Giorgio Colli, Zenone di Elea. Lezioni 1964-1965 a cura di Enrico Colli,con nota di Ernesto Berti, Adelphi, Milano 1998.
Il passo 127d-128e del Parmenide di Platone contiene due elementi fondamentali per la storia della logica:
il primo è l’applicazione del principio di contraddizione, che per la prima volta vediamo enunciato in maniera così chiara. Il secondo è l’applicazione della dimostrazione per assurdo. Tali principi sono qui applicati a un contenuto particolare (i «molti» e i concetti contrari di «simile e dissimile»), ma sono applicati con tale rigore e chiarezza di struttura da lasciar trasparire che Zenone avesse in mano uno strumento formale già conosciuto come principio logico, cioè estendibile a qualsiasi contenuto. Il principio di contraddizione nega che a uno stesso soggetto possano essere attribuiti due predicati contrastanti (tale è l’enunciazione aristotelica) (pp. 42-43).
Colli ricorda giustamente che in greco hòmoia e anòmoia sono contraddittori, mentre simile e dissimile in italiano figurano come contrari, ammettendo il più e il meno. La dimostrazione per assurdo è la forma fondamentale della dimostrazione indiretta. In Aristotele troviamo due principi di dimostrazione: la diretta e l’indiretta. L’esempio classico della dimostrazione diretta è la prima figura del sillogismo:
«Se A appartiene a B e B appartiene a C, A appartiene a C». Tale dimostrazione ha la sua necessità in se stessa, procede da se stessa. Le altre dimostrazioni aristoteliche procedono per assurdo; sono le dimostrazioni indirette. Volendo dimostrare una tesi si suppone vera la proposizione contraddittoria: da questa supposta verità si deducono delle conclusioni assurde (p. 44).
Di qui la negazione dell’ipotesi di partenza, con applicazione implicita, diremmo noi, del modus tollens, per cui la negazione del conseguente (che va negato perché assurdo, quindi falso) implica la negazione dell’antecedente. Colli considera la dimostrazione per assurdo una creatura di Zenone, che perciò non può essere fatta risalire a Parmenide come il principio di contraddizione. Nel Parmenide lo stesso Zenone fa presente a Socrate, che lo accusa di aver ripetuto la tesi di Parmenide, di non aver voluto scrivere un’opera originale, ma di aver voluto solo fornire un aiuto alla tesi di Parmenide, il quale espone la sua teoria in modo assertivo e dogmatico. Colli formula due ipotesi: 1) Zenone intende la dialettica come aiuto e strumento di validazione o di giustificazione razionale di contenuti (la sapienza) raggiunti però per altra via; 2) Zenone segue la strada dello scetticismo e del nichilismo, come Gorgia, per il quale la conoscenza non si fonda su nulla. Se la dialettica si riduce alla dimostrazione per assurdo e non è mezzo di conoscenza, allora non ha più rapporto con il sapere, ma solo con la retorica (pp. 53-54). La dialettica è un modo di conoscenza indiretto, dato che si limita a riconoscere, con la dimostrazione per assurdo, procedimento rigoroso, la verità o la falsità di una dottrina. E Zenone appoggiava una sola dottrina, quella eleatica per cui «tutte le cose sono una sola». La seconda argomentazione di Zenone riferita nella Fisica aristotelica, la dicotomia, ha a suo fondamento la concezione dell’essere come quantità. Colli osserva che le testimonianze di Simplicio e di Alessandro di Afrodisia sembrano dimostrare che il logos della dicotomia mirasse a negare l’unità dell’essere, perché se l’essere è quantità, allora è divisibile e quindi non è più uno. Secondo Colli invece, che si richiama a un passo di Eudemo di Rodi riportato da Simplicio («Si dice che Zenone affermasse che se qualcuno gli avesse saputo dimostrare la natura dell’uno, sarebbe stato in grado di spiegare il mondo reale»: 29A16 DK; Eudem. Phys. Fr. 7)
l’affermazione di Zenone si capisce se la si intende detta contro la molteplicità: il mezzo che qui viene usato contro la molteplicità è l’impossibilità di definire l’uno. Il collegamento con il passo precedente di Simplicio che ci informa di un logos sulla dicotomia, ci fa ritenere che attraverso l’argomentazione dicotomica Zenone giungesse a negare la possibilità di definire l’uno (cfr. 29A22 DK: «e con questa prova dimostra che l’uno non è reale»). E se non sappiamo definire l’uno, come possiamo definire il molteplice? «… se qualcuno gli avesse saputo dimostrare la natura dell’uno, sarebbe stato in grado di spiegare il mondo reale» (29A16 DK) (p. 62).
Secondo Colli quindi c’è uno Zenone che attacca l’unità dell’essere, in contrasto con le testimonianze platoniche di uno Zenone che escogita argomenti dialettici per difendere la tesi parmenidea dell’unità dell’essere. Lo Zenone che mette in discussione la realtà e la conoscibilità dell’uno, negando la realtà e la conoscibilità del molteplice, è già sulla strada del nichilismo di Gorgia. Infatti se non esiste l’uno, non esisterà neppure il molteplice, dal momento che il molteplice può essere pensato solo come un composto di unità, oltre al fatto che anche il molteplice è pur sempre uno. Se non esiste l’uno, non esiste neppure il molteplice, mentre se non esiste il molteplice, può ben esserci solo l’uno. Uno e molteplice possono essere pensati come termini relativi (come destra e sinistra, sotto e sopra), i quali sono legati da un rapporto di doppia implicazione? La prima osservazione utile è una distinzione tra pensiero e realtà in sé. Se non possiamo pensare l’uno se non in opposizione al molteplice e viceversa, non possiamo concepire l’essere in se stesso come insieme uno e molteplice. A che cosa va attribuito il primato ontologico? All’uno o al molteplice? In quanto categorie del pensiero, uno e molti possono essere riferiti al medesimo ente, ad esempio il corpo umano, senza contraddizione, dal momento che si può concepire come un composto, ma insieme anche come uno. Ma se si pretendesse di considerare uno e molti come determinazioni intrinseche dell’ente, allora sarebbe impossibile sostenere che la stessa cosa è una e molteplice. L’analogia con i termini relativi può essere di aiuto. Possiamo tranquillamente ammettere che la stessa cosa sia sopra (rispetto a x) e sotto (rispetto a y), ma non avrebbe senso sostenere che la stessa cosa è in se stessa esclusivamente sopra o sotto. Così uno e molti non creano problemi finché ci si limita a trattarli come punti di vista o stili di ricognizione della stessa cosa. Solo il passaggio dall’accezione logica a quella metafisica obbliga a concepirli come contraddittori, aprendo la strada ad aporie insolubili, anticamera del nichilismo gorgiano. Uno e molti dunque non possono essere trattati come quod cognoscitur, bensì solo come quo cognoscitur: non sono qualità oggettive, contenuti dell’atto cognitivo, ma modalità di comprensione, stili cognitivi, appunto. Posso bere con un cucchiaio, col palmo della mano oppure con un bicchiere, ma senza pretendere che l’acqua abbia la forma o le caratteristiche del cucchiaio, della mano o del bicchiere. A questo punto, ammettendo con Colli che ci sia uno Zenone che attacca l’unità dell’essere, oltre a quello che si limita a produrre argomenti «irresistibili» a sostegno della dottrina di Parmenide, potremmo configurare tale duplicità non come un’incongruenza bensì come la dimostrazione del fatto che Zenone con le sue argomentazioni paradossali illustra la necessità della distinzione tra accezione logica e metafisica dell’uno e del molteplice, anticipando Aristotele. Questa rilettura di Zenone obbliga inoltre a rivedere la vulgata dei manuali di storia della filosofia, per i quali Zenone riafferma e dimostra l’unità di pensiero ed essere sostenuta dal maestro Parmenide. Se uno e molteplice sono trattati come termini relativi e categorie del solo pensiero, non si concluderà necessariamente che la realtà è inconoscibile, cadendo nel nichilismo gorgiano, ma si sarà scongiurata una confusione fatale, foriera di rassegnato scetticismo. Sgomberato il campo da indebite intromissioni e ingenue proiezioni, sarà più facile indagare sulla natura delle cose, dell’essere stesso. Riprendiamo tuttavia la trattazione di Giorgio Colli.
L’uno come attributo dell’essere si può intendere in senso positivo (e allora l’essere sarebbe realmente in se stesso uno) oppure in senso negativo (e allora l’essere sarebbe solo non-molteplice, senza che si possa assegnare un contenuto positivo al termine «uno»). Colli osserva che nell’eleatismo il problema dell’uno diventa sempre più importante rispetto a quello dell’essere.
Anche tenendo conto che per Parmenide l’elemento in primo piano è l’essere, e che l’unità è soltanto attributo dell’essere, uno Zenone che attacchi l’unità si metterebbe ugualmente in contrasto con Parmenide, o almeno se ne differenzierebbe grandemente. Visto sotto questa luce Zenone acquista una sua originalità nei riguardi di Parmenide, anche contenutistica, e sorge spontanea la domanda se nella seconda parte del Parmenide platonico, dove l’ipotesi dell’unità è smantellata secondo il caratteristico metodo zenoniano, Platone sia in debito verso Zenone non solo per il metodo, ma anche per l’obiettivo della sua discussione (p. 63).
L’argomento della dicotomia ci rimanda alla quantità in senso geometrico-spaziale. Per superare la difficoltà logica dell’argomento zenoniano Euclide e Aristotele (secondo Colli Euclide dipende da Aristotele che deve aver subito l’influenza di Senocrate di Calcedone) devono introdurre il postulato del punto geometrico indivisibile, condizione necessaria per rendere possibile una scienza geometrica.
Ma questo è un procedimento che non supera veramente l’aporia zenoniana: essa continua ad avere il suo valore teoretico. Se infatti il punto geometrico è concepito ancora come una quantità, ha ancora l’attributo della divisibilità: l’argomentazione di Zenone è inconfutabile (p. 64).
Il punto dovrebbe essere, oltre che indivisibile, anche inesteso; sennonché un ente inesteso è inconcepibile. Un conto è sostenere che il punto è indivisibile, per quanto esteso e un conto è dire che il punto è indivisibile perché inesteso. Possiamo pensare il punto geometrico aristotelico ed euclideo inesteso in analogia con il nun, l’istante, che lo stesso Aristotele postula privo di durata. Colli da parte sua osserva che Aristotele non considera errato l’argomento della dicotomia, anche se indica la necessità di superarlo con la teoria delle grandezze indivisibili. In un passo di Simplicio (29A21 DK) leggiamo che «Zenone afferma che il punto non è». Secondo Colli si tratta della critica di Zenone all’uno. «L’uno da Zenone è fatto uguale all’indivisibile, cioè al punto senza grandezza, e perciò è inesistente» (pp. 67-68). Insomma ci sarebbe uno Zenone per il quale se l’uno è, è qualcosa; se è qualcosa, ha una certa quantità; se ha una certa quantità è divisibile in parti, perciò è molteplice; ma se l’uno si rivela molteplice, allora non esiste. Se non esiste l’uno, ma solo il molteplice, come diremo che esiste un molteplice o che l’universo è uno? Il molteplice può essere grande fin che si vuole, possiamo aggiungere e togliere qualcosa, persino concepirlo come infinito, ma sarà sempre uno. O, almeno, non potrà essere pensato che come uno.
L’immagine di Zenone che attacca la stessa nozione di unità è in aperto contrasto con quella di Zenone mero difensore della dottrina di Parmenide. Scrive Colli:
Pasquinelli cerca di risolvere la difficoltà distinguendo l’uno come componente del molteplice, contro il quale muoverebbe l’argomentazione zenoniana, dall’uno metafisico di Parmenide: pensa che Zenone avesse presente tale distinzione, che andò perduta solo con Gorgia. Io non mi sento di accettare una simile distinzione; in primo luogo perché una testimonianza aristotelica (29A14 DK) dice che Zenone sbagliava proprio nel non distinguere i vari significati di uno ed essere; in secondo luogo perché una distinzione tra concetti della sfera metafisica e concetti della sfera logica non si può sostenere neppure per Aristotele, figurarsi se la si può supporre per Parmenide e Zenone. (p. 68).
Colli cita il passo 1001a 29 della Metafisica di Aristotele per mostrare che le categorie sono solo dei predicati, in polemica con Parmenide e Platone che ammettono l’essere in sé e l’uno in sé come sostanziali. Se si ammette la sostanzialità dell’essere in sé, risulta poi impossibile sostenere che gli enti siano più di uno, giacché ciò che è differente da essere non esiste. Aristotele riconosce che, se si ammette (cosa che lui non è disposto ad ammettere) che essere e uno hanno valore ontologico, allora si dovrà concludere con Parmenide e Zenone che «tutto è uno». Per Aristotele essere e uno non sono in sé, non hanno valore ontologico, ma sono predicati privi di una sussistenza indipendente dal soggetto che conosce. In quanto predicati, essere e uno significano solo in relazione a qualcos’altro (p. 72).
Il passo 1001 b 7 della Metafisica mostra che Parmenide assume l’ipotesi «se esiste l’essere e l’uno in sé» per concludere che «tutto l’essere è uno», mentre Zenone assume come ipotesi la tesi di Parmenide, «se l’uno in sé è indivisibile» (dove il concetto dell’uno prende il posto di quello di essere), per concludere che allora l’uno non sarebbe nulla. Aristotele attacca lo schema dialettico di Zenone, per il quale la somma produce un accrescimento e la sottrazione una diminuzione. Se qualcosa non produce un accrescimento, se aggiunto, o una diminuzione, se sottratto, non è nulla. L’uno, se è indivisibile, non può né accrescersi né diminuire, poiché ciò che si accresce ha grandezza e l’indivisibile non ha grandezza, perciò l’uno è nulla. Evidentemente la base dell’argomentazione zenoniana è che «l’essere ha grandezza, e se ha grandezza è corporeo». La tesi cui giunge Zenone, che l’essere sia nulla, per Aristotele è gravissima, e perciò la attacca proprio nel suo presupposto, che esiste solo ciò che ha grandezza (p. 79). In questo logos Zenone assume l’ipotesi che l’essere sia corporeo, ricavandone che allora l’essere è nulla. L’uno in sé può esistere solo se ha grandezza; se ha grandezza è corporeo; se è corporeo è divisibile e suscettibile di accrescimento; dunque l’uno indivisibile è nulla. Zenone può aver illustrato le conseguenze inevitabili dell’assunzione che l’uno abbia una grandezza, dimostrando indirettamente la necessità di riservare all’uno e ai molti il significato esclusivo di termini relativi e categorie del pensiero, non di determinazioni ontologiche.
Aristotele contesta il presupposto del logos di Zenone, che l’essere possa sussistere solo come grandezza. L’uno non è in sé, ma solo come categoria, come predicato, quindi può essere indivisibile ed essere qualcosa e non nulla. Secondo Colli, attaccando l’uno indivisibile Zenone si limita a trarre le conseguenze dell’ipotesi che l’essere sia corporeo. Se proprio si pretende che Zenone sia in polemica con qualcuno, allora si può supporre che egli intenda confutare la tesi di Leucippo, da cui Democrito avrebbe tratto il suo atomo. Se per il logos di Zenone l’essere è solo grandezza e, in quanto tale, non può essere né indivisibile (perché ogni grandezza è divisibile), né uno (perché ciò che è divisibile è molti e non uno), per Aristotele è invece possibile ammettere un essere inesteso e indivisibile, il punto geometrico, che se è sommato non produce accrescimento e se sottratto non produce diminuzione.
Il punto geometrico e non l’atomo — perché quest’ultimo è esteso e non si salva perciò dall’argomentazione di Zenone — è posto da Aristotele come fondamento della conoscenza geometrica, e come principio fondamentale di ogni scienza. In realtà l’aporia di Zenone non è superata neppure dalla posizione del punto geometrico. Esprimiamoci in termini aristotelici: di una scienza bisogna indagare quale sia il ghenos, cioè il genere particolare, e quali le archai, cioè i principi propri di questo ghenos, validi solo nell’ambito di questa scienza (i principi validi per tutte le scienze sono solo quello di contraddizione e del terzo escluso). Il ghenos della geometria è appunto la «grandezza»: la geometria è la scienza dell’estensione pura. Aristotele, ponendo il punto alla base della geometria, mette una arché particolare di questa scienza al di fuori del ghenos medesimo, perché è costretto a porre il punto geometrico inesteso, al di fuori della «estensione». Possiamo così immaginarci la difesa che Zenone farebbe della sua argomentazione contro Aristotele, e in effetti avrebbe ragione. Poiché Aristotele ed Euclide non possono spiegare come l’estensione abbia a fondamento il punto inesteso, penso che neppure la loro posizione si salvi dall’obiezione di Zenone. Esaminiamo ora lo schema dialettico dell’argomentazione di Zenone. Ipotesi: «se l’uno in sé è indivisibile» (esiste sempre la posizione di partenza dell’«uno in sé»); conclusione: «l’uno è nulla». Qualcosa posto inizialmente come ipotesi, viene quindi dimostrato come assurdo per il fatto stesso di essere stato posto: la stessa definizione di «uno in sé» nega che esista l’uno. È una forma abbreviata di dimostrazione per assurdo, senza che venga posta la tesi sussidiaria. L’ipotesi non può essere posta, perché se è posta viene dimostrata assurda. In Aristotele lo schema dialettico non è completo: manca il nesso che, se l’uno è indivisibile, aggiunto o sottratto non reca né un accrescimento né una diminuzione, da cui la conseguenza che non esiste (pp. 80-81).
Si vede facilmente che l’ipotesi «se l’uno in sé è indivisibile» può essere posta logicamente se l’uno è identico all’essere, cioè l’uno sussiste in se stesso, ha esistenza propria, è inteso in senso ontologico. Se l’essere-uno ha esistenza propria, allora deve per forza escludere tutto ciò che è incompatibile con la sua unità, come ad esempio la divisibilità. Infatti se l’uno, inteso in questo modo, fosse divisibile, sarebbe molti. L’uno quindi sarebbe uno e molti, il che è assurdo. Zenone e Aristotele concordano sul fatto che l’uno non possa essere insieme indivisibile ed esteso. Se l’uno è indivisibile, non può essere esteso. Ma per Zenone esiste l’uno indivisibile e inesteso?
Possiamo dire che Zenone ha dimostrato che «l’uno in sé indivisibile e che ha estensione» è un assurdo; su questo punto Aristotele è d’accordo. Ma Zenone si è posto il problema dell’«uno in sé indivisibile che non ha estensione»? Proprio ponendo un tale «uno in sé», e cioè il punto geometrico, Aristotele cerca di superare l’aporia di Zenone. Questo «uno in sé» naturalmente per Aristotele non investe il problema metafisico, ma solo quello della scienza. Zenone invece ha affrontato il problema dell’essere in sé inesteso e metafisico? (p. 82).
Secondo Colli dal passo di Simplicio 29B1 DK si deduce che Zenone non attribuiva alcuna realtà a ciò che non ha estensione. La grandezza e l’estensione sono determinazioni oggettive, mentre l’uno inteso come punto geometrico (inesteso e indivisibile) o come atomo (esteso e indivisibile) è solo un costrutto del pensiero, utile solo per conoscere e misurare la realtà: la scala che ci serve per salire sul tetto è altra dal tetto che finalmente possiamo vedere nella sua effettiva costituzione. Se attribuissimo al tetto le caratteristiche della scala, vorrebbe dire che non siamo ancora saliti sul tetto. Zenone combatte la cecità di chi guarda la scala e la scambia per il tetto. Tutte le argomentazioni di Zenone possono assumere il senso di una generale dimostrazione per assurdo, con l’intento di mettere in guardia dalle assurdità che scaturiscono dalla confusione di procedura e risultato, forma e contenuto, pensiero e realtà.
Se i molti esistono sono infinitamente piccoli e infinitamente grandi. La premessa generale è che gli esseri sono molti. A questo punto abbiamo due possibilità opposte: se l’uno che è alla base non ha grandezza e quindi non è nulla, la conclusione sarà che i molti saranno infinitamente piccoli; se invece l’uno che è alla base dei molti esiste, necessariamente ha grandezza e la conclusione sarà che i molti saranno infinitamente grandi. La conclusione generale è quella del frammento 29B1 DK di Simplicio:«così se gli esseri sono molti, è necessario che essi siano tanto piccoli quanto grandi: piccoli in modo da non possedere grandezza, grandi così da non essere definiti.» Colli osserva che siamo in presenza dello stesso schema, la dimostrazione per assurdo, del Parmenide, in cui i molti sono simili e dissimili (p. 87). Secondo Colli lo schema del logos di Zenone, in cui dalla premessa «gli esseri sono molti» si deducono due conclusioni contraddittorie, si presta a un’obiezione: le due conclusioni contraddittorie sono derivate da due ipotesi diverse — i molti esistono inestesi e i molti esistono estesi. Perciò sarebbe improprio affermare che i molti sono allo stesso tempo piccoli e grandi. Colli risolve il problema ricostruendo così l’articolazione del ragionamento di Zenone: se l’essere non ha grandezza, l’essere non è; ma l’essere è, dunque l’essere ha grandezza. Di qui Zenone deduce che l’essere è grande fino a essere infinito (seconda conclusione). Colli interpreta questo passaggio come la prima enunciazione del principio di trasposizione (che corrisponde allo schema del modus tollens e applica la regola della negazione del conseguente, per cui in un’implicazione materiale la negazione del conseguente implica la negazione dell’antecedente) e ricorda che la tradizione attribuisce agli stoici la formulazione esplicita del principio di trasposizione, anche se Aristotele applica lo stesso principio nel secondo libro degli Analitici primi (p. 92). Tuttavia non è superfluo ricordare che la regola della trasposizione è già applicata nella stessa dimostrazione per assurdo, il cui schema è riconducibile essenzialmente al principio per cui la negazione del conseguente implica la negazione dell’antecedente. Secondo Colli la sua ricostruzione permette di confutare efficacemente l’obiezione, giacché «l’essere ha grandezza» diventa una seconda ipotesi derivata dall’applicazione alla prima ipotesi — «l’essere non ha grandezza» — della regola di trasposizione.
Nell’opera di Zenone sono continuamente presenti i concetti di spazio e tempo, come vediamo nelle quattro argomentazioni contro il movimento. Zenone considera il tempo una grandezza al pari dello spazio. Il movimento è intelligibile come corrispondenza uno-uno tra due insiemi composti di unità spaziali e temporali. L’argomentazione della dicotomia si può intendere in due modi: nel primo il mobile inizia un movimento che tuttavia non riesce a portare termine in un tempo finito (la metà tra A e B è C; la metà tra C e B è D; la metà tra D e B è E; la metà tra E e B è F); nel secondo modo, quello in cui è pressoché universalmente inteso, il movimento non incomincia mai. Colli preferisce interpretare l’argomentazione della dicotomia nel primo modo, che gli sembra più coerente con la presentazione e l’interpretazione di Aristotele nella Fisica. L’idea di Colli è che Zenone non intenda contestare la possibilità del movimento reale sensibile. Zenone, per il quale il movimento è reale, intende mostrare l’incapacità della ragione umana di spiegare razionalmente i dati offerti dai sensi.«La questione di fondo è ancora la quantità, che la ragione è costretta a considerare come infinitamente divisibile per natura, mentre i sensi ce la mostrano finita» (p. 102).Per questo Colli preferisce il modo dell’argomentazione zenoniana in cui il movimento è rappresentato come reale e iniziato; Aristotele, nella sua confutazione in Fisica 233 a 21, presuppone il primo modo. Aristotele infatti osserva che non si possono percorrere successivamente una per una infinite posizioni nello spazio. Il movimento nell’aporia della dicotomia è reale:
l’impossibilità è nel toccare infinite posizioni in un tempo finito, non nel moto stesso. Per Aristotele questa impossibilità non sussiste: per dimostrarlo ricorre alla distinzione dei significati, in questo caso del termine «infinito», che può essere tale per la divisione o per gli estremi. Ad esempio, un segmento è infinito per divisione mentre una retta è infinita per gli estremi (p. 103).
La soluzione fornita da Aristotele è coerente con il primo modo. Infatti degli infiniti secondo gli estremi non è possibile toccare posizioni infinite in un tempo finito, mentre è possibile degli infiniti secondo divisione: «perché anche il tempo è infinito allo stesso modo». Aristotele nega cioè che si tratti di impostare il problema di come si possa, in un tempo finito, percorrere uno spazio infinito, perché, se è vero che una delle quantità — lo spazio — è infinita (anche se «secondo la divisione»), è vero che anche l’altra quantità — il tempo — è infinito allo stesso modo, se considerato non «per gli estremi», ma «per la divisione». Con ciò Aristotele crede di aver confutato Zenone e conclude:«così che in un tempo infinito e non in uno finito ci si trova a percorrere l’infinito e a toccare posizioni infinite nello spazio in momenti temporali infiniti e non in momenti finiti» (p. 104).Secondo Colli la confutazione di Aristotele non è persuasiva, perché richiederebbe un’altra dimostrazione, che spieghi come si possa realmente percorrere uno spazio infinito in un tempo infinito e come si possano considerare finiti per gli estremi lo spazio e il tempo, che sono infiniti per divisione. Aristotele non ha superato l’antinomia finito-infinito. Rimane una difficoltà per la ragione umana, difficoltà che Zenone ha voluto mostrare, una spiegazione razionale del movimento in cui la somma infinita di infiniti termini dovrebbe dare come risultato una grandezza finita (pp. 104-105). Del resto in Fisica 263 a 18-22 Aristotele si rende conto dell’insufficienza della sua confutazione dell’aporia di Zenone in Fisica 233 a 21. In 263 a 23-25 Aristotele formula una confutazione che si avvale delle due nozioni di potenza e atto. Nel continuo ci sono infinite metà, ma solo in potenza, non in atto (263 a 25-28): se ci fossero anche in atto non sarebbe più un continuo;e l’assumere uno stesso punto come fine della prima metà e inizio della seconda, cioè fare due quello che è un punto solo, interrompe il continuo: non si può cioè rendere atto l’infinita divisibilità in metà che pure in un continuo è in potenza» (p. 109). Scrive Aristotele in 263 b 3-9:
perciò a chi domandasse se è possibile percorrere l’infinito nello spazio e nel tempo, bisogna rispondere che in un senso è possibile, in un altro no. Se gli infiniti sono in atto non è possibile; se sono in potenza è possibile. Colui che si muove in modo continuo attraversa cose infinite per accidente, ma in modo assoluto no. Al segmento infatti accade di essere infinitamente metà: ma la sostanza è una cosa e l’essere empirico un’altra.
Colli commenta così: «In potenza possibile», in quanto non c’è la divisione infinita. Aristotele, ammettendo che «in atto» l’infinito non si può realmente esaurire, ammette la validità razionale dell’argomentazione di Zenone, che nega solo «in potenza» (p. 110). Il mobile raggiunge il suo termine se gli infiniti sono in potenza in una grandezza che è finita in atto. Una quantità infinita per gli estremi si può percorrere in atto solo in un tempo infinito. Si può anzi vedere che in questo caso la distinzione tra atto e potenza è nulla, giacché una retta infinita si percorre in un tempo finito non solo in potenza ma anche in atto. Qualunque sia il punto raggiunto nel movimento, la linea può essere percorsa ed è percorsa in un tempo infinito. Può essere percorsa, cioè in potenza, perché di fatto non sarà mai percorsa tutta, essendo di lunghezza infinita; è percorsa, cioè in atto, perché ogni tratto percorso in più non mi allontana (come nel caso di un tratto finito secondo l’argomentazione dicotomica), ma mi avvicina alla meta, all’esaurimento del tragitto. Riguardo al secondo argomento, l’Achille, Colli osserva che esso non porta nulla di nuovo sul piano teoretico, dal momento che, come osserva lo stesso Aristotele, la differenza tra la dicotomia e l’Achille consiste nel fatto che lo spazio non è diviso in metà, ma con altro criterio. In entrambi i casi la conseguenza è che non si arriva al termine e questo secondo Colli conferma che Aristotele intendeva la dicotomia come un movimento reale. «Il problema è come nel tempo si possa esaurire un infinito. Aristotele dice che in un certo senso non è possibile: gli infiniti «in atto» non è possibile attraversarli (con il che — abbiamo già detto — si riconosce la validità dell’argomento di Zenone), mentre «in potenza» è possibile. E, per spiegare quell’»in potenza», Aristotele continua: «colui che si muove in modo continuo attraversa cose infinite per accidente, ma in modo assoluto no»; osserva cioè che il movimento è stato compiuto, anche se la ragione non lo spiega. «Al segmento infatti accade di essere infinitamente metà: ma la sostanza è una cosa e l’essere empirico un’altra». Cioè, di fatto il segmento è limitato ed è somma di infinite metà, mentre la ‘sostanza’lo proibirebbe» (p. 112). L’intento di Zenone sembra confermato: l’infinito non è una determinazione della realtà, ma un costrutto del pensiero. Se lo intendiamo nel primo senso, siamo costretti a negare il movimento, il che è assurdo. Insomma uno Zenone che anticipa la gnoseologia kantiana varrebbe la pena di una revisione radicale dell’intera tradizione storiografica.
Argomento della freccia: Aristotele ritiene falso che la freccia si trovi sempre nell’attimo presente, perché il tempo non si compone di attimi presenti indivisibili. Aristotele quindi accusa Zenone di paralogismo:«la conclusione che la freccia sta ferma è desunta dall’aver assunto come premessa che il tempo è composto da attimi presenti: se non si concede questo, la deduzione non è più possibile» (p. 115).L’aporia di Zenone presuppone che il tempo si componga di istanti privi di durata e, dato che nulla si muove nell’istante, ma ogni cosa si muove solo nella duratatemporale, in ogni istante una cosa in movimento sarà immobile, occupando uno spazio uguale a se stessa. Il commento di Colli rileva nell’argomento della freccia la stessa impostazione generale dei due precedenti argomenti:
la dicotomia dimostrava l’impossibilità di arrivare a un certo fine, prendendo in esame singolarmente gli elementi che compongono il segmento. Anche nell’argomento della freccia si ha la considerazione del singolo elemento, ma non viene introdotto il concetto di somma. Nella freccia ognuno degli elementi è la negazione del movimento, in quanto in ogni «attimo» il moto non risulta. Aristotele fa una confutazione che presuppone che il tempo sia un synechés, un «continuo», e introduce il concetto di somma che in realtà Zenone non ha considerato. Zenone constata solo che in ogni attimo non c’è il moto. Di fronte al concetto di tempo, il concetto di presente non si può dire una parte del tempo: il presente non ha estensione (p. 118).
Colli osserva giustamente che nella dicotomia la divisibilità è condotta all’infinito, come se non ci fossero parti indivisibili, mentre nella freccia il presente è un indivisibile. Non è però inutile ricordare che l’indivisibile temporale, l’istante, è privo di durata e quindi non è più tempo, come il punto privo di estensione, anch’esso indivisibile, non è più una grandezza spaziale. Come il punto indivisibile esce dal ghenos della geometria, così l’istante atemporale privo di durata esce dal ghenos della scienza del movimento e della durata, o cronologia. Aristotele, avverte Colli, ritiene che Zenone fondi l’argomento della freccia su di un indivisibile, mentre le altre dimostrazioni si fondano sull’impossibilità che ci sia qualcosa di indivisibile. Nell’argomento della dicotomia il tempo, come lo spazio, è soggetto al continuo procedimento di divisione, mentre nell’argomento della freccia il tempo si compone di tratti, gli istanti presenti, indivisibili. Ribadiamo che l’istante presente indivisibile è privo di durata, quindi non è più tempo. L’indivisibile spaziale è invece un concetto contraddittorio, perché in quanto spaziale dovrebbe continuare ad essere divisibile, per quanto piccolo fosse, mentre in quanto indivisibile non dovrebbe avere natura spaziale. Tuttavia sembra più facile ammettere istanti privi di durata e quindi indivisibili come parti del tempo, che elementi estesi indivisibili come parti dello spazio. Secondo Colli, il fatto che Zenone usi di volta in volta, in funzione dialettica, concezioni opposte potrebbe significare uno scetticismo nichilistico, o avvalorare l’ufficio di «aiutante» di Parmenide, ma per quanto ne sappiamo possiamo vedere in Zenone solo un dialettico.
L’aporia di Zenone contro l’indivisibile spaziale, come abbiamo visto, non è stata confutata. È ora possibile notare che la critica di Aristotele non è decisiva neppure contro l’aporia della freccia. Zenone non dice che il tempo è composto di parti ciascuna delle quali è un presente: qui l’essenza del tempo è il presente, il tempo è visto soggettivamente, in un senso genericamente kantiano che richiama la teoria del tempo di Schopenhauer: il tempo è una forma soggettiva della conoscenza; futuro e passato esistono solo nel presente, che è immediatamente reale; sono conosciuti solo mediatamente. Il presente è indivisibile, immutabile: con una tale concezione Zenone ha veramente annientato il moto; non vi sarebbe solo l’impossibilità di raggiungere la fine, non esisterebbe più movimento (p. 120).
Del resto i matematici rappresentano il moto attraverso successive posizioni fisse; il movimento può essere spiegato solo riducendolo all’immobilità, come la durata temporale si lascia analizzare solo in parti o strutture prive di durata.
Nel cinematografo l’occhio ha la sensazione del movimento, ma questa sensazione è raggiunta solo grazie alla successiva sovrapposizione di immagini ferme. Ecco che le aporie di Zenone sono inconfutabili; proprio questo vogliono dimostrare: che la sensibilità può apprendere il movimento, ma solo attraverso elementi statici, e la ragione non se lo spiega (p. 121).
Possiamo aggiungere che Bergson avrebbe messo in luce il carattere spazializzante dell’intelletto che riduce a una successione di immobilità il movimento che cerca di comprendere per scomposizione. Che gli istanti atemporali siano evidentemente un costrutto dell’intelletto poteva essere ben chiaro già a Zenone, che escogita l’argomento della freccia per mettere in guardia dall’intendere l’istante presente privo di durata come una determinazione del tempo, che è durata. Il quarto argomento è quello delle due serie di masse uguali che si muovono in senso contrario nello stadio alla stessa velocità: la conseguenza, secondo Zenone, è che la metà del tempo è uguale al doppio. Aristotele espone l’argomento in Fisica 239 b 33 e passa poi alla sua confutazione, che secondo Colli in questo caso è valida. «L’errore consiste nel pensare che si impieghi lo stesso tempo a passare davanti a una massa in quiete che a passare davanti a una massa in movimento» (p. 123). Qui le due masse si muovono in senso contrario tra loro e insieme rispetto a una massa in quiete. La posizione di partenza è la seguente:
AAAA BBBB → → CCCC
Alla fine del movimento abbiamo:
AAAA BBBB CCCC
Colli osserva che l’argomento lascia perplessi per la sua banalità, al punto che si può dubitare che noi ne abbiamo una conoscenza corretta o completa. La sua debolezza è sconcertante, il suo carattere del tutto sofistico. È possibile che l’argomento originario di Zenone fosse diverso. Se si ammette che l’argomento fosse così come ci è stato tramandato, secondo Colli abbiamo due possibilità. La prima è che Zenone abbia portato argomenti scadenti accanto ad altri di altissimo livello. Oppure la commistione è avvenuta a causa della stessa tradizione e diffusione degli argomenti zenoniani ad opera della sofistica. Tuttavia si può dissentire, suggerendo che qui Zenone mette in discussione l’idea che possa esistere un unico tempo indipendente dai sistemi di riferimento, in quiete o in movimento: che la metà del tempo sia uguale al doppio deriverebbe dall’assunzione di un unico tempo cosmico rispetto al quale accadono tutti gli eventi. Per superare la contraddizione bisogna quindi ammettere che ci sono tanti tempi quanti sono i sistemi di riferimento. L’adozione di un tempo unico comporta il fatto che una stessa porzione di tempo dovrebbe corrispondere a movimenti diversi. L’errore che Zenone denuncia per via paradossale consisterebbe nell’interpretare in senso ontologico il flusso temporale unico derivante dall’esperienza soggettiva del tempo, quale poi si materializza nell’orologio e nel calendario. Considerando il tempo misura del movimento, si avrebbe a disposizione un’unità di misura inattendibile perché variabile. Solo un tempo relativo a ciascun sistema di riferimento potrà fornire una misura adeguata e omogenea.
Pasquinelli riferisce un’interpretazione dell’argomento dello stadio che tenta di vedervi la formulazione embrionale della teoria della relatività di Einstein, per il fatto che l’argomento scopre l’importanza del sistema di riferimento. Un esempio di Einstein è il seguente: nella banchina uno spettatore M percepisce contemporaneamente due fulmini in a e b — situati alla stessa distanza da M — che scoppiano contemporaneamente, mentre lo spettatore M’che si trova sul treno in movimento verso b non li percepisce contemporaneamente. In Zenone però, secondo Colli, non c’è la coscienza che la simultaneità vale solo in un determinato sistema e non in un altro. Colli conclude che l’argomento di Zenone è solo sciocco e la critica di Aristotele definitiva (p. 126). Si può dissentire su questa valutazione, osservando che in ogni caso l’argomento di Zenone mette in crisi la nozione di un unico tempo indipendente dai sistemi di riferimento. Nessuno può ricoprire il ruolo di M e M’ insieme. Ogni osservatore si trova in un sistema di riferimento che è incompatibile con tutti gli altri, perciò ciascun osservatore ha un suo tempo di svolgimento. L’aporia di Zenone nasce dalla pretesa di adottare un tempo unico per tutti i sistemi di riferimento. L’argomento dello stadio non è che uno sguardo sintetico e comparativo, dall’alto, delle diverse masse in movimento, ciascuna delle quali ha un proprio tempo. Lo sguardo sintetico è possibile solo unificando i tempi in uno solo, ma proprio questa operazione provoca il paradosso, la contraddizione che l’argomento denuncia. Lo sguardo sintetico è comunque una finzione e il tempo unico è responsabile della contraddizione. L’argomento potrebbe essere molto meno banale di quanto pretende Colli. Esso potrebbe consistere in un’argomentazione per assurdo in cui la conseguenza contraddittoria deriva dall’ipotesi implicita nello sguardo sintetico del tempo unico. Come in ogni argomentazione per assurdo, basta applicare la regola della trasposizione (o modus tollens) allo schema del ragionamento per ottenere come ipotesi valida quella che risulta dalla negazione dell’assunto di partenza. All’epoca di Zenone l’ipotesi di un unico tempo poteva essere suggerita e giustificata dalla parallela ammissione, empiricamente suffragata, dello spazio unico in cui si trova tutto ciò che esiste. Poteva apparire inconfutabile, persino ovvia, la concezione di un tempo unico, al pari di quella di uno spazio unico. L’argomento di Zenone assume allora il significato di confutazione di un luogo comune. Esso può apparire banale solo in una cultura che, come quella attuale, dà per scontata la concezione relativistica del tempo. In Fisica 210 b 22 di Aristotele e in un passo di Eudemo, 29A24 DK, troviamo enunciata l’aporia dello spazio. La struttura dell’argomento è simile a quella della dicotomia per l’estensione all’infinito. Zenone intende dimostrare per assurdo che lo spazio non ha realtà sostanziale. Se il luogo esiste, si troverà in uno spazio, al pari di qualsiasi cosa esistente. Quindi il luogo sarà in un altro luogo, e così all’infinito. Perciò il luogo non esiste. Aristotele lo confuta rilevando che lo spazio è accidente e non sostanza, ma questo è quanto lo stesso Zenone intende sostenere. Aristotele e Zenone sostengono quindi la tesi dell’irrealtà dello spazio. Lo schema dell’argomento è quello della dimostrazione per assurdo. Colli lo mette accanto agli altri argomenti forti, ma si lamenta dell’insulsaggine dell’argomento dello stadio, che apparenterebbe Zenone alla sofistica. Non vedo come si possa fare del moralismo teoretico su questo. La distinzione che fa Colli tra argomenti forti e deboli non è convincente. I soli argomenti forti sono quelli che non sono stati (ancora) confutati. Colli considera debole anche l’argomento del grano di miglio riportato in Aristotele, Fisica 250 a 19 in Simplicio 29A29 DK:
un grano cadendo non produce rumore, e perciò il rumore che empiricamente sentiamo quando cade il mucchio non dovrebbe intervenire. Aristotele non formula l’argomento, ma lo confuta subito. Non possiamo confutarlo in termini più moderni di Aristotele: il fulcro dell’argomento è l’avvertibilità o meno di un determinato fenomeno: i suoni al di sopra e al di sotto di una data frequenza non sono avvertibili dal nostro apparato uditivo, ma ciò non significa che le vibrazioni non sussistano (pp. 132-133).
Neppure questo argomento però sembra richiedere una confutazione, se è vero che l’intento non è quello di produrre una conoscenza positiva della realtà, bensì solo di mettere in guardia dalle conseguenze derivanti dalla confusione tra le nostre percezioni e le cose percepite: in questo caso Zenone ci dice alla sua maniera che il rumore è solo una modalità di interazione con il mondo, non una qualità delle cose.
Colli considera lacunosa l’esposizione dell’argomento autentico di Zenone:
se gli esseri sono molti saranno limitati e illimitati, che possiede una struttura simile a quello dei simili e dei dissimili. Il frammento autentico sul moto riportato da Diogene Laerzio IX 72 nega il movimento sostenendo che «ciò che si muove non si muove né nel luogo dov’è, né in quello in cui non è (p. 138).
Colli osserva che si tratta di un argomento forte, affine a quello della freccia. Alcuni studiosi hanno sostenuto che la freccia e questo sarebbero parti di un solo argomento, ma secondo Colli i due argomenti sono distinti: quello della freccia era fondato sul concetto di tempo, questo sul concetto di spazio. Osservo tuttavia che entrambi sono contro il moto, spiegano come sia impossibile concepire il movimento, che è un rapporto tra spazio e tempo. La freccia non presuppone solo il concetto di tempo, essendo immobile nello spazio che occupa in ogni istante; e ciò che non può muoversi né nel luogo in cui si trova né in quello in cui non si trova non presuppone solo lo spazio, ma anche il tempo di cui si afferma la discontinuità e la sola realtà presente. Infatti un corpo si muove nello spazio in cui si troverà, pur non trovandovisi ora. Se il solo tempo reale è il presente, allora non c’è alcun futuro in cui possa trovarsi il corpo che si sta movendo. In buona sostanza Zenone vuol dirci che non dobbiamo confondere il movimento pensato con il movimento reale, empirico. Il primo diventa incomprensibile solo nella misura in cui il pensiero pretende di afferrare la realtà del movimento mediante categorie che non possono corrispondere a determinazioni del movimento in sé. E se le argomentazioni zenoniane non avvalorano irreparabilmente la tesi dell’inconoscibilità del mondo, è solo perché lo scopo di Zenone è negativo e discriminatorio. Secondo Colli Zenone mostra un rigore nel ragionamento che può avere solo chi conosca dall’interno la sillogistica. Non che Zenone conosca la sillogistica, precisa Colli, ma, in virtù di un eccezionale istinto al rigore dimostrativo, in un certo senso se ne serve prima che Aristotele la formuli coerentemente. La scoperta del principio di contraddizione va attribuita a Zenone e non ad Aristotele, come generalmente si ammette: l’attribuzione di coppie di contraddittori a uno stesso soggetto è tutta la dimostrazione di Zenone. Per avere una completa dimostrazione per assurdo manca solo un anello: la conclusione. I predicati contraddittori provano che l’ipotesi non era vera: la conclusione non la troviamo esplicitamente in Zenone. Ma, da un punto di vista di logica formale, dire che i molti non esistono e dire che esiste solo l’uno è la stessa cosa (p. 149). Zenone non formula il principio del terzo escluso, ma lo applica così rigorosamente che, secondo Colli, è impossibile che tale applicazione non sia consapevole. Il principio del terzo escluso si applica alle dimostrazioni per assurdo del tipo: se lo spazio esiste ne derivano conseguenze assurde; risultando falso che lo spazio esiste, risulta vero che lo spazio non esiste: perché lo spazio o esiste o non esiste, tertium non datur. L’applicazione della regola della trasposizione (o modus tollens), per cui la negazione del conseguente implica la negazione dell’antecedente, presuppone il principio del terzo escluso, perché «il senso della legge di trasposizione è che un predicato più il non predicato esaurisce tutti i predicati: non è altro cioè che il principio del terzo escluso» (p. 149). Zenone influenza Aristotele anche per quanto riguarda il procedimento del regresso all’infinito, riconosciuto come mezzo valido di dimostrazione. La distinzione tra pensare e conoscere, tra forma e contenuto — che Zenone ha sottilmente ribadito con le sue aporie tanto famose quanto poco comprese, ma non incomprensibili — è un’esigenza ancora oggi irrinunciabile. La sua rilevanza non è solo gnoseologica e teoretica, ma anche morale. Essa diventa attuale ogni volta che nei dibattiti ormai così diffusi su qualsiasi argomento si formulano giudizi basati sulla pretesa che la prospettiva da cui si vedono le cose sia la sola possibile e che la propria visione rifletta fedelmente la realtà in se stessa. La confusione da cui Zenone mette in guardia è sempre possibile, come dimostrano le fallacie più o meno grossolane che infestano i discorsi persino dei dotti. La tentazione di rimediare alle lacune della conoscenza dei fatti con stratagemmi narrativi e formule preconcette è comprensibile nel retore o nel politico, non però nel filosofo e nell’uomo al servizio del vero sapere.