Giorgio Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, 120 pp., € 12,00.
Il paradosso dello stato di eccezione, che Carl Schmitt ha colto nella sua relazione stretta con la sovranità, consiste nel fatto che «lo stato di eccezione si presenta come la forma legale di ciò che non può avere forma legale» (p. 10), perché i provvedimenti assunti al suo interno sono necessariamente privi di riferimento al diritto. Tuttavia, osserva Agamben, lo stato di eccezione non è affatto eccezionale, dal momento che il diritto può riferirsi alla vita concreta solo a condizione di sospendersi in tutto o in parte. Lo stato di eccezione è paradossale quindi nella stessa misura in cui lo è il rapporto tra vivente e diritto. La sospensione del diritto attraverso lo stato di eccezione può essere implicita o esplicita. Un governo può emanare disposizioni che sospendono i diritti individuali. Si tratta di capire se lo stato di eccezione possa essere disciplinato giuridicamente. Infatti tutto ciò che è sottoposto a disciplina giuridica non ha più alcun carattere di eccezione; perciò uno stato di eccezione, per essere veramente tale, non dovrebbe essere né proclamato, né revocato, ma dovrebbe semplicemente sussistere di fatto. Dovrebbe essere indeterminabile. Ma se fosse indeterminabile, sarebbe definibile e riconoscibile in termini oggettivi? Quanti dubbi sorgerebbero su uno stato di eccezione che i difensori dell’ordine costituito potrebbero avere buon gioco a negare, indicando la denuncia dello stato di eccezione come uno stratagemma che mira a delegittimare e togliere di mezzo il governo in carica?
Sono molti gli interrogativi che suscita questo competente saggio di Agamben. Vediamo che oggi sempre più diventa tecnica di governo il ricorso a misure eccezionali, a provvedimenti provvisori. Lo stato di eccezione si presenta come il paradigma di governo che domina la politica contemporanea, costretta a fronteggiare minacce sempre più terribili con mezzi e strategie eccezionali, ricorrendo sempre più a decisioni che non sono legittimate né autorizzate dalla norma costituita. Lo stato di eccezione è una categoria non solo ibrida, ma anche insidiosa. Infatti se da una parte il totalitarismo si può considerare come l’instaurazione di una guerra civile legale che, attraverso lo stato di eccezione, mira all’eliminazione fisica di tutti coloro che non possono essere integrati nello stato, dall’altra non si può non riconoscere che qualsiasi decisione politica, in quanto non riducibile a un atto di mera applicazione della norma, comporta un qualche stato di eccezione. Ora, dal momento che la mera applicazione della norma non è possibile senza una decisione, si dirà che lo stato di eccezione è una condizione permanente e intrinseca di ogni atto politico? Ma se la mera applicazione della norma, l’assimilazione pacifica e regolare della vita nel diritto è solo una finzione astratta, lo stato di eccezione diventa la norma e quindi scompare come stato di eccezione.
Agamben ricorda che lo stato di eccezione subisce un trattamento diverso nelle tradizioni giuridiche dell’occidente. Vi sono infatti ordinamenti che regolano lo stato di eccezione nella stessa costituzione o mediante una legge (come la Francia e la Germania) e ordinamenti che ne omettono la regolamentazione (quali l’Italia, la Svizzera, l’Inghilterra e gli Stati Uniti). Anche gli studiosi si dividono tra coloro che raccomandano una previsione costituzionale dello stato di eccezione e altri, come Carl Schmitt, che condannano tale pretesa di conferire veste giuridica a qualcosa che esula per definizione dal diritto e riguarda esclusivamente la politica (pp. 19-20). Sostenendo l’impossibilità di assimilare lo stato di eccezione al diritto attraverso una sua regolamentazione per legge, si difende di fatto non solo l’autonomia della sfera politica da quella giuridica, ma si legittimano tutti gli atti politici che, pur essendo evidenti violazioni del codice (penale e civile), rimangono in uno stato di indeterminazione sul piano giuridico solo per il fatto che sono stati commessi nell’ambito dello stato di eccezione. Per di più, va osservato l’ulteriore paradosso che lo stato di eccezione finisce così con l’assumere la funzione non giuridica ma metagiuridica di legittimare e quindi assolvere qualsiasi atto e provvedimento che ricada all’interno del suo arco temporale. Quindi, sembra di poter concludere che se si rinuncia a regolare per legge lo stato di eccezione, esso diventa a sua volta una norma regolatrice, la norma per cui la politica è superiore al diritto e all’etica pubblica di cui il diritto rappresenta la traduzione istituzionale, convalidata dalla volontà generale (per usare un’espressione del Contratto sociale). Coloro che difendono l’opportunità di regolamentare lo stato di eccezione prevedendolo nella stessa costituzione potrebbero considerare tale inclusione una valida garanzia contro ogni rischio di ricaduta nella barbarie del totalitarismo. Essi difendono in sostanza la necessità di legittimare la resistenza anche armata contro ogni tentativo di sospendere le garanzie costituzionali e di instaurare uno stato di eccezione che aprirebbe la strada alla dittatura. A questo scopo, la migliore misura preventiva consiste nell’ancorare ogni decisione politica a una norma esplicita dell’ordinamento giuridico-costituzionale, di cui tale decisione deve configurarsi il più possibile, soggettivamente e oggettivamente, come mera applicazione della norma condivisa. Ma, dal momento che anche la previsione dello stato di eccezione è una norma, è sempre possibile che essa sia invocata dagli oppositori per deligittimare le decisioni politiche del governo in carica.
Il problema dunque è molto serio, nonché di grande attualità. Lo stato di eccezione sconta il suo carattere contraddittorio perché in ogni caso (sia o non sia previsto nella costituzione) comporta non solo una qualche sospensione dell’ordinamento giuridico ma anche una sua integrazione. Ogni decisione politica è un piccolo stato di eccezione: fa riferimento a una norma, ma interpretandola e applicandola la viola, la stravolge, la trascende. Infatti la cosiddetta forza di legge non esiste, è un’espressione assurda, perché la legge da sola non si applica. Il sovrano applica la legge mediante la decisione, ma al tempo stesso decide lo stato di eccezione. Il rapporto che Schmitt istituisce tra sovranità e stato di eccezione si spiega col fatto che il sovrano, decidendo lo stato di eccezione, lo mantiene inserito in qualche modo nell’ordine giuridico (p. 47). Lo stato di eccezione che è intrinseco a ogni decisione politica è tuttavia diverso dallo stato di eccezione che sospende l’ordinamento costituzionale (o gran parte di esso) allo scopo di istituirne uno nuovo. Ogni potere costituente deve tuttavia conservare, secondo Schmitt, un «“minimo di costituzione” iscritto in ogni azione politicamente decisiva ed è pertanto in grado di assicurare anche per la dittatura sovrana la relazione fra stato di eccezione e ordine giuridico» (p. 46). Norma e decisione sono sì autonomi e distinti, ma insieme anche inestricabilmente connessi: nessuna decisione può fare a meno di una norma (da applicare, da sospendere o da istituire) e nessuna norma può esistere se non in vista della decisione che la rende operativa ed effettuale nella vita associata. Il caso estremo di eccezione sembra fare a meno della norma nel momento in cui la cancella, ma di fatto esso conserva una certa accessibilità giuridica sia per il rapporto di esclusione che instaura con la norma esistente, sia per la relazione con una norma implicita che viene fatta valere a giustificazione dello stato di eccezione e che, in un secondo momento, può a sua volta essere posta dal potere costituente che ha proclamato lo stato di eccezione.
Un’indagine sull’istituto del iustitium (che Aulo Gellio chiama iuris quasi interstitio quaedam et cessatio) permette all’autore della ricerca di formulare alcune conclusioni. La prima è che lo stato di eccezione non può essere assimilato a una dittatura e che sono quindi prive di fondamento le teorie che pretendono di inserire lo stato di eccezione nel diritto (sia ponendo la necessità come fonte giuridica originaria, sia iscrivendo nel diritto lo stato di eccezione, giustificandolo, come fa Schmitt, in base alla distinzione fra norme di diritto e norme di attuazione del diritto, fra potere costituente e potere costituito). Agamben infatti considera autonome e distinte norma e decisione, talché lo stato di eccezione rimane inaccessibile al diritto e incompatibile con il diritto. La seconda conclusione è che lo stato di eccezione, pur essendo uno spazio vuoto del diritto, è tuttavia essenziale all’ordine giuridico, che non potrebbe esistere se non fosse costituito mediante una decisione e quindi la trasformazione o l’annullamento di un ordinamento giuridico preesistente. In terzo luogo è problematica la natura degli atti commessi durante il iustitium, che sfuggono per definizione a ogni definizione giuridica. Infatti, essendo stata sospesa la norma, tali atti non possono essere né trasgressivi, né esecutivi, né legislativi. In quarto luogo, questa specie di non-luogo giuridico emana pur sempre una forza o un elemento mistico: «la forza-di-legge separata dalla legge, l’imperium fluttuante, la vigenza senza applicazione e, più in generale, l’idea di una sorta di “grado zero” della legge, sono altrettante finzioni attraverso le quali il diritto tenta di includere in sé la propria assenza e di appropriarsi dello stato di eccezione o, quanto meno, di assicurarsi una relazione con esso» (p. 67).
Il vuoto giuridico rappresentato dallo stato di eccezione è una questione di vitale importanza per la sopravvivenza delle comunità umane, poiché riguarda direttamente la violenza e il suo rapporto con il diritto. Infatti c’è una violenza che, essendo extra-giuridica nello stato di eccezione, non è né permessa né proibita, semplicemente accade in modo anomico: è la violenza pura che non può essere in alcun rapporto con il diritto, se il diritto è sospeso mediante lo stato di eccezione e se lo stato di eccezione è tale da porsi al di fuori dell’ordine giuridico-costituzionale e non conserva un qualche grado minimo di costituzione che lo legittimi in qualche misura minima sul piano giuridico-costituzionale. Ma le cose sono complicate dal fatto che esiste anche una violenza che lo stato di eccezione ha lo scopo di combattere più efficacemente dei mezzi ordinari (ad esempio un attacco terroristico di immani proporzioni) e infine una violenza necessaria per fondare un nuovo ordine giuridico, «assolutamente giusto», alla cui istituzione molti potrebbero opporsi con la forza e a tutti i costi (ad esempio le moderne costituzioni si sono imposte grazie alla vittoria militare conseguita su tenaci oppositori, su nemici interni che spesso sono sopravvissuti all’interno di una società retta da un ordinamento che essi hanno continuato a detestare). L’argomento della violenza quindi è molto debole sia come obiezione allo stato di eccezione, sia come ostacolo al trionfo del diritto e alla sua capacità di assicurare un ordine pacifico e giusto alla società civile. La violenza infatti può essere giudicata solo dal punto di vista etico, non giuridico, giacché la stessa istituzione, difesa e applicazione dell’ordinamento giuridico comporta il ricorso ripetuto alla violenza o, quanto meno, a forme di coercizione che sono vissute o sono oggettivamente espressione di violenza.
L’evoluzione semantica del termine iustitium, che finisce col designare insieme lo stato di eccezione e il lutto pubblico per la morte del sovrano o di un suo stretto congiunto, suscita interessanti questioni teoretiche. Agamben non condivide la spiegazione di questo passaggio semantico attraverso la somiglianza fra le manifestazioni del lutto e quelle dell’anomia. La solidarietà profonda tra lutto pubblico e anomia si comprende perfettamente secondo Agamben partendo dalla formula basileus nomos empsychos (che si trova enunciata nel trattato di Diotogene sulla sovranità, parzialmente conservato da Stobeo). L’identificazione di legge e sovrano si articola in tre punti: il re è il più giusto (dikaiotatos) e il più giusto è il più legale (nominotatos); senza giustizia nessuno può essere re, ma la giustizia è senza legge (il sovrano è la legge, ma non ha una legge alla quale debba rendere conto, perché essendo il più giusto è autorizzato a identificare la legge con la sua decisione); dato che solo il giusto è legittimo e il sovrano è il più giusto ed è anzi causa del giusto, egli è una legge vivente (p. 89). Il sovrano, proprio perché legge vivente, ha un potere irresponsabile che lo pone come fondamento anomico della legge stessa. Il nomos empsychos è il nesso vivente che, nello stato di eccezione, si stabilisce tra l’essere fuori della legge e l’essere dentro la legge, tra politica e diritto. Il significato della corrispondenza tra iustitium e lutto è ormai chiaro: «se il sovrano è un nomos vivente, se, per questo, anomia e nomos coincidono nella sua persona senza residui, allora l’anarchia (che, alla sua morte — quando, cioè, il nesso che la unisce alla legge viene reciso — minaccia di liberarsi nella città) dev’essere ritualizzata e controllata, trasformando lo stato di eccezione in lutto pubblico e il lutto in iustitium» (p. 90).
Ma il concetto di basileus nomos empsychos evocato da Agamben suscita una questione più radicale. Se il sovrano è legge vivente perché è il più giusto, da dove trae origine questa sua somma giustizia? Rispondere che trae origine dal fatto che egli è la legge vivente significa cadere in un circolo vizioso. Bisogna quindi che questa sua somma giustizia sia una condizione speciale e carismatica, che gli deriva da un prestigio particolare, quello che dipende dal fatto di essere una vittima la cui uccisione è stata rinviata. Il sovrano gode di una sorta di sacralizzazione anticipata solo in quanto il prestigio di vittima che sarà uccisa retroagisce sul suo status; egli nel frattempo può esercitare le funzioni di sua competenza, mentre al suo posto sono immolate altre vittime sostitutive. Il concetto di sovrano come legge vivente rinvia dunque al linciaggio originario di una vittima innocente. Il prestigio sovrumano grazie al quale è percepito come il più giusto di tutti e santifica le sue disposizioni come degne della massima obbedienza, deriva dall’attesa di salvezza collettiva che ispira ogni uccisione di una vittima e ogni sacrificio. La fiducia nel potere del sovrano di essere giusto esprime la fede nella sua azione salvifica — nella sovrumana capacità della vittima — di salvare l’intera comunità dalla violenza omicida che minaccia di distruggerla. Lo stato di eccezione, da questo punto di vista, appare allora come la sospensione delle leggi che rende possibile l’eliminazione fisica della vittima designata, quella che i persecutori considerano la causa della crisi collettiva. Ma la vittima la cui uccisione è rinviata diventa il sovrano: ecco l’intreccio formidabile di politica e sacro. Ciò spiega lo stato di eccezione come momento di validazione di quello stesso diritto che dovrà essere esercitato, come legittimazione anomica di quella stessa legge cui tutti dovranno obbedire senza discutere. La sospensione dell’ordine giuridico che caratterizza il lutto in occasione della morte del sovrano si spiega quindi come il ritorno alla condizione in cui la vittima è uccisa per porre rimedio alla disgregazione sociale, per ottenere la pace e l’armonia. La morte del sovrano, come ogni decesso spontaneo, è vissuta come l’uccisione della vittima designata, attorno alla quale si rinsaldano i legami collettivi e si rinnovano il consenso alla legge e la volontà di uniformarsi ad essa. Risulta difficile immaginare che i sovrani in genere (re e imperatori) abbiano per lo più concluso la loro esistenza in modo cruento solo per una coincidenza fortuita.
Il sistema giuridico dell’Occidente di cui Agamben insegue felicemente la dialettica non sempre perfettamente decifrabile è costituito da due elementi eterogenei: uno normativo e giuridico e uno anomico e metagiuridico che Agamben a conclusione della sua indagine propone di chiamare rispettivamente potestas e auctoritas. L’auctoritas infatti si fonda sempre sulla persona, come il carisma essa è originaria e non coercitiva, cioè sussiste in virtù del fatto che è riconosciuta liberamente come superiorità del valore. L’auctoritas, nei termini dell’antropologia vittimaria, è quella che noi riconduciamo al prestigio della vittima la cui uccisione è rinviata e che nel frattempo gode di una condizione di assoluta superiorità. Ogni azione giuridica della potestas trae legittimazione dall’auctoritas, ma a differenza di questa può agire solo in modo coercitivo. Agamben osserva che la fragilità del diritto dipende dalla dialettica dei due elementi: «l’elemento normativo ha bisogno di quello anomico per potersi applicare, ma, d’altra parte, l’auctoritas può affermarsi solo in una relazione di validazione o di sospensione della potestas» (pp. 109-110). La funzione dello stato di eccezione sarebbe allora quella di tenere insieme vita e diritto, anomia e nomos, auctoritas e potestas nella stessa macchina giuridico-politica. Il totalitarismo moderno sarebbe caratterizzato dal fatto che i due elementi tendono a coincidere in una sola persona e quindi lo stato di eccezione diventa la regola, trasformando il sistema giuridico-politico in una macchina di morte. Per sfuggire a questa situazione, in cui la violenza regna sovrana nell’esercizio di un potere politico che ignora e fagocita il diritto, è necessario distinguere i due elementi non solo concettualmente, ma anche temporalmente e soggettivamente — come del resto accadeva nella Roma repubblicana in cui erano contrapposti senato e popolo o nell’Europa medievale con la contrapposizione tra potere spirituale e potere temporale. Lo stato di eccezione, conclude Agamben, è il punto di massima tensione di due forze che agiscono nella nostra cultura, una che istituisce e pone e una che disattiva e depone. Ma lo stato di eccezione, divenuto oggi la regola, tende a cancellare ogni distinzione tra le due forze. Da questa minaccia bisogna guardarsi: «vivere nello stato di eccezione significa fare esperienza di entrambe queste possibilità e tuttavia, separando ogni volta le due forze, incessantemente provarsi a interrompere il funzionamento della macchina che sta conducendo l’Occidente verso la guerra civile mondiale» (p. 111).