Gianfranco Mormorino, Per una teoria dell’imitazione, Raffaello Cortina editore, Milano 2016.
Questo saggio di Mormino ha l’ambizione di segnare una vera e propria svolta negli studi sull’imitazione, che René Girard, il pioniere indiscusso della teoria mimetica, ha avuto il merito di affrontare in modo originale, istituendo analisi comparative e transdisciplinari di notevole interesse, ma così ardite da suscitare la diffidenza a volte risentita dei professionisti dell’accademia – storici delle religioni, biblisti, teologi, antropologi, psicologi, sociologi – tutti più o meno schierati nella difesa della proprietà privata della propria disciplina. La proposta di Mormino è una rivoluzione conservatrice, che getta un ponte tra l’evoluzionismo darwiniano e la teoria mimetica − l’autoimitazione – che al tempo stesso è il tronco o fondamento di entrambe. Presupposti e corollari di questa teoria sono il riduzionismo meccanicistico, il necessitarismo e il continuismo. Come cercherò di mostrare, l’ermeneutica spinoziana di Mormino pregiudica ogni possibilità di riconoscere al soggetto la facoltà del libero arbitrio, a meno che non si intenda l’autoimitazione come una modalità di autodeterminazione, che include un soggetto ma per economia esclude ogni discorso su di esso. L’autoimitazione, come del resto l’autodeterminazione, è pur sempre il movimento di un soggetto: chi imita se stesso altrimenti? Manca qui il riferimento al soggetto individuale, dissolto nell’automatismo illusoriamente autoesplicativo dell’esercizio automimetico. Il naturalismo biologistico attribuisce ai fenomeni neurologici il monopolio causale del comportamento individuale: l’impressione è che, nella ricostruzione dei risultati ottenuti nell’ambito della ricerca neuroscientifica, i fenomeni neurologici non siano spinozianamente intesi come modi dell’attributo dell’estensione, paralleli ai fenomeni mimetici quali modi dell’attributo del pensiero, ma siano invece la base materiale da cui prende avvio la vasta fenomenologia comportamentale di tutti gli individui.
Mormino riconosce i meriti straordinari dell’autore di Menzogna romantica e verità romanzesca, La violenza e il sacro e Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, per citare le tre opere fondamentali di questo straordinario intellettuale: Girard ha compreso a fondo la tendenza dei fenomeni mimetici a evolvere verso la rivalità e a degenerare nella violenza, come se il dispositivo mimetico a un certo punto prendesse il sopravvento sulla volontà delle persone coinvolte trascinandole inesorabilmente nel suo vortice. La teoria mimetica inoltre sembrerebbe aver trovato un riscontro positivo e una verifica sancita dai risultati della scoperta dei neuroni specchio nell’ambito delle ricerche neuroscientifiche. Secondo Mormino tuttavia rimane aperto il problema della corrispondenza: manca un’ipotesi che connetta in modo non intuitivo i fenomeni di imitazione a livello sociale e la base neurologica. Non esiste un accordo sul significato preciso da attribuire al termine «imitazione», che permetta di distinguerlo da altri con i quali è scambiato quasi fossero dei «sinonimi», come contagio, emulazione, ecc. Le oscillazioni e incertezze della teoria mimetica, ad avviso di Mormino, spiegherebbero il persistere di tesi non dimostrate, come quella che non riconosce il fenomeno dell’imitazione negli animali non umani. Mormino allora propone di prendere in considerazione l’ipotesi dell’esistenza di un unico meccanismo che, nel quadro di una concezione unitaria e continuista della logica della vita, possa trovare un’applicazione coerente sia negli uomini che negli animali. L’autore confessa di aver affrontato la sua ricerca sul mimetismo spinto dal desiderio di correggere e completare la teoria girardiana, che riconosce come sostanzialmente corretta sul piano delle analisi interpersonali e sociali, e tuttavia priva di un solido fondamento scientifico. Mormino respinge infatti la tesi innatista, per la quale il meccanismo mimetico è un dispositivo inerente alla natura umana in quanto tale, per il fatto che «presuppone la possibilità di una «duplicazione» dell’azione del modello nella mente e nel corpo dell’imitatore senza che si possa immaginare alcuna modalità che spieghi in modo convincente la corrispondenza» (p. 12). Mormino ritiene che il fenomeno dell’imitazione si possa spiegare in modo più coerente e completo nel quadro di una concezione materialistica e antiteleologica della natura umana, in cui non trova posto l’idea di intenzione. Di qui il rifiuto del dualismo cartesiano in tutte le sue accezioni, e la predilezione esplicita per lo spinozismo, coniugato con l’evoluzionismo darwiniano. Mormino toglie di mezzo tutti i presupposti che pregiudicano un’interpretazione unitaria e continuista del comportamento degli animali, per giungere a formulare una teoria in grado di rendere conto di tutti i fenomeni, dall’inizio della vita all’età adulta, nell’animale e nell’uomo. Si prenda un essere vivente di qualsiasi specie animale e del tutto privo di esperienza e ci si chieda: quali vantaggi può conseguire mediante la replicazione di una sua azione e in quali circostanze si può ragionevolmente presumere che l’animale ne faccia uso? Il vantaggio di partire da zero, per così dire, consiste nella possibilità di escludere ogni intenzionalità per afferrare la funzione della mimesi nei primissimi stadi della vita animale. Mormino definisce l’imitazione in modo tale che la sua nozione possa valere universalmente: «La modalità con la quale un animale stabilizza atti motori trovati accidentalmente e rivelatisi favorevoli» (p. 13). La forma fondamentale dell’imitazione, quella che spiega ogni altra forma di mimetismo, è l’autoimitazione, la tendenza del soggetto, animale o umano a ripetere atti motori, posture o comportamenti già compiuti dal soggetto stesso e che si sono rivelati appropriati sul piano adattativo. Sulla base della sua ipotesi, per cui il soggetto tende a ripetere qualsiasi movimento che casualmente, in seguito a esplorazione dell’ambiente, si sia rivelato favorevole, Mormino conta di poter spiegare nel modo più semplice possibile l’accumulo quantitativo e qualitativo dell’apprendimento nell’animale e nell’uomo. Tale metodologia d’indagine esclude che si possa mettere in conto un soggetto attivo, che per imitare se stesso deve in qualche modo preesistere all’intero processo evolutivo, altrimenti mancherebbe il se stesso che imita e viene imitato al tempo stesso. Ma il veto dell’antimetafisica impone a Mormino di non evocare mai quel soggetto che tuttavia dum silet, loquitur.
Il meccanismo che agisce in tutti gli esseri viventi, l’autoimitazione, funziona come un dispositivo mimetico innato, ma sul piano epistemologico è del tutto diverso rispetto a quello girardiano, dal momento che il modello non è l’altro, ma sono i movimenti dello stesso animale che, trovati per caso nel corso dell’esplorazione, si sono rivelati utili e adeguati. Mormino propone dunque un’interpretazione darwinistica della teoria mimetica, in cui l’animale non copia un altro ma se stesso. Il vantaggio indubbio dell’ipotesi di Mormino consiste nella possibilità di unificare i comportamenti degli esseri viventi dal livello più elementare (il movimento di un lombrico) a quello più complesso degli esseri superiori. Si potrebbe dire che l’autoimitazione mette a disposizione un meccanismo ateleologico e del tutto privo di intenzionalità che si applica comodamente ai movimenti di esseri viventi che non possono imitare un modello nel senso del desiderio mimetico, ma si muovono solo per soddisfare i più elementari bisogni di sopravvivenza. L’autoimitazione è necessariamente un automatismo innato, che soddisfa i requisiti della concezione evoluzionistica: è inconscio e non orientato a un fine, pur avendo una sua logica intrinseca.
Possiamo osservare però che anche la teoria mimetica girardiana postula il carattere inconscio dell’imitazione: l’imitatore non sa di imitare un modello e anzi respinge con forza l’idea che il suo desiderio non sia solo suo, ma preso in prestito da un altro. L’imitatore è persuaso di essere originale e di non copiare nessuno. In linea di principio, se l’imitatore non sa di avere un modello, non c’è una differenza sostanziale tra l’imitazione di un altro e l’autoimitazione: nell’autoimitazione l’altro è il me stesso della volta precedente, di quando ho sperimentato un movimento efficace che tenderò quindi a riprodurre; e nell’imitazione di un altro imito il me stesso plasmato dal modello. Perciò la preferenza accordata all’autoimitazione non sembra rappresentare un guadagno importante sul piano epistemologico. Nell’automitazione imito me stesso come se me stesso fosse un altro; nell’imitazione di un modello imito un altro come fosse me stesso. Nell’autoimitazione non ho difficoltà ad ammettere che imito me stesso (se sono abbastanza evoluto) e posso quindi riconoscere l’alterità del me stesso che imito; invece nell’imitazione girardiana non posso ammettere la mia dipendenza da un altro e devo quindi nascondere l’alterità travisandola come un rassicurante me stesso. L’autoimitazione soddisfa la presunzione romantica del soggetto di essere originale, di essere la fonte dei propri desideri, pensieri, aspirazioni.
Mormino insiste sulla possibilità di fornire un’unica spiegazione di fenomeni in apparenza eterogenei, che tuttavia sono riconducibili al mimetismo nella sua definizione aggiornata. L’ipotesi dell’autoimitazione aiuta a comprendere che la differenza tra fattori naturali e acquisiti nella costruzione del comportamento non può essere di mera opposizione esclusiva. In base all’ipotesi di Mormino, i fattori naturali sono riconducibili all’autoimitazione, mentre quelli acquisiti vanno ascritti all’imitazione indiretta di modelli esterni. I fenomeni culturali, inclusi i comportamenti che giudichiamo in base a categorie etiche, sarebbero quindi un semplice prolungamento, un’estensione della stessa capacità di base che caratterizza ogni essere vivente: l’autoimitazione. La comprensione della stessa moralità non può prescindere dallo studio del modo in cui funziona il nostro corpo; non può prescindere dalla biologia, fisiologia, neurologia del vivente. Mormino promette di colmare una grave lacuna della ricerca sul mimetismo, in cui a suo avviso quasi nulla ancora è stato detto circa i problemi etici e pedagogici. Pur partendo dichiaratamente dalle intuizioni fondamentali di Girard, Mormino ne modifica il senso riconducendo la teoria alla dimensione materialistica, basata sulla comprensione dei movimenti e della dinamica piacere/dolore. In tal modo viene superata la distinzione girardiana tra i bisogni elementari, che non sarebbero coinvolti da processi imitativi, e l’imitazione di un modello che apre la strada alla rivalità e alla violenza: «La distinzione tra azioni volte a soddisfare bisogni e azioni indirizzate all’appropriazione dell’ ”essenza metafisica” del modello risponde a una concezione dualistica dell’umano» (p. 15). Il dualismo girardiano fa dell’imitazione animale un fenomeno del tutto trascurabile rispetto al dispositivo mimetico che sarebbe invece all’origine della cultura umana. Ma questa «negligenza epistemologica» è inaccettabile per Mormino, che propone una teoria mimetica unificata, per un verso opposta a quella di Girard, poiché al posto dello schema del modello esclusivo imitato per il suo prestigio, schema applicabile alla parte «nobile» del regno animale, Mormino mette uno schema più semplice, valido innanzitutto per tutte le forme di vita esistenti sulla terra. Se l’impostazione di Girard è dualistica, quella di Mormino è monistica e materialistica, per non dire riduzionistica. Infatti nella sua prospettiva la scelta del modello e la sua adozione nella vita reale da parte degli esseri umani dipende strettamente dal modo in cui il soggetto è stato accudito nelle prime fasi della sua esistenza. Qualsiasi discorso sull’etica deve partire dalle prime esperienze di piacere e dolore, cioè dal tipo di interazione con l’ambiente che si struttura all’inizio della vita.
La riforma teorica di Mormino permette quindi di considerare l’imitazione di un altro come un caso particolare dell’autoimitazione. Nell’ottica del vitalismo darwinista adottato da Mormino l’imitazione ha come modello primo e principale le azioni del soggetto stesso che imita, essa agisce in tutti gli esseri viventi, riguarda i movimenti del proprio corpo e non pulsioni o desideri; rende superflua la nozione di istinto; e infine si presterebbe benissimo a rendere conto anche dell’innovazione e della rottura con la tradizione (p. 17). Alla base del ragionamento di Mormino è l’idea che ogni vivente abbia una propensione naturale, fisiologica al movimento casuale: un determinato movimento che si è rivelato utile verrà selezionato e ripetuto dall’organismo stesso, il quale dunque non farà altro che imitare se stesso. Esiste dunque secondo Mormino un meccanismo skinneriano di autorinforzo, per cui l’organismo premia il movimento giusto replicandolo. Nelle fasi più avanzate il comportamento giusto sarà premiato direttamente anche dall’ambiente (segni di approvazione, ricompense di vario genere, ecc.). Mormino però sembra non tenere conto del fatto che gli esseri viventi sono indotti a ripetere determinati tentativi, ad esempio per ottenere una gratificazione, dagli esiti frustranti conseguiti. Se l’insuccesso nel conseguimento della meta incoraggia a insistere invece che a desistere, ne concluderemo che il soggetto imita il comportamento che ha avuto successo? Gli esseri viventi che ripetono il movimento nonostante non sia stato efficace e anzi si sia rivelato controproducente, quando si correggeranno? Se fosse in gioco la mera autoimitazione, la risposta dovrebbe essere che la ripetizione dei movimenti fallimentari non dovrebbe interrompersi mai. È possibile allora che gli esseri viventi, replicando un movimento che sanno destinato all’insuccesso, trascendano la mera autoimitazione e facciano riferimento a un’alterità, seppure immaginaria.
Girard ha avuto il merito di svelare il misconoscimento dell’imitazione quale comportamento normale degli esseri viventi, seppure la sua analisi riguardi gli esseri umani adulti. Tutti imitano, tutti fanno ricorso a modelli, eppure nessuno è disposto ad ammetterlo. Il mito dell’originalità assoluta è la menzogna romantica che sempre accompagna le azioni umane. L’imitatore sente di essere lui che sceglie e decide e questo gli basta per rivendicare la paternità non solo del proprio comportamento, ma anche del proprio desiderio. In particolare i sostenitori del libero arbitrio, spiega Mormino, escludono che l’imitazione possa avere il ruolo decisivo nel determinare le azioni umane. Essi attribuiscono agli esseri umani un tale potere di autodeterminazione da indurli a rigettare la teoria mimetica come incompatibile con la libertà fondamentale degli esseri umani.
Possiamo osservare che l’incompatibilità tra libero arbitrio e mimetismo sostenuta da Mormino è quanto meno discutibile. Tale rapporto di esclusione vale solo se pensiamo gli esseri umani come marionette provviste di una «molla mimetica» che le fa muovere e agire con l’apparenza della libera iniziativa. Intanto l’imitazione è un fatto universale sì, ma non necessitante: nessun modello ha mai l’ultima parola nell’influenza che esercita sul comportamento degli esseri umani. Si può scegliere tra diversi modelli, così come Adamo ed Eva potevano decidere di scegliere tra la prescrizione di Jahwe e l’invito del serpente. E come Ercole al bivio, così ogni uomo si trova sempre a dover decidere tra due modelli opposti, ciascuno dei quali cerca di convincerlo a seguirlo. Non è la virtù che decide per Ercole, ma Ercole che si decide per la virtù, combattendo gli allettamenti del vizio. L’opposizione tra il mimetismo e l’autodeterminazione asserita da Mormino è la conseguenza di una concezione parodistica e caricaturale del modo in cui gli esseri umani ispirano le proprie scelte ai suggerimenti di modelli disponibili. Possiamo dire, provvisoriamente, che i modelli sono tra le precondizioni senza le quali non è possibile esercitare il libero arbitrio. Se non avessimo a disposizione dei modelli non potremmo fare assolutamente nulla. In quanto esempi autorevoli e vere e proprie guide ispiratrici, i modelli fanno parte della lunga serie di presupposti per potere esercitare il libero arbitrio, come la salute, l’essere sveglio, non essere sotto l’azione di droghe pesanti e così via. Esiste sempre un momento in cui sono libero di decidere, ad esempio, quale strada intraprendere, quale voce ascoltare, come pure di seguire un modello, che in un secondo momento si rivela sbagliato o un ostacolo all’affermazione della mia personale libertà di decidere. Nell’imitazione di un modello posso esercitare l’autodeterminazione, sia scegliendolo sia abbandonandolo.
Mormino scrive che la filosofia occidentale ha passato sotto silenzio l’imitazione, senza la quale però non riusciamo a pensare come possibile alcun comportamento. L’esistenza di modelli è attestata in ogni momento della vita quotidiana, ma proprio per questo è stata ignorata e in buona parte continua a esserlo. Lo stesso Girard aveva parlato di misconoscimento, che impedisce agli imitatori di ammettere che stanno copiando un modello, nel timore che tale ammissione nasconda la loro presunta originalità, intesa in senso esclusivo, come autofondata, generatrice di se stessa, senza influenze di sorta, senza debiti nei confronti di chicchessia. Un’originalità così concepita è un’assurdità bella e buona. Impariamo continuamente dagli altri, persino dagli animali. Insomma il fraintendimento con cui si affermava la propria originalità dipendeva da un errata concezione della mimesi. Si sarebbe dovuto metterla a confronto con l’assunzione del cibo: il nostro corpo non potrebbe vivere senza il cibo che assume quotidianamente, ma quello stesso organismo che noi siamo non è riducibile al cibo che assumiamo. Un corpo che volesse affermare la propria indipendenza dal cibo fino al punto di negarne l’assunzione avanzerebbe una pretesa incomprensibile, nello stesso modo in cui, interpretando l’imitazione come ripetizione meccanica il soggetto può credere di dover negare la mimesi in nome della sua libertà e indipendenza. In entrambi i casi l’errore è evidente, perché l’incompatibilità non esiste, per il semplice motivo che nessun organismo è indipendente, ma esiste solo nella misura in cui è inserito in una rete di interdipendenze nella quale subisce e insieme esercita pressioni, influenze, condizionamenti. Ancora una volta, ci aiuta l’esempio della colomba kantiana, la quale si sbaglierebbe se pensasse che, senza l’aria che la sostiene, il suo volo potrebbe essere finalmente libero da qualsiasi impaccio che lo rallenti: senza l’aria che la sostiene e le permette di volare, il suo volo sarebbe impossibile. La libertà del soggetto non è messa in discussione dalla continua interazione con modelli, poiché essa realmente consiste nel dirigere l’orchestra degli esempi e delle suggestioni provenienti da ogni parte e di cui è intessuta l’esperienza del soggetto stesso. Sbaglia quindi chi credendo che il libero arbitrio sia messo fuori causa, annullato dall’esistenza e dall’imitazione di modelli, nega l’imitazione in nome di una libertà assoluta; sbaglia però anche chi pensasse che l’imitazione di modelli escluda qualsiasi possibilità di autodeterminazione. Il soggetto non è solo un passivo ricettore di stimoli, non è un ripetitore che ha la funzione di riprodurre segnali e rispedirli nello spazio, ma è anche attivo rielaboratore delle proposte che riceve. L’autodeterminazione consiste allora nella capacità di reagire ai modelli e di decidere quale adottare di volta in volta, così come il corpo ha (o dovrebbe avere, se è in salute) la capacità intrinseca di decidere quali cibi è preferibile che assuma di volta in volta. Se subisce il cibo, ne diventa schiavo nei due modi principali dell’anoressia e della bulimia. Il corpo sano sa di quali alimenti e quanto di ciascuno di essi deve cibarsi. Il soggetto sano non subisce i modelli passivamente, ma neppure si sforza di cancellarne le tracce o di negarne l’esistenza: nel primo caso sarebbe una marionetta, nel secondo sarebbe un io malato di megalomania autistica.
Mormino distingue i filosofi in due categorie: da una parte quelli che hanno taciuto l’imitazione in quanto sostenitori del libero arbitrio, dall’altra i filosofi deterministi negatori del libero arbitrio. I negatori del libero arbitrio sembrerebbero quelli più disponibili ad ammettere l’imitazione di modelli, dal momento che essi sostengono che le azioni umane sono determinate da cause necessarie, generali e immutabili. Secondo Mormino però per i deterministi la necessità determina le azioni tramite i giudizi della ragione. «Essi riaprono così la porta della spontaneità dell’agente e dunque all’idea che, in ultima analisi, questi obbedisca solo a se stesso, e più precisamente alla propria facoltà intellettiva, non agli influssi dell’ambiente» (p. 24). Mormino ragiona come se l’autodeterminazione fosse incompatibile con l’imitazione: ecco l’errore che commettono sia i sostenitori che i negatori del libero arbitrio. L’autore, monista e materialista, dimostra di possedere un’eccellente capacità di giudizio critico e un’ottima attitudine speculativa. E rappresenta implicitamente la prova che gli esseri umani e, forse, più in generale tutti i viventi possiedono un principio di autodeterminazione che trova la sua massima espressione nell’uomo. L’interdipendenza di tutti gli esseri viventi è una relazione tra entità che sono al tempo stesso passive e attive, ricevono stimoli e ne trasmettono. Il pensiero speculativo è certamente una prova dell’attività del soggetto, che dunque preesiste, al di là delle influenze necessarie che subisce (compresa l’imitazione di modelli).
Mormino rimprovera ad Aristotele la singolare incoerenza di avere mostrato il ruolo cruciale dell’imitazione nella vita dell’uomo e insieme aver spiegato le azioni umani ricorrendo al modello dell’autodeterminazione e spontaneità. Ma si tratta di un rimprovero sproporzionato all’impresa dell’autore dell’Etica a Nicomaco, il quale distingue correttamente tra l’autodeterminazione e le circostanze, interne o esterne, che ne impediscono l’esercizio. Il fatto che Aristotele non abbia richiamato l’imitazione nella sua analisi delle azioni umane può significare soltanto che lo Stagirita dava per scontato che l’imitazione, essendo onnipresente nella vita di ciascun essere umano, non potesse essere incompatibile con l’esercizio del libero arbitrio, ma ne fosse una condizione imprescindibile, un po’ come le gambe per camminare o i polmoni per respirare.
Oppure dovremmo aspettarci che Aristotele, mettendo in conto l’imitazione, si allineasse ai deterministi classici negatori del libero arbitrio? L’equivoco dell’analisi di Mormino, se ho capito bene, consiste proprio in questa presunta incompatibilità tra l’imitazione e il libero arbitrio, l’autodeterminazione e l’interdipendenza degli organismi. Quando confrontiamo l’operazione della tartaruga, che nasconde le proprie uova in buche nella sabbia, con l’accudimento della prole da parte di una madre della nostra specie, possiamo essere indotti a credere che le azioni della seconda, al di là dell’apparenza, non siano il risultato di decisioni prese da quel soggetto, ma siano invece la manifestazione di un meccanismo universale e impersonale che nella tartaruga agisce in modo più conforme alla sua vera natura deterministicamente intesa. Di qui l’idea che l’autodeterminazione sia un’illusione, un’apparenza senza fondamento, talché si possano agevolmente e coerentemente ricondurre anche le azioni umane nel quadro di una teoria unificata dei viventi in cui non c’è spazio per la spontaneità. Il riduzionismo però, che consiste nel ridurre il piano superiore all’inferiore, finisce col negare l’evidenza e la realtà del piano superiore. L’antiriduzionismo invece non commette questa ingiustizia, poiché interpreta il piano superiore come la manifestazione, di grado molto più evoluto, del medesimo principio che agisce al livello inferiore. L’antiriduzionismo presenta un vantaggio epistemologico, dal momento che riesce a mostrare la coesistenza di imitazione e autodeterminazione, interdipendenza e spontaneità, influenzamento e decisionalità dei soggetti che si muovono sulla superficie terrestre. (Se A offre una somma ingente a B chiedendogli in cambio di sopprimere C e mettendolo in guardia che, se non ucciderà C, allora sarà a sua volta ucciso, B è davvero costretto a diventare un killer ben pagato, per di più salvando (forse) la vita? No, potrebbe sempre uscire dal dilemma denunciando colui che ha tentato di ingaggiarlo. Oppure, se gli preme di più la reputazione che la libertà, può sempre uccidere colui che gli propone di diventare un criminale. B non è obbligato, né tenuto ad assentire alla proposta di A. Può anche rifiutarsi senza fare nulla, sperando che l’annunciata conseguenza sia stata solo una minaccia spavalda per indurlo ad accettare, ma che poi non si concretizzerà. Del resto B non avrebbe interesse a denunciare A, il quale potrebbe sempre negare il fatto e denunciare B per calunnia. B può ricorrere a uno stratagemma per salvare la vita: far sapere ad A di aver preparato una memoria per la quale A sarebbe individuato quale autore di qualsiasi violenza perpetrata ai danni di B stesso. Il fatto che la scelta di B sia influenzata dall’azione esercitata nei suoi confronti da modelli passati e presenti non significa che sia automatica e perfettamente prevedibile. B esercita in ogni caso la sua capacità di decisione autonoma, essendo consapevole delle conseguenze alle quali va incontro qualunque sua scelta).
Mormino elogia Spinoza per aver colto la presenza pressoché esclusiva dell’imitazione nei bambini, che, come leggiamo nella terza parte dell’Etica more geometrico demonstrata, «ridono o piangono per il solo fatto che vedono gli altri ridere o piangere; e qualunque cosa, inoltre, vedono fare agli altri desiderano subito imitarla e, infine, desiderano per sé tutte le cose da cui immaginano che gli altri traggano diletto» (Mormino, p. 25). L’intuizione di Spinoza è interessante per il fatto che il comportamento infantile rappresenta il paradigma e la radice del comportamento adulto. Il bambino non è ancora stato affetto dall’esperienza, per cui è facilmente plasmabile e impressionabile da un qualunque oggetto o evento esterno. Il suo essere vuoto lo espone a subire qualsiasi influsso, dal momento che non sa esattamente che cosa debba temere o sperare. Il bambino è portato a lasciarsi modificare da qualsiasi affezione per la quale il suo corpo sia predisposto. Affinché abbia luogo il processo mimetico è infatti necessaria una somiglianza tra il corpo del soggetto e quello esterno – somiglianza che può essere solo immaginaria oppure derivante da un’oggettiva analogia morfologica. Secondo Spinoza, spiega Mormino, la costituzione del corpo non lo spinge verso ciò che è realmente utile, ma verso ciò che incontra nel corso della sua esplorazione. L’adulto è meno impressionabile e influenzabile del bambino, ma non si caratterizza per una conoscenza del tutto adeguata delle affezioni del proprio corpo. «Ne consegue che l’imitazione degli affetti, nel bambino come nell’adulto, muove da una somiglianza corporea e non corrisponde a un autentico bisogno, non essendo accompagnata da una conoscenza adeguata del sé; pertanto essa non conduce né a conoscenze vere né a modalità di comportamento utili» (p. 27).
Il merito di Girard, spiega Mormino, è quello di aver messo in evidenza la continuità tra l’imitazione animale e quella umana. È arcinota la tesi girardiana che l’uomo moderno, pur rivendicando di essere padre di se stesso, una creatura autogenerata, inderivata e originale, in realtà non ha preferenze o desideri che non gli provengano da qualche modello autorevole e prestigioso. Uno degli aspetti più originali della teoria di Girard, che tuttavia l’autore ha sempre presentato come già perfettamente compreso ed espresso dalla grande letteratura e dai vangeli, è la connessione diretta tra l’imitazione dei desideri altrui e la rivalità più accesa e destinata per lo più a evolvere in conflitto aperto. L’opera di Girard è rivoluzionaria e conferisce all’autore un merito gigantesco, soprattutto se si tiene conto del fatto che, prima di lui, l’imitazione è stata trascurata e sminuita come comportamento subalterno e regressivo, dunque indegno dell’essere umano. Dopo Girard, l’imitazione è stata sì riconosciuta e studiata scientificamente come fatto essenziale e costitutivo, ma limitatamente all’uomo, come se fosse una prerogativa esclusiva della nostra specie. Ora è venuto il momento, scrive Mormino, di studiare l’imitazione come un dispositivo presente in tutti gli esseri viventi, in ciascuna fase della loro esistenza.
Alla nascita gli esseri umani trovano un contesto solo simile a quello in cui si sono trovati i progenitori e nel quale si è formato il suo patrimonio genetico. Ma spesso l’ambiente è molto diverso e non sempre favorevole. Per soddisfare i suoi bisogni il neonato non potrà più rimanere immobile come nell’utero materno, ma dovrà muoversi avendo come unica guida il corredo genetico, il quale tuttavia non può indicare tutti i movimenti che il neonato deve fare per soddisfare i suoi bisogni, ma può orientarlo con una modalità fondamentale rappresentata dal dolore, elementare ma potente indicatore per l’orientamento di base. La sofferenza infatti comporta un disagio che impone di cambiare la situazione in un solo modo: attraverso il movimento. Il movimento con cui l’essere umano cerca di evitare una luce troppo intensa, un rumore molesto o una temperatura inadeguata, è connaturato alla vita degli animali e riguarda persino le piante, che modificano il loro rapporto con le altre entità nello spazio per soddisfare le esigenze fondamentali. Questo «moto esplorativo», come lo chiama Mormino, è eseguito per prova ed errori e «non è mosso da alcun fine bensì da cause fisiologiche alle quali non si può attribuire alcuna intenzionalità» (p. 35). Mormino fa costante riferimento a una visione meccanicistica, come se fosse la sola concezione rispettosa dei fatti osservati e della realtà della vita: «Inutile postulare una finalità, se si ha a disposizione una spiegazione causale» (p. 36). Il movimento è determinato dal disagio dell’animale, il quale obbedisce a un’istruzione sedimentata nel suo patrimonio genetico in tempi lontanissimi. Il meccanismo della vita è semplice: consente di selezionare ciò che preserva l’organismo e di eliminare o abbandonare ciò che lo danneggia. La vita è governata dalla logica per prova ed errore e la stessa costituzione fisiologica discende dal patrimonio genetico che si è costituito in milioni di anni attraverso variazioni casuali che si sono rivelate vantaggiose e sono quindi entrate stabilmente nel range ereditario di ciascun esponente della specie. Ciascun organismo compie movimenti esplorativi determinati da qualche disagio o bisogno. Quando la nuova situazione si presenta come vantaggiosa, l’organismo sospende il movimento esplorativo. Si tratti di un organismo unicellulare o di un essere umano, vediamo che la logica è la stessa: il moto esplorativo si arresta allorché la nuova situazione fornisce una risposta alla domanda dell’organismo. Infatti la causa del moto è il dolore; cessata la causa cessa anche l’effetto. Gli organismi imparano dall’esperienza nella misura in cui essi sono in grado di ripetere certi movimenti rivelatisi utili in passato. Trovandosi in una situazione simile, l’essere vivente sarà in grado di ripetere il movimento che si è rivelato efficace in una circostanza analoga. La ripetizione dei moti che si sono rivelati favorevoli in passato non è altro che imitare se stessi. L’autoimitazione permette di trasformare in comportamento stabile uno schema di azione più volte replicato. Nell’individuo rimane la traccia o schema dei movimenti eseguiti la prima volta. Il piacere ovvero la cessazione del dolore determinati da un certo moto rappresentano quel che in una prospettiva skinneriana è il rinforzo. Le tracce che predispongono a replicare il movimento che ha avuto successo, sono presenti nel corpo dell’organismo, ma non necessariamente nella sua coscienza.
Secondo Mormino l’autoimitazione fornisce una spiegazione scientifica che è incerta nell’imitazione degli altri, dove si deve fare i conti con il problema della corrispondenza tra le azioni osservate in un altro e quelle eseguite dal soggetto. «Il modello interno, spiega Mormino, è un moto già compiuto e quindi conosciuto, che può essere imitato con il solo ausilio della traccia impressa; copiare un modello esterno, invece, presupporrebbe un processo di matching che non è forse impossibile in assoluto ma ben difficilmente può essere messo in atto nelle primissime fasi della vita, dove invece lo vorrebbero già operante i sostenitori di una facoltà innata di imitare modelli esterni» (p. 42).
Il concetto di autoimitazione permette a Mormino di completare lo schema skinneriano, poiché consente di rendere conto della selezione delle risposte favorevoli alle domande dell’organismo. Il meccanismo all’opera è analogo a quello della selezione naturale degli esseri viventi, per cui si fissano («sopravvivono») e diventano replicabili solo i movimenti rivelatisi adattativi. I dispositivi comportamentali che si sono stabilizzati corrispondono agli organismi che la selezione naturale ha premiato nel corso di milioni di anni. L’autoimitazione è un concetto semplice che ha il vantaggio di spiegare come l’organismo possa poi imitare modelli esterni. L’autoimitazione precede logicamente e temporalmente l’imitazione degli altri e quindi non può essere un caso particolare della ripetizione del comportamento altrui; al contrario, nella proposta di Mormino essa rappresenta il solo meccanismo che agisce anche quando si tratta di imitare modelli esterni. Del resto, scrive Mormino, sia quando cerchiamo di imitare noi stessi sia quando imitiamo qualcun altro agisce uno schema di prova ed errore: «Si trova per tentativi un movimento che produce un’interazione positiva con l’ambiente (succhiare il latte materno, emettere un suono) e lo si ripete in conseguenza del piacere o del vantaggio che ci ha dato» (p. 44). L’imitazione può riguardare sia un suono emesso dalla madre, sia la ripetizione di un movimento che il soggetto ha trovato per caso giovevole e che avrà un buon motivo per replicarlo, senza alcuna mediazione di una qualche coscienza. Mormino non nasconde il suo ottimismo epistemologico: «Si affaccia la possibilità di spiegare le nostre azioni con un meccanismo di alternanza tra esplorazione e autoimitazione» (p. 45). Bisogna solo aggiungere che i processi di esplorazione e autoimitazione sono composti di una moltitudine di gradini o passi, ciascuno dei quali sarà autoimitativo o esplorativo a seconda del successo dei movimenti precedenti. L’organismo procede oscillando tra i due poli della stabilizzazione con l’autoimitazione e dell’innovazione con l’esplorazione. Il mutare delle circostanze e dell’ambiente può obbligare a mettere in discussione gli schemi acquisiti da lungo tempo e fino a quel momento replicati senza batter ciglio. Il soggetto allora è spinto a mettersi in movimento per cercare una risposta al suo disagio. Si potrebbe osservare che molti proseguono nell’autoimitazione nonostante lo schema si sia rivelato inadeguato, perché risulta per loro estremamente difficile prendere le distanze dalle tracce già consolidate da lungo tempo per assumere nuovi schemi di comportamento. Lo stesso accade per l’apprendimento di una disciplina astratta. La rigidità della fissazione di un certo movimento, determinata dall’autoimitazione per lunghi periodi di tempo, può rivelarsi nell’attaccamento ad abitudini inveterate e spesso impossibili da sradicare. Gli esempi sono infiniti. La plasticità dell’organismo in tutte le sue componenti diminuisce col passare del tempo. L’apprendimento è tanto più veloce, sicuro e di maggiore durata, quanto più giovane è l’età del soggetto che apprende.
Il feto apprende molte cose già durante la gestazione, sottoposto a stimoli interni (per la maggior parte) ed esterni. Il feto alla nascita dunque non è una tabula rasa. Come può imitare azioni altrui un bambino nato da poco? I teorici pongono il problema della corrispondenza: come fa il bambino a ripetere esattamente le azioni di un modello senza poter verificare il risultato? Mormino ricorda che il gruppo di ricerca di Rizzolatti ha corroborato l’ipotesi di Wolfgang Prinz, che aveva proposto di ipotizzare che un unico schema codifichi gli atti percettivi e quelli esecutivi. Le ricerche neuroscientifiche hanno permesso di verificare che il sistema dei neuroni specchio gioca un ruolo essenziale nell’imitazione, «codificando l’azione osservata in termini motori e rendendo in tal modo possibile una sua replica» (p. 47). Dato che l’imitazione degli altri è un processo che si perfeziona vieppiù, ci si chiede quale sia il punto d’inizio. Secondo Mormino è ragionevole supporre che il feto sia addestrato a imitare già nella fase prenatale, il che obbligherebbe a concludere che il primo modello sia quello interno. La stessa angustia della postura prenatale favorisce l’autoimitazione, con cui il nascituro replica automaticamente tutte le risposte soddisfacenti agli stimoli e, col mutare del contesto e delle dimensioni del nuovo organismo che sta crescendo, può perfezionare l’autoimitazione mediante nuovi movimenti esplorativi casuali finché non raggiunge una postura meno sgradevole.
La fissazione di determinati schemi comportamentali si spiega unicamente partendo dall’imitazione o replica dei propri movimenti vantaggiosi. Mormino insiste nell’escludere ogni finalismo e intenzionalità nel processo di adattamento, ricordando che il meccanismo per prova ed errore non è altro che la logica fondamentale della vita, quella che presiede, a un tempo, alla formazione selettiva del patrimonio genetico (premiando i caratteri genetici che si rivelano vantaggiosi per gli individui che li possiedono) e dei movimenti efficaci, la cui replica e modifica nel tempo dà luogo a comportamenti vantaggiosi. Mormino sottolinea la convergenza tra le due attitudini a determinare delle permanenze o stabilità: la trasmissione dei nostri geni alla prole e l’imitazione dei nostri moti efficaci. L’insuccesso spiega l’estinzione degli individui che non si riproducono e la soppressione dei moti che non hanno avuto esito favorevole. La stessa ereditarietà è un mezzo di adattamento a un ambiente le cui caratteristiche rimangono stabili da una generazione all’altra. Allo stesso modo l’autoimitazione è uno strumento essenziale di ciascun essere vivente che sia destinato ad apprendere mediante l’esperienza. «L’imitazione di sé svolge dunque nella vita del singolo lo stesso ruolo di fissazione che l’ereditarietà genetica gioca a livello delle generazioni» (p. 52). Mormino azzarda alcune ipotesi ulteriori in campo psicopatologico, ricordando che il meccanismo sottostante l’autoimitazione non è infallibile, e può commettere degli errori, come del resto la replicazione genetica. Mormino è così tentato di spiegare la coazione a ripetere e l’ossessività dei nevrotici in termini di “autoimitazione fuori controllo”. La stessa difficoltà a imitare gli altri è stata evocata per spiegare l’autismo.
Come si spiega allora l’imitazione degli altri, se all’inizio è presente soltanto l’imitazione di sé? Bisogna ammettere, spiega Mormino, che avvengono sempre atti casualmente imitativi, soprattutto se l’imitatore e il modello sono simili sotto molti aspetti, fisiologici e ambientali e quindi sono comparabili in quanto appartenenti alla stessa cerchia. È facile osservare coincidenze di questo tipo: diversi individui fanno gli stessi movimenti della testa osservando una partita a tennis oppure ascoltando un brano musicale. Questi movimenti simmetrici però non sono mimetici. Quando allora assistiamo alla vera e propria imitazione, che consiste nel commettere un’azione osservata in un altro? I neonati sanno imitare se stessi, ma non sanno imitare gli altri: non esiste alcun dispositivo mimetico nel bambino. Il bambino impara a imitare dai genitori. Il piccolo che apparentemente ripete i movimenti della madre, riceverà una risposta positiva di rinforzo, che diventa a sua volta un incoraggiamento per il neonato a imitare se stesso: il piccolo non sta imitando la madre, ma «sta ripetendo un gesto trovato nel proprio esplorare e rivelatosi favorevole (…) È dunque assai probabile che la casuale “eco” dei movimenti dei genitori (non così casuale, peraltro, vista la somiglianza fisiologica e la condivisione del medesimo ambiente) riceva un costante incoraggiamento, indirizzando il piccolo a selezionarli e a ripeterli più frequentemente» (p. 58). Mormino spiega come l’imitazione degli altri sia riconducibile all’imitazione di sé: «Ogni imitazione degli altri nasce come imitazione di un proprio atto, innescata dal vantaggio che procura» (p. 59).
L’imitazione degli altri è triangolare, ma in un senso del tutto diverso da quello inteso da Girard: «La madre rimanda al piccolo, che ha casualmente eseguito un’azione simile a quella di lei, uno stimolo di incoraggiamento a ripeterla, innescando nell’inconsapevole imitatore una ripetizione dagli esiti, di nuovo, prevedibilmente favorevoli» (p. 59). Nella ricostruzione di Mormino i vertici del triangolo sono: il bambino, la madre e l’azione eseguita dal piccolo, che viene rinforzata dall’approvazione della madre. Il modello, in questa nuova concezione, si limita a fornire risposte di conferma o disconferma alle azioni dell’animale che oscilla tra l’esplorazione e l’imitazione di sé. Ma la risposta favorevole o meno la può dare qualsiasi elemento dell’ambiente, non necessariamente un essere vivente, dal quale l’animale può essere incoraggiato a ripetere l’azione trovata per via esplorativa oppure essere indotto ad abbandonarla proseguendo l’esplorazione. Nelle prime fasi della vita l’imitazione degli altri va intesa come un’illusione ottica. In una prospettiva evoluzionistica, in cui la selezione favorisce i comportamenti vantaggiosi del soggetto e scoraggia ad abbandonare le azioni dannose, il modello è qualsiasi cosa dia una risposta ai movimenti esplorativi casuali. Questo meccanismo, per cui «ciò che appare imitazione di un modello è in realtà ripetizione di uno schema di comportamento fortuitamente trovato e premiato dall’ambiente» (p. 61), consente a Mormino di ribadire la precedenza temporale e logica dell’autoimitazione rispetto all’imitazione degli altri.
Può apparire paradossale sostenere che, quando imitiamo gli altri, in realtà stiamo imitando noi stessi. L’imitazione degli altri però non è una costante, non è un automatismo in base a una presunta tendenza innata nell’individuo. Se vogliamo evitare di sostenere la tesi non verificata di un mimetismo ininterrotto, cogliendo al tempo stesso i tratti che accomunano tutti gli esseri viventi, si dovrà dire che l’atto mimetico viene eseguito immancabilmente allorché compiere una determinata azione garantisce qualche vantaggio. Sembra che il soggetto imiti un altro, ma in realtà imita se stesso, dato che estrae dal proprio repertorio di movimenti quello che il cosiddetto modello esterno lo incoraggia a compiere. Gli esseri viventi imitano continuamente se stessi, finché il mutato contesto può rendere fatale quel comportamento. Un bullo, ad esempio, è incoraggiato a ripetere i suoi abituali soprusi ai danni dei più deboli e indifesi, finché un giorno incappa in qualcuno che, con le buone o con le cattive, lo obbliga a rivedere il suo comportamento. Un corsaro che abitualmente corre a 200 km/h, può insistere nella sua pessima abitudine per il semplice fatto che per un certo tempo le sue bravate non provocano incidenti e non sono segnalate dalla polizia. L’assenza di ostacoli o divieti quindi sembra fungere da «modello» che fornisce risposte che incoraggiano a ripetere determinate azioni. Un limite di questa ipotesi esplicativa può essere rappresentato dalla rivalità con il modello/ostacolo: qui la ripetizione del comportamento di appropriazione non è scoraggiata dalla minaccia di morte che deriva dal modello/ostacolo.
Non tutti i modelli sono imitabili, ma solo quelli che permettono di sfruttare il proprio repertorio di azioni sperimentate nella fase esplorativa e la cui imitazione procura qualche vantaggio. Modello può essere chiunque, non necessariamente un essere umano. Il meccanismo mimetico tiene conto solo del successo o insuccesso dei comportamenti possibili; in tal modo hanno luogo la selezione e la stabilizzazione di determinati cliché, che erroneamente sono chiamati istinti. Naturale e innaturale, originario e acquisito, istintivo e appreso, è una dicotomia semplificatrice e una distinzione priva di solide fondamenta, dato che qualsiasi comportamento prima viene sperimentato poi, se la risposta è positiva, ripetuto fino al suo inserimento in un programma stabile. Dobbiamo quindi intendere per naturale solo lo schema che si è formato molto presto rispetto ad altri. Ma tutti sono appresi. Mormino ipotizza che anche i comportamenti culturali si basino sull’alternanza esplorazione/autoimitazione e che anch’essi corrispondano alla fisiologia degli esseri umani, al pari di quelli che sono chiamati «naturali». «L’esclusività dei comportamenti culturali che viene attribuita agli esseri umani è dunque un pregiudizio nato dalla posizione di una cesura tra natura e contronatura che non ha alcun fondamento nella logica dei viventi» (p. 71). L’uniformità del comportamento animale, precisa Mormino, è tutta da dimostrare e al momento non è suffragata da ricerche serie. Le osservazioni della vita degli animali sono in genere guidate dal presupposto o pregiudizio che i non umani si muovano secondo schemi di comportamento rigidi e senza variazioni da un individuo all’altro.
Il comportamento degli esseri umani è governato dal modello genitoriale. Il successo di un certo movimento consiste nell’approvazione dei genitori e nel conseguente vantaggio in fatto di accudimento. Un comportamento gratificato ripetutamente non viene abbandonato per esplorare nuove possibilità. Il modello genitoriale genera la tendenza affettiva a identificarsi. L’identificazione, spiega Mormino, non è altro che «la selezione di un oggetto al quale conformare le nostre azioni e al quale conferire un posto di primo piano nella nostra affettività» (p. 72).
A questo proposito Mormino ricorda la critica che Girard rivolge a Freud riguardo al complesso di Edipo: la madre è solo una delle cose possedute dal padre e di conseguenza diventa oggetto del desiderio del bambino. L’identificazione con il padre non è che l’imitazione sistematica del padre e la conseguente adozione dei suoi stessi desideri. La natura dell’oggetto è indifferente e accidentale poiché in principio c’è la mimesi del desiderio del padre. Dunque la critica di Girard a Freud consiste nell’aver rilevato che la sessualità nel complesso edipico è del tutto accidentale e non corrisponde a un istinto naturale o a una pulsione universale e necessaria, ma è solo la conseguenza dell’imitazione di un oggetto che appartiene al padre, con il quale il soggetto si identifica. Mormino riconosce a Girard il merito di aver colto l’importanza dei modelli nella vita familiare e sociale, importanza superiore a quella degli oggetti: non desideriamo qualcosa per una sua intrinseca qualità, ma prevalentemente per il fatto che è stato scelto o è posseduto da qualcuno al quale riconosciamo autorevolezza e prestigio. Secondo Mormino tuttavia Girard, nonostante la genialità della sua ricostruzione dei nessi tra mitologia, mimetismo di massa e persecuzione, non è stato coerente con questa sua potente innovazione, che avrebbe dovuto fargli riconoscere l’irrilevanza della distinzione tra le azioni con cui miriamo a soddisfare del bisogni cosiddetti naturali e le azioni con cerchiamo di imitare un modello. Girard avrebbe così compromesso il nuovo quadro epistemologico confermandosi esponente di una concezione antropologica dualistica, che distingue tra la natura non mimetica dei bisogni essenziali, innati dell’uomo (in questo del tutto simile agli animali non umani) e la sua cultura, acquisita per via di un’elaborazione simbolica governata dal mimetismo. Secondo Mormino questa posizione idealistica e metafisica, che contrappone una sfera dei bisogni fondamentali alla cultura umana, è dovuta alla volontà di Girard di opporsi al materialismo marxista e all’utilitarismo classico. La conseguenza è tuttavia la riaffermazione di una cesura netta tra naturale e culturale, innato e acquisito, originario e appreso – cesura che secondo Mormino si rivela insostenibile a un’analisi ragionata del comportamento degli esseri viventi.
A Mormino preme riaffermare il primato dell’imitazione di sé, un meccanismo presente in tutti gli esseri viventi e connaturato alla loro evoluzione sulla terra: senza la possibilità di ripetere movimenti che hanno funzionato, il vivente sarebbe costantemente impegnato nell’esplorazione a vuoto e la sua sopravvivenza sarebbe compromessa. L’imitazione degli altri non sarebbe altro che una complicazione dell’imitazione di sé, capace di offrire enormi vantaggi alla vita sociale, che non esisterebbe senza reciprocità e un certo grado di conformismo. Mormino attribuisce erroneamente a Girard la tesi per cui il mimetismo è il male, da cui Dio Padre avrebbe salvato l’umanità inviando il proprio Figlio. Non propriamente: Girard ha elaborato una metafisica del desiderio fondata sul meccanismo dell’imitazione sì, ma senza considerare quest’ultima un male congenito dal quale Gesù avrebbe il compito di salvare l’umanità. Che il desiderio sia buono o cattivo, che il comportamento degli umani sia giusto o ingiusto non dipende dall’imitazione, ma dal carattere del modello prescelto. Girard infatti non nega la libertà del soggetto, ma la riconduce alla scelta del modello positivo o negativo. Gesù è venuto a risvegliare l’umanità dalla cattiva imitazione, che immette sulla strada della rivalità e della violenza, senza togliere spazio alla riflessione e alla libertà di scelta.
Girard ha efficacemente descritto i processi che dal desiderio mimetico all’invidia, alla rivalità e alla violenza rischiano di provocare la deflagrazione dell’intero sistema sociale se non interviene la violenza «giusta»: il sacrificio che celebra e rinnova l’espulsione fondatrice della comunità, la guerra contro nemici esterni che crea una granitica solidarietà persecutoria contro un unico colpevole della violenza che avvelena i rapporti tra gli esseri umani, la stessa esigenza di una giustizia riparatrice. Il mimetismo umano, che fatalmente può condurre alla rivalità e alla violenza (ma Girard distingue tra mediazione interna ed esterna), può essere arginato anche seguendo altre strade. Per scoraggiare competizione e invidia le etiche nel corso della storia hanno imposto il dovere di resistere alle tentazioni, ai desideri che sorgono dal confronto con altri o da mode diffuse. La fortuna scatena invidie furibonde, risentimenti sconfinati che nascono dal confronto tra gli sfortunati (che pensano di essere tali) e i fortunati (quelli che gli «sfortunati» designano superficialmente come tali). Di qui la raccomandazione, contenuta in molte etiche sociali, di non ostentare i segni esteriori della propria ricchezza, della propria fortuna, per prevenire il più possibile il malanimo velenoso che nasce da comparazioni spesso prive di senso (basate sulla misurazione dei risultati, nell’ignoranza dei processi e della biografia delle persone). Persone con una sensibilità particolarmente accentuata per la sofferenza che deriva dall’invidia rivalitaria, hanno insegnato e anche praticato loro stesse modi di vivere appartati o addirittura la fuga dal mondo, il vivere nascosti in recessi remoti per non essere indotti al confronto con chi è superiore oppure semplicemente ostenta i segni arroganti della sua presunta superiorità. Probabilmente l’invito di Epicuro a «vivere nascosto» (lathe biōsas) si può interpretare come la sintesi conclusiva di un’implicita antropologia negativa: vivi nascosto se vuoi evitare i turbamenti e raggiungere l’atarassìa, traguardo impossibile nella turbolenza della vita associata, nella quale le persone sono costantemente esposte al confronto e all’invidia degli altri e indotte a competere ostentando la propria presunta (peraltro sempre temporanea) felicità. Chi non sopporta il confronto con gli altri può evitare sistematicamente tutte le situazioni in cui esso è inevitabile, senza però risolvere il problema del complesso di inferiorità che gli fa temere il fatto di mettersi in relazione con il prossimo.
Il complesso di inferiorità può intendersi anche come invidia «preventiva» , una predisposizione a provare invidia, un malanimo costituzionale verso la presunta e temuta superiorità di chicchessia. Perciò chi non ha complessi di inferiorità può frequentare serenamente il prossimo e coltivare relazioni stabili e armoniose come tra persone che si riconoscono reciprocamente differenti e complementari: relazioni simmetriche in cui ciascuno ha un talento da offrire e mettere a disposizione del prossimo, non una qualche superiorità da ostentare come minaccia nei confronti dell’interlocutore. Solo un’etica della reciprocità e della simmetria può salvare dal fallimento rivalitario le relazioni sociali, la cui soluzione non può essere il «vivere nascostamente» , che dissolve le società umane e non salva dalla violenza. Dovrebbe esserci una terza via tra lo stile asimmetrico dei rapporti umani e la conseguente aggressività da un lato e, dall’altro, il seppellimento o annullamento di sé, che sarebbe una vera e propria autoesclusione dalla società (nelle modalità estreme anche dello stordimento di sé mediante il ricorso all’alcol, alle droghe, al fanatismo totalitario, all’intransigenza omicida dell’utopia salvatrice dalla cosiddetta immoralità dilagante).
Mormino si chiede se sia possibile reinterpretare questi fenomeni, che Girard ha analizzato con impareggiabile perizia, attraverso il meccanismo dell’autoimitazione, che è lo schema fondamentale alla base della logica degli esseri viventi. Nessun vivente può fare a meno del rapporto con l’ambiente: da una parte si dirigerà verso oggetti che si sono già rivelati utili in passato, dall’altra tenderà a ripetere le azioni di altri, già approvate e confermate. Il modello è per definizione prioritario: il primo che possiede un certo oggetto che può scatenare una rivalità arroventata. Il conflitto tra chi è venuto prima e chi è venuto dopo si presenta in numerosi casi della quotidianità: le liti nei parcheggi, le gerarchie tra dipendenti della stessa categoria nei posti di lavoro, le dispute riguardanti il trattamento da riservare ai migranti, i conflitti tra gli stati sulle modalità da seguire per la distribuzione dei territori alle rispettive popolazioni. In tutti i casi citati e in altri simili, «il primo occupante percepisce come sacrosanto il suo privilegio, mentre l’ultimo arrivato non può accettare che gli sia negato qualcosa da cui si ripromette un vantaggio e che l’altro già possiede senza meriti particolari» (p. 81). Sono dinamiche non politiche, ma mimetiche, che vediamo all’opera anche in moltissime specie animali qualora emergano conflitti territoriali.
Gli esseri viventi si trovano nella necessità di risparmiare energia e diminuire i rischi di movimenti di cui non si sono sperimentate le conseguenze. L’imitazione degli altri, basata secondo Mormino sull’autoimitazione, è la principale strategia che gli esseri viventi utilizzano a tale scopo. La stabilizzazione dei comportamenti avviene a livello di specie per via genetica e a livello individuale mediante l’autoimitazione. L’imitazione degli altri contribuisce alla stabilizzazione. Mormino contesta la visione catastrofista, per cui l’imitazione degli altri determina inevitabilmente crisi periodiche e ricorrenti di indifferenziazione, che precipitano nella violenza prodotta intenzionalmente allo scopo di contenere una violenza maggiore (sacrifici, guerre, ecc.). Secondo Mormino, se si considera attentamente il movimento degli esseri viventi, il moto esplorativo è del tutto compatibile con la possibilità di trovare esempi vantaggiosi nell’osservazione degli altri, i quali accrescono la gamma delle azioni con le quali essi possono soddisfare i loro bisogni. Mormino sottolinea il carattere stabilizzante dei comportamenti mimetici. Nell’imitazione degli altri, come anche nell’autoimitazione, l’esempio imitabile sembra favorevole, ma la percezione del vantaggio può essere infondata. «Il desiderio girardiano è appunto quella particolare modalità di imitazione innescata dall’attribuzione al modello di una felicità non necessariamente reale; potremmo dire che è mancanza di felicità, unita all’illusione che un altro l’abbia» (p. 85). Questo spiegherebbe secondo Mormino come sia possibile adottare modelli negativi, la cui imitazione non porta vantaggio ma danno. Tuttavia dobbiamo osservare che nella mediazione interna girardiana il lato negativo dell’imitazione consiste nell’imitazione di un modello/rivale, che ben presto innesca un meccanismo di reciprocità dal quale i rivali possono essere trascinati alla distruzione reciproca, senza aver minimamente soddisfatto il bisogno che l’imitatore si era illuso di poter soddisfare imitando l’esempio incontrato nel moto esplorativo. Vi sono dunque due modalità della mimesi: rivalitaria e cooperativa. Secondo Mormino accade che «quando funziona sulla base della semplice alternanza esplorazione/autoimitazione, il comportamento ha ampie probabilità di rivelarsi egoista ma difficilmente porta a conflitti di ampie dimensioni. Ciò perché il soggetto (umano o non umano) è unicamente mosso da bisogni individuali, per il cui soddisfacimento seleziona la via più semplice e veloce, evitando strategie di ostilità generalizzata in quanto eccessivamente rischiose e faticose» (p. 86). In tale ambito domina l’utilitarismo dell’azione, in cui la valutazione del risultato è fatta caso per caso. La situazione si complica passando alla scelta di modelli. Il criterio adottato è sempre quello di efficacia, ma la conseguenza può contraddire l’intenzione. Nel caso dell’identificazione il soggetto può valutare come decisiva la gratificazione che gli deriva da un certo modello e quindi ripetere quelle proprie azioni che gli procurano questo piacere indiretto di conferma. «Un’imitazione masochistica può dunque essere non solo il risultato di un semplice errore di valutazione, ma anche della scelta di affidarsi a un modello rivelatosi fino a quel momento favorevole, modello le cui oscillazioni possono però aprire la strada a soluzioni inefficaci o addirittura distruttive» (p. 87). La mimesi meno esposta al rischio rivalitario è quella connessa all’egoismo di un soggetto che mira solo a soddisfare un proprio bisogno; la più rischiosa è quella che deriva da modelli contraddittori, che spingono ad azioni indotte non solo da bisogni dell’imitatore, ma soprattutto dalla regola adottata da quest’ultimo.
Nella prospettiva teorica di Mormino il ruolo degli altri consiste nel suggerire risposte più o meno favorevoli alle nostre azioni, le quali incoraggiano a ripetere azioni che fanno parte del proprio repertorio. L’imitazione degli altri funziona come volano dell’autoimitazione. L’organismo, necessariamente egoista, per sopravvivere e soddisfare i propri bisogni è portato ad affidarsi a modelli, le cui risposte finiscono col diventare più influenti, predominanti rispetto alla valutazione dell’utilità immediata da parte dell’imitatore. A seconda del tipo di bisogno da soddisfare, il comportamento adottato può risultare altruistico o aggressivo. Se il neonato ha bisogno del latte materno, non sarà tenero con i fratelli; se vuole giocare, cercherà di coinvolgerli. In quest’ottica, non si dovrà parlare di altruismo o aggressività, ma solo di movimenti più o meno rispondenti ai bisogni dell’individuo. La conclusione è coerente con lo spinozismo e il materialismo riduzionistico della proposta teorica di Mormino: il dualismo buono/cattivo, giusto/ingiusto è completamente abolito e sostituito dalla distinzione efficace/inefficace, vantaggioso/svantaggioso. Nel rapportarmi agli altri varranno infatti le stesse regole che valgono per qualsiasi altro aspetto della vita – il metodo per prova ed errore. Bisogna solo ammettere una tendenza innata a imitare le proprie azioni che hanno dato un esito positivo e a riprendere il moto esplorativo allorché la risposta dell’ambiente si sia rivelata dannosa. La fisiologia e la psicologia sono regolate dalle stesse leggi comprese dalla logica del vivente. Mormino ritiene che sia insostenibile la tesi per cui gli esseri umani sono governati da leggi differenti; a suo avviso si tratterebbe di un vecchio errore dei filosofi, che non hanno mai messo in discussione l’assioma del carattere eccezionale della specie homo. L’etica in questa prospettiva non sarebbe che una modalità di interazione dell’individuo con l’ambiente nell’alternanza di autoimitazione/esplorazione. E una buona etica dovrà assumere una regola fondamentale innanzitutto, per cui ogni individuo è assolutamente unico nelle sue modalità di esplorazione dell’ambiente e nelle sue scelte di ripetere questa o quell’azione. Se siamo diversi in tutto, dalla costituzione fisiologica al dolore e al piacere, argomenta Mormino, perché dovremmo elaborare etiche fondate sulla regolarità, uniformità e fissità? Una buona etica è quella che non impone al vivente lo sradicamento dalle proprie modalità di vita, ma lo lascia libero di esplorare l’ambiente allo scopo di soddisfare i propri bisogni, nel segno della continuità con la propria personale biografia. Una buona etica non impone un modello totalitario, non esclude altre influenze né ostruisce la strada di nuove esplorazioni. «Il male non nasce dunque, come vorrebbe Girard, dal desiderio mimetico, in sé nient’altro che la necessaria modalità di accesso a ciò che l’ambiente può offrire, ma piuttosto dall’imposizione di modelli unici e totalizzanti a corpi inevitabilmente diversi l’uno dall’altro» (p. 95). La sola regola di una buona etica dovrebbe essere quella per cui si riconosce a ogni vivente il diritto di perseguire le proprie modalità di esistenza.
La conclusione di Mormino non convince. La sua proposta di etica sociale, se fosse coerente, dovrebbe spazzare via qualsiasi etica e abolirne la stessa nozione. Se nell’interazione con l’ambiente gli individui seguono già la loro predisposizione a imitare ciò che è vantaggioso e a continuare l’esplorazione allorché la risposta dell’ambiente si riveli dannosa, l’etica non ha più ragion d’essere. E dato che il male, secondo l’autore, consiste nell’imposizione di un’unica regola per tutti, la quale coarta e violenta l’unicità irripetibile del vivente, si dovrà concludere che la sola etica possibile è l’abolizione dell’etica? Universalità di obblighi, doveri e diritti, oltre alla prescrittività della norma morale, non potranno più avere valore né senso alcuno. La logica del vivente agisce già per conto suo, infallibilmente e nel rispetto della tendenza di ciascun vivente a stabilizzarsi e a conservarsi. In questa visione naturalistica, secondo la quale il bene è la negazione di un’etica universale e prescrittiva, si ha l’impressione che si ignori qualcosa di essenziale, ovvero il riconoscimento di una differenza non solo orizzontale, ma anche verticale tra i bioi. Del resto, come si può giustificare la varietà e l’unicità di ciascun bios su una premessa teorica del tutto naturalistica, in cui la descrizione deterministica della dinamica del vivente è coerente con l’uniformità dei comportamenti, riducendo le differenze a dettagli del tutto marginali rispetto alla «logica del vivente»? Ci sarebbe un solo modo per dare rilievo e significato alla diversità/singolarità/unicità dei bioi: essa dovrebbe consistere in una qualità speciale, un principio spirituale che agisce a diversi livelli della vita sul pianeta: un principio o capacità di autodeterminazione che si manifesta a diversi livelli, raggiungendo la sua piena esplicazione nell’esercizio del libero arbitrio da parte dell’essere umano maturo. Bisognerebbe immaginare allora che ai livelli inferiori quel principio agisca in una modalità inconscia mediante l’autoimitazione/esplorazione. In tal modo si capovolgerebbe il riduzionismo di Mormino. Anziché appiattire il libero arbitrio riducendolo a un’apparenza insignificante e fuorviante, la logica del vivente sarebbe interpretata come la modalità inconscia del libero arbitrio. Una volta tanto, un riduzionismo elettivo, in cui il soggetto non è un epifenomeno cui giunge il processo evolutivo, ma il principio che lo guida.