Recensione a Giorgio Agamben, La comunità che viene

Giorgio Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001.

Il libro è la celebrazione dell’essere qualunque, l’essere che secondo Agamben si prospetta come il solo possibile. Il Qualunque è la categoria privilegiata da Agamben per la comprensione della realtà politica emergente. Il Qualunque non è né l’universale né il singolare, ma va oltre la falsa antitesi dell’ineffabilità dell’individuale e dell’intelligibilità dell’universale. La valorizzazione dell’individuo qualunque è possibile nell’amore, dove la persona è amata non per certi suoi attributi o in nome della sua appartenenza al genere umano, ma solo ed esclusivamente per il fatto che è tal quale e non un’altra (p. 10). L’antinomia dell’individuale e dell’universale si comprende in rapporto al linguaggio. Da un lato il termine linguistico, dall’altro gli individui che appartengono alla classe denominata da quel termine. Il concetto di albero non è un albero e nessun albero particolare coincide con il genere albero. Nella lingua lo iato tra universale e individuale genera infiniti paradossi. Agamben indica nell’esempio il concetto che sfugge all’antinomia dell’universale e del particolare. L’esempio infatti si caratterizza per il fatto che esso vale per tutti i casi dello stesso genere ed è al tempo stesso compreso tra questi stessi casi, quindi è insieme universale e particolare. L’esempio è il più comune, come paradigma dell’essere qualunque. Le singolarità pure dell’esempio non sono legate da alcuna proprietà comune, da alcuna identità. L’onnivalenza dell’essere qualunque caratterizza gli esemplari della comunità che viene (p. 14). Nell’essere qualunque la trascendenza è immanenza pura. Agamben propone di intendere il termine maneries, termine della logica medievale usato da Roscellino e da Giovanni di Salisbury e dall’etimo incerto, quale termine che designa un esemplare, vale a dire una singolarità qualunque. Secondo Agamben il termine maneries deriverebbe non da manere, ma da manare e indicherebbe l’essere nella sua sorgività, l’essere che è il suo modo di essere, che non ha bisogno di rinviare ad altro da sé, sopra o sotto se stesso. In questo modo è possibile concepire il superamento della scissione tra essenza e individuo, sostanza e accidenti — scissione che rende inintelligibile sia l’universale (ridotto a sua volta a individuo singolare) che l’individuale (espropriato della sua ragion d’essere e divenuto quindi inqualificabile): infatti l’esemplare, l’essere qualunque è «l’essere che non resta sotto se stesso, che non si presuppone a sé come un’essenza nascosta, che il caso o il destino sospingerebbero poi nel supplizio delle qualificazioni, ma si espone in esse, è senza residui il suo così, continuamente generato dalla propria maniera» (p. 28). Il superamento della scissione di universale e singolare, secondo Agamben, è la condizione della sola etica possibile: «etica è la maniera che non ci accade né ci fonda, ma ci genera» (ibidem). L’essere qualunque non è replica, ripetizione, né espressione parziale di un’essenza destinata a rimanere nascosta o invisibile. Esso è invece tutto ciò che deve essere, non ha nulla prima o fuori di sé.

Richiamando il De anima aristotelico in cui si dice che il pensiero non è solo potenza di pensare, ma anche potenza di non pensare questo o quell’intelligibile (altrimenti trapasserebbe immediatamente nell’atto e sarebbe inferiore al proprio oggetto, mentre il pensiero è essenzialmente potenza pura, cioè anche potenza di non pensare e solo così può rivolgersi a se stesso, alla sua pura potenza), Agamben spiega che l’essere qualunque è non solo potenza di essere, ma anche potenza di non essere. Bartleby è la figura di questo essere qualunque, che non si limita a smettere di scrivere, ma «preferisce di no», ossia «non scrive nient’altro che la sua potenza di non scrivere» (p. 35).

L’essere qualunque, che respinge la separazione artificiosa di universale e individuale, è incompatibile con un’etica che prescriva all’uomo di realizzare una qualche essenza, una vocazione storica o spirituale o una meta biologica. Il proprio dell’uomo è quello di essere la sua stessa potenza o possibilità. E l’etica diventa possibile a partire da questa possibilità di essere e di non essere. L’uomo, essendo potenza (di essere e non essere), manca del fondo sostanziale che gli assegnerebbe tutto ciò che deve essere come se da sempre possedesse il proprio essere determinato al modo di un destino o di un carattere. Ma proprio perché l’essere dell’uomo è la sua stessa potenza, egli si sente in debito. «L’uomo, essendo potenza di essere e di non essere, è, cioè, già sempre in debito, ha già sempre una cattiva coscienza prima di aver commesso alcun atto colpevole» (p. 40). L’uomo manca a se stesso e il solo dovere è di essere la propria potenza, di vivere la propria possibilità. Questa è la radice del male, mentre l’etica tradizionale interpreta il male come un atto che l’uomo avrebbe commesso nel passato. La cattiva coscienza dell’uomo non dipende da un peccato particolare, da un atto colpevole, ma dalla struttura trascendentale della sua esistenza, che è possibilità o potenza di essere e di non essere. La coscienza della colpa, il sentirsi colpevole alla radice, coincide con l’autocomprensione di un essere il cui compito è quello di essere la propria potenza (ibidem).

Le aporie che Russell ha preteso di risolvere con la teoria dei tipi si possono superare solo con una teoria delle idee, che penetri la natura esatta dell’essere linguistico. L’antinomia delle classi che non contengono se stesse come elementi dipende dal fatto che l’universale, l’idea, è concepito insieme come individuo membro di una classe e come universale designato da un termine linguistico. In questa seconda accezione l’universale in realtà si riduce al suo essere linguistico, cane coincide con l’»essere-detto-cane» di qualsiasi cane. Se fosse qualcosa di separato dal suo essere linguistico, l’universale diventerebbe un individuo, una singolarità e dunque non sarebbe più utilizzabile come predicato. Agamben preferisce richiamarsi ancora una volta ad Aristotele: «Sinonimi sono, per Aristotele, gli enti che hanno lo stesso nome e la stessa definizione: come dire, i fenomeni in quanto membri di una classe consistente, in quanto, cioè, attraverso la partecipazione a un concetto comune, appartengono a un insieme. Questi stessi fenomeni, che stanno tra loro in rapporto di sinonimia, diventano però omonimi se considerati rispetto all’idea (omonimi si dicono, secondo Aristotele, gli oggetti che hanno lo stesso nome, ma diversa definizione). Così, i singoli cavalli sono sinonimi rispetto al concetto cavallo, ma omonimi rispetto all’idea del cavallo: proprio come, nel paradosso russelliano, lo stesso oggetto appartiene e, insieme, non appartiene a una classe» (p. 60). Secondo Agamben l’aver nome, l’essere nel linguaggio di un oggetto, non può essere nominato, né mostrato, ma solo ripreso attraverso un movimento anaforico. L’idea in sostanza non può avere nome proprio: «L’idea di una cosa è la cosa stessa» (p. 61). L’idea è l’elemento rispetto al quale il sinonimo è omonimo, perché tra il cavallo reale e l’idea di cavallo c’è la mera identità del nome, ma vige una differenza massima sul piano della definizione (l’idea di cavallo non è una cosa singolare, mortale, ecc.). Ebbene l’idea, «ciò rispetto a cui il sinonimo è omonimo, non è né un oggetto né un concetto, ma è il suo stesso aver-nome, la sua stessa appartenenza, o il suo essere-nel-linguaggio» (ibidem).

Agamben delinea la nuova politica della singolarità qualunque come la politica che viene. «Poiché il fatto nuovo della politica che viene è che essa non sarà più lotta per la conquista o il controllo dello stato, ma lotta fra lo stato e il non-stato (l’umanità), disgiunzione incolmabile delle singolarità qualunque e dell’organizzazione statale» (p. 68). Le singolarità qualunque non possono formare alcuna società, non hanno alcuna identità da proporre, non dichiarano alcuna appartenenza. Seguendo Badiou, Agamben sostiene che lo stato non si fonda su e non esprime il legame sociale, ma si fonda sull’annullamento del legame sociale, che vieta. Lo stato è essenzialmente il divieto di scioglimento del legame sociale. Quindi lo stato presuppone non un legame sociale di cui sarebbe espressione e tutore, bensì un’assenza di identità; esso è preceduto dalla singolarità qualunque come negazione di ogni identità e appartenenza, di ogni subordinazione del singolare all’universale. Lo stato, dato che la sua essenza consiste proprio nella divaricazione di individuale e universale ed espleta la sua funzione affermando questa universalità che tuttavia non ha alcuna ragione d’essere, deve temere più di qualsiasi altra cosa proprio la singolarità qualunque, quella che non dichiara alcuna appartenenza, che non si fregia di alcuna identità. La singolarità qualunque è la negazione del legame sociale, l’indifferenza prepolitica rispetto allo stato, l’attestazione della sua superfluità. Per questo lo stato può riconoscere qualsiasi dichiarazione d’identità al suo interno, anche quella terroristica, anche quella di un’identità statale al suo interno, ma non può tollerare che delle singolarità qualunque costituiscano una comunità senza rivendicare un’identità. Lo stato non può ammettere che degli individui, delle singolarità qualunque, co-appartengano, come scrive Agamben, senza rappresentare la condizione di tale appartenenza. Lo stato ammette al suo interno solo altre identità, ma non individui privi di identità, dato che «per esso, rilevante non è mai la singolarità come tale, ma solo la sua inclusione in una identità qualunque» (ibidem). Per lo stato un essere singolare privo di una identità dichiarata e rappresentabile sarebbe assolutamente irrilevante. Secondo Agamben, il dogma della sacralità della nuda vita e dei diritti dell’uomo (falso proprio perché la nuda vita, la vita qualunque, è esposta all’annientamento) ha il compito di nascondere proprio questa irrilevanza della singolarità qualunque. Non esiste alcun uomo qualunque, per lo stato, che possa far valere dei diritti, giacché lo stato può riconoscere (ma, Agamben dovrebbe aggiungere, anche negare) dei diritti e rivolgere la propria attenzione e tutela solo ai soggetti che dichiarano un’identità, l’appartenenza a un universale. La condizione affinché degli individui siano riconosciuti dallo stato in qualsiasi forma (ammissione, tutela, ma anche persecuzione e repressione) è quella dell’identità di appartenenza.

Ritorna qui la tesi di fondo di Homo sacer, l’opera in cui Agamben riprende il senso che il termine possiede nel diritto romano: sacer è essenzialmente colui che, escluso dalla comunità degli uomini e non potendo essere sacrificato perché privo di un riconoscimento e dell’attribuzione della benché minima funzione sociale (chi viene sacrificato è riconosciuto come appartenente a pieno titolo alla comunità dalla quale pure è ritualmente espulso), può essere ucciso senza che l’uccisore possa essere accusato di omicidio. L’assassinio degli ebrei (la nuda vita che può essere uccisa, ma non sacrificata, senza che nessuno possa essere incriminato) così come quello di altri popoli, non è stato classificato come omicidio, ma come delitto contro l’umanità. Seguendo il ragionamento di Agamben, per lo stato l’uccisione di coloro che sono stati privati di qualsiasi identità — l’annientamento della nuda vita — non è perseguibile come l’omicidio. Assassinio senza nome della nuda vita, lo sterminio degli ebrei come pulizia etnica appare agli occhi dello stato come un’attestazione della propria identità, non come un omicidio all’ennesima potenza. D’altra parte Agamben concederà che la singolarità qualunque può essere difesa dall’annientamento al quale è esposta la nuda vita priva di riconoscimento solo nella misura in cui la stessa singolarità qualunque riconosce un’appartenenza qualsiasi: essa può rivendicare un diritto qualsiasi solo nella misura in cui riconosce l’esistenza di un qualche soggetto istituzionale (non un’altra singolarità qualunque) che si faccia carico di quel diritto, che lo renda esecutivo ed efficace. Secondo Agamben, «la singolarità qualunque, che vuole appropriarsi dell’appartenenza stessa, del suo stesso essere-nel-linguaggio e declina, per questo, ogni identità e ogni condizione di appartenenza, è il principale nemico dello stato. Dovunque queste singolarità manifesteranno pacificamente il loro essere comune, vi sarà una Tienanmen e, prima o poi, compariranno i carri armati» (p. 69).

Chiediamo ad Agamben se la singolarità qualunque coincide con la nuda vita che non può essere sacrificata, ma può essere uccisa senza che si commetta omicidio. Se sì, allora la condizione di singolarità qualunque appare insostenibile, essendo incompatibile con l’esistenza e il funzionamento dello stato. Nei ragionamenti di Agamben non si distingue tra diverse forme di stato e di governo, come se non ci fosse alcuna differenza tra lo stato nazista e quello democratico. Agamben parla dello stato come se fosse un’essenza sempre presente ovunque ci sia lo stato: tutto o niente, prendere o lasciare. Ma la fenomenologia delle forma stato non sembra così monolitica. Per quanto riguarda la figura dell’homo sacer, che Agamben riconduce al diritto romano, si tratta di capire se, effettivamente, la nuda vita possa essere tutelata e sottratta all’annientamento negando la forma stato di cui sarebbe una conseguenza necessaria. Chiediamo ad Agamben: la singolarità qualunque ha il diritto di essere riconosciuta come tale? Se non ha questo diritto, allora l’antitesi con lo stato assumerà la forma retorica della contestazione antiborghese dei borghesi che già conosciamo, quella in cui lo stato è rappresentato come nemico oppressore della libertà individuale, come un mostro che cerca di inghiottire la società civile (e intanto i borghesi contestatori godono di tutti i vantaggi di questo stato che li stritola, a loro dire, a cominciare dalla difesa del loro patrimonio, dei privilegi e delle prebende di casta). Se la singolarità qualunque non ha e non può avere il diritto di essere riconosciuta come tale, il libro di Agamben può intendersi come uno sfogo esistenziale, un esercizio ludico di fustigazione moralistica e di intelligente riapertura della contestazione. Se invece la singolarità qualunque ha il diritto di essere riconosciuta e tutelata come tale, allora egli dovrà ammettere che deve esistere un qualche polo pubblico e istituzionale del riconoscimento e della sua negazione. L’opposizione tra stato e non-stato che Agamben sostiene ed elabora con innegabile finezza, è tuttavia viziata dal presupposto che la forma dello stato sia unica, derivi dal diritto romano e sia immodificabile come un destino. Crediamo che pensare la singolarità qualunque al di fuori della politica significa pensare la politica fuori della politica, significa giocare sull’equivoco che possa esistere una società civile, una qualsiasi comunità priva di un qualche ordinamento statuale e di un benché minimo ordinamento giuridico. La sfida è invece quella di promuovere la trasformazione dello stato e del diritto in modo che possa includere e non escludere la nuda vita; uno stato rispetto al quale lo sterminio torna ad essere un omicidio o, meglio, uno stato che rende impossibile qualunque sterminio.