1. La caduta della parola
Raccogliendo il tormento di un’intera epoca, Ebner interpreta la crisi moderna come crisi comunicativa ovverosia come caduta della parola. È avvenuto — spiega il maestro austriaco — che l’uomo occidentale, mentre acquistava la sua scienza, ha perso «la fede nella parola».1 La scienza lo ha distratto verso una forma di linguaggio oggettivo ed oggettivante, chiuso ed autoreferenziale.2 Contestualmente, la parola è stata «ridotta a mero utensile del pensiero»3 incapace di esprimere e di corrispondere.4
Qual è il il più pesante appunto che si possa muovere alla scienza del XIX secolo? Per Ebner, è che essa non ha visto la «stupefacente differenza tra il mutismo dell’animale e l’eloquio dell’uomo». Di conseguenza, ha misconosciuto il linguaggio come «elemento assoluto di separazione tra l’uomo e l’animale».5 Il fatto che l’uomo parli denota una differenza qualitativa rispetto al mutismo dell’animale.6 Ma agli analisti del linguaggio, attenti ai soli aspetti materiali, questa differenza è sfuggita. La parola ha un senso che sopravanza l’elemento materiale costituito dal suono. Il suono resta incorporato nella parola, ossia si rende disponibile «a servire all’incorporazione della parola, a predisporre alla parola nella spiritualità della sua origine». Perché la parola, al fondo, «supera la sfera dell’esperienza del mondo».7
Se ci si chiede poi quale sia la ragione di questa colossale svista, Ebner risponde che essa è da ricercarsi nella perdita di «ogni rispetto del linguaggio» e di «ogni fiducia nella parola», in quanto espressione dello spirituale che è nell’uomo. Conseguentemente, l’obiettivo della scienza «divenne aborrire “il modo di pensare formale e verbale” e “pensare al di là della parola”», pensare in un modo non comunicativo, asettico, distaccato. Ed è esattamente questo quanto la formula matematica rappresenta.
Tuttavia lo spirituale non si lascia tradurre in formula. La conoscenza matematica può tentare di farlo, ma a costo di produrre un mostro di inumanità, ossia una ragione priva di parola. La ragione — conclude Ebner — «esiste solo in rapporto alla parola, mediante la quale essa è posta nell’uomo».8 Pertanto, misconoscere la relazione costitutiva della ragione umana con la parola significa precludersi la strada a qualsiasi comprensione della ragione stessa. Privata dell’espressione verbale, la ragione si autocondanna all’estinzione. «Pura matematica — sentenzia il maestro austriaco — è la ragione che alla fine si elimina da sola».9
Perciò, nell’epoca del pensare matematico, divenuta oggetto di un illusorio dominio umano, la parola è stata derubricata sul registro di una comunicazione impersonale. Si è imposta l’incomunicabilità e i rapporti tra gli uomini si sono fatti difficili, ardui. Ne è derivata come situazione tipica una condizione di solitudine.
È, quindi, la solitudine, per Ebner, la mortale malattia dello spirito del nostro tempo.10 Essa è mortale, in quando le fonti della comunicazione sono esaurite e «lo spirituale nell’uomo non riesce più a farsi strada nella vita».11 Non siamo ancora all’estremo, ma in una condizione estrema, in cui si addivenisse alla fine di ogni forma di comunicazione, essa — scrive Ebner — «equivarrebbe alla morte dell’Io». Privato del linguaggio, infatti, il soggetto uomo «non potrebbe più comunicarsi a un altro, non potrebbe più capirsi con lui. Non potrebbe più esprimersi circa se stesso e nella sua «chiusura» non troverebbe più la parola che lo potrebbe liberare e salvare. Alla perdita della parola si accompagnerebbe, quindi, la perdita dell’amore,12 che è, per Ebner, la parola nella sua più pura estrinsecazione. Morto l’amore, verrebbe meno l’uomo, in quanto essere spirituale,13 ossia l’uomo nelle sorgenti stesse della sua umanità.
1.1. La verità della parola
Non è difficile intravedere dietro questi scenari una sorta di metafora della condizione umana nell’epoca del nichilismo compiuto. Il solipsismo, che rappresenta, per Ebner, l’alfa e l’omega del pensiero moderno, la sua origine e la sua destinazione, ha attinto con Nietzsche il suo culmine. La comunicazione è interrotta tra gli individui.14 Il soggetto è divenuto prigioniero di se stesso, vittima del suo stesso autoisolamento, cosicché «con il fatto di pensarsi l’Io non esce dal suo solipsismo».15 La parola versa ormai in una condizione di assoluta deiezione.
Ma se la parola cade, allora è tutta la ragione a venir meno, perché essa non è strumento di cui la ragione si serva, bensì è la ragione stessa dell’uomo nella sua matrice originaria. La lingua è la «madre della ragione»16 e «senza linguaggio non avremmo ragione» — afferma Ebner, citando Hamann.17 Sciogliere il legame ragione-linguaggio equivale, quindi, a prosciugare la ragione nelle sue fonti originarie.
La ragione non è una matematica di concetti o di idee. Ciò che la muove non è il bisogno di comprensione asettica, ma il bisogno di esprimere. «La ragione si trova — afferma Ebner — nell’esigenza che i pensieri hanno di divenire parola e nell’insopprimibile desiderio dell’uomo di esprimere in parole una conoscenza formulata matematicamente». Tale desiderio, contrastato e frustrato altrove, può espletarsi nella parola che porta a espressione la dinamica relazionale: «Nel divenir parola dei pensieri, però, l’Io cerca — nel suo “Io-solipsismo” — il suo Tu. La ragione cerca la parola, cioè la propria origine, perché essa è stata creata dalla parola».18
Questo non vuol dire che, per Ebner, i caratteri linguistici siano innati nell’uomo. Al contrario ognuno «li deve apprendere», esattamente come si apprende qualsiasi altra nozione. Ma il punto è che «nessuno imparerebbe a parlare, se non fosse posta in lui la parola».19 Che la parola sia posta nell’uomo vuol dire, per Ebner, che la parola eccede il suo contenuto fisico-fonetico e il suo significato convenzionale.
La parola non è, infatti, prioritariamente un trasmettitore del segno materiale né si riduce alla semplice «comunicazione di una sequela di singoli vocaboli, ma è il luogo di trasmissione (il fondamento) dell’autocomprensione di colui che parla verso l’altro e perciò anche il luogo nel quale essi si relazionano reciprocamente in modo vitale».20 Ebner afferma che nell’uomo «c’è oggettivamente l’impulso verso la lingua e soggettivamente il bisogno del dialogare».21 Questo bisogno di dialogare viene prima di qualsiasi forma di linguaggio ed è esso che ne motiva l’apprendimento.22 Ne consegue che l’avere la parola da parte dell’uomo non può essere inteso come un avere da sé, come aver elaborato il linguaggio in proprio. La parola, nella sua ragione ultima, che coincide con il suo significato più profondo, eccede l’uomo.
Misconoscendo il significato rivelativo della parola, il suo essere finestra aperta sulla trascendenza, l’intelletto non comprende il misterodella vita e non comprende più se stesso:
L’intelletto non comprende, per quanto esso possa di fatto comprendere, il «mistero della vita» — che si rivela nella parola, nella quale è la vita — e lascia che l’uomo affidatosi alla sua guida, viva dimentico di tale mistero. Ritiene infatti che non vi sia alcun mistero e afferma con ciò di non capire se stesso. Perché se si capisse, vedrebbe i propri limiti, la propria incapacità e limitatezza; e allora dovrebbe ammettere il mistero, ciò che sarebbe proprio suo compito.23
L’intelletto opera, conseguentemente, solo con «parole morte», ossia con le formule matematiche, le regole, i principi astratti, le ideologie. Ma, in tal modo, — scrive Ebner — «Il conoscere filosofico si allontana invece sempre più dalla parola e diviene in tal modo inumano».24 Ed è questa inumanità che nei suoi risvolti estremi la guerra manifesta con il suo carico di violenza, di intolleranza e di disperata solitudine. Ora, a fronte di questo, Ebner ha inteso operare nella direzione opposta. Si è speso, quindi, per la riappropriazione del valore spirituale della parola.25
2. I risvolti etici del parlare: verso una verità dialogica
Secondo Ebner, ciò che differenzia il linguaggio dal pensiero è l’apertura relazionale che si riscontra alla sua radice. Laddove, infatti, il pensiero si fonda sulle elucubrazioni solitarie dell’io, il linguaggio si trova implicato fin dall’inizio nella relazione Io-Tu. «Come alla base di tutti i pensieri si trova […] l’Io, così alla base della loro espressione verbale […] si trova la relazione dell’Io con il Tu».26 Il pensiero non si rivolge e non si svolge. Tiene un monologo27 i cui termini sono quelli della logica. Pertanto, si chiude in un’identità escludente non solo ogni differenza, ma anche ogni novità. Finisce, da ultimo, per rappresentare quello che con Levinas potremmo definire il dispiegarsi di una medesimezza: «Il suo senso ultimo dipende da questa permanenza nel Medesimo, che è Ragione. La conoscenza è il dispiegarsi di questa identità».28
Se si vuole comprendere il linguaggio nel suo autentico significato, si deve prendere le mosse da un fatto elementare: in ogni proposizione, in ogni discorso, è fin dall’inizio «posta quella relazione di chi parla con colui a cui si parla, che conviene all’essenza della parola». È questa relazione che ne illumina la funzione, perché la parola è «posizione della relazione tra l’io e il tu»,29 oltre ogni riduzione alla mera funzione segnica. Il linguaggio, infatti, accade estendendosi fra l’Io e Tu30 e la parola è «termine di quell’accadimento che interrompe l’identità chiusa dell’io».31
Per comprenderlo — osserva Ebner — «occorre lasciarci richiamare alla situazione concreta nella quale noi siamo dati a noi stessi e cioè in quella situazione in cui Io e Tu sono presenti nella concreta autoattuazione»,32 quando locutore e uditore sono rivolti l’uno verso l’altro e si parlano.33 Si coglie allora l’inestricabile legame fra la relazione personale Io-Tu e la parola, che sono dati nel linguaggio come forma e contenuto.34 Nella parola l’io e il tu non sono meri pronomi, ma esprimono «l’esserci immediato della persona stessa».35 Perciò il linguaggio autentico è solo quello che «corre tra la prima e la seconda persona».36Confinato nel suo limite interiore, il pensare è un parlare immaginario, perché l’interlocutore, posto dal soggetto, non ha volto, né nome. «Riferendo tutto a me stesso penso, ma non parlo. Per parlare bisogna partire da un altro presupposto: non dall’Io sono, ma dal tu sei».37 Il parlare invece svela immediatamente ed in atto che l’esistere dell’io si fonda nel porsi-in-relazione con il Tu. L’io non resta chiuso nella sua immanenza, ma si proietta oltre se stesso ed oltre la propria solitudine. Per questo stesso motivo, il linguaggio è «qualcosa di trascendente, di soprannaturale, una faccenda della vita spirituale».38
Il linguaggio, che porta ad espressione la relazionalità della persona sollevandola da ogni confinamento intimistico, non è, poi, successivo al pensiero. Come, infatti, il rapporto dell’Io con il Tu non è successivo ad un io esistente «per sé nella propria solitudine»,39 così il linguaggio non è successivo al pensiero. Semmai, è vero il contrario, e cioè che il pensiero è direzionato alla parola. Lo dimostra il fatto che anche quando è formulato in modo lontano dal linguaggio corrente, come avviene, ad esempio, nelle scienze oggettive, sottintende sempre quale suo fine l’espressione.40 Il pensiero è sempre in cerca del linguaggio.In linea con il riconoscimento della priorità del linguaggio vivo sul pensiero astraente, Ebner e i dialogici non ricercano allora tanto una verità universalmente valida, assoluta, quanto una verità accertabile in un rapporto personale, verificabile nella parola. La verità parla nel linguaggio. Essa non può, quindi, essere una costruzione solitaria del soggetto.41 Nello stesso tempo la parola rivela, porta ad espressione, il nascosto. Pertanto, comprendere significa riferirsi ad una verità relazionale, e non relativa, i cui segni sono come impressi nella parola attuantesi fra l’io e il tu. Nella dinamica interpersonale, infatti, non sono solo le idee dell’altro a spingere il mio interesse, ma è l’altro stesso. Il pensiero può essere autoreferenziale, il linguaggio mai, perché non è mai avulso dalla dinamica che coinvolge i parlanti, dinamica in cui la comprensione si pone prioritariamente come comprensione dell’altro e, solo secondariamente, di ciò che dice.
Inoltre, proprio in quanto il processo veritativo è strutturalmente legato al parlare e il parlare è, sempre, parlare a qualcuno, la verità non è formulabile o esperibile in senso intimistico. Come l’etica, la verità è eteronoma. Il parlare si riconnette a quel moto originario che spinge l’io in direzione del Tu, «in una dinamica motivazionale in cui parola e ascolto diventano i momenti correlativi dello svolgersi della stessa umanità dell’uomo».42 Perciò, si può affermare che la verità implica un coinvolgimento in prima persona, un agostiniano verum facere se ipsum.
3. I risvolti antropologici: l’uomo è un parlante
Alla luce delle riflessioni sul linguaggio si chiarisce anche il rilievo antropologico del pensiero ebneriano e dialogico in senso lato. La parola non può essere considerata, infatti, come qualcosa di aggiunto o di estrinseco all’uomo. Al contrario, la parola è ciò che rende propriamente uomini. L’uomo, scrive Ebner citando Max Scheler, «ha la parola», è portatore della parola.43
Nell’avere la parola è compreso tutto ciò che la parola implica e, quindi, la capacità di ascoltare e di ricevere, nonché la capacità di rivolgersi. Pertanto, è caratteristico dell’uomo non solo il poter dire qualcosa, ma anche l’avere qualcosa da dire. L’animale non può dire nulla, «in quanto non ha la parola» né «ha qualcosa da dire». L’avere qualcosa da dire è indice, quindi, di un potere particolare, che si coagula intorno ad un centro attivo interno all’uomo. Tale centro è l’io. D’altra parte, l’io prende coscienza di sé a partire dalla parola. L’animale non ha né un io né un’interiorità, «poiché gli è interdetto il linguaggio, poiché non ha la parola».44 Mancandogli la parola, «egli ha sì coscienza ed entro questa un’esperienza del mondo, non però — in senso stretto — la coscienza di essere». Di conseguenza, «non può mai divenir cosciente di se stesso e della propria esistenza, nemmeno nella sofferenza della propria vita, come nel caso dell’uomo».45
«In mezzo alla natura muta» l’uomo è colui che ha la parola.46 La parola è il punto di concrezione dell’umanità,47 ciò che rende concretamente uomini.La ragione umana è linguisticamente configurata. Ragione — precisa Ebner — è
la speciale coscienza umana, costituita dalla parola e dunque non scindibile dal linguaggio, e tale coscienza rappresenta la premessa dell’impiego umano dell’intelletto. Consapevolezza e intelletto li ha persino l’animale: non però la ragione. Essa è la possibilità che si radica nel carattere personale-relazionale originario. La facoltà di formare concetti e idee e solo successiva. «Senza parola non c’è ragione» e «la ragione è linguaggio, lógos».48
L’uomo è un pensante che parla e un parlante che pensa, che struttura cioè in un linguaggio il suo pensiero, prima ancora di esprimerlo.Ebner, quindi, riscopre il nesso coscienza-parola e lo riscopre assegnando la priorità alla parola, perché è questa che fa l’eccezionalità dell’umano, non la coscienza. La coscienza presuppone la parola e non vi sarebbe, se questa non accadesse.49
La parola è la luce mediante la quale l’esser-consapevole […] si illumina nell’uomo fino a divenire l’essere-consapevole-di-se-stesso, […] cosa che l’animale non può essere. È la parola che ha creato nell’uomo la possibilità di essere consapevole di sé e la vita spirituale nella sua realtà.50L’uomo «è uomo solo grazie al linguaggio».51
Il linguaggio implica, allora, un io non più configurabile secondo i parametri della solidarietà, dell’isolamento solipsistico. Se, infatti, «il linguaggio presuppone da una parte l’Io — come la possibilità spirituale di essere persona parlante e di «prendere la parola», di esprimersi e di affermare la propria esistenza, ossia l’Io sono di cartesiana memoria, «dall’altra però al tempo stesso presuppone la coscienza dello spirituale nell’altro, in riferimento alla sua appellabilità». Sottostà al linguaggio, come suo fuoco, come suo motore, la capacità di rivolgersi al Tu. Il linguaggio non presuppone, infatti, solo la coscienza di sé, ma anche la coscienza dell’altro e, quindi, la possibilità di rivolgersi. Ed è precisamente qui che si coglie la differenza specifica dell’umano, secondo Ebner. «L’animale — scrive — ha una coscienza, che non comporta altro se non un’esperienza del mondo, […]; coscienza che non implica in sé alcun Io e non può dunque porsi in rapporto con una coscienza nell’altro, con un Tu».52
C’è una novità assoluta rispetto alla tradizione razionalista. La parola modifica il senso del cogito, ampliandone gli orizzonti, contraddice la pretesa di autosufficienza della coscienza. «Il senso ultimo del cogito che si qui compie — ebbe a scrivere qualche anno più tardi Ebner —, è che esso cammina attraverso la parola.53 Io sono, diventa allora, in Ebner, io sono un parlante. Un parlante si rivolge sempre a un Tu e lo presuppone anche. «La parola passa dalla prima alla seconda persona ed ha come premessa, nell’attualità del suo venir detto, il carattere personale della relazione dell’Io con il Tu».54 La stessa asserzione io sono, in quanto asserita, si pone nella consapevolezza di essere di fronte a qualcuno.55
Il primato della parola comporta, quindi, la trasformazione del paradigma antropologico da singolarità irrelata a struttura dialogale. Comporta un nuovo umanesimo, che potremmo definire, con Levinas, umanesimo dell’altro uomo.56 Contraddice, quindi, l’idea di un uomo chiuso in un io inaccessibile. L’uomo è un essere di linguaggio, un parlante e un parlante non può porsi solitariamente. La parola è diretta fuori ed oltre la ragione come possibilità di determinazione solitaria. Come tale, «la sua esistenza non consiste nel suo riferirsi a se stesso, bensì nel suo rapporto con il Tu».57
Questo movimento essenziale è ciò che solleva il sé dalla sua condizione di solitudine e ne fa un’anima, ciò che dell’individuo fa una persona, insignita di una realtà più vera di quella di un’idea. Nel fatto che egli ha la parola il suo essere singolo non si rivela, infatti, come condanna all’isolamento, ma come tendenza insopprimibile verso l’altro ed oltre se stesso.
4. L’uomo uditore della parola
Il linguaggio traccia, secondo Ebner, la strada dell’umano, per cui l’uomo è, prima ancora che un pensante, un parlante, che diventa consapevole dalla parola e nella parola.58 Ma seppure il linguaggio è cosa umana, anzi, il sigillo dell’umanità nell’uomo, come scrive Rosenzweig, ciò non vuol dire che si riduca all’umano.59 Allo stesso modo la parola è sì «il veicolo, il mezzo di movimento, mediante cui l’Io nell’uomo si muove verso il Tu»,60 ma essa eccede ciò che è posto dall’io.
Per Ebner, l’uomo è un parlante, ma essere un parlante significa non essere all’inizio, non essere l’inizio. La sua non inizialità sta nel fatto che la lingua precede il parlante che vi entra e la abita. Questo non solo nel senso che essa rappresenta una sorta di dimora, che struttura lo stesso pensiero attraverso i riferimenti culturali e le tradizioni che la innervano, ma anche nel senso che la parola trascende il parlante.
Ogni parlare nasce da un ascolto, da una passività attenta ma silenziosa e si inserisce in un discorso che non inizia dal parlante. Ne viene che occorre inquadrare la nuova determinazione dell’uomo quale parlante nel contesto di un parlare, in cui egli è preceduto, anticipato. Scrive Ebner: «Poiché Dio gli ha parlato in tale maniera e mediante la parola con la sua origine divina ha posto in lui l’Io, creandolo nella sua relazione con il Tu».61 È «l’essere appellati e chiamati a rispondere in prima persona» ciò che fa dell’uomo l’essente capace di parlare.62 Quindi, prima ancora di essere un parlante, l’uomo è un appellato o, come recita un’altra famosa definizione ebneriana, un «uditore della parola».63
Essere appellato significa essere risvegliato dal torpore della ripetitività, smosso dentro, perché la parola è capace di «muovere l’animo e di scuotere lo spirito».64 La parola, rispondendo ad un bisogno profondo, libera l’uomo «dalla sua prigionia spirituale che lo condanna alla morte dello spirito».65 L’uomo ha il senso della parola e questo lo istruisce ad andarle incontro, ma «la parola a sua volta — nell’attualità del suo venir detta — è qualcosa (oggettivamente un suono) che ha il suo senso, che si fa incontro allo spirituale nell’uomo e al suo bisogno di un senso».66
Ebner, quindi, «non si limita al mero riferimento ad un linguaggio che eccede le possibilità sia mie che tue e che funge, pertanto, quale fondamento del nostro parlare dialogico», ma ne ricerca il basamento in una primordiale comunionalità. .67 La parola che ci fa dire «io sono» e «tu sei» è, allora, la parola «che ci chiama ad essere e a cui ci rivolgiamo nella preghiera», la forza che ci fa dire Tu a Dio e che in Lui ci immette nella relazione giusta con gli altri tu.68 In tal caso, la parola è il segno distintivo della spiritualità, ciò che è capace «di porre la vita spirituale nell’uomo».69 Scrive Ebner: «Dio ha creato l’uomo non soltanto mediante la parola, lo ha creato nel momento in cui gli ha dato la parola; l’ha creato come un ente che ha nel suo esser cosciente un rapporto con colui che l’ha creato. In questo rapporto l’uomo ha la sua vita spirituale. In questo rapporto ha la luce della sua vita».70
5. La parola concrezione oggettiva dello spirituale
La rilevanza spirituale dell’esistenza,71 il fatto che essa non si esaurisca «nel suo naturale affermarsi nel corso delle vicende del mondo», ma sia orientata «ad un rapporto con qualcosa di spirituale al di fuori di sé», non sfuma, per Ebner, in un’inattingibilità di tipo mistico,72 perché trova un’espressione oggettiva nella parola. «L’espressione “oggettivamente” percepibile e dunque accessibile ad una conoscenza oggettiva di tale essere orientato ad una simile relazione — scrive — si riscontra nel fatto che l’uomo è un essere parlante, che egli ha la parola».73La parola si manifesta, quindi, come il luogo epifanico dello spirituale, «la concrezione oggettiva della vita spirituale».74 Essa porta ad espressione quella relazione intima dell’io con il Tu, che, altrimenti, resterebbe confinata in un’interiorità inaccessibile ed ineffabile. L’io e il Tu — scrive Ebner — «ci sono dati nella loro interiorità proprio mediante la parola e nella parola».75 Nella parola «la vita spirituale dell’uomo è divenuta oggettiva nella sua soggettività, è divenuta soggettività oggettiva, per così dire, senza però annullare se stessa, come nel pensiero matematico».76
Lo spirituale è intrinsecamente espressivo, relazionale, comunicativo. D’altra parte, il linguaggio è intrinsecamente spirituale, perché porta alla luce ed esprime in forma vivida la spiritualità. La spiritualità dell’uomo risulta, pertanto, «intimamente e inscindibilmente legata al linguaggio». Citando Hamann, Ebner afferma: «l’essenza invisibile della nostra anima si manifesta mediante parole».77
Che l’uomo sia un essere parlante è un fatto oggettivamente evidente. La parola, non quella asettica ed inespressiva, ma quella in situazione, espressiva, comunicante, viva, accade e accade tra. Perciò, essa interrompe l’identità chiusa dell’io e si propone come novità, irruzione di qualcosa che manifesta un’ulteriorità di senso, perché si configura come gratuita. La parola non è mai qualcosa di scontato, di necessario e determinabile, ma qualcosa che porta in sé una differenza incatturabile, indeterminabile. «Il linguaggio — scrive il Nostro — non appartiene per sua essenza alla vita naturale e nemmeno a quella psichica ma invece a quella spirituale».78
A questo punto si precisano i contorni della pneumatologia di Ebner, il cui peso specifico, nella riflessione del ’900, consiste proprio nell’essere una pneumatologia della parola, una spiritualità espressiva e comunicativa. Se, infatti, si considera lo scopo di tutta la sua riflessione, si scopre che esso è quello di arrivare «nella molteplice frantumazione della sua vita alla relazione giusta».79 Ciò avviene nel solco della lezione di Kierkegaard, ma contrapponendosi ad ogni intimismo, individualismo e misticismo. Nell’intento di rifondare il rapporto dell’uomo all’uomo, quel rapporto di cui aveva misurato la crisi negli anni terribili della guerra, Ebner trova, in effetti, in Feuerbach, piuttosto che in Kierkegaard l’autore di riferimento. «Ci sono solo due realtà spirituali: Dio e l’io», osserva Ebner. Questo in ultima analisi si trova già in Kierkegaard. Ma per comprendere realmente la verità di questo non basta aver letto Kierkegaard.80
Ebner è convinto, quindi, che la pneumatologia non debba solo proporre una lettura dell’io reale e concreto, ma anche una riflessione sul senso ultimo del linguaggio. In questo, seguendo Hamann, si proietta verso quello che, a torto o a ragione, è stato definito realismo dello spirito.81 Da Scheler apprende, poi, che l’uomo è tale perché ha la parola, pervenendo a formulare i tratti di una nuova antropologia e di una nuova etica. In Ebner, infatti, come ha scritto E. Ducci, quella intuizione
dilata il proprio contesto: la parola nella sua massima significanza offre la chiave interpretativa della natura dell’uomo e del dinamismo che lo specifica.82 «La focalizzazione della parola nell’uomo» è, quindi, operata da Ebner «in maniera che tutto da lei prenda senso, anche la valutazione di una guerra mondiale, di un’economia in sfacelo, di una problematica sessuale che si va snaturando.83
Tutti questi riferimenti, tuttavia da soli non sono sufficienti a spiegare il perché la parola diventi in Ebner il luogo della mediazione. Questa mediazione è verticale, nella misura in cui la parola media tra l’uomo e Dio, ed è orizzontale, nella misura in cui media tra gli uomini.84 A tale assunto lo porta, infatti, esclusivamente la riflessione sul prologo giovanneo, perché la parola cui fa riferimento Ebner è, innanzitutto, la Parola che era «in principio ed era presso Dio, e Dio era la Parola» (Gv. 1, 1). In sé tale Parola è relazione. La Parola (il Logos) è dal principio rivolta a Dio (presso Dio), intimamente relazionata e relazionantesi con Dio. Essa spiega come la tuità, nel suo fondamento ultimo, sia anamnesi di un’esperienza interiore di rapporto, di una comunionalità che è quella trinitaria. Ma la Parola è anche Colui che si fece carne e venne a mettere le tende tra di noi, il Cristo storico, e, solo in quanto fondata in Lui, diventa concrezione dello spirituale, tuità esperibile, mediazione efficace fra Dio e l’uomo e fra gli uomini fra di loro.
Sulla base della lezione giovannea, Ebner rinviene, quindi, nell’incarnazione il nodo cruciale. In tal caso, ci pare che quello che manca come esplicitamente teorizzato in Ebner sia, in realtà, contenuto, forse inviluppato, nel riferimento alla Parola del Prologo giovanneo. Ebner non sviluppa debitamente il nesso fra il tu umano e il Tu-Dio, ossia fra la relazionalità orizzontale e quella verticale, perché questo, per lui, è già implicito nella Parola che è, al tempo stesso, il Cristo della fede e il Gesù storico.85
5.1. Il risvolto teologico: Ebner e la Parola
Ciò che connota Ebner, rispetto a Rosenzweig e Buber, è il riferimento al Prologo del Vangelo di Giovanni, da cui ricava una significanza della parola tale da improntare tutto il suo pensiero.86 Non tanto, quindi, «le pagine della Genesi quanto il Prologo del Vangelo di Giovanni offrono a Ebner lo spectrum della creazione» in cui «giganteggia il Lógos, la Parola che era in principio, in forza della quale tutto è stato fatto».87Sulla base di quel riferimento si possono, allora, isolare due istanze fondamentali: la parola-essere e la parola-mediazione, ossia la Parola in principio e la Parola fatta carne.
Affermare che la Parola era in principio significa affermare «che la parola è il presupposto di ogni essere — quella che è “premessa” da Dio a ogni essere e posta come fondamento».88 Conseguentemente, Ebner parla di principialità della parola: «Dio, per così dire, — chiarifica in un passo — ha avuto da prima la parola, e ha fatto, per così dire, un uso attivo del suo avere la parola, e con ciò ha creato, come dice l’evangelista, tutto ciò che è».89
La Parola-Logos presuppone e produce relazione. Ora, se il Logos è all’origine di tutto ciò che è, allora tutto è espressione di relazione. La Parola che pone l’essere pone, infatti, un essere che ha anche il senso della Parola.90 «In principio era il senso della vita, e questo senso era presso Dio e Dio era il senso della vita» — scrive Ebner parafrasando il Prologo.91 Lo rivela lo spettacolo delle cose create che manifestano «le proprietà invisibili di Dio».92 Lo rileva l’intimo del cuore umano che inquietamente, senza sosta, è in cerca di Lui. Dio stesso, ed è questo che il Logos rivela ad un livello che la religiosità ebraica non poteva immaginare, è capacità relazionale.93
La parola acquista, quindi, una pregnanza di significato che va ben al di là dell’ambito logico o gnoseologico. La sua centralità significa, a livello ontologico, che l’essere è intrinsecamente relazione. «In principio era la Parola compresa nella pienezza del suo senso, non è niente altro che la restituzione oggettiva dell’essere nella parola», scrive Ebner.94 A livello teologico, poi, il mistero della parola rinvia ad una relazione che è quella che unisce le tre persone della Trinità. La relazione è, quindi, in Dio ed è Dio, perché Dio è unico, ma non è solitario e solipsista. Pertanto, «anche il Logos del Vangelo di Giovanni deve essere capito partendo dalla parola (verbum). Si deve prendere il Logos alla lettera, semplicemente nel senso di parola. In principio c’era il “rapporto dell’Io al tu”, e questo rapporto era presso Dio e Dio era il rapporto dell’io al tu».95
Quanto alla parola umana, essa è partecipazione diretta della Parola creante, della Parola-Logos. L’uomo è immagine di Dio, perché ha la parola ed è capace di ascoltarla. L’ha ricevuta nel momento stesso in cui è stato creato, perché Dio «ha creato l’uomo con il fatto stesso di parlargli. Lo ha creato mediante la parola, nella quale era la vita, e la vita era la luce degli uomini, come si legge nel prologo del Vangelo di Giovanni. Che Dio ha creato l’uomo non significa altro se non che Dio gli ha parlato. Nel crearlo gli ha detto: «Io sono e per mio tramite tu sei». La parola è ciò che illumina la coscienza, ciò che, nel costante rischio di adulterazione e mistificazione, resta anamnesi della Parola che era presso Dio. Il sapere dalla parola ebneriano indica, conseguentemente, la consapevolezza del proprio essere da Dio, del proprio costante tendere verso Dio.96
Tuttavia, nella riflessione ebneriana sulla parola-Logos è presente anche l’altra istanza più marcatamente cristologica: la Parola-mediazione, la Parola fatta carne.
In Cristo-Logos c’è una novità rispetto alla tradizione ebraica, in cui Dio è l’inconoscibile, il Santo, il separato, il totalmente altro, che l’uomo può cercare ma non trovare. Nel Logos, che «ha messo le tende fra noi», il qadosh (il separato) diventa il Dio totalmente rivolto verso l’uomo. Ciò che era separato, ciò che era altro, si fa, quindi, prossimo. Siamo a quello che Giovanni chiama incarnazione e Paolo kenosi, ossia all’abbassarsi di Dio fino a noi.97
La Parola-Cristo istituisce prossimità.98 Dio non è uno spettatore distaccato e distante. È, semmai, l’uomo a renderlo tale nelle forme religiose ridotte a dottrina o a precettistica. «Nel momento in cui la parola dell’uomo si rivolge seriamente a Dio, anche Dio parla all’uomo».99 Dio è il Tu dell’uomo, il Tu della coscienza.100 Il significato stesso della fede si gioca intorno a questo fondamentale punto. «Dio — afferma Ebner — ha un’esistenza personale oppure non esiste assolutamente». Perciò, «credere nel nome di Dio significa credere a Dio come all’essere invocato, come alla «persona appellata», come appunto al Tu dell’Io che è nell’uomo; in altri termini, credere alla sua esistenza personale.101 Dio non se ne sta in un’aseità distante, ma viene in mezzo a noi, si fa Parola e amore nel Cristo, che è il Veniente. La vita dello spirito, quindi, «comprende in sé ed esige un rapporto personale con Dio ed è la possibilità stessa che Dio ha creato e voluto nell’uomo, di appellarlo direttamente, quando prega, come Padre».102 Questo rapporto personale, vivo, attuale è la fede, ma «ogni forma di fede è nel suo ultimo e definitivo fondamento una fede nella parola».103 Perciò, la religione autentica e la parola devono procedere assieme: «Il fatto che l’uomo ha la parola e il fatto che l’uomo ha la religione, dal punto di vista spirituale è la stessa e medesima cosa. Come il linguaggio così anche la religione è qualcosa che risulta posto in maniera immediata nell’uomo».104
Ora, la fede in Cristo si inscrive nella parola, perché Cristo è la Parola stessa che si dona, che si fa lievito della pasta, senso della storia. Cristo, la Parola incarnata, è capacità essenziale di dire Tu a Dio, di ristabilire cioè il senso del mondo a partire dalla relazione primordiale. Solo il Cristianesimo istituisce il rapporto reale con Dio, in quanto Tu dell’uomo.105 Perciò
non esiste modo più tragico di equivocare le parole di Cristo, che quello di prenderle come in qualche modo poetiche o filosofiche. Esse rappresentano la parola più personale che sia mai stata pronunciata sulla terra — e già per tale motivo del tutto non poetica e non filosofica — la «parola» nella sua stessa dimensione personale. Esse si rivolgono direttamente alla concreta personalità nell’uomo e sapersi da queste interpellati significa letteralmente arrivare in tal modo alla «concrezione» della propria personalità.106
Gesù è, quindi, per Ebner, la Parola di Dio unica, definitiva ed irripetibile.
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F. Ebner, La parola e le realtà spirituali. Frammenti Pneumatologici, ed San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998, p. 385. ↩︎
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E. Ducci, La parola nell’uomo, editrice La Scuola, Brescia 2005, p. 81. ↩︎
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A. Bertoldi, Il pensatore della parola. Ferdinand Ebner filosofo dell’incontro, Città Nuova editrice, Roma 2003, p. 154. ↩︎
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«Esiste comunque anche un divenir parola dei pensieri che evita il Tu, una parola che non parla cioè né al Tu ideale né al Tu concreto nell’uomo, bensì si attiene all’oggettività del pensare». F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 178. In ciò si rimarca la specificità ebneriana nel contesto di quella che è stata definita la svolta linguistica del ’900, in particolare, in rapporto a Wittgenstein. Su tale argomento si vedano: P. Kampits, Gioco linguistico e dialogo. Sull’interpretazione del linguaggio in Ludwig Wittgenstein e Ferdinand Ebner, in S. Zucal — A. Bertoldi (a cura di), La filosofia della parola di Ferdinand Ebner. Atti del Convegno internazionale di Trento (1-3 dicembre 1998), Morcelliana, Brescia 1999, pp. 467-479 e L. Perissinotto, Linguaggio e filosofia in Ferdinand Ebner e Ludwig Wittgenstein, ivi, pp. 481-496. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 186. Il passo contiene una citazione di von Humboldt, nominato nei Frammenti 5 volte, a p. 144, 148, 153, 186 e 223 (nell’edizione italiana cui si è fatto sempre riferimento). ↩︎
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E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 77. Ebner è contrario «alle diverse interpretazioni empiristiche del linguaggio, esigenti che esso stia in un rapporto constatativo con la realtà». S. Zucal, Il miracolo della parola, in F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 64. ↩︎
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«L’esperienza del suono, in quanto appunto vi è già in essa qualcosa di spirituale, si fa incontro alla parola. In tale esperienza del suono vi è già per natura la disponibilità a servire all’incorporazione della parola, a predisporre alla parola nella spiritualità della sua origine — che supera la sfera dell’esperienza del mondo — la via nell’uomo e nell’intimità del suo animo». F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 207-08. ↩︎
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Ivi, p. 279. Ebner si riferisce agli sviluppi della psicologia scientifica e a Otto Weininger: «Del tutto diversamente stanno le cose per quanto riguarda la legge dell’attrazione sessuale, sebbene anche qui resti dubbio se tale legge possa effettivamente venir formulata in termini matematici. Il tentativo lo ha fatto Otto Weininger. Per l’amore e la parola non è possibile addurre alcuna prova matematica. E nemmeno una prova d’altro genere. La conoscenza matematica è nella sua conseguenza ultima annullamento della parola e morte dell’amore». Ivi, p. 280. ↩︎
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Ivi, p. 281-82. Per gli stessi motivi, Ebner giudica negativamente la pretesa, caratteristica della scienza «moderna», «di inventare una lingua mondiale artificiale» Ivi, p. 216-17. Assumendo, quindi, come filo conduttore la rilevanza spirituale del linguaggio, Ebner si oppone anche ad ogni teoria che ne spieghi l’origine a partire dall’evoluzione biologica. «è mia profonda convinzione — scrive, richiamando Humboldt — che il linguaggio debba esser considerato come un qualcosa che è stato posto immediatamente nell’uomo e non ha senso ipotizzare millenni e millenni fino alla sua invenzione» Ivi, p. 148. ↩︎
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Si dà, per Ebner «un legame di interdipendenza tra l’abbrutimento del linguaggio e l’avvilimento del soggetto umano ad individuo ab-solutus, dimentico del Tu e condannato all’«autosolipsismo dell’Io». A. Bertoldi, Il pensatore della parola, cit., p. 155. Lo attesterebbe il disagio psichico, riconducibile, per Ebner, a «qualcosa di spirituale». F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p.151. ↩︎
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S. Zucal, Lineamenti di pensiero dialogico, Morcelliana, Brescia 2004, pag 35. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p.240-41. ↩︎
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«Nella superbia della propria autoconoscenza l’uomo non sa nulla circa la grazia […] e si chiude all’amore». Nulla lo salva «dalla svalutazione della propria esistenza e della vita in genere e anzi si esprime di fatto proprio all’interno di tale svalutazione» Ivi, p. 359. ↩︎
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Per Ebner, Nietzsche è un nemico dell’idea e «un appassionato dell’uomo reale che vale più dell’idea», ma in lui, «nell’ottica dello «spirito libero», si celebra la dolorosa recisione e amputazione del legame-dipendenza con un Tu divino e umano, laddove proprio in quel duplice legame-dipendenza Ebner riviene la liberazione dalla propria paralizzante impotenza». Vedi S. Zucal, Il miracolo della parola, cit., p. 17-18. Un riferimento esplicito a Nietzsche, e in particolare al concetto di volontà di potenza è rinvenibile nei Frammenti Pneumatologici a p. 361. ↩︎
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Vedi pure Frammenti Pneumatologici, cit., p.254. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 177. ↩︎
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Ivi, p. 186. «La nascita del pensiero non si compie nel soliloquio […]. Non hanno carattere monologico né il discernimento delle relazioni fondamentali, con cui inizia il pensiero conoscente, né la comprensione, la limitazione e lo sviluppo di tale discernimento, né la sua trasformazione nella forma autonoma del concetto, né l’assunzione di questa forma […] in un ordine concettuale; infine neppure la connotazione e convenzione linguistica» M. Buber, Dialogo, in Il pensiero dialogico e altri saggi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993, p. 212. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 281-82. La ragione va considerata, quindi, come «il riverbero che «riflette» la «luce della parola» e non tanto come la facoltà di formare concetti, idee o formule». Vedi S. Zucal, Il miracolo della parola, cit., p. 61-62. ↩︎
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Ivi, p. 149. ↩︎
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A. K. Wucherer-Huldenfeld, Il pensiero fondamentale di Ferdinand Ebner, in Ferdinand Ebner, in (numero speciale della rivista) Communio, n. 175-176 gennaio-aprile 2001, Jaca Book, Milano 2001, p. 20. cit., p. 27. «La parola e la lingua non possono essere studiate in maniera a-settica prescindendo dal soggetto umano, viceversa il soggetto umano non può essere indagato e colto nella sua realtà vivente se non percorrendo la strada della parola» E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 43. ↩︎
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E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 82. ↩︎
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Lo dimostrerebbe il fatto che i bambini, diversamente dai piccoli del mondo animale, «ancor prima di saper parlare, si dedicano di per sé a esercizi sonori e sillabici come a una specie di esercitazioni al linguaggio», in quanto «in essi è posta la parola e l’impulso al linguaggio». «In questi non si osserveranno mai simili esercizi di formazione dei suoni, questi giochi con gli elementi del linguaggio che preparano il parlare; e questo perché negli animali non vi è nulla che, come nei bambini, spingerebbe verso il linguaggio, proprio perché ciò, derivando dall’«avere la parola» è di origine spirituale e non può affatto venir inteso come espressione di un puro istinto, che farebbe compiere all’individuo in maniera inconsapevole quanto è necessario alla sopravvivenza sua e della sua specie». F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 223. ↩︎
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Ivi, p. 187-88. ↩︎
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Ivi, p. 367. ↩︎
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«Non inabita nella parola in sé e per sé, proprio per la sua origine nello spirito, la forza di risanare l’uomo dalla rottura spirituale della sua vita? La parola incatena la potenza del male. La parola riscatta l’uomo. Essa lo libera dalla sua prigionia spirituale che lo condanna alla morte dello spirito» F. Ebner, Notizen, Tagebücher, Lebenserinnerungen, in Schriften, vol. II, a cura di F. Seyr, München, Kösel 1963, p. 241. «Se la nostra cultura non vuol tramontare — ha scritto, a tal proposito, Edda Ducci — dovrà assumersi il compito della restitutio in integrum della parola, non quella che nel restringimento di ogni interiorità di vita si aggrappa ai segni esterni e al corpo morto della parola, ma quella in cui l’amore fa l’uomo «uditore della parola», in cui l’amore lo fa «facitore della parola» E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 127. ↩︎
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Ivi, p. 174. ↩︎
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«La ragione impersonale che parla alla prima persona, che non si rivolge all’Altro, tiene un monologo». E. Levinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1994, p. 70. ↩︎
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Ivi, p. 41. In un passo successivo Levinas precisa: «Lo chiamiamo Medesimo perché nella rappresentazione l’io perde appunto la sua opposizione al proprio oggetto; essa si annulla per far risaltare l’identità dell’io malgrado la molteplicità dei suoi oggetti, cioè appunto il carattere inalterabile dell’io». Ivi, p. 127. ↩︎
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F. Ebner, Schriften, vol II, cit., p. 298-99. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 144. «La parola viva è dialogo e non monologo; essa rende obbiettivamente percepibili l’essere e il senso dell’Io come del Tu, cioè delle realtà spirituali; essa è la luce in cui queste realtà divengono visibili, il fatto in cui esse sono obbiettivamente poste per la coscienza», Zum Problem der Sprache und des Wortes, in Fragmente, Aufsätze, Aphorismen. Zu einer Pneumatologie des Wortes, in Schriften, vol. I, a cura di F. Seyr, München, Kösel 1963, p. 645. ↩︎
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Vedi P. Mancinelli, Rosenzweig e la questione dell’essere: pensare l’inizio in una terra altra, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 6 (2004) [inserito il 30 maggio 2004]. «Sigillo dell’esperienza dell’esteriorità e, quindi, della realtà, il linguaggio indica l’espropriazione del mero pensiero per mezzo della parola» B. Casper, Indigenza dell’Altro ed esperienza di Dio etc., in Ferdinand Ebner, Communio, cit., p. 34. ↩︎
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A. K. Wucherer-Huldenfeld, Il pensiero fondamentale di Ferdinand Ebner, cit., p. 29. ↩︎
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Vedi F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 137-38. ↩︎
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Ivi, p. 146. ↩︎
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E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 175. ↩︎
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F Ebner, in Schriften, vol. I, cit., p. 91. ↩︎
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M. Caleo, Metafore del pensiero filosofico, Edisud, Salerno 2000, p. 61-62. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 150. Il passo contiene una citazione di Hamann. Subito dopo Ebner precisa: «Ma questo non l’ho capito leggendo Hamann. Piuttosto ho capito Hamann soltanto dopo che tutto questo mi era diventato chiaro». Vedi Schriften, cit., vol. II, p. 911. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 150. ↩︎
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«La loro espressione verbale (riferito ai pensieri oggettivi) ha innanzitutto il senso di metterli in contatto con il pensare degli altri», per «parlare allo spirituale nell’altro uomo». Ivi, p. 176. Le riflessioni ebneriane qui riportate evidenziano una stupefacente consonanza con il secondo Wittgenstein. In particolare, si pensi alla critica alla possibilità di un linguaggio privato espressa in Ricerche filosofiche, tr. it. R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983, vol. I, p. 202. ↩︎
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«Con il fatto di pensarsi l’Io non esce dal suo solipsismo […], nell’esprimersi e divenir parola si muove fuori da tale solitudine verso il Tu e diviene vero in un senso più profondo» F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 254. ↩︎
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E. Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2002, p. 12. Più tardi Buber determinerà tutto questo come l’interumano: «Con la sfera dell’interumano intendo esclusivamente eventi in atto tra gli uomini, sia totalmente reciproci, sia tali da essere in grado di innalzarsi o di completarsi immediatamente nella reciprocità, poiché la partecipazione dei due partner è per principio indispensabile. La sfera dell’interumano è quella del reciproco stare-l’uno-di-fronte-all’altro; il suo dispiegarsi è ciò che chiamiamo il dialogico». M. Buber, Elementi dell’interumano, in Il pensiero dialogico e altri saggi, cit., p. 298. ↩︎
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Così S. Zucal scrive commentando in una nota (nota 6) ai Frammenti di Ebner. Vedi F. Ebner, Frammenti Pneumatologici Ivi, p. 150. ↩︎
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Ivi, p. 150-51. ↩︎
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Ivi, p. 232. ↩︎
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E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 34. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 281. ↩︎
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Ivi, p. 212-13. ↩︎
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«Non la coscienza implica l’io, ma la parola, e la parola è relazione al tu. Fuori di essa l’uomo non giunge alla coscienza di sé» E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 117. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 165. Così scrive nella stessa pagina: «Quei filosofi che negavano l’esistenza reale dell’Io si erano ben accorti che l’autocoscienza non è identica se non con il fatto che l’uomo è un essere parlante: eppure essi non compresero la rilevanza di tale identità, poiché non avevano visto il radicamento e l’ancoraggio del linguaggio nelle realtà spirituali della vita» Ibidem. ↩︎
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«L’uomo, la cui intera umanità è talmente radicata nel fatto della parola da poter e dover con altrettanta ragione affermare che egli è divenuto grazie alla parola, al linguaggio, quello che è, cioè un uomo? Anche Wilhelm von Humboldt, forse intravedendo l’«uscita dal circolo chiuso» che la «pneumatologia» da parte sua vede, mentre la scienza non vede e non può vedere, sosteneva: l’uomo è uomo solo grazie al linguaggio; per inventare il linguaggio doveva però già essere uomo». Ivi, p. 153. ↩︎
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Ivi, p. 232. ↩︎
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F. Ebner, Schriften etc.,cit. vol. II, p. 260. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 146. Così precisa in un passo successivo: «Dietro a ogni «proposizione» — e a ogni parola che è una proposizione — sta come suo senso profondo e più intimo la «posizione» del rapporto tra 1’Io e il Tu, la posizione reale o anche puramente ideale della vita spirituale» Ivi, p. 148. ↩︎
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Ivi, p. 164. «Per l’uomo principiare a parlare e affermare il proprio io sono la medesima cosa, ma l’affermazione dell’io non c’è senza l’affermazione del tu. Questo filo sottile e tenace è ciò che fa umano il linguaggio» E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 78. ↩︎
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E’ il titolo di un famoso saggio di E. Levinas: Umanesimo dell’altro uomo, il melangolo, Genova 1998. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 142. ↩︎
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Vedi S. Zucal, Il miracolo della parola, cit., p. 49. ↩︎
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F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, milano 2005, p. 113. «L’avere la parola non è giustificato nell’uomo né dallo sviluppo naturale-biologico, né da duello socio culturale; rimanda a qualcosa che trascende l’uomo in quanto tale». Ciò vuol dire che qualcuno ha parlato all’uomo, nel momento in cui lo poneva nell’essere, «e in tal modo l’uomo è stato primamente un tu; la sua determinazione prima è provenuta dall’ascolto della parola creante; l’aver udito la parola che lo ha fatto passare dal nulla all’esserci è rimasto come impronta di un sigillo. Così, come la prima volta, l’uomo si determina poi sempre, storicamente e quotidianamente, udendo la parola» E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 99. Ebner ha sviluppato questo pensiero giungendo a conclusioni che, per certi versi, ricordano l’occasionalismo: «Ciò che si esprime nell’uomo, l’io, ha il suo fondamento spirituale nel suo poter essere interpellato, nel fatto che diventa tu: facitore della parola è l’uomo soltanto in quanto è stato prima uditore. Mentre la parola parla all’uomo, mentre lo rende un tu, egli diventa cosciente di se stesso, del suo io» F. Ebner, Schriften, cit., vol. II, p. 302. L’avere la parola da parte dell’uomo deve essere letto, in ultima analisi, come un suo partecipare attualmente e direttamente della Parola creante, che è Dio stesso. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 298. Vedi pure Ivi, p. 211. ↩︎
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Ivi, p. 156. ↩︎
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P. Plieger, Gadamer ed Ebner: uditori della parola, in Ferdinand Ebner, Communio, cit., p. 160. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 159. ↩︎
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«Per mezzo della parola l’animo dell’uomo viene mosso e lo spirituale che è in esso viene appellato e risvegliato» Ivi, p. 208. La parola ha «una valenza che trascende l’uomo in quanto tale e ogni possibile causazione umana». E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 151. ↩︎
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F. Ebner, Schriften, vol. II, p. 241-42. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p.193. ↩︎
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«Nella temporalità del suo accadere, il linguaggio tra l’Altro e me è l’autentica esperienza primordiale, da cui Ebner prende le mosse» B. Casper, Indigenza dell’Altro ed esperienza di Dio etc., in Ferdinand Ebner, Communio, cit., p. 34. ↩︎
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«Nella prospettiva di Ebner, tale spirito sia il «pneuma» santo che costituisce il legame tra le tre Persone divine e, nel contempo, il rapportarsi dell’uomo a Dio nella sua realtà spirituale». P. Plieger, Gadamer ed Ebner: uditori della parola, in Ferdinand Ebner, Communio, cit., p. 163. Nella parola Ebner ha colto, volendo usare un’espressione di M. Buber «la stretta solidarietà che lega la relazione a Dio con la relazione all’altro uomo» (M. Buber, Io e Tu, in Il principio dialogico etc., cit., p. 148), ma Buber sostiene pure che ha finito per assorbire la relazione interumana nella relazione uomo-Dio. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti pneumatologici, cit., p. 224-25. «Tutta la vita spirituale in noi è determinata dalla parola e per suo tramite nuovamente rimandata a un rapporto con lo spirituale al di fuori di noi» Ivi, p. 175. La parola ha, quindi, un carattere pneumatologico. Vedi P. Plieger, Gadamer ed Ebner: uditori della parola, in Ferdinand Ebner, Communio, cit., p. 160-61. ↩︎
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F. Ebner, Schriften etc., cit. vol. II, p. 298-99. «Diversamente da Buber Ebner non ha sviluppato il tema relazionale in direzione del mondo, nella fattispecie del rapporto tra la Parola e il mondo, ma, in compenso, «ha sondato in tutte le sue valenze il rapporto che intercorre tra la Parola e l’uomo» E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 133. Si tratta, quindi, di rimarcare la datità dell’uomo sotto il profilo linguistico. Vedi Ivi, p. 146. ↩︎
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Vedi F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 137. ↩︎
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Anche Buber respinge ogni mistica dottrina dell’inabissarsi in sé: «chi si limita solo a «vivere interiormente» il proprio atteggiamento, chi lo attua solo nell’anima, per quanto possa essere pieno di pensieri è senza mondo; e tutti i suoi giochi, i suoi artifici, tutte le sue ebbrezze, gli entusiasmi e i misteri che accadono in lui, non sfiorano neanche la superficie del mondo», Io e Tu, in Il principio dialogico, cit., p. 127. ↩︎
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F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 137-38. ↩︎
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Ivi, p. 281-82 ↩︎
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Ivi, p. 137-38. ↩︎
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Ivi, p. 254. ↩︎
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Ivi, p. 146-47. ↩︎
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Ivi, p. 234-35. ↩︎
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F. Ebner, Schriften, vol. I, cit., p. 21. ↩︎
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Ivi, p. 32. Per Ducci, la pneumatologia della parola è »la faccia altra di Kierkegaard». Vedi La parola nell’uomo, cit., p. 208. ↩︎
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«Ci sono solo due realtà spirituali: Dio e l’io», osserva Ebner, e la riflessione risale a quegli anni. Questo in ultima analisi si trova già in Kierkegaard. Ma per comprendere realmente la verità di questo non basta aver letto Kierkegaard» F. Ebner, Schriften, vol. I, cit., p. 32. ↩︎
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E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 73. ↩︎
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E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 126. ↩︎
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Vedi F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 187-88. «E’ la peculiarità della relazione pneumatologico-verbale che lega l’uomo a Dio a promuovere e fondare la comunicazione dialettica con l’alterità a livello interumano». A. Bertoldi, Il pensatore della parola etc., cit., p. 62. L’autrice rileva, quindi, la differenza con Buber in cui la relazione uomo-dio sarebbe guadagnata, non a partire da quella uomo-Dio, ma da quella uomo-uomo. Si veda pure Frammenti Pneumatologici, cit., p. 175-76. ↩︎
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Per S. Zucal, «è indubbio che in Ebner la centralità della parola conduce a cogliere la dialogicità piena solo tra chi è dotato appunto della parola, cioè l’uomo e Dio; ma da qui ad accusarlo di acosmismo, come traspare in Buber stesso, e a marcarne in tal modo la distanza da quest’ultimo il passo è perlomeno precipitoso e imprudente: proprio perché la «parola» ebneriana è il Cristo-Lógos, di cui anche la creazione reca le stimmate, i «semi». […] Se Buber incontra il Tu divino dal basso, a partire dall’Io-Tu intraumano […], Ebner percorre con decisione la strada inversa: tutto parte dall’alto, si radica nel rapporto con Dio e nella peculiarità di questo rapporto fondato su una fede nuda. Solo a partire da Dio e da Cristo si rende possibile la dialogicità umana, che si alimenta appunto di quella Parola incarnata: il Tu dell’altro uomo è un riverbero del Tu divino, essendosi il Tu divino ominizzato in Cristo e avendo in lui parlato all’uomo, rendendolo definitivamente suo Tu». S. Zucal, Il miracolo della parola. Ferdinand Ebner nel contesto filosofico del suo tempo, cit., pp. 79-80. Un’interpretazione simile offre E. Ducci: «La soluzione ebneriana si avvicina ma si distingue da quella di M. Buber, e una distinzione fondamentale si ha precisamente nella non universalizzazione del tu. Il tu è per Ebner lo spirituale fuori dell’io a cui lo spirituale che è nell’io tende; pertanto è identificabile solo con la soggettività». Tuttavia, la Ducci precisa che «l’identificazione primaria del tu vero dell’io vero con Dio potrebbe far pensare ad una soluzione del problema uomo nel solo ambito religioso- fideistico. Ma il discorso va visto nelle movenze del neues Denken specificamente ebneriano. Il rimando a Dio e al Dio personale del Cristianesimo è indiscutibile. C’è, sulla scia di Kierkegaard, il far perno sull’evento storico-metastorico dell’incarnazione; ma c’è anche il nesso inscindibile tra il Tu-Dio e il tu-uomo. E questo dà alla posizione ebneriana connotazione e soluzione propria. Il valore dell’io è riconosciuto tale da non poter trovare interlocutori adeguati nella natura, nella cultura, nel progresso, nella storia ma in un tu-persona-assoluta (Dio non è altro che il tu vero dell’io nell’uomo); ma la conseguenza non è l’isolamento dell’io dagli altri uomini; e l’inserimento fra gli altri non è elemento marginale o strumentale per l’io vero. I1 nesso tra i due rapporti è problematico. La preoccupazione massima di Ebner mi pare sia quella di legare il riscatto dall’astrazione dell’uno all’effettivo esserci dell’altro sì da evitare e il misticismo e la fuga nel sociale». La parola nell’uomo, cit., p. 186-87; 188. ↩︎
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«Diversamente dai suoi «colleghi dialogici» di provenienza ebraica, Ebner individua infatti nel Lógos incarnato la chiave di volta per una ricomprensione dell’umano e la possibilità di una saldatura tra ideale e reale, tra storico e metastorico. Nel Verbo fatto carne l’alterità di Dio, non più coglibile come mera idealità trascendente, si fa incontrabile, andando così a togliere la riflessione filosofica dal regno del concetto per restituirla a quello della vita» A. Bertoldi, Il pensatore della parola etc., cit., p. 12. Vedi pure S. Patriarca. Recensione a Ferdinand Ebner. La parola e le realtà spirituali. Frammenti pneumatologici, cit. ↩︎
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E. Ducci-P Rossano, Introduzione, in F. Ebner, Parola e amore. Dal Diario 1916/17. Aforismi 1931, Rusconi, Milano 1983, p. 28. ↩︎
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F. Ebner, Schriften etc., cit. vol. II, p. 294. ↩︎
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Ivi, pp. 298-99. ↩︎
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«Che all’inizio della sua vita spirituale sta la parola, la parola che era in principio, ciò l’uomo lo può capire in se stesso in una consapevolezza ultima che implica il proprio rapporto a Dio. E il primo che ha anche espresso questa visione è stato proprio l’evangelista Giovanni» F. Ebner, Schriften etc., cit. vol. II, p. 249. Scriverà l’ebreo Buber «All’inizio è la relazione», traducendo il giovanneo «In principio è il Logos». Vedi Io e Tu, in Il principio dialogico etc., cit., p. 72. ↩︎
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F. Ebner, Schriften etc., cit. vol. I, p. 676. ↩︎
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Vedi Paolo, Lettera ai Romani, 1,20 in Nuovo Testamento interlineare, a cura di P. Beretta, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998, p. 1269. ↩︎
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«Come la parola sia il fondamento spirituale di ogni essere e vita — tutto è divenuto mediante essa e senza di essa niente è divenuto di ciò che è stato fatto, si dice nel Vangelo di Giovanni — questo un uomo non lo può mai comprendere pienamente. Ma che la parola sia il fondamento di ogni vita spirituale nell’uomo, questo può essere compreso. E deve essere compreso, anche se non nel senso di una «pneumatologia» oggettiva». F. Ebner, Schriften etc., cit. vol. II, p. 271. ↩︎
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«In principio era la Parola compresa nella pienezza del suo senso, non è niente altro che la restituzione oggettiva dell’essere nella parola». F. Ebner, Schriften, cit., vol. II, p. 536. Così la Ducci: «La riflessione ebneriana esorbita dall’ambito logico, dall’ambito gnoseologico ed entra nella sfera dell’essere: in principio era la parola ha il medesimo senso dell’affermazione in principio è l’essere» E. Ducci, La parola nell’uomo, cit., p. 67. ↩︎
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F. Ebner, Schriften etc., cit. vol. I, pp. 962-63. ↩︎
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Quando Ebner parla di spirito allude alla parola. Ne è controprova il fatto che pneuma è in lui connesso alla parola, che, a sua volta, oggettiva la spiritualità dell’uomo. Intorno a tale nesso ruota la pneumatologia ebneriana: «La pneumatologia è conoscenza della parola, sapere dalla parola e sulla parola e dunque un’interpretazione del Prologo del Vangelo di Giovanni» Frammenti Pneumatologici, cit., p. 185. ↩︎
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Scrive Ebner: «La parola che esige la fede e comanda l’amore media tra l’uomo e Dio e non come il Lógos di Filone tra Dio e il mondo» (Ivi, p. 292). Il Logos non è un concetto o una funzione impersonale, ma la Parola fatta carne nella persona di Gesù Cristo. ↩︎
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«Dio nessuno lo ha mai visto; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, ce lo ha rivelato» Giovanni 1,18. «Il Logos del Vangelo di Giovanni è in senso pneumatologico, l’unico che qui entra in causa, correttamente tradotto con parola, verbum. E questa «parola» non è affatto da intendersi solo come cifra e immagine per il Figlio unigenito di Dio, bensì può e deve essere intesa in senso letterale». F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., p. 213. ↩︎
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Ivi, p. 177. ↩︎
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«Tanto più chiaramente e nettamente comprenderà che Dio è il vero Tu del suo Io, che egli non potrebbe esistere altrimenti se non in rapporto con Dio. Tanto più chiaro gli diverrà però che esiste un solo Io e che l’Io è l’«unico» di fronte a Dio». Ivi, p. 154. «Poiché nel mistero della ‘parola’ si cela e si rivela il mistero della vita spirituale, la pneumatologia, almeno fin dove è davvero possibile, è conoscenza della parola, sapere dalla parola e sulla parola e dunque un’interpretazione del Prologo del Vangelo di Giovanni, seppur non come speculazione metafisica con il lógos. L’evangelista Giovanni è stato il primo — e Hamann forse il secondo — a cogliere l’intima connessione della vita spirituale nell’uomo con la parola (di cui riconobbe l’origine divina) e con la vita di Gesù. Come potrebbe l’uomo conoscere la vita dello spirito, se questa non gli si fosse rivelata nella «parola di Dio», nella parola del Vangelo? Certamente dal punto di vista sensibile la parola di Gesù era anche parola umana, pronunciata nella lingua di una data nazione, ma pur sempre parola alla quale, per testimonianza di Gesù stesso, dobbiamo credere se vogliamo vivere nello spirito, la parola di Dio, la «parola» stessa nella divinità della sua origine, che è entrata nella lingua umana e «vi ha abitato», così come Dio stesso è divenuto uomo nella vita umana di Gesù e ha abitato in mezzo a noi». Ivi, pp. 185-86. ↩︎
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Ivi, p. 159. ↩︎
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Ivi, p. 168. ↩︎
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Ivi, p. 159. La fede in Cristo è fede nella Parola. Cristo è la Parola, ossia l’unica parola che salva, l’unica parola che conta, l’unica parola efficace: «La fede in Cristo, nella quale noi abbiamo la nostra vita spirituale nella sua realtà e verità, è e non può essere altrimenti che la fede nella parola, che qui dobbiamo intendere in maniera diretta e letterale» (Ivi, p. 351). A livello spirituale tutto, di conseguenza, si gioca intorno alla parola: «Comunque noi cogliamo la nostra vita spirituale, notiamo che non vi è in essa un solo istante che non sia già o non esiga un rapporto immediato ed essenziale con la parola. E così è, perché essa è stata creata dalla Parola». La verità dell’essere, il senso, «si manifesta grazie alla verità della Parola, sorgente di tutta la verità e di tutto l’essere» (Ivi, p. 367). ↩︎
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Ivi, p. 189. ↩︎
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«Senza lo spirito del cristianesimo, ossia senza la vita e la parola di Gesù in cui la realtà dello spirito e della parola erano assolutamente uno, nessuno avrebbe saputo qualcosa di se stesso, del proprio io». F. Ebner, Schriften etc., cit. vol. I, p. 107-08. ↩︎
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Ivi, p. 385. ↩︎