a me-me, l’Io». Vedi F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit. alla nt. 11, p. 253. ↩︎
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Ibidem, p. 213. ↩︎
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Ibidem, p. 178. ↩︎
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«Il conoscere filosofico si allontana invece sempre più dalla parola e diviene in tal modo inumano». F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 367. ↩︎
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Ibidem, p. 254. ↩︎
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Ibidem, p. 248. ↩︎
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Ibidem, p. 329. Il Tu di cui parla Ebner è Dio, inteso come Tu della relazione fondamentale che rende vere tutte le relazioni umane. ↩︎
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«L’asserzione dell’essere nella prima e nella seconda persona è sollecitazione e appellazione di un essere «soggettivo» (e qui intendiamo «personale»), quella nella terza persona «sollecitazione e appellazione di un essere “oggettivo”, “impersonale”, “sostanziale”». Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit. alla nt. 11, p. 309. ↩︎
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In questo senso va letta l’espressione di Ebner: «Ogni filosofia vive di idealismo». Ibidem, p. 249. ↩︎
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Ibidem, pp. 247-48. ↩︎
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Ibidem, p. 290. ↩︎
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Descartes, secondo Ebner, «si è imbattuto nel “solipsismo dell’Io” della coscienza umana, del pensiero matematico, e ne vede l’inadeguatezza per giungere alla conoscenza della verità, poiché egli […] deve essere anzitutto sicuro di Dio, per poter cogliere la verità di una proposizione della geometria»Ibidem, p. 277 e p. 367. A Kant. Ebner riconosce il tentativo, giudicato però vano, di uscire dal solipsismo attraverso la ragion pratica (Ibidem, p. 213.14). Rosenzweig, in riferimento al tema dell’Io scrive: «Rimane una delle acquisizioni più stupefacenti di Kant. aver fatto dell’Io, del dato più ovvio e di-per-sé-comprensibile della coscienza il problema per eccellenza, quanto di più problematico vi sia. Dell’Io conoscente egli insegna che conoscenza si dà solo in ciò che esso conosce, dunque in rapporto ai suoi frutti e non se ne dà conoscenza «in sé» (La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, p. 63). Ma i limiti di Kant. si misurano in ragione dei suoi presupposti soggettivistici (Ibidem, pp. 70-71 e p. 145. ↩︎
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B. Casper, Il pensiero dialogico, cit. alla nt. 3, p. 115. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, alla nt. 2, p. 144. ↩︎
-
Ibidem, p. 146. ↩︎
-
Il mondo nei sistemi idealistici è unidimensionale: «I sistemi idealistici dell’Ottocento, quello di Hegel nel modo più chiaro, ma in germe anche quelli di Fichte e di Schelling, mostrano, nessuno escluso, un tratto che si è dovuto designare come unidimensionalità» F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, p. 52. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit. alla nt. 11, p. 191. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, pp. 46-47. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., alla nt. 11, p. 142. Si veda pure Ibidem, p. 151: «L’essere-per-sé dell’Io non è un fatto originario nella vita spirituale dell’uomo […], bensì un risultato della sua chiusura di fronte al Tu». ↩︎
-
Ibidem, p. 164. ↩︎
-
Ibidem, p. 287. ↩︎
-
Ibidem, p. 165. ↩︎
-
«All’inizio è la relazione!». M. Buber, Io e Tu, in Il principio dialogico e altri saggi, ed San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, p. 72. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., alla nt. 11, p. 286. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., nota a p. 247 di S. Zucal. A Hegel Ebner rimprovera il fraintendimento del logos (si vedano Frammenti Pneumatologici, cit., p. 144 e 213), ma è sulla concezione dell’Io fichtiano che si concentra la sua critica all’idealismo. «Con Fichte viene compiuto il “salto del Rubicone”, la traduzione ontologica del soggetto trascendentale come `posizione’ assoluta, l’Io pone se stesso, e in questa posizione si autopone come attività creatrice». E. Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2002, p. 28. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, p. 12. ↩︎
-
Ibidem, p. 6. ↩︎
-
G. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. I, p. 143. ↩︎
-
«Soltanto nell’autocoscienza come concetto dello spirito, la coscienza raggiunge il suo punto di volta: qui essa, movendo dalla variopinta parvenza dell’al di qua sensibile e dalla vuota notte dell’al di là ultrasensibile, si inoltra nel giorno spirituale della presenzialità». G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a c. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1933, vol. I, p. 152. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, p. 6. ↩︎
-
Ibidem, pp. 106-07. ↩︎
-
G. W. F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del diritto,Laterza, Roma-Bari 1979, p. 16. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, p. 148. ↩︎
-
E. Levinas, Totalità e Infinito, cit. alla nt. 26, p. 36. Si costituisce, da ultimo, un ordine universale che «si fonda e si giustifica da solo, come il Dio dell’argomento ontologico». Ibidem, p. 86. ↩︎
-
Vedi: p. Orlando, Dall’ignavia alla negatività o viceversa? L’identità nella contraddizione: il «pensiero debole», in Scienza e Sapienza, anno I, n. 2, p. 59. Nel sistema «tutto si inquadra, tutto si giustifica, tutto è finalizzato, tutto ascende perennemente» M. A. Quintanilla, Dizionario di Filosofia contemporanea, Assisi 1979, pp. 200-208. ↩︎
-
«La dialettica di Hegel crede di potere e di dover giustificare se stessa riconducendosé a se stessa». F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 263. Pretende di realizzare, come scrive Levinas, «la coesistenza dei termini in un tema, la relazione, la coerenza dell’uno all’altro, nonostante la loro differenza, l’accordo del differente nel presente». E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, il melangolo, Genova 1998, p. 23. ↩︎
-
M. Buber, Il problema dell’uomo, Leumann, Torino, 1983, p. 49. ↩︎
-
p. Orlando, Il divenire come identità-distinzione dell’Essere con il nulla, in Scienza e Sapienza, anno II, n. 1, p. 91. ↩︎
-
F. Rosenzweig, .Il nuovo pensiero, tr. it. a cura di G. Bonola, commento di G. Scholem, Arsenale editrice, Venezia 1983 p. 26. ↩︎
-
Vedi F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. alla nt. 2, p. 141. ↩︎
-
E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 26, p. 87. ↩︎
-
Ha scritto B. Forte: «[…]è in generale la figura dell’alterità che in Hegel sembra dissolta. Non c’è più differenza: e ciò che a lui appariva come la promessa vittoria sulle lacerazioni della coscienza infelice, si rivela finalmente abbraccio asfissiante, cattura negatrice della libertà». L’eternità nel tempo, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1993, p. 15. ↩︎
-
E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 26, p. 36. ↩︎
-
S. Zucal, Il miracolo della parola. Ferdinand Ebner nel contesto filosofico del suo tempo in F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit. alla nt. 13, p. 63. ↩︎
-
M. Buber, Dialogo, in Il principio dialogico e altri saggi, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 212. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit. alla nt. 13, p. 165. ↩︎
-
Ibidem, p. 367. ↩︎
-
E. Baccarini, La soggettività dialogica, cit. alla nt. 53, pp. 140-41. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 385. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 149-50. ↩︎
-
Ibidem, p. 144. ↩︎
-
Ibidem, pp. 169-70. ↩︎
-
Ibidem, p. 145. ↩︎
-
Come osserva J. Habermas, è riscontrabile nella modernità la prevalenza dellastruttura dell’autorelazione: «Si tratta della struttura della relazione del soggetto conoscente con se stesso, che si ripiega su di sé come oggetto, per cogliersi come in un’immagine speculare…» J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, ed. Laterza, Bari 1997, p. 19. ↩︎
-
J. Gevaert, Il problema dell’uomo, Elledici, torino 1992, pp. 22-23. ↩︎
-
Si tratta di «cogliere l’individuo non nella sua individualità, ma nella sua generalità (la sola di cui ci sia scienza)». E. Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 26, p. 42. Vedi pure a p. 70. ↩︎
-
Osserva E. Levinas che «il rapporto e il discorso impersonali sembrano riferirsi al discorso solitario o ragione, all’anima che conversa con se stessa». E.Levinas, Totalità e infinito, cit. alla nt. 26, p. 69. ↩︎
-
E. Baccarini, La soggettività dialogica, cit. alla nt. 53, p. 28-29. «Chi è questo A=A? È personalità, ma una personalità tale che la volontà umana non vi si ritrova più, così come non si risolleva più la conoscenza una volta giunta alla cosa in sé. È, conseguentemente, […] la personalità di Dio. […]. Non io assoluto, ma Spirito assoluto è il nome che l’idealismo ha attinto per lui. Non un io, quindi, bensì un ille, anzi ancor meno che un ille, un illud». F. Rosenzweig, La stella della redenzione, p. 148. ↩︎
-
I Kant, Critica della ragion pratica, tr. It. F. Capra, Laterza, Bari 1974, p. 106-07. ↩︎
-
«Non è dunque da meravigliarsi se l’uomo, come appartenenti a due mondi, non debba considerare la sua propria essenza, in relazione alla sua seconda e suprema determinazione, altrimenti che con venerazione, e le leggi di questa determinazione col più grande rispetto». I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 107. ↩︎
-
F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit. alla nt. 11, pp. 253-54. ↩︎
-
Ibidem, p. 170. ↩︎
-
Ibidem, pp. 240-41. ↩︎
-
S. Zucal, Il miracolo della parola etc, cit. alla nt. 72, p. 63. ↩︎