Silvano Zucal, Lineamenti di pensiero dialogico, Morcelliana, Brescia 2004, 218 pp., € 17,50.
Nei suoi sette capitoli il volume discute e approfondisce il senso e le implicazioni dello statuto della parola nel suo rapporto con la relazione dialogica Io-Tu. In sotterranea antitesi rispetto a una filosofia del linguaggio che tratta le parole come cose da smembrare in analisi sofisticate e spesso inconcludenti, il volume chiama in causa una inedita filosofia della parola, che indaga le condizioni di possibilità della parola autentica, quella che «trova il suo senso solo nella simbiosi assoluta e totale con la vita» (p. 12). Richiamandosi a María Zambrano, Zucal avverte che parola e linguaggio sono abissalmente diversi. La parola è rivelazione nella sua dimensione trascendente, mentre il linguaggio, simile al sistema di comunicazione degli animali, ne rappresenta in qualche modo lo stadio di perfezionamento. Se il linguaggio è contingente, storicamente determinato e muore prima o poi come qualsiasi fatto storico, la parola trae il proprio significato dalla sua relazione con la trascendenza. Alla deriva nichilistica della parola e alla perdita della sua capacità di redimere si può rimediare unicamente, insegna Zambrano, attraverso il mutamento del paradigma razionale dominante. La parola perde il suo senso nell’epoca della ragione sistematica, dell’ipertrofia dell’intelletto che si compiace di astrarre e produrre concetti che non hanno alcun rapporto con la vita. Alla ragione filosofica, con cui l’intelletto cerca di asservire la realtà vivente, Zambrano oppone la ragione poetica, in cui il poeta si fa schiavo della parola e la coltiva per farla scaturire e sviluppare in tutta la sua pienezza. Se la ragione filosofica, facendo violenza alla realtà, pretende di inquadrare e definire lo «stato delle cose» secondo la regola dell’incontraddittorietà, la ragione poetica aspira a sondare il vivente in tutto ciò che di oscuro, incoerente, disarmonico giace nelle sue profondità. La parola redenta è solo la parola divina, mentre la parola irredenta è quella sacra, irrigidita nelle formule rituali e ideologiche. Se il passaggio soteriologico dal sacro al divino non si compie, ammonisce la Zambrano, allora si assiste alla catastrofe totalitaria, alla tragica disumanizzazione: «tutti i totalitarismi sono nati da una mancata metamorfosi, dalla prigionia nel sacro e nelle sue liturgie verbali» (p. 19). La potenza di astrazione della parola filosofica ha sedotto gli intelletti ma non ha portato la salvezza della parola di Gesù, Logos incarnato la cui parola carnale, aderendo perfettamente alla terra, libera, risana, compie miracoli. La ragione filosofica toglie le contraddizioni, la parola del Cristo le assume al suo interno e le rivive rimanendo fedele all’umano.
La parola autentica presuppone la relazione dialogica, che Ferdinand Ebner pone al centro della sua riflessione. Ebner ha visto con lucidità ed efficacia incomparabili l’assurdità della pretesa dell’io di fondarsi unicamente su se stesso. L’essere-per-sé dell’io nella sua solitudine non è un fatto originario, ma solo il risultato di una chiusura e di un distacco dal Dio-Tu. L’ostinazione dell’io che non riconosce il carattere dialogico-relazionale-verbale della propria natura porta al fallimento dell’unico rapporto possibile, quello costitutivo Io-Tu. La situazione dell’io barricato in se stesso è la solitudine della morte che trasforma in condizione definitiva la solitudine spirituale che l’io deve attraversare per mettersi in relazione con il Tu divino. Murato nella solitudine della morte, l’io egoistico-egocentrico non si rende conto che può darsi solitudine (Einsamkeit) solo in rapporto alla tuità (Duhaftigkeit) (pp. 34-35). Il significato del nome e dell’imposizione del nome assume notevole rilievo nella riflessione di Ebner: «solo nel momento in cui impongo il nome a qualcuno e poi anche lo chiamo per nome, ne attesto l’esistenza (imposizione del nome) e ne riconosco l’esistenza (chiamata per nome)» (p. 51). Se la semiotica, la filosofia del linguaggio, la linguistica come scienze del linguaggio e dei segni danno per acquisito il carattere arbitrario del significante in rapporto al significato, la filosofia della parola di Ebner, rivisitata con competenza filologica da Zucal, adotta invece il paradigma opposto della motivazione: infatti il nome, nominando qualcuno, gli conferisce un’esistenza che trascende la mera sussistenza biologica. Il nome, connesso etimologicamente a gnôsis, possiede una potenza che è insieme semantica e ontologica (p. 53). I segni linguistici sono indeterminati, generici — funzionano come schemi di reazione — mentre il nome è il riconoscimento di un essere nella sua singolarità determinata. Eugen Friedrich Moritz Rosenstock-Huessy mette in chiaro la differenza essenziale tra parole e nomi: «le parole servono all’uomo per parlare di qualcosa mentre i nomi servono per parlare a qualcuno» (p. 60). Il nome che l’uomo porta dalla nascita è ciò che distingue la sua risposta alla chiamata divina. Il linguaggio per Rosenstock-Huessy dunque non è un insieme di segni, un repertorio e uno strumento di designazione o denotazione, al contrario consiste in nomi (Namen), che sono un appello e un’indicazione rispetto al compito che attende ancora il portatore del nome.
La dialettica della relazione Io-Tu si collega strettamente all’analisi che Romano Guardini propone del concetto di persona in tutta la sua opera. Zucal mostra come la ricerca di Guardini muova in due direzioni: contro il personalismo attualistico di Max Scheler (per il quale la persona non solo si attua nella relazione dialogica Io-Tu, ma sussiste esclusivamente come termine di quella relazione); e contro l’individualismo, che riduce la persona all’individuo, il quale può andare incontro al Tu ma può anche evitare la relazione dialogica (p. 84). Per Guardini infatti la persona non può sussistere senza la relazione dialogica, ma non si risolve in essa, dacché la persona è anche individuo. La dimensione relazionale di persona è essenziale proprio perché il linguaggio umano non è un mero strumento, ma assume una rilevanza pneumatologica. La vita esteriore e interiore, l’attività dello spirito si attua solo nella parola e lo stesso pensiero è parola interiore, come avverte la felice ambiguità semantica del logos. Grazie alla parola le cose vengono all’essere: «tutte le cose sono parole di Colui che crea e crea parlando per cui le cose in veste verbale sono dirette alla persona, a chi “ha orecchi per udire”» (p. 89). Il carattere intimamente dialogico della persona è colto da Ebner con inaudita profondità e originalità indicando il pensiero originario del pensare umano (Urgedanke des menschlichen Denkens) come pensiero che pensa Dio (Der Gottgedanke) (p. 101). Il pensiero è dunque originariamente in relazione con il Tu, l’Einsamkeit già da sempre correlata alla Duhaftigkeit, il pensiero è originariamente e da sempre parola. La parola autentica è quella che fa uscire dall’autosolipsismo dell’Io (Icheinsamkeit), che libera dalla prigione dell’autoinganno e riattiva la relazione originaria con il Tu divino. La radice della fede è in questo intimo originario «sapere Dio» (Wissen um Gott). Non i miracoli conducono alla fede, ma il miracolo della parola autentica con il suo potere di instaurare la relazione dialogica con il Tu divino. L’uomo infatti crede nel miracolo solo se possiede già in sé il «sapere Dio». Il solo vero miracolo è il miracolo della parola e la fede è fede nella parola, comprensione della parola non solo attraverso i sensi ma con lo spirito (p. 112). In Ebner il Cristo-Logos appare come il mediatore della relazione dialogica. L’uomo possiede il «sapere Dio» e conquista la comprensione di sé solo grazie alla parola, che gli sopraggiunge da Dio; ciò comporta la fede nel Cristo che interviene come Dio fatto uomo, come incarnazione della parola. La parola divina è ri-donata e ri-attualizzata dal Cristo: «Cristo è il “farsi incontro di Dio” quale Tu dell’uomo nella Parola che “purifica” l’umana parola e grazie a cui l’uomo può risollevarsi dalla trasognatezza e dallo smarrimento della propria vita spirituale abitata dalla parola-chiacchiera» (p. 117). Solo il rapporto con il Tu divino è decisivo per l’identità dell’io. Ebner e Buber colgono lucidamente l’insufficienza di ogni relazione umana che non sia sorretta dal rapporto con un Tu eterno. Zucal mostra le complesse articolazioni del rapporto tra la «teologia» della dialogica e la «filosofia» della dialogica nell’opera di Hans Urs von Balthasar (pp. 128-135), il quale vede nel fallimento del dialogismo filosofico l’esito inevitabile dell’assenza di un fondamento trascendente del rapporto umano io-tu.
Nel capitolo conclusivo Zucal ripropone la riflessione della Zambrano sul tema della liturgia — il dialogo cultuale con Dio. Zambrano e Guardini concordano sul fatto che la liturgia va rimpicciolendosi fino a scomparire, lasciando la vita nuda — una nudità che appare insopportabile perché significa disperazione. La morte della liturgia provoca un sentimento di impotenza. Zucal vede nella mancanza di stupore la causa della stanchezza e dell’aridità dell’atto cultuale (battesimo, matrimonio, eucarestia domenicale) e cita ad esempio negativo don Giacomo (personaggio di un romanzo di Mario Pomicio, L’uccello nella cupola) che celebra l’azione liturgica senza più stupore. Lo stupore ha in sé la dimensione della sorpresa e della visitazione. La liturgia è anche epifania, segno, manifestazione della gloria di Dio che brilla immensamente. Con Guardini Zucal denuncia lo smarrimento progressivo della capacità di visione epifanica e della competenza simbolico-liturgica. In un deserto liturgico che avanza sempre più «la contemporaneità è esposta ad una duplice deriva: concettualistico-astratta da un lato e sensitivistico-sensualistica dall’altro» (p. 184). Infine la liturgia è anche gioco, giacché l’atto cultuale è la negazione dell’utilità strumentale. Il gioco non è mancanza di serietà, nessuno è più seriamente impegnato di un giocatore alle prese col suo gioco. Rispetto al gioco autentico della liturgia, il gioco finto dell’industria delle vacanze appare come un mezzo per occupare il tempo libero, per estendere la costrizione del lavoro anche alla vacanza. La perdita del gioco significa la perdita della libertà. La liturgia è il luogo del gioco autentico: compiendosi, essa basta a se stessa. Opposta alle attività umane sempre condizionate dallo scopo di cui sono strumenti di realizzazione, la liturgia è attività essenzialmente ludica che va ricercata e celebrata per se stessa. Zucal ricorda che Tommaso d’Aquino, richiamandosi ad Aristotele, pone l’ideale della pienezza umana nella levità ludica (eutrapelía), che è la capacità di giocare in modo autentico. Tale virtù è il giusto mezzo tra il bomolòchos (il buffone che si sforza di suscitare allegria a ogni costo) e l’ágroikos (il burbero serioso). «Oggi, commenta Zucal, siamo pieni di uomini-bomolòchos o di uomini-ágroikos, di buffoneria indotta e di maschera seriosa e indisponente, buffoni dunque o maschere incupite, mentre l’eutrapelía, come dice Hugo Rahner, è in larga parte perduta, si è smarrita la capacità di saper giocare, la vera competenza ludica» (p. 202).