Su verità e menzogna in senso morale. Nota critica su Andrea Tagliapietra, Sincerità

Andrea Tagliapietra, Sincerità, Cortina editore, Milano 2012.

1. Verità e sincerità

Prima ancora che un problema logico-teoretico, la verità è una questione morale, che comprende almeno tre aspetti o momenti: la veridizione, la sincerità e la veracità. Naturalmente vero e falso non sono predicati equivalenti, e non si può accettare la tesi di quanti negano l’esistenza di una qualsiasi oggettività indipendente dagli enunciati che vi fanno riferimento. L’ermeneutica dei punti di vista, a ben guardare, si accorda perfettamente con i Trasimaco contemporanei, secondo i quali non esiste alcuna giustizia in sé o verità in sé, ma solo la giustizia o la verità del più forte; basterebbe rovesciare la prospettiva e capire che giustizia e verità sono sempre dalla parte del più debole, che inevitabilmente è vittima di responsabilità convergenti, anche se difficili da identificare. E l’innocenza della vittima è un fatto oggettivo, una verità che va detta a sé e agli altri, che detta l’impegno di farsi carico delle implicazioni anche a costo di subire le conseguenze di tale coinvolgimento. La verità sull’innocenza della vittima, di ogni vittima, va detta in faccia ai persecutori di turno, anche a costo di aggiungere un’altra vittima alla persecuzione in atto: noi stessi. Ma non esistono neppure verità congelate e definitive, come quelle difese dai professionisti tutori del dogma, la cui cecità è pari solo alla malafede. Dire la verità non è lodevole di per sé, giacché può avere conseguenze letali per qualche innocente; e spesso dire la verità è un modo per non dirla o per nasconderla abilmente. Insomma la sincerità è un tema essenzialmente morale, secondo due direttrici: il rapporto con se stessi e con gli altri, la dignità e il coraggio. Si rifletta attentamente su ciò che accade sulla scena politica nazionale e internazionale e si vedrà che è in gioco essenzialmente la capacità di assumersi una responsabilità totale nei confronti di se stessi e del prossimo. L’uomo sincero mette in conto di sacrificarsi affinché la verità trionfi. In questo senso il saggio di Tagliapietra non è solo una sottile disamina storico-teoretica della letteratura relativa al tema della sincerità, ma è anche una sollecitazione etico-pratica a raccogliere la sfida lanciata dall’uomo autenticamente sincero.

Sbaglierebbe chi pensasse che la sincerità sia un bene assoluto, da opporre alla menzogna come male assoluto, poiché si può fare uso della sincerità anche per offendere e ferire a morte, per umiliare o vendicarsi. L’uomo sincero, per definizione, dice la verità o quella che crede tale, talvolta quindi ingannandosi e traendo in inganno, senza volerlo; poi, la verità di cui si preoccupa l’uomo sincero, riguarda lui stesso o gli altri? Tagliapietra cita in esordio il passo delle Confessioni in cui Agostino si chiede perché veritas odium parit. La risposta del vescovo di Ippona è che l’amore per la verità non è disinteressato, equanime e imparziale: gli uomini amano la verità quando non li riguarda, ma la odiano quando riguarda loro stessi e li mette a nudo sotto gli occhi degli altri.

La verità piace o dispiace a seconda dell’uso che si può farne. Si può dirla o nasconderla a seconda del caso, non perché stia a cuore come un valore in se stesso. Di qui il primo equivoco della sincerità, la sua presunta simmetria, che con Tagliapietra possiamo equiparare alla generosità. Il dono non è necessariamente ricambiato, la sincerità non sempre viene ripagata. E anche la sincerità, come il dono, può non essere quel che sembra e portare non la salvezza, ma la rovina (p. 11). Il donare può diventare esercizio o esibizione di potere, al puro scopo di dimostrare al destinatario del dono che si trova in debito, reale e simbolico, nei confronti del benefattore. Ma anche la sincerità può diventare un esercizio in cui dire la verità mira soltanto a sottomettere coloro sui quali ci preoccupiamo di “far luce”, seppure a costo di scaraventarli nel buio. Il secondo equivoco della sincerità è allora la sua reale ambiguità: nella realtà disarmonica e percorsa da tensioni contrastanti, la sincerità si tramuta spesso in ingiustizia. E il terzo equivoco della sincerità consiste nella confusione tra “essere sincero” e “dire il vero”. «Infatti, spiega Tagliapietra, se esser sinceri non significa dire la verità, ma soltanto ciò che si è certi esser vero — ossia che soggettivamente si crede vero -, parimenti si può dire la verità, cioè non solo ciò di cui si è certi, ma anche ciò che risulta oggettivamente tale, senza per questo esser sinceri, anzi cercando di danneggiare o di ingannare il proprio interlocutore» (p. 13).

L’insincerità nel dire la verità non riguarda il contenuto, ma le conseguenze del disvelamento della verità — disvelamento strumentale, con cui l’insincero veridico mira a suscitare nell’interlocutore un comportamento che lo danneggerà. L’insincerità veridica si presenta in due versioni. Nella prima l’insincero veridico dice la verità e viene creduto, ma non dice tutta la verità: ad esempio il serpente nell’Eden dice la verità ad Adamo ed Eva annunciando loro che mangiando il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male otterranno, appunto, la conoscenza del bene e del male, ma non svela loro quali saranno le conseguenze di tale gesto. Nella seconda versione l’insincero veridico dice la verità, ma in modo tale da non essere creduto, secondo l’esempio riportato da Agostino nel suo De mendacio, in cui un complice dei briganti avvisava i pellegrini della presenza di rapinatori lungo la strada, adoperandosi per non essere creduto. Nelle due versioni non cambia il dire la verità, lo stato dei fatti, mentre la differenza è nel tipo di insincerità: nel primo caso consiste nel nascondere una parte di verità; nel secondo caso nel fare in modo che l’interlocutore creda il contrario di ciò che si dice, inducendolo a ingannarsi da solo, per così dire.

Si può essere sinceri soggettivamente, in virtù di un rapporto autentico con se stessi, di una trasparenza e di una buona fede che possono essere indice di una natura genuinamente ingenua (nel senso etimologico del termine), oppure il risultato dell’adozione dell’imperativo kantiano di dire sempre la verità. Intanto però non sarà inutile da una parte insistere sul fatto che la verità detta è quella che si conosce, quindi si può essere sinceri e non veridici; dall’altra la sincerità dipende dalla rettitudine della volontà, ossia dalla nostra onestà, ragion per cui si può essere veridici e insinceri. Si aggiunga inoltre che il sincero veridico crede pur sempre che la verità che dice sia tutta la verità, ingannandosi, naturalmente, e ingannando involontariamente anche l’interlocutore. Ecco perché le verità scandalose andrebbero taciute, dal momento che con la loro anomalia decontestualizzata alimentano ricostruzioni di personalità e situazioni che per lo più non corrispondono alla verità dei fatti e delle intenzioni.

Se consideriamo il sincero veridico in rapporto a fatti futuri, ad esempio nel caso in cui dichiarasse di aver programmato un delitto che poi porta a termine, abbiamo un caso in cui chi dice la verità non intende affatto nasconderne una parte, né fare in modo che i destinatari del messaggio non gli credano. No, la sua intenzione è proprio quella di portare a esecuzione il delittuoso progetto della cui ineluttabilità è sinceramente convinto. Peccato che troppo spesso non sia preso alla lettera da chi riceve il messaggio, nella speranza che si tratti solo di una minaccia. Il caso del sincero veridico in rapporto al futuro pone naturalmente un problema ulteriore, figlio dell’indeterminatezza degli eventi futuri: obiettivamente non sappiamo se ciò che viene annunciato sarà veramente portato a esecuzione; ma se potessimo considerare la sua intenzione del tutto attendibile e se partiamo dal presupposto che il dire la verità trae il proprio senso dal rapporto del soggetto con se stesso, allora è evidente che è legittimo adottare anche la prospettiva del futuro e non solo del passato. E se intervengono fattori che impediscono al soggetto di realizzare il progetto iniziale per il quale egli si è impegnato ufficialmente? Una persona che promette solennemente fedeltà al coniuge al momento del matrimonio, si vincola rispetto a un futuro anche molto lontano: progetta in assoluta buona fede di escludere il tradimento o l’abbandono del coniuge. Si potrebbe dire che, in rapporto a se stesso, è un sincero veridico. Qualora, dopo qualche tempo, venisse meno all’impegno assunto, rimarrebbe un sincero veridico al quale qualcosa ha impedito di rimanere fedele al consorte. All’atto del matrimonio la sua intenzione era sincera e diceva la verità a se stesso nel momento in cui proiettava dinanzi a sé una fedeltà di cui ancora non immaginava gli ostacoli e senza mettere in conto la propria fragilità, occultata e trasfigurata dalla solennità del cerimoniale. Se è vero che esiste la verità solo nella misura in cui viene detta, e viene detta solo in rapporto all’intenzione, al grado di sincerità del soggetto che la dice, allora perché la sincerità non dovrebbe assolvere dall’errore commesso? Se dovesse cadere nell’infedeltà, il sincero veridico dovrebbe dimostrarsi amante della verità ammettendo a se stesso di aver avuto un cedimento e confessandolo al coniuge. Oppure potrebbe essere indotto a tacere, se avesse la certezza che rivelare la verità avrebbe come solo effetto quello di far soffrire il consorte, o di distruggere un matrimonio al quale invece tiene moltissimo. Oppure, ancora, potrebbe valutare la possibilità che proprio l’aver taciuto metta in pericolo il suo matrimonio, una volta che il coniuge abbia scoperto l’inganno. Ma in generale può un uomo confessare a se stesso un errore e autoassolversi, senza renderne conto a qualcuno? Non è forse questo un errore di secondo grado?

Tagliapietra invita a riflettere sulla differenza tra veridicità (dire ciò che si pensa e si ritiene che sia vero), veracità (l’impegno concreto a fare ciò che si dice) e sincerità (accordo con se stessi, coerenza tra ciò che si è e ciò che si diventa). Veridicità, veracità e sincerità si collegano tra loro in un solo movimento, che comprende il rapporto con gli altri e con se stessi, la costruzione del mondo e della propria vita. «Se nei primi due momenti della sincerità, ossia nella veridicità e nella veracità, prevale il criterio di corrispondenza fra pensieri e parole e fra parole e atti, nel terzo momento, quello della sincerità in senso stretto, sembra emergere un criterio che definiremmo piuttosto di coerenza, vale a dire di corrispondenza interna fra gli stati di coscienza dell’individuo che si danno temporalmente» (p. 17). Tagliapietra individua così nell’idea di sincerità due poli, riconducibili a due funzioni, che propone di chiamare aletica — in ragione del fatto che nei primi due momenti si pone un rapporto di verità come corrispondenza o identificazione con i fatti — e ipseica-immedesimante. Il verace non si limita a dire la verità, come il veridico, ma si impegna direttamente, per farla trionfare, a sostenerla personalmente. La sincerità riguarda invece l’interiorità dell’io (soggetto, persona, anima, coscienza individuale sono alcuni dei nomi che la tradizione occidentale ha assegnato a questa dimensione). La veridicità e la veracità prescrivono di non mentire al prossimo, mentre la sincerità assegna il compito di non mentire a se stessi. La sincerità si presenta «come movimento di unificazione narrativa dell’esistenza, quella scrittura di sé (è il significato etimologico di “biografia”) che raccoglie, ogni volta in sintesi nuove, le identità e le differenze della coscienza» (p. 19). Tagliapietra ravvisa nella sincerità lo sforzo di eguagliare se stessi, di immedesimarsi con un sé riconosciuto e rispettato nella sua unicità e autenticità, al di là delle mode e delle convenzioni. Ma ecco profilarsi il quarto equivoco della sincerità, che la identifica con l’autenticità: «Se si è fedeli a se stessi per il semplice proposito di evitare di esser falsi nei confronti degli altri, si è veramente fedeli a se stessi? » (p. 20). Una volta posta l’esigenza morale di essere se stessi, la sincerità potrebbe diventare una maschera e prodursi in esercizio retorico, in vera e propria recita. Posso provare intimamente tristezza per il lutto di un amico o parente, e tuttavia avvertire il dovere di recitare la mia partecipazione a quel lutto, diventando così insieme sincero e insincero. Insomma anche la sincerità può essere tirata per la giacca dalle esigenze della società e dal dovere socialmente imposto di dimostrarsi sinceri. Il paradosso è che il passaggio dall’essere al voler apparire sincero può tradursi in una intensificazione delle manifestazioni esteriori del sentimento presente, con il risultato che l’accentuazione dell’esteriorità viene percepita come qualcosa di eccessivo, di non corrispondente e quindi insincero, pur nell’autenticità del sentimento interiore.

Va però aggiunto che questa percezione di inautenticità riguarda la persona stessa, più che il prossimo. Non è forse vero che l’attore è tanto più abile ed efficace quanto più è capace di amministrare questo prolungamento nell’esteriorità, questa facondia di espressioni facciali e gestualità, creando negli spettatori la persuasione di poter accedere, partendo da quelle espressioni seppur recitate, a un’interiorità autentica, in perfetta sintonia con le sue manifestazioni? D’altra parte, è forse possibile una sincerità che non sia anche in qualche misura esibizione di sincerità? Non siamo forse tutti un po’ attori non appena ci mettiamo in contatto con il prossimo? Nella nostra interiorità possiamo pensare e sentire molte cose, ma non appena mettiamo la testa fuori del finestrino dell’abitacolo del nostro corpo e guardiamo fuori, sappiamo anche di essere guardati, quindi facciamo attenzione a come ci presentiamo; e questo fare attenzione non è forse già di per sé una falsificazione di ciò che pensiamo e sentiamo? I pensieri e i sentimenti ai quali diamo espressione li percepiamo deprivati della loro autenticità originaria non appena sono trascinati nel gran teatro del mondo. Proviamo a immaginare di essere gli unici spettatori della nostra interiorità: possiamo dubitare che anche in quel caso potremmo preoccuparci di salvaguardare la nostra autenticità ai nostri stessi occhi e quindi avvertire il disagio di esserci già allontanati dalla condizione del nostro essere autentico. Nulla esiste senza lo sguardo, di sé o di altri, che mostra qualcosa e lo altera al tempo stesso. D’altra parte, ciò che mi sforzo di esprimere enfaticamente nel momento stesso in cui avverto il dovere di essere sincero, non esisterebbe se non fosse comunicabile. Quindi il paradosso dell’attore è destinato a rimanere tale. Più ci sforziamo di essere sinceri e meno siamo autentici e viceversa. Ogni buon lettore di Rousseau fa esperienza di questa sincerità insincera, di un’autenticità proclamata come volontà di negare l’inautenticità: a forza di denunciare la maschera delle convenzioni sociali in cui gli esseri umani nascondono il vero sé, si finisce col dimenticare che qualsiasi manifestazione del sé, in quanto esposizione ed esteriorizzazione, tradisce in qualche misura ciò che, per conservarsi assolutamente integro, dovrebbe rimanere inespresso. E, se rimanesse inespresso, darebbe comunque di sé un segno opposto, come quando il silenzio viene scambiato per indifferenza e l’indifferenza per insensibilità. La dualità è intrinseca alla vita del soggetto, così che la comunicazione con il prossimo risulta un’estensione o riproduzione del dialogo che ciascuno intrattiene con se stesso.

In un saggio fondamentale, La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità (2003), Tagliapietra ha coniato l’espressione “virtù crudele” per indicare l’atto del dire la verità che si accompagna all’assunzione di responsabilità e al farsi carico delle conseguenze anche dolorose, per sé e per gli altri, della pratica effettiva della sincerità. Tra il semplice dire la verità e la sincerità la differenza consiste proprio nel coinvolgimento attivo nel rapporto con gli altri. «Solo se la veridicità è una verità crudele, avverte Tagliapietra, ossia se comporta, per colui che dice la verità, uno svantaggio e, di riflesso, la piena responsabilità (e imputabilità) delle parole che si sono proferite, essa può costituire un momento incoativo di sincerità» (p. 31). Se colui che parla è danneggiato o svantaggiato da ciò che dice, la veridicità diventa veracità e la sincerità testimonia il coraggio di affrontare il pericolo che si sa incombere dal mero fatto di dire ciò che si pensa. La franchezza riguarda in generale rapporti simmetrici in cui ci si impegna ad essere sinceri, ma può diventare parresiasticamente un atto di eroismo quando si confronta asimmetricamente con il potere, accettando di subire tutte le conseguenze di tale coraggio di dire la verità ai potenti. La veridicità diventa una virtù quando affronta la prova del martirio. Un altro tipo di sincerità crudele è rappresentato dall’uomo che mantiene la parola data, a qualsiasi costo. Ecco dunque la figura di Abramo nell’interpretazione di Kierkegaard. «L’Abramo kierkegaardiano ben esemplifica il senso della veracità come fedeltà, come intima convinzione in cui la corrispondenza tra l’impegno espresso dalla parola e la realizzazione del suo contenuto sono l’unico metro per giudicarne la verità, mentre il riflesso sul mondo di questa terribile compattezza dell’agire che va oltre la sfera dell’etica e di ciò che è umanamente comprensibile mostra tutti i bagliori, lividi e crudeli, di una sincerità che ha abbandonato ogni possibile confronto con la sfera pubblica e intersoggettiva dell’alterità per concentrarsi sull’estremo rilancio solipsistico dell’Assoluto» (p. 35). Abramo mostra l’intima parentela di crudeltà e autenticità. Ma esiste anche una crudeltà più sottile, quella che inscena una confessione autoaccusatoria, che «appare tanto più vera quanto il suo contenuto ricade sul soggetto che si confessa in termini di accusa e di colpa, di ammissione di mancanze e fallimenti, di rivelazione di difetti personali sconvenienti e odiosi, di riconoscimento di veri e propri crimini compiuti» (p. 36).

Tagliapietra richiama l’attenzione sul corpo come luogo metaforico e insieme letterale in cui si consumano le pratiche della sincerità come virtù crudele; in particolare, oltre agli organi che sono coinvolti nella sessualità, le parti critiche del corpo sono la pelle e il cuore. La pelle è la barriera divisoria, facile da violare e attraversare, che separa l’interno dall’esterno, il dentro dal fuori; essa è il luogo vulnerabile e la palestra di esercizio di numerose forme di crudeltà, uno spazio intimo che resiste alla violenza del denudamento e all’audacia impertinente della seduzione erotica. La metafora aletica più importante, del resto, riguarda proprio la messa a nudo, il denudamento, la crudeltà rivelatrice, la nuda verità. La nudità è l’immagine ultima della verità, dove la pelle del corpo nudo, completamente esposto, appare la barriera inoltrepassabile dell’inquisizione. Il cuore rappresenta a sua volta la parte più intima, il vero sé. «Non è un caso che la rara declinazione della sincerità simmetrica abbia come destinatari, nella reciprocità della confidenza e della fiducia, quelli che si è soliti chiamare l’amico o l’amica del cuore» (p. 38). Del resto il corpo offre le metafore principali alla virtù crudele della sincerità proprio grazie alla sua opacità, che resiste all’ispezione di chi vorrebbe la perfetta trasparenza. La nostra epoca è divisa tra la difesa della privacy e l’esaltazione della trasparenza. Lo stesso individuo può appassionarsi nella celebrazione della trasparenza come virtù suprema di chi non ha niente da nascondere, quindi delle persone oneste come lui; e al tempo stesso scatenarsi nella più corrosiva e indignata contumelia, se per caso gli capitasse di essere spiato in qualche angolo della sua più segreta intimità.

Si deve sempre dire la verità che si conosce? Vi sono casi in cui è ammesso mentire? Agostino e Kant, ci ricorda Tagliapietra, non ammettono eccezioni al dovere di dire la verità. Per il primo la menzogna è l’origine stessa del peccato: se Dio è verità, che cos’è la menzogna se non artificio di Satana? Agostino non considera legittima la menzogna neppure nel caso in cui mentire potrebbe salvare la vita a qualcuno, dato che in tale circostanza si tratterebbe di un dovere che riguarda la salvezza del corpo al prezzo di perdere l’anima. Tanto più che ci sono altre vie per raggiungere lo stesso risultato, evitando così di mentire, come il silenzio o l’omissione o il sacrificio di sé. Neppure per Kant è lecito mentire per amore dell’umanità, poiché la menzogna, se non danneggia un altro, lede l’umanità in generale. L’etica kantiana prescinde dalle conseguenze del dire sempre la verità e fa passare in secondo piano il dovere di ospitalità e le sue implicazioni, come il rispetto della parola data. La posizione kantiana è apparsa troppo radicale nella sua ossessiva esclusione della menzogna. «Colui che dice la verità agli assassini, commenta Tagliapietra, ostentando la pratica della veridizione assoluta, rivela con quel comportamento di aver già mentito, perché ha disatteso palesemente il senso dell’atto di ospitalità e ciò che questo prevede» (p. 47). Perché il padrone di casa dovrebbe essere veridico con l’inseguitore, il nemico del suo ospite e violare il dovere di sincerità nei confronti di qualcuno che si è rifugiato nella sua casa?

Le critiche alla posizione kantiana rivolte da numerosi autori, tra cui Sissela Bok e Paul Feyerabend, invitano a mettere a fuoco la questione in rapporto alla professione medica. Due medici-filosofi come Karl Jaspers e Vladimir Jankélévitch ammettono che nella pratica medica si debba poter sospendere il principio di veridicità, laddove sia opportuno; per il secondo addirittura mente il medico che dice al paziente che sta per morire, poiché l’esito della malattia è sempre imprevedibile e nessuna prognosi merita il credito di una verità assoluta (p. 48). Si esce dall’impasse se, con Tagliapietra, ritorniamo al comandamento del Sinai, che non ordina di dire sempre la verità, ma prescrive di “non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo” (Es 20, 16; Dt 5, 20). Per intendere il senso autentico del comandamento in rapporto alla verità come dramma sconvolgente di passione, Tagliapietra propone un breve racconto chassidico riportato da Buber, dal titolo La testimonianza: «Rabbi Raffaele di Berschad era noto in ogni luogo per la sua sincerità. Una volta la sua testimonianza doveva decidere della vita di un ebreo accusato di un misfatto. Rabbi Raffaele sapeva che l’uomo era colpevole: nella notte precedente la discussione della causa egli non andò a riposare, ma lottò in preghiera fino all’alba. Poi si stese per terra, chiuse gli occhi e morì all’istante» (p. 49). La sincerità non è un esercizio dell’intelletto, ma un mettere in gioco la propria vita: Rabbi Raffaele si rifiuta di testimoniare contro la vita di un altro e preferisce perdere la propria.

2. La storia della sincerità

La seconda sezione del saggio di Tagliapietra percorre la storia della sincerità nella tradizione occidentale. Presso gli antichi Greci la sincerità è fedeltà e affidabilità, rispetto dei patti e della parola data. Sincero è colui che non trae in inganno. «Se la sincerità significa l’unità compatta della persona, che agisce nei confronti degli altri secondo quanto ha affermato con le sue dichiarazioni, il suo contrario, il mentire, si descrive innanzitutto con la figura della doppiezza, ovvero con la divaricazione fra ciò che si dice di voler fare, o che ci si aspetta dall’individuo in base al suo ruolo sociale, e le reali intenzioni del soggetto» (p. 57). La sincerità nella sua semplice identità (= dire schiettamente ciò che si pensa, si vuole e ci si propone di fare), è incarnata da Achille, del quale nulla rimane celato allo sguardo dei suoi compagni, mentre la sua antitesi è rappresentata da Ulisse, in cui astuzia e doppiezza si danno la mano. Ulisse inaugura una parola che non è più solo ciò che è, come in Achille, ma mette in disaccordo l’apparenza e la realtà, creando così i presupposti per la costituzione di una sfera privata, di una concavità individuale inaccessibile allo sguardo altrui, tanto che con Tagliapietra, «sfidando il rischio dell’anacronismo si potrebbe dire che la parola odisseica inaugura uno spazio coscienziale rispetto al quale tutti i processi della mente arcaica vengono riconfigurati in termini di esteriorità e interiorità, acquisendo una dimensione temporale e narrativa» (p. 61). La doppiezza della parola di Ulisse trova la sua migliore espressione nel cavallo di legno, che non è ciò che sembra e trova impreparati i Troiani, i quali sono ancora legati a una concezione arcaica della significazione, per cui le cose sono ciò che appaiono e le parole, come le cose, hanno un riferimento unico e un senso obbligato.

La menzogna non è mai fine a se stessa; essa è uno strumento per ottenere qualche vantaggio, nelle diverse situazioni in cui entra in gioco; può tuttavia essere giustificata come atto di libertà dal controllo esercitato dal prossimo sulla propria vita, come presa di distanza dagli altri, marcatura della differenza essenziale tra noi e loro. La sincerità trasparente di un Achille è una virtù che può condurre a morte prematura; la doppiezza di Ulisse può salvare la vita a sé e al proprio gruppo. E chi addita la sincerità come virtù assoluta la considera la via più sicura per rafforzare le difese individuali dagli attacchi della pubblica opinione e della morale sociale. L’abitudine consolidata di dire la verità assicura un successo indiscutibile rispetto alla menzogna sistematica, che invece renderebbe impossibile la coesistenza degli individui così come la conosciamo. L’interpretazione opportunistica del precetto di dire la verità permette di esigere la massima sincerità dagli altri, riservando a se stessi la possibilità di mentire, se dovesse presentarsi la necessità di salvaguardare i propri interessi. La sincerità si rivela allora un bene morale soprattutto quando viene osservata e registrata dal prossimo. Del resto promessa e giuramento possono essere infranti solo al prezzo di una vera e propria scomunica del fedifrago da parte della stessa comunità; di contro la fedeltà può comportare la perdita della propria vita. La fedeltà alla promessa e al giuramento è giusta, spergiuro e falsa testimonianza sono ingiusti. «Appare significativo, avverte Tagliapietra, che il più antico pensiero greco riferisca alla sfera della giustizia, ossia alla custodia regolata delle relazioni e alla loro osservanza, la sfera della verità proferita, cioè che si dà nella forma della testimonianza e del giuramento» (p. 67). La verità, in quanto conformità coerente e costante alla parola data, coincide con la giustizia. Sospesa tra psicologia ed etica, la sincerità non può ridursi ad assecondare le pulsioni del momento, ma neppure essere assunta completamente nella sfera impersonale del dovere assoluto. La sincerità verso me stesso e quella verso gli altri potranno mai coincidere? La fedeltà agli impegni assunti nei confronti di altri può comportare l’infedeltà a se stessi?

La retorica classica con Gorgia fa emergere la potenza della parola, il cui potere si misura in base all’efficacia nella risoluzione delle contese generate da conflitti d’interesse. L’esercizio della parola, che sostituisce l’intervento diretto della forza, fa della sofistica un’istituzione che si afferma insieme al teatro e all’alternanza di democrazia e tirannide: «Non più la violenza esercitata fuori del discorso, commenta Tagliapietra, ma la violenza rappresentata con e nel discorso, la violenza in immagine e parola, è necessaria per un efficace controllo della complessità, poiché il principio di efficacia della retorica ci ricorda che, dal punto di vista di quella volontà di potenza che essa riconosce come criterio ultimo, l’apparire e l’essere sono lo stesso» (p. 73). La filosofia nasce come autoriflessione della retorica, indotta a interrogarsi sulla validità del movente universale dell’interesse personale, quella pretesa aprioristica di avere più degli altri che la filosofia mette sotto accusa. All’affermazione dell’interesse da parte della sofistica, la filosofia sostituisce il distacco dello sguardo razionale e disinteressato in nome del trionfo della verità e della giustizia. La filosofia affronta la retorica e il potere costituito con la spada della verità, trasformando l’argomentazione valida nella conduzione del dibattito e del discorso in strumento di liberazione dall’oppressione dell’ignoranza, della prepotenza, dell’inganno e della falsità. La filosofia diffida della retorica e ne ammette le procedure solo dopo un’attenta critica di modi e forme della conduzione delle controversie. Fine ultimo del discorso per la filosofia non è la persuasione, come per la retorica, ma la verità in sé, sciolta da ogni legame con interessi privati o particolari.

A dimostrazione del disinteresse radicale e programmatico di colui che dice la verità nel proferire un certo discorso, ecco che la figura del filosofo originario, Socrate, instaura una modalità opposta a quella del sofista e si sacrifica in nome della verità, per salvaguardare la corrispondenza tra ciò che si dice e ciò che si è, riaffermando sul piano della ricerca filosofica quella sincerità omerica di Achille che ora si chiamerà parresia: termine che, letteralmente, significa “il dire tutto” e che è stato tradotto con “franchezza di linguaggio”, “libertà di parola”, mostrando il nesso tra “il dire la verità” e il coraggio consapevole di subirne le conseguenze (p. 76). Il parrhesiastes è figura minima del filosofo, contrapposto all’uomo volgare o al retore di professione, che devono sempre difendere qualche interesse senza mai mettere a repentaglio la propria vita, senza mai subire perdite di qualche genere. Socrate perde la vita in nome della filosofia, ormai tutt’uno con il coraggio di assicurare un rapporto di coerenza tra le parole e le azioni. Non importa quanto l’indagine razionale ci permetta di far progredire il nostro sapere; importa invece conoscere se stessi e prendersi cura di se stessi, importa il modo in cui si vive. Riprendendo l’interpretazione che del Lachete e dell’Alcibiade I Foucault ha lasciato nel corso tenuto nel 1984 (Il coraggio della verità), Tagliapietra sottolinea che la cura di sé del filosofo socratico è l’opposto del culto di sé come elaborazione della propria immagine: con Socrate «il filosofo si rifiuta di dissimulare un ruolo sociale, di essere una maschera inconsapevole del teatro-mondo, ma diventa protagonista di sé, rappresentando un’esortazione vivente per ciascuno ad abbandonare le false persuasioni che oscurano la consapevolezza della propria esistenza» (pp. 78-79).

Abbiamo così due figure della sincerità: quella dell’Alcibiade I, in cui l’uomo sincero scava in se stesso per raggiungere il nucleo essenziale e unico del proprio vero sé; e quella del Lachete, in cui l’uomo sincero affronta le situazioni della realtà dicendo la verità agli altri e agendo in modo conforme a ciò che dice. Qui l’uomo sincero si compromette in senso parresiastico, sapendo bene che, dicendo la verità e volendo essere coerente con questo principio, deve mettere in conto il rischio di perdere la propria vita. Le due figure convergono nella sincerità con se stesso alla quale il filosofo non può abdicare. Per il filosofo socratico non basta conoscere la verità e dirla se richiesti in quanto specialisti di un certo settore: bisogna assumere il ruolo dell’intellettuale critico, che rischia la vita in nome della verità. Insomma la verità sul potere è l’esatto opposto della verità del potere, quella procedura di verifica dei risultati con cui il potere si consolida e assolve i propri errori o ingiustizie. Il potere della verità, se l’intendiamo come esercizio critico nei confronti di assetti, istituzioni e norme la cui sola legittimazione è la conservazione di un’oligarchia di affaristi, è l’esatto opposto della verità del potere. Nulla di più attuale, s’intende, di questo smascheramento del carattere ideologico della verità intesa come approvazione dell’esistente e non come esercizio di critica negativa.

Aristotele nell’Etica Nicomachea colloca l’uomo sincero o verace (aletheutikòs) come medio tra il millantatore che rivendica meriti che non possiede, e l’ironico, che nega o nasconde i meriti che ha. I millantatori, sia che mentano per il gusto di farlo, sia che lo facciano per ottenere un vantaggio o recar danno a qualcuno, sono peggiori degli ironici, che sono mossi dall’intenzione di non ostentare titoli di merito. L’uomo sincero quindi sta nel mezzo, si presenta tale e quale è, senza artifici né al rialzo né al ribasso. Per Aristotele la sincerità si apparenta alla socievolezza, è una disposizione favorevole alle relazioni sociali, non la virtù necessaria di dire il vero riguardante gli affari e la giustizia. «La sincerità aristotelica, conclude Tagliapietra, è una sorta di tatto morale, una forma kantianamente vicina al giudizio e al gusto, che si esplica nella sfera interpersonale e, più che con le questioni di giustizia, ha a che fare con l’affettività, con la civiltà, con l’urbanità e con la qualità dei rapporti umani, con la tutela della stabilità dei ruoli e dei personaggi del teatro sociale» (p. 91). Le due figure aristoteliche di insinceri, il millantatore e l’ironico, non dicono il falso su qualcosa, come accadrebbe nei tribunali o nei mercati, ma mentono su se stessi. Il sincero aristotelico è colui che dice la verità su di sé, l’autentico, «quell’uomo che, dicendo le cose come stanno, al contempo mostra se stesso tale e quale è» (p. 92). L’uomo sincero non cerca di apparire di più o di meno di quello che è, ma insegna ad «amare la verità esercitando quell’amor di sé (philautìa) che, a differenza dell’egoismo, che vuol avere di più, ossia altro rispetto a ciò che si è, consiste innanzitutto nella capacità di accordarsi con se stessi, attuando la parte migliore di sé» (p. 92).

Il saggio ellenistico è maturo per abbracciare una prospettiva filosofica di rinuncia ad espandersi verso l’esterno e di ricerca del fondamento di sé. Di qui la definizione dell’arte del vivere, in rapporto alla quale la sincerità non è l’amore per una verità teoretica, ma l’impegno costante a dar prova nei fatti di una rigorosa applicazione del principio di verità, la simplicitas della vita beata. La sincera et per se inornata simplicitas del filosofo è il modello di trasparenza nei confronti degli altri: régolati in modo tale che non vi sia nulla che confidi a te stesso e che tu non possa confidare persino al tuo nemico. Il saggio rifugge l’ipocrisia degli uomini, opera per togliere la maschera agli uomini e alle cose, oltre che a se stesso. La stessa lode della sincerità come simplicitas troviamo in Plutarco di Cheronea, che si richiama alla schiettezza selvatica degli animali, e in Marco Aurelio.

L’Antico Testamento contiene un’idea di sincerità che si può ricondurre alla coerenza tra gli e le intenzioni, senza che essa contraddica la fedeltà nel rapporto con gli altri, la quale riflette la fedeltà somma del patto tra l’uomo e Jahwe. Jahwe è modello di verità e sincerità, essendo l’unico vero Dio, quindi il Dio della verità, della veracità e della veridicità (p. 97). La lotta del fedele a Jahwe contro l’idolatria si manifesta nella condanna della menzogna come artificio per avere di più. La fedeltà a Jahwe esige l’abbandono dell’esteriorità e la dedizione al culto interiore nella purezza del cuore. La relazione personale con Dio è la sola che possa donare una forza che per Hermann Cohen, «è interezza e integrità, non perfezione, perché, scrive Cohen, “perfetto l’uomo non deve esserlo, né può esserlo con Dio. Ma intero dev’essere, cioè unito, semplice. Questa semplicità, questo essere esente da dissidio (Zwiespältigkeit), diviene così un’espressione per la veracità della vita umana”» (p. 98). Il rifiuto dell’esteriorità, contaminata dall’idolatria, è la conseguenza dell’approfondimento della relazione diretta con Dio, in cui Louis Dumont, riprendendo Ernst Troeltsch, vedeva un movimento inedito di emancipazione dell’individuo dai condizionamenti del mondo esteriore. Ancorato solidamente a Dio, l’individuo può divenire rinunciante, collocarsi fuori del mondo e porsi di fronte ad esso facendolo oggetto della negazione che merita ogni forma di falsificazione e deviazione dalla verità. Solo uscendo dal mondo, l’anacoreta, il monaco, l’esichiasta, può testimoniare la verità che è in lui. Il rinunciante e il filosofo cinico sembrano allora convergere in un ascetismo di negazione, ma la differenza tra le due figure, avverte Tagliapietra, è significativa: «Se il cinico, pur vivendo a margine della società antica, ne abita la piazza, agisce su di essa e forma se stesso mediante una sincerità che gli viene restituita dallo scandalo e dalla provocazione degli altri, dei concittadini, il rinunciante va nel deserto, ossia nega la società mondana della cosmopoli, in nome di una sincerità che gli appartiene essenzialmente e che viene esercitata sul mondo per trasformarlo a sua immagine e somiglianza» (p. 100).

Gesù rappresenta la figura veterotestamentaria di profeta e ne eredita la parresia, che lo predispone a rivelare al mondo apertamente ogni suo pensiero e insegnamento; e anzi il nucleo essenziale del suo insegnamento è la critica di ogni forma di doppiezza e di ostentazione. La parola rispecchi perfettamente il cuore, che non deve essere contaminato. Se il cuore è buono, ogni parola pronunciata sarà buona; se invece è contaminato, la parola sarà ambigua e foriera di conflitti e malvagità. Astuzie, simulazioni e artifici della parola riflettono l’impurità di chi la pronuncia. In Mt 15, 17-20 Gesù ammonisce che a renderci impuri non è quanto introduciamo nella bocca (tanto che poi viene espulso), bensì ciò che esce dalla bocca, provenendo dal cuore traviato. Le azioni malvagie di ogni genere sono parole che si materializzano, dopo aver dato voce al cuore malvagio. Il cuore puro a sua volta si rispecchia in Dio stesso, è il cuore che ascolta la parola di Dio, la diffonde e la mette in pratica. In Paolo è presente la contrapposizione tra la veracità di Dio e l’inclinazione alla menzogna degli esseri umani. Il cristiano ha il coraggio di testimoniare la verità parresiasticamente fino a subire il martirio. Dire la verità significa essere simili a Dio e fedeli alla Parola, secondo i vari passi paolini citati da Tagliapietra (p. 102). Un cuore puro è sincero, perciò semplice. L’opposto della semplicità, complicatezza o artificiosità, appartiene all’area semantica dell’essere malvagio, inevitabilmente uomo di menzogna e di doppiezza. In sostanza, conclude Tagliapietra, «Paolo rimane fedele all’impianto del pensiero biblico e a quell’idea di servizio divino del cuore che costituiva il fondamento della virtù ebraica della veracità» (p. 103).

Nelle sue Confessioni Agostino persegue l’obiettivo di mettersi a nudo, scavando nel proprio passato con l’intenzione di dire tutta la verità su di sé. Qual è allora la differenza tra il parresiasta pagano e il soggetto della confessione? «Se nella parresia, risponde Tagliapietra, il soggetto dell’enunciazione è il soggetto dell’enunciato, nella confessione il soggetto dell’enunciazione diviene l’oggetto dell’enunciato» (p. 104). La parresia corrisponde al processo di soggettivazione, dove coincidono veridizione e autenticazione; nella confessione invece l’anima cerca una verità che solo in essa si può incontrare e che coincide con Dio stesso. L’anima va incontro alla verità dentro di sé e cerca di portarla alla luce non per divenire ciò che è, ma per sottomettersi ad essa e divenire simile a Dio stesso. La confessione deve concedere che chi ascolta creda a chi si confessa, si immedesimi in lui, in virtù della carità. La confessione agostiniana mette a nudo se stessi dinanzi a Dio; il dire la verità su se stessi non è in vista di una subordinazione al potere ispettivo e di controllo di un altro come, secondo Foucault, accade con il sacramento della confessione, dove non si svela parresiasticamente la verità del potere, ma ci si assoggetta al potere della verità: il fatto di mettersi a nudo dinanzi al confessore/inquisitore testimonia la raffinata crudeltà con cui il peccatore è trasformato in torturatore e punitore di se stesso, per affrancarsi dai peccati commessi. Agostino mira invece a condividere la verità con coloro per i quali si mette a nudo, dinanzi a Dio. «L’impianto delle Confessioni, conclude Tagliapietra, mostra una struttura concettuale che collega l’ipocrisia del voler rimanere celato agli altri con la doppiezza della bugia e la rivendicazione della verità come proprio bene esclusivo, mentre la sincerità del mettersi a nudo viene posta in relazione con il godimento comune della verità, con la felicità, ossia con l’anticipazione in terra della beatitudine transmondana» (p. 107). La sincerità della confessione implica la rinuncia a voler avere di più ed è incompatibile con l’avidità dissennata, così come la fiducia incondizionata degli uni negli altri è incompatibile con la diffidenza reciproca.

Nella trattatistica tardo-antica e medievale la sinceritas è contrapposta ai peccati della lingua e assume quindi la connotazione di veridicità e veracità. La sinceritas si contrappone quindi non a un vizio unitario, la menzogna, ma a una serie di figure in cui si frastaglia l’azione multiforme del mentitore in relazione agli scopi che si prefigge: l’ipocrisia per compiacere i potenti; la maldicenza e la calunnia al servizio dell’invidia; il tradimento, la frode, l’inganno e lo spergiuro conseguenza dell’avarizia (p. 109). Tommaso d’Aquino esplicita il doppio significato, oggettivo e soggettivo, del latino veritas, termine che nel senso soggettivo indica la veridicità e la veracità e in Tommaso è la disposizione per cui qualcuno, dicendo la verità, può dirsi verace. La veracità in quanto virtù della manifestazione esterna dei nostri sentimenti e pensieri coincide con la sincerità e la semplicità, in contrapposizione alla doppiezza. La veracità riguarda non solo le parole ma anche le azioni. Essa per Tommaso è una virtù speciale, che fa parte della giustizia, perché impone di comunicare al prossimo la verità su qualunque cosa. Anzi, avverte Tagliapietra, Tommaso pone la veracitas tra le virtù che fondano la società stessa: «Essendo l’uomo un animale fatto per vivere in società — scrive Tommaso in Summa Theologica II, II, q. 109, a. 4 — per natura un uomo deve all’altro ciò che è indispensabile per la conservazione della società umana. Ora, gli uomini non potrebbero convivere senza credersi reciprocamente, dicendo l’uno la verità all’altro» (p. 112). Infine la veracitas è una virtù d’attenuazione e riguarda l’umiltà e la modestia con cui, parlando di noi, abbiamo il pudore di diminuire le nostre qualità positive.

Con l’epoca moderna si viene affermando una diversa idea di sincerità, dovuta in gran parte, secondo Lionel Trilling chiamato in causa da Tagliapietra, alla straordinaria diffusione del teatro. Con la città moderna il teatro assume un ruolo significativo e diventa metafora della società, anch’essa un palcoscenico sul quale gli individui sono chiamati a indossare un ruolo e a recitare un personaggio, in ragione del moltiplicarsi delle professioni e della necessità di indossare una veste professionale in cui possano riconoscersi ed essere riconosciuti. Riaffiora quindi il doppio senso di “persona”, che indica la maschera teatrale e insieme l’irripetibile singolarità dell’individuo. La modernità apre così una frattura tra il modo in cui l’individuo considera se stesso e quello in cui gli altri lo percepiscono. Nel Medioevo l’individuo indossa le vesti di una funzione sociale che sente sua e in cui si riconosce. In epoca moderna invece «alla sincerità come veracità dell’individuo riconosciuta dagli altri si contrappone ormai l’autenticità quale fondo dell’unicità irripetibile di ognuno, nucleo irriducibile ai ruoli e alle maschere sociali che di volta in volta ciascuno indossa» (p. 114). Amleto interpreta la virtù della sincerità come autenticità. La morale dell’autenticità è l’impegno a essere fedeli a se stessi, al di là delle maschere che la società riconosce. L’autenticità non è riducibile alla sincerità, alla corrispondenza tra ciò che si pensa, si dice e si fa. La sincerità richiede di ancorarsi all’autenticità dell’io, alla sua identità profonda e indipendente dai ruoli socialmente riconosciuti. E però, tolte tutte le maschere, qual è la cifra della singolarità irriducibile dell’io? L’individuo moderno sente di essere intimamente irriducibile alle maschere che assume di volta in volta, ma al tempo stesso, perduta la garanzia teologica del legame interiore con la trascendenza, è costretto a tormentarsi nella ricerca di un’autenticità dell’io che dovrebbe prescindere totalmente dalle forme esteriori della sincerità (p. 116).

In Michel de Montaigne l’esigenza di sincerità, per dirla con María Zambrano, sostituisce l’esigenza di verità, in un processo di soggettivizzazione in cui ci si cura sempre meno della verità oggettiva e sempre più assillante e urgente diventa invece il bisogno di autenticità. Lo scettico Montaigne non insegue alcuna verità, ma tende solo a mettersi alla prova, a osservarsi, a studiarsi mediante la scrittura, sdoppiandosi in tal modo «in un soggetto che osserva, la coscienza, il nostro atto più puro e indipendente, e l’oggetto osservato, il flusso dell’esistenza variabile» (p. 119). Falsa gli appare l’immagine di un io semplice, indiviso, unitario, dacché osserva invece l’esatto contrario: un io fluido e liquido, dove gli elementi permanenti sono in realtà maschere e menzogne, mentre all’opposto la verità del soggetto risiede nel movimento, il passaggio continuo da uno stato all’altro. Non esiste alcuna verità universale e immutabile sulle cose, ma solo quella relativa alle cose che vedo in me stesso. Rimane dunque solo la sincerità che riesco a mettere pratica nel rapporto con me stesso. In un mondo che continuamente e rovinosamente si trasforma, l’affermazione di sostanze o essenze permanenti è l’inganno fondamentale, con cui osserviamo la realtà esterna e noi stessi. Di qui l’avversione di Montaigne per ogni formalismo e l’ipocrisia sociale. La sincerità non può essere assoluta, confessa Montaigne, nel senso che non bisogna sempre dire tutto quel che si ha in mente, ma quel che si dice deve corrispondere al proprio pensiero e ai fatti che si conoscono. L’aspirazione dell’io all’autenticità si scontra inevitabilmente con la necessità di uniformarsi alla dissimulazione che il soggetto osserva negli altri, con la cortesia, le buone maniere e le convenzioni della vita in società: l’io che vuole essere autentico avverte sempre in sé e fa valere un principio di verità e legittimità al quale il mondo è estraneo, ridotto com’è alla ripetizione meccanica di marionette mosse da congegni.

Rousseau avrebbe attaccato Montaigne, “falso sincero”, da annoverare tra quelli che “vogliono ingannare dicendo la verità”, che ammettono dei difetti, ma solo se amabili (pp. 121-122). Con Rousseau la sincerità non si limita all’esplorazione dell’io, ma diventa autenticità inderogabile di un io che rifiuta ogni compromesso e mediazione di fronte al mondo. Rousseau pretende che la sincerità sia assoluta, paradigma dell’uomo virtuoso. Solo la sincerità assoluta è autentica, ma sceglierla incondizionatamente significa isolarsi dal mondo e venire a conflitto con il prossimo, che non accetta quel rigorismo che Rousseau vorrebbe imporre a tutti. La volontà di sincerità in Rousseau non ha riguardo alcuno per se stesso, come annuncia all’inizio delle sue Confessioni. Dire tutta la verità sulla natura dell’uomo — di se stesso — è la scelta del ginevrino, anche a costo di apparire scabroso, imbarazzante, offensivo. Quale miglior prova della sua sincerità assoluta Rousseau confessa l’inconfessabile, non nasconde nulla di sé, dichiara tutte le sue colpe, in un’autoflagellazione che potrebbe apparire esibizionistica e implicitamente un atto d’accusa nei confronti dell’intera società, messa a nudo per contrasto rendendo visibili i suoi vizi. È vero che, come scrive Tagliapietra, in Rousseau «l’atto solipsistico della sincerità, in assenza di reciprocità (il riconoscimento, la testimonianza, il dono e il perdono dell’altro), ha bisogno di una prova che coincide con un’ammissione di colpa» (p. 124), ma, ponendosi nella situazione di subire le conseguenze della verità che dice su di sé, Rousseau mira in realtà a mettere in stato d’accusa la società che lo ha messo al bando per il suo coraggio inaudito di dire tutta la verità su qualsiasi argomento, senza veli, compromessi, ipocrisie, attenuazioni, opportunismi. Rousseau dunque si mette sul banco degli imputati e si erige a testimone e giudice spietato di se stesso, per condannare i vizi che l’intera società non vuole ammettere né emendare. Nel momento stesso in cui Rousseau confessa una colpa del passato, si salva affermando un criterio di veridicità e insieme di veracità e autenticità; e dimostra di preferire la verità alla propria gloria e perfino alla propria vita.

L’uomo interamente votato alla sincerità, scrive Rousseau nella quarta delle Rêveries, è veridico sulle cose che possono costargli anche la vita, mentre l’uomo sincero per il mondo si limita a dire la verità su cose che non gli costano nulla. E aggiunge che nelle Confessioni la sua avversione per la menzogna lo ha fatto cadere nell’eccesso opposto, quello di accusarsi con eccessivo rigore, di ingigantire le sue colpe, pur di non nascondere nulla, come invece aveva fatto Montaigne con il suo autoritratto di profilo. Ma oltre al giudizio negativo sulle menzogne della società, l’autoaccusa di Rousseau sembra impegnata a confermare la sua tesi di fondo: la condizione originaria e autentica dell’uomo è una solitudine in cui basta a se stesso, non ha vizi né bisogno di mentire, a differenza della sua vita in società. E l’ostilità con cui le sue confessioni sono accolte consolidano un isolamento che per Rousseau suona come liberazione dai vizi di ogni tipo indotti dalla società civile. Una sensibilità fin troppo acuta impedisce a Rousseau di mantenere la giusta misura nell’accusarsi e quindi, come ammette lui stesso, è portato a mentire a proprio danno. Eppure anche mentendo rimane sincero e autentico, dinanzi al mondo che lo accusa e lo disprezza per i vizi che ha il coraggio di denunciare.

In Kant la sincerità è una virtù assoluta che coincide con il dovere della veridicità. Il principio per cui si deve dire la verità è per Kant il principio formale supremo della moralità, dal quale è impossibile essere esonerati. Il dovere della veridicità fa coincidere la moralità delle intenzioni con la legalità delle azioni, i due assi cartesiani della ragion pratica. Tagliapietra richiama l’attenzione sulla complessità della posizione kantiana riguardo la sincerità, distinguendo tra la franchezza o trasparenza (Offenherzigkeit), che ciascuno ha la tendenza istintiva a rifuggire per non esporre tutti i propri difetti, e la sincerità o veridicità (Wahrhaftigkeit), che prescrive di dire con verità ciò che si dice. Non si deve dire tutto ciò che si pensa (la franchezza totale e immediata sarebbe di ostacolo alla formazione della società civile quanto la menzogna sistematica), ma non si deve dire neppure qualcosa che non si pensa. «Posso concedere, scrive Kant ne La religione entro i limiti della sola ragione, benché sia molto doloroso, che non si trovi, nella natura umana, la franchezza (di dire tutta la verità che si conosce). Ma la veridicità (che sia detto con veridicità tutto ciò che si dice) è necessario poterla pretendere da ogni uomo» (p. 133). Kant concepisce la veridicità come dovere assoluto e perfetto verso se stessi, quale garanzia ontologica dell’integrità dell’io, che va difeso dal processo di sdoppiamento dell’autoinganno. E tuttavia, avverte Tagliapietra, «il soggetto kantiano vive la condizione esistenziale di una continua scissione interiore, che si esprime nella frizione al calor bianco fra l’intimo riverbero della legge — quello che Kant chiama l’uomo noumenico — e la sua determinazione storico-fenomenica, ossia l’individuo empirico, che si mette quotidianamente alla prova nel teatro crudele del mondo» (p. 135). Nel teatro del mondo è lecito e perfino raccomandabile decidere di non dire qualcosa, di avere segreti, nonostante il dolore che procura questa impossibilità empirica della trasparenza integrale — quella sincerità radicale che in Rousseau diventa autenticità ed esposizione personale alle conseguenze del dire la verità. Fino alla fine Kant rimane persuaso che la veridicità è il principio formale della verità pratica, come il principio logico di non contraddizione è garanzia formale della verità teoretica. Se la sincerità in Rousseau assume i contorni di un’autoconfessione anarchica in cui l’io si dichiara disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di dire la verità, trasformando però la sincerità nella caratteristica di un io programmaticamente protagonista, in Kant l’idea di sincerità rimane ancorata alla corrispondenza perfetta tra ciò che si pensa ed è creduto vero, e ciò che si dice. «La verità, in questo caso, conclude Tagliapietra, è la disciplina della testimonianza dello spettatore indifferente che, nel suo pubblico e costante esercizio, intende modellare automaticamente la forma e la stessa struttura dell’io, ma ci riesce solo alienandola» (p. 136).

3. La sincerità nell’epoca contemporanea

Nell’epoca contemporanea lo sviluppo della tecnica permette agli individui di realizzare se stessi esprimendosi con la massima libertà possibile e nella più veridica trasparenza. La coesistenza di veridicità e autenticità, che corrispondono alle due istanze fatte valere, rispettivamente, da Kant e da Rousseau, non è pacifica, ma conflittuale. Trasparenza e veridicità infatti, scrive Tagliapietra, sono indispensabili per il buon funzionamento della società civile, che implica il controllo delle persone; l’autenticità invece va nella direzione opposta, giacché rivela la sua vera natura nella tendenza a sbarazzarsi di qualsiasi limitazione e direzione costrittiva imposta dall’apparato istituzionale e civile in tutte le sue articolazioni (p. 145). L’individuo che fa dell’autenticità un valore assoluto disdegna le convenzioni e gli obblighi sociali e intende obbedire unicamente a se stesso, al proprio volere, anche a costo di subirne l’imprevedibilità. Secondo Bernard Williams, richiamato da Tagliapietra, la nozione moderna di sincerità è ambigua, proprio in ragione della mescolanza di due differenti concezioni dell’io e della comprensione di se stessi, che fanno capo a Rousseau e Denis Diderot (Il nipote di Rameau). Rousseau sostiene il principio di autenticità che si riduce a una concezione solipsistica della sincerità, per cui per essere autentici è sufficiente essere totalmente e illimitatamente se stessi, rappresentando la propria esistenza così com’è. La sola coerenza richiesta in questa autorappresentazione è l’adozione sistematica del criterio di fedele rispecchiamento dell’incoerenza dell’io. Diderot giudica invece insostenibile tale professione di spontaneità assoluta contrabbandata per sincerità e autenticità, a causa della sua incompatibilità con l’esistenza di una società civile. Nessuna società è possibile se gli individui che ne fanno parte rivendicano il diritto assoluto di pensare e agire assecondando i propri impulsi. Williams considera universale il bisogno di stabilizzare l’incostanza individuale mediante istituzioni sovraindividuali: la dimensione sociale è indispensabile per dare all’io la stabile continuità, che permetterà poi di esercitare la vera sincerità. Tagliapietra obietta però che su questo punto Williams non considera come dovrebbe la complessità del testo di Diderot, né dell’acuto commento di Trilling: «L’intreccio dialogico tra l’io e il nipote messo in scena da Diderot non intende presentare l’incontro comparativo fra due modelli di coscienza, quanto illustrare una dialettica interna alla stessa coscienza, uno slittamento dall’una all’altra che avviene quotidianamente nella vita del medesimo individuo» e quindi «ciò che la lettura di Diderot suggerisce non è tanto l’ambiguità della sincerità moderna, quanto la struttura concettuale dialettica della coscienza che vuol essere sincera» (p. 149).

La tensione conflittuale che si instaura in epoca moderna tra individuo e società riflette il tipo di individuo che oggi conosciamo — così come lo concepivano Rousseau e Diderot — ossia la sua posizione di entità interna alla società (che lo plasma in ogni caso rendendolo sociale, capace di confrontarsi con gli altri e docile alle consuetudini e direttive essenziali) e insieme esterna ad essa, perché spinto intimamente a opporsi e a resistere agli obblighi istituzionali percepiti come arbitrarie imposizioni. La società moderna e contemporanea sarebbe inconcepibile senza questa dialettica serrata tra individuo e società e, all’interno dell’individuo, tra la coerenza dell’io che aspira al riconoscimento sociale e l’insofferenza intima dello stesso io che vuole essere se stesso fino al punto di sbarazzarsi persino della propria identità, poiché avverte l’obbedienza alle norme sociali come un peso insopportabile e un ostacolo al raggiungimento di una condizione di autenticità. L’io contemporaneo in sostanza ha bisogno di rivendicare il diritto a insorgere contro la subordinazione agli obblighi sociali e di criticare il potere costituito e le istituzioni di cui pure ha bisogno per testimoniare la sua dissidenza a se stesso e al mondo. L’io contemporaneo in sostanza vive due tradimenti alterni, di se stesso quando si riconosce nell’altro e dell’altro quando non riconosce altri che se stesso. Solo l’autocoscienza in senso hegeliano permette di superare la contraddizione dell’io, giacché «la coscienza, tornando su se stessa, nega sia ciò che era stata nell’immediatezza della spontaneità, sia le imposizioni esterne» (p. 150). L’io quindi fa propria la condizione di punto di resistenza, colmando la differenza tra sé e la società che tuttavia riafferma ad ogni piè sospinto, sapendo che non potrebbe dirsi autentico se non per la reazione alle imposizioni esterne e non potrebbe essere un io che riceve imposizioni esterne se non per la ribellione alla pretesa ingenua di una spontaneità dell’io del tutto scissa dalla dimensione sociale.

Nella società odierna si assiste a una sorta di complicità tra veridicità e trasparenza da un lato e sincerità come autenticità dall’altro: da una parte la distruzione di ogni privacy e la legittimazione dell’intrusione panottica nell’intimità delle persone (con l’ausilio di giustificazioni tutte ispirate dall’esigenza di controllare gli individui trasformando il loro comportamento in automatismo prevedibile: lotta al terrorismo, alla droga, all’evasione fiscale, al trasferimento di fondi all’estero, ecc.); dall’altra la diffusione capillare delle forme più esibizionistiche e spudorate di spontaneità, dove la ricerca dell’autenticità approda alla giustificazione di ogni forma di rozzezza, stravaganza, autoesaltazione, assenza di limite, ciclopica arroganza e bestiale rapacità, in ogni senso possibile. Si assiste quindi al delirio blasfemo di un’autenticità sguaiata e gridata, assurta a cliché imposto da un modello sociale; e alla degenerazione di veridicità e trasparenza in annientamento di ogni spazio privato. In tal modo pubblico e privato subiscono un’orribile commistione, dove tutte le pulsioni private, purché non mettano in discussione gli assetti di potere consolidati, assurgono al rango di “diritti umani” e diventano pubbliche e degne di essere pubblicizzate, a riprova di democratica tolleranza delle idiosincrasie individuali; e dove la dimensione pubblica trasforma l’esigenza di veridicità in controllo permanente effettivo della vita privata e degli stessi pensieri delle persone. «Così l’individuo occidentale, commenta Tagliapietra, diventa una bestia da confessione, in cui, dissimulando l’inquisizione del potere che la esige, la verità mostra la sua autenticità grazie all’ostacolo e alle resistenze che deve eliminare per formularsi» (pp. 152-153). L’ingiunzione paradossale di essere spontanei, che il potere rivolge agli individui — ricordando loro che sono assolutamente liberi di pensare, di dire, di fare e mostrare ciò che vogliono — si trasforma in efficace strategia di persuasione e di controllo di soggetti che si illudono, anzi credono di avere le prove, di agire del tutto liberamente e di espletare le proprie scelte in una democrazia mercantile che il potere rappresenta — e impone — quale miglior modello possibile di organizzazione sociale e politica.

La trivialità esibizionista tuttavia è antitetica rispetto all’autenticità come la intende Amleto, per il quale ciò che ci appartiene ed è solo nostro non deve uscire da noi stessi, non deve mostrarsi. L’unicità e l’intimità da difendere non corrispondono a contenuti o vissuti, in virtù dei quali si è se stessi e non qualcun altro — contenuti e vissuti che, per lo più, sono gli stessi in tutti gli individui — ma poggiano sulla loro segretezza, sul loro nascondimento. Se l’autenticità vera coincide con l’avere in serbo qualcosa che nessuno conosce, che per definizione non può essere esposto e dissacrato, allora la sincerità come autenticità è esattamente l’opposto della spudoratezza, che tutto mette in scena, senza comprendere che l’illusione dell’autenticità radicale è un servizio reso al potere e al suo programma di controllo integrale delle coscienze. L’identità del soggetto, la sua unicità è una dimensione che rimane nascosta a lui stesso, separata dalla coscienza di se stesso. La documentazione che l’indagine scientifica, con l’ausilio di raffinate tecniche di analisi, può fornire del soggetto è sterminata, ma tutte le verità oggettive che si possono accumulare non costituiscono l’unicità esclusiva di un determinato soggetto, ma sono autenticamente sue solo in quanto sono «rappresentate, esperite e vissute come nascoste» (p. 155). La verità dell’io non è riducibile a meri dati esteriori, osservabili e classificabili; l’identità non è misurabile né oggettivabile, essa persiste solo nella misura in cui rimane nascosta e inconfessabile per il soggetto. La segretezza custodisce l’identità del soggetto, al di là e nonostante il progredire dell’analisi scientifica: «Questa segretezza del sé non è condizionata, ovvero sottoposta a determinate ragioni particolari di omertà e reticenza appartenenti all’ordine della volontà, ma incondizionata, legata a un limite strutturale che è generato dalla “cavità” semantica dell’individuo, dalla sua indisponibilità simbolica alla completa ed esaustiva esteriorizzazione» (p. 156). L’io insomma, come insegna Amleto, non è riducibile a un fatto definito e stabile. Tagliapietra cita Montaigne per tradurre in termini filosofici la posizione di Amleto e della sincerità come autenticità: «Se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi risolverei; essa è sempre in tirocinio e in prova» (p. 157). Contro la pretesa della filosofia analitica di ridurre l’identità personale a un dato osservabile e misurabile del corpo, della persona giuridica, della psiche, dell’interconnessione tra individui o dell’uso grammaticale della prima persona, la concezione di Montaigne dà man forte all’orientamento costruzionista, «per cui il sé singolare è il risultato di interazioni sociali, di riconoscimenti e di autoriconoscimenti che producono l’identità individuale sul piano sia biografico, sia dei ruoli, delle classi, dei tipi e dei generi culturalmente condivisi» (p. 158).

L’identità dunque non è un fatto ma una relazione. Come avvertiva Sartre, ogni volta che ci interroghiamo sulla nostra identità o su quella altrui, tendiamo a stabilire dei fatti, ma in tal modo non afferriamo alcuna vera identità dell’io, che non si lascia ridurre ad alcun fatto positivo, ma sempre trascende ogni orizzonte fattuale. La coscienza non è ciò che è stato, come le cose stesse. Se l’identità fattuale trascrive il passato, l’identità dell’io si volge al futuro, a ciò che essa non è. Paul Ricœur contrappone l’identità-idem delle cose che sono pensate come sempre uguali a se stesse (identità oggettiva), all’identità-ipse del soggetto che si prende cura della propria identità come di una promessa (p. 160). La storia della sincerità approda all’autenticità dell’io. Ma l’io autentico non decide la propria identità mediante lo sguardo riduzionista di una qualsivoglia teoresi: se così facesse, si risolverebbe; l’io deve invece saggiarsi, mettersi alla prova, ad esempio mediante la soluzione di enigmi, come avviene nella Turandot di Puccini o nell’Edipo re. La domanda dell’enigma non è posta per verificare un sapere nell’interrogato, ma il suo essere degno. «La domanda fondamentale del chi sono io veramente? Significa, allora, sono degno di ciò che è propriamente mio? Ovvero, come ci ha insegnato Heidegger in Essere e tempo, sono all’altezza di quell’essere-per-la-morte (Sein zum Tode) e di quell’essere-per-la-fine (Sein zum Ende) che caratterizzano l’autenticità (Eigentlichkeit) dell’esserci, vale a dire ciò che c’è di più proprio (eigensten) in ogni individuo (Essere e tempo, §§ 50-53)? » (pp. 161-162). Il senso della verità nascosta che determina l’identità di ciascuno — la ragione della segretezza trascendentale e incondizionata di verità che appartengono in esclusiva al soggetto — si rivela allora come la singolarità della morte che ciascuno può esperire come soltanto sua e che nessun altro può vivere. «Gli altri possono anche vedermi morto, ma non sanno nulla della mia morte» (p. 162). Non posso neppure pensare alla mia morte osservandomi come se fossi un altro, senza cadere nell’insincerità del si muore. Prendere sul serio la propria morte significa quindi scegliere la dimensione della sincerità consapevole e della sola vera autenticità, accogliendo quel limite che continuamente delimita la propria esistenza e trattiene da ogni velleitaria presunzione di essere un altro, di assumere un’identità impropria.

L’identità personale si regge sulla consapevolezza della finitezza ineludibile dell’esistenza in cui il soggetto è impegnato a creare quell’unità di senso che è la sua biografia. Rompere questa unità dell’io in una molteplicità dispersa di io, come nella ricostruzione di Parfit, significa togliere il fondamento di ogni responsabilità dell’io rispetto al passato e al futuro; all’io viene così assicurata una leggerezza amorale, conseguenza della sua inafferrabile vacuità ontologica. Ecco dunque come questa diluizione seriale del soggetto lo rende indefinitamente flessibile, in significativa convergenza e complicità ideologica, sul piano sociale e politico, con la compravendita globalizzata dei lavoratori privi di garanzie e senza futuro, avverte Tagliapietra: l’io flessibile «appare come il modello antropologico standard del capitalismo nella fosca fase assoluto-totalitaria che stiamo vivendo» (p. 164). All’io flessibile e disperso non è data la possibilità di creare il senso della propria unità biografica e della propria dignità come invece deve essere possibile all’io sincero, che sopporta di rimanere in un conflitto sempre in atto, capace di resistere alle sopraffazioni del potere e deciso ad affermare il proprio diritto di difendere un’identità di cui è fiero, minacciata sia dalla polverizzazione del soggetto contrabbandata come nuova frontiera identitaria, sia dalla prescrizione di un potere mercantile capitalistico che ha interesse a omogeneizzare i diversi io in tanti sosia dell’homo consumens.

Tagliapietra riprende il saggio di Marcel Mauss (che prese corpo da una conferenza che Mauss tenne nel 1938 al Royal Anthropological Institute di Londra), dedicato alla genesi della nozione di persona, idea eminentemente culturale. Nelle società primitive non esiste la categoria di persona come noi oggi la conosciamo, quanto invece quella di ruolo o personaggio che ciascuno rappresenta nella vita sociale e familiare. I personaggi sono tipi compresi nella mappa dell’universo e ciascun individuo entra in rapporto con essi mediante determinati riti. Le forme della personalità giuridica e sociale, che troviamo in particolare presso i Romani, derivano dall’archetipo del personaggio; la persona diventa così la vera natura dell’individuo in senso etnico, familiare e giuridico. Successivamente con gli stoici la persona è trasformata in fatto morale, poi il cristianesimo la risolve in entità metafisica, o sostanza, e per finire la filosofia moderna riconosce la persona come coscienza e identità psicologica (p. 169). Tagliapietra sottolinea il significato teatrale della persona, che Mauss tace intenzionalmente, per mettere in evidenza che l’artificialità consapevole della maschera ed estranea al vero io, esprimendo la scissione tra il personaggio archetipico e l’individuo come sé indipendente e potenzialmente anarchico e divergente, agisce come fattore di «liberazione euristica ed esistenziale» (p. 169). Non possiamo parlare di menzogna del teatro, il luogo dove tutto è finzione, e dove si consuma il paradosso dell’attore che, nella finzione della scena, finge tanto più, quanto maggiore è la sua capacità di immedesimazione; tanto più è sincero, quanto più restituisce la verità del personaggio in cui s’immedesima, scomparendo in lui, e che incarna, assorbendolo completamente in se stesso per farlo vibrare all’unisono. Quindi non di falsità si dovrà parlare a proposito del teatro, bensì di virtualità. La funzione del teatro e dei personaggi è fondamentale nella costruzione dell’identità e della verità di ciascuno, scrive Tagliapietra — «i personaggi come operatori di soggettività per i nostri riconoscimenti e per le nostre azioni, come operatori di personalità, che intervengono nella costruzione della nostra individualità e, infine, come operatori di contingenza, che dischiudono le prospettive etiche di vite immaginabili diversamente» (p. 171).

Lo spettatore riconosce nei personaggi e nella rappresentazione teatrale le circostanze accidentali della propria vita, apprezzandosi quindi per quello che è e non potrebbe non essere. Tutto ciò che accade a teatro ha il potere di obbligarci a prendere coscienza di noi stessi proprio attraverso la sensazione, trasmessa veracemente dall’attore al suo pubblico, che la realtà messa in scena sia la realtà pura e semplice, come ha osservato Erving Goffman. Nell’attore convivono i due poli, dell’individuo sincero e cinico, che tuttavia vanno considerati come momenti di quell’esperimento continuo e infinito che è la costruzione del sé, senza alcun riferimento necessario all’esistenza di una realtà indipendente in rapporto alla quale si possa decidere il vero o il falso. La costruzione del sé si regge sul doppio movimento della coscienza sincera che si concentra su se stessa mettendo in conto la propria dignità e si dirige verso gli altri per dire la verità. Nessuna verità può essere riconosciuta a ciò che si dice senza il coinvolgimento attivo nelle conseguenze pratiche e fattuali di ciò che si assume la responsabilità di dire. Il senso parresiastico della verità, quello che espone al rischio di perdere persino la vita, non è compatibile con una concezione analitica e meramente corrispondentistica della verità: se quello che dici è senza conseguenze sulla tua vita, allora non è né vero né falso. Foucault aveva ricondotto la figura del parrhesiastes degli antichi al «personaggio dell’eroe della verità, vale a dire di chi sa rischiare tutto per ottenere in cambio se stesso e la dignità di sé» (p. 172). L’idea che esista una verità indipendente, un’oggettività impersonale dei dati di fatto, è falsa o, per meglio dire, inautentica, se non si assiste alla convergenza di sincerità, veridicità e veracità nella stessa persona che si assume l’onere di dire la verità, denunciando e smascherando il carattere ideologico di determinate posizioni: «È la verità confezionata dall’ideologia del mercato globale quale presunto dispositivo neutro di garanzia per la compravendita universale di tutto e di tutti, che rafforza il potere e non lo contrasta» (p. 175).

Si potrebbe aggiungere, a conclusione di questa lettura del saggio di Tagliapietra, che una verità detta senza correre alcun rischio, con una sincerità che non provochi alcuna crudeltà verso se stessi e verso gli altri, è inutile come una tautologia. Se dico che in questo momento è giorno e sto scrivendo, la verità che dico non è in senso stretto una tautologia, ma è del tutto inoffensiva, inodore e insapore come qualsiasi proposizione tautologica. Anche un automa, se opportunamente programmato, potrebbe esprimere miliardi di verità incontrovertibili, ma del tutto irrilevanti e senza conseguenze per nessuno. Ma un automa non potrebbe mai assumersi la responsabilità morale delle conseguenze del suo dire, mentre sincerità e veridizione, come mostra l’interrogazione critica di Tagliapietra, non possono andare disgiunti dal coraggio e dalla dignità personale. In senso parresiastico, come ho mostrato in alcuni scritti contenuti nel volume L’apprendimento della vittima. Implicazioni educative e culturali della teoria mimetica (2003), la verità incontrovertibile dell’innocenza della vittima può essere difesa solo prendendo le difese della vittima, ovunque se ne presenti la necessità; ma colui che si assume l’onere della verità e si predispone in tal senso, accetta di farsi espellere a sua volta come vittima innocente.